Prof. Mario Belardinelli,
L’inizio dell’opera di don Bosco si colloca in un periodo di passaggio fra l’età moderna e l’età contemporanea, epoca questa contrassegnata da frequenti e profondi cambiamenti rispetto ad un passato in cui le cose si muovevano in maniera molto più lenta, in un quadro sociale dominato dalla continuità del potere e dal dominio delle generazioni adulte. Se una scossa era stata impressa dalla Rivoluzione francese, dalle sue ripercussioni ideali e dalle conseguenze politiche delle espansioni militari, la Restaurazione aveva ricostituito – almeno dal punto di vista politico - il modello dell’antico regime. Ma dagli anni Quaranta apparivano segnali sempre più evidenti che processi incontrastabili stavano sconvolgendo il vecchio mondo europeo: uno sviluppo demografico sempre più ampio, che poneva problemi di sussistenza per le classi umili; l’allargamento delle conoscenze scientifiche con una diversa visione del mondo; una produzione di beni non più solo artigianale, ma affidata a fabbriche tecnicamente complesse; il sorgere di movimenti di massa non legati a circostanze eccezionali di sofferenza, ma a programmi di nuovi assetti socio-politici ritenuti più giusti e di aggregazioni statuali conformi alla storia e alla natura (e il ’48 evidenzierà drammaticamente queste istanze, da quelle indipendentiste nazionali a quelle di rivendicazione sociale).
Come influisce tutto ciò nella “storia dei giovani”, cui la recente storiografia ha dedicato attenzione mirata? Sergio Luzzatto in un suo saggio ha analizzato il ruolo svolto dai giovani a partire dalla rivoluzione francese fino a quella russa, sottolineando una visione diffusa di gioventù ribelle, “tanto generosa ed esuberante da costituire un pericolo permanente per l’ordine politico e sociale[esistente]”, ma non ha mancato di cogliere contraddizioni e strumentalizzazioni di tale immagine ideale. Di fatto in Italia dopo le delusioni dei moti del ‘21 e ’31, falliti sia all’azione di rivoluzionari “stagionati” sia per la resistenza delle generazioni adulte a cambiare, l’appello di Mazzini ai giovani italiani e la nascita anche in Europa di associazioni politiche esplicitamente connotate dall’attributo Giovane sembra confermare un protagonismo giovanile. Ma si tratta dell’azione di minoranze: nell’Ottocento i cambiamenti vedono bensì la partecipazione dei giovani per un rinnovamento ideale e una mobilitazione (insurrezionale o di volontariato militare) nei grandi rivolgimenti, ma l’iniziativa resta sostanzialmente nelle mani dei notabili. In seguito alla crescita del peso della borghesia rispetto ai ceti privilegiati si andava infatti modificando il diritto civile e gli ordinamenti degli Stati; a fronte dell’autorità assoluta del sovrano si affermavano in Europa – gradualmente o in seguito a sommovimenti sociali - costituzioni ed assemblee legislative elette.
Su tutti questi processi si innestò – con ispirazione profetica, anche se in modo talvolta frenato da richiami al passato - l’opera di don Bosco. La sua vicenda si apre ovviamente su uno scenario circoscritto, il Piemonte carlalbertino degli anni quaranta dell’Ottocento, ancora arretrato rispetto ai movimenti in corso in Europa, ma in cui, con una serie di riforme, amministrative ed economiche, si tentava di modernizzare lo Stato e dare sollievo ad una società in travaglio. Le condizioni delle campagne depresse si facevano allora sentire soprattutto su una massa di ragazzi e giovani delle classi più modeste: molti di loro, di fronte alle limitate risorse offerte dai luoghi d’origine, decidevano di rompere l’unità familiare patriarcale (indotti a ciò anche da una aspirazione crescente all’indipendenza personale), e sciamavano verso i centri urbani più attivi (e soprattutto verso la città capitale), che sembravano offrire - proprio per nuove dinamiche economiche e servizi richiesti dai ceti borghesi in ascesa -- opportunità di lavoro.
Come tanti studi hanno rilevato, l’emigrazione dei più giovani a Torino quando non dà luogo a sfruttamento delle braccia nelle aziende artigianali o nelle prime fabbriche, finisce nelle strade, nel piccolo commercio, nella mendicità e – spesso - nella delinquenza (un fenomeno già verificatosi nelle grandi città europee nei decenni precedenti). Sono i cosiddetti “barabbotti”, cui don Bosco si dedica – non per primo, ma certo con maggior continuità ed efficacia - per offrire dapprima soccorso immediato e ambiente sano di socializzazione. Ma poi, superando la tradizionale logica di assistenza, egli imposta un cammino di educazione religiosa e quell’istruzione professionale che nel nuovo quadro economico può assicurare ai suoi giovani un impiego qualificato. La scomparsa delle antiche corporazioni (che assicuravano regole tutorie al lavoro dipendente ) e l’affermazione del liberismo economico esponevano gli operai subordinati a condizioni dure: se repubblicani mazziniani e più tardi socialisti avrebbero diffuso il messaggio di “patti equi” imposti dall’alto (un’autorità statale democratica rivoluzionaria) o dal basso (mobilitazione sindacale), don Bosco si impegnava a dare una preparazione e una disciplina (e anche a intervenire quale mediatore proponendo a padroni e dipendenti forme di contratto concordate). Alla logica del profitto egli avrebbe contrapposto l’etica del lavoro produttivo, ritenendo che l’apostolato del suo tempo fosse” gettarsi in mezzo alla società in movimento”.
Sul piano dei cambiamenti politici promossi in Italia dai liberali o auspicati dai radicali di sinistra, don Bosco, pur schierato per la causa papale e per i “diritti della Chiesa” non si faceva coinvolgere (come invece accadeva a don Cocchi, o su una sponda opposta, quella clericale, da don Margotti) in partiti o schieramenti. Egli temeva che su questo terreno i suoi giovani potessero dividersi (rendendo difficile una convivenza necessaria), e provocasse difficoltà per future collocazioni di lavoro. Nei confronti dei poteri civili adottava un criterio di “adattamento alla realtà in movimento”, cercando di cogliere opportunità di crescita per la sua opera: nel momento in cui la maggioranza parlamentare della Destra cavourriana e della Sinistra rattazziana nel Parlamento di Torino approvava le leggi di soppressione degli ordini religiosi che venivano ritenuti inutili e onerosi per la società moderna, egli comprendeva che (come ha rilevato Piero Bairati) “a nulla valeva rimpiangere il tempo andato della manomorta ecclesiastica”, e che le istituzioni salesiane dovevano essere compatibili con gli ordinamenti dello Stato. Egli intestava a suo nome i beni della sua Opera e, come gli aveva anche consigliato nel 1857 lo stesso Rattazzi (esponente di un’autorità che egli riteneva comunque “legittima”), pensava di dare al nuovo ordine religioso il carattere di associazione di liberi cittadini, senza obbligo di voti perpetui. Si trattava di un atteggiamento che, mentre riconosceva pienamente l’autorità religiosa papale, si conformava alle leggi dello Stato per quanto riguardava l’assetto giuridico, evitando conflitti che avrebbero menomato l’efficacia dell’impegno in pro della gioventù (preoccupandosi inoltre di mostrare le sue fonti di finanziamento nelle donazioni, e che la sua Opera non contava su rendite ecclesiastiche). Ed è significativo che, negli anni successivi don Bosco (pur esponendo in più occasioni le sue riserve sulla politica ecclesiastica del governo - prima piemontese, poi italiano) e l’ordine salesiano stesso non partecipassero alle manifestazioni di protesta antiliberale, ed evitassero di farsi coinvolgere nell’Opera dei Congressi, schierata su posizioni intransigenti.
A proposito di espansione dell’Ordine salesiano oltre l’ambito locale, ci si rende conto che la capacità di svolgere un’attività sempre più ampia e di reggere nel tempo, dopo la spinta esercitata da entusiasmo umano e Grazia, dipende anche dall’organizzazione delle strutture. Nell’età contemporanea l’organizzazione collettiva è un must, un obbligo per chi vuole ottenere risultati permanenti (in politica, nella produzione e nei servizi, in campo militare come nell’associazionismo di ogni genere). Don Bosco provvede per tempo: dal 1863 in poi si moltiplicano collegi, ospizi, scuole artigianali ed agricole, seminari, coordinati da un’autorità centrale; è colta inoltre l’importanza degli strumenti di comunicazione sociale che informano e orientano a distanza. Sono i mezzi che assicurano continuità nell’offerta di formazione rivolta ai giovani, e soprattutto la presenza di personale religioso dedicato ai compiti assistenziali ed educativi. In questa ansia di organizzazione moderna, indirizzata dapprima soprattutto ad una platea giovanile maschile, si manifesta ad un certo punto anche la preoccupazione per tante ragazze e donne che vengono ormai coinvolte nel lavoro lontane dalla propria casa (operaie e domestiche) e l’esigenza di un apporto femminile nella gestione di questa nuova impresa apostolica. La valorizzazione del ruolo civile della donna – finora tradizionalmente impostato sui compiti familiari, caritativi e assistenziali o sulla scelta religiosa - è una delle grandi battaglie dell’età contemporanea, ma risulta appena all’inizio nell’Italia postunitaria. Don Bosco, all’inizio restio a promuovere un istituto “parallelo” per la gioventù femminile, ne colse infine l’utilità sociale, fondando all’inizio degli anni ’70 le Figlie di Maria Ausiliatrice).
Un altro grande processo, tipico dell’età contemporanea, è quello dell’affermazione di relazioni sempre più intense a livello planetario grazie a mezzi di trasporto più grandi, veloci e sicuri: sul piano delle relazioni internazionali e anche nell’interesse dell’opinione pubblica europea fin dagli anni Sessanta dell’Ottocento cominciava a delinearsi un’attenzione alle regioni più lontane del globo. Mentre a livello politico altre potenze si affacciavano sulla scena (dagli Stati Uniti al Giappone), si apriva una nuova corsa ai domini coloniali con l’intenzione proclamata di avvio dei popoli selvaggi alla civiltà, ma soprattutto per assicurarsi mercati, materie prime, destinazioni per l’emigrazione di popolazione esuberante.
A livello religioso tutto ciò portava a delineare (da Pio IX a Leone XIII) una nuova stagione di evangelizzazione. L’apertura ad un “mondo sempre più ampio” che stava avvenendo a livello di cancellerie, di opinione pubblica, di iniziative commerciali e spinte emigratorie, coinvolgeva negli anni Settanta anche l’ordine salesiano, ormai volto ai bisogni di una gioventù non solo piemontese ed italiana ma europea. A testimonianza di una formula salesiana di socializzazione ed istruzione adeguata ai tempi sono le richieste di fondazione di nuove sedi che provengono a don Bosco fra gli anni ’70 e ’80 da tutta Europa. Ma la dimensione ormai planetaria degli interessi (di vario genere) spinge a superare gli orizzonti continentali, cogliendo urgenze e aspirazioni dei giovani del tempo. Alla gioventù istruita, che si appassiona a una letteratura che spazia su orizzonti esotici e avventurosi (e legge Verne e Salgari) e sogna avventure di conquista, fa riscontro una corrente sempre più vasta di giovani di modesta condizione, spinti a cercare lavoro oltre gli oceani. Don Bosco, come ricorda nella sua biografia Pietro Stella, si sente pronto ad “imprese sempre più ardite”, e considera logico impegnarsi nell’azione missionaria. L’Argentina, già allora meta di emigranti italiani, nella sua parte meridionale era sede di popolazioni indie selvagge, e diveniva dal 1875 una meta che entusiasmava giovani sacerdoti salesiani e novizi. Con la scelta del paese “alla fine del mondo” si sarebbe realizzato un intervento che, evitando una penetrazione impositiva della “civiltà cristiana”, non offendeva la cultura indigena e offriva ai giovani nativi istruzione e accoglimento, anche nella formazione sacerdotale. Era insieme un’occasione per svolgere una funzione di cura religiosa e culturale per tanti emigranti ed i loro figli: un impegno che avrebbe trovato considerazione e appoggio sia da parte delle autorità argentine sia poi anche di quelle nazionali.
Gli anni tra l’inizio del Novecento e lo scoppio della prima guerra mondiale costituiscono per la gioventù europea, secondo storici attenti ai dibattiti culturali, un periodo di dinamiche generazionali accese: come ricorda Luzzatto, i giovani esprimono dissenso con gli assetti politico-sociali consolidati, sostenuti dalle classi dirigenti , ma si evidenzia una divisione fra esponenti borghesi promotori di movimenti culturali o/e studenteschi volti al nazionalismo (con inflessioni sia reazionarie sia democratiche), ed esponenti popolari di varie tendenze che attendono da una rivoluzione il rinnovamento radicale di una società ingiusta e senza prospettive di crescita. In questa articolazione l’opera salesiana non lancia messaggi di sconvolgimento né conservazione. Lo scopo di preparare i giovani “alla loro entrata nella società civile” porta ad insistere su altre tendenze coltivate dalla grande maggioranza: l’aspirazione a salire nella scala sociale grazie all’educazione e ad un lavoro qualificato; la capacità, attraverso l’istruzione, di capire meglio il mondo in movimento; il desiderio di ottenere riconoscimento del proprio ruolo e sottrarsi allo sfruttamento non con la lotta violenta, ma con l’associazione (attraverso i Segretariati del popolo, e usufruendo del credito cooperativo). E tra le altre opere di intervento salesiano si aggiungono man mano quelle rivolte a settori finora in ombra del disagio giovanile, un tempo riservati alla mera assistenza medica o correzionale: la disabilità (ciechi e sordomuti), la rieducazione dei delinquenti, la cura dei lebbrosi. Ma iniziative investono anche la campagna: se don Bosco non era stato inizialmente favorevole alle “colonie agricole”, don Rua colse l’utilità educativa ed economica di un “ritorno ai campi” che frenasse l’esodo delle popolazioni verso i pericolosi centri urbani, e aprì colonie, in Italia e in America. Egli si giovava degli studi del circolo parmense di don Baratta e del Solari, che promuoveva un’agricoltura moderna (grazie alla scienza chimica), in grado di compensare più largamente i coltivatori: era un modo per richiamare alla “sana vita dei campi”, proficua anche economicamente (ideologia che recentemente sembra essere tornata alla ribalta). Di fatto nel primo decennio del Novecento la crescita demografica e la crisi di un’agricoltura arcaica portavano al picco l’emigrazione italiana all’estero, soprattutto dalle regioni meridionali: partivano in maggioranza i giovani, i più forti e decisi a farsi una nuova vita o sostenere le famiglie restate in patria con i frutti del lavoro. Si intensificò pertanto l’opera dei salesiani nelle terre di destinazione (dalla Svizzera al Belgio, da Costantinopoli ad Alessandria d’Egitto e naturalmente in America meridionale e negli Stati Uniti) attraverso scuole, segretariati del popolo, stampa, ma anche offrendo culto e assistenza religiosa.
Anche in Italia all’inizio del Novecento si registra un “decollo” industriale (sia pur concentrato nel settore centro-occidentale), ma anche il sorgere di vigorosi movimenti rivendicativi, che Giolitti, guardando all’Europa più avanzata, ritiene fisiologici e non reprime. In questo periodo l’opera salesiana, in vivace crescita, viene vista da molte aziende (come la Rossi di Schio e la FIAT di Agnelli) con favore, in quanto” forza culturale stabilizzatrice”, ma essa, pur avversa alle lotte di classe, non è tuttavia conservatrice. Lo scopo di preparare i giovani alla loro entrata nella società civile viene perseguito secondo le linee tracciate dal fondatore: vengono accentuati però certi aspetti emersi dalle caratteristiche dello sviluppo moderno e del territorio. La formazione professionale dei giovani resta al centro del modello pedagogico, ma il progresso e la domanda di capacità tecniche porta le scuole salesiane nei centri più importanti ad affiancare alle specializzazioni artigiane tradizionali (falegnami, sarti, legatori, calzolai) l’istruzione su macchinari avanzati. Si recepisce l’esigenza tutta moderna di un corpo educativo che per produrre risultati efficaci deve essere stabile, esperto, dedicato ai giovani a tempo pieno: Giorgio Rossi ha sottolineato come l’ordine salesiano abbia risposto a questa necessità aggiornando la sua organizzazione del personale.
La Grande Guerra, nata per un complesso di ragioni (di confronto imperialistico, ma anche di tutela delle posizioni continentali di potenza; frutto di esaltazione nazionalistica come pure di aspirazioni al rinnovamento di vecchie istituzioni), costituì per la gioventù italiana ed europea una prova estrema, sia in termini di perdite umane e sofferenze, sia per i cambiamenti collettivi di mentalità che essa provocò. In questa, che si rivelò una guerra ben diversa da quelle precedenti per durata e per coinvolgimento non solo di masse militari immense, ma anche per i durissimi sacrifici imposti al “fronte interno”, la società civile, i salesiani cercarono di far fronte secondo i loro principi ispiratori, in un contesto sempre più drammatico. Intanto almeno metà dei sacerdoti, novizi, cooperatori furono chiamati sotto le armi, ponendo le opere dell’Ordine in gravi difficoltà. La “guerra totale “– al di là della retorica patriottarda - sottopose tutti i contendenti a traumi pesanti: i combattenti a battaglie continue e cruentissime e alla penosa vita in trincea; i civili a sacrifici per sostenere il fronte militare con lavoro e dura disciplina nelle fabbriche, con l’offerta di risparmi per i prestiti alla Patria, con razionamenti dei generi essenziali. I salesiani vedono diminuire non solo il personale nelle scuole e ridursi le donazioni dei benefattori, ma moltiplicarsi le occasioni di urgenza umanitaria e necessità di assistenza religiosa. Le direttive dei vertici della Congregazione di fronte a queste emergenze, come ha illustrato Leonardo Tullini, sono innanzi tutto volte a tener fede alla missione originaria: così don Rinaldi invita ad evitare ogni apprezzamento sulle ragioni della guerra che possa” turbare quell’interna unione che deve starci sommamente a cuore”. Inoltre promuove l’accoglienza dei confratelli militari nei luoghi di servizio con “ospitalità generosa”; invita a rigorose economie per condividere i sacrifici popolari; esorta alla preghiera continua per la pace. La partecipazione al servizio dei rispettivi Paesi in guerra deve far evidenziare che i salesiani e i loro alunni sono “cristiani e patrioti” (non “patrioti e cristiani”, una formula nazionalista che finisce per porre la fede in subordine). Man mano che ci si rende conto della vastità e delle conseguenze del conflitto vengono assunti – pur sempre con l’occhio a don Bosco - altri compiti: la cura degli orfani sempre più numerosi, la richiesta di destinare i richiamati salesiani alle Compagnie di sanità, la ricerca di una comunicazione con i combattenti che possa alleviare lo scoraggiamento e alimentare la pietas religiosa (attraverso lettere circolari e l’invio del “Bollettino Salesiano”).
Alla conclusione del conflitto tutti gli Stati europei sono attraversati da profonde tensioni. Se non manca nel dopoguerra uno sviluppo della cultura della pace, che ha nella Società delle Nazioni e nelle iniziative di conciliazione (anche attraverso convegni e scambi internazionali di associazioni studentesche, ed altre manifestazioni significative per il mondo giovanile), prevale l’insofferenza per condizioni di vita depresse ed i trattati di pace. Questi, durissimi verso i paesi sconfitti (ove erano scoppiate rivolte contro la dirigenza politica responsabile della tragedia) pongono le premesse per scontri futuri: mentre in Russia si afferma la rivoluzione bolscevica, sconvolgitrice dell’intera società (ed esempio per tutti di rinnovamento integrale), in Germania e Ungheria movimenti di sinistra e destra scuotono la società, ma sono repressi. Tuttavia l’impressione che la forza possa portare avanti un “ordine nuovo” dopo la “tempesta della guerra” e “le delusioni della pace” si prolunga nelle crisi degli anni Venti e Trenta.
Anche in Italia, la più fragile delle potenze vincitrici, entra in crisi il partito liberale che fino ad allora ha governato lo Stato unitario. Esso ritiene, con la vittoria militare e la sostanziale prova di solidarietà popolare ottenuta nella guerra di aver completato il Risorgimento, ma subisce contestazioni sui modi e sui frutti della guerra, perdendo la maggioranza nelle elezioni del ‘19. Questo avviene sia per le attese giovanili di rinnovamento politico dopo i traumi ed i sacrifici della guerra, sia per il sorgere o l’incrementarsi di forze organizzate (il partito popolare di don Sturzo e il socialista di Serrati), che si fanno portatori di programmi di cambiamento (riformatore il primo, rivoluzionario il secondo). A queste forze guardano soprattutto i giovani, che ritengono giunto il momento di far valere le loro esigenze. Ma il diffondersi di agitazioni, scioperi, aggressioni da parte dei rivoluzionari socialisti che guardano alla Russia di Lenin e l’incapacità dei governi di portare avanti le promesse fatte durante l’ultimo e più difficile periodo bellico, generano una reazione di cui si fa protagonista il movimento fascista. Questo, che tra il ‘21 e il ‘22 contrasta con violenza le organizzazioni socialiste (e nelle campagne anche quelle popolari), proclamandosi alfiere della “causa nazionale”, per tattica del suo capo si mostra disposto ad accettare istituzioni (dalla monarchia alla Chiesa) e ordine sociale esistenti. Pur essendo minoranza in Parlamento, ottiene dal re e dalle forze liberali con un atto di forza la guida del governo. Il fascismo si presenta contemporaneamente all’opinione pubblica come forza risolutiva di ordine interno e di pacificazione sociale, ma anche portatore di una “sua” rivoluzione contro la vecchia classe dirigente, con l’intento-programma (pur ideologicamente generico) di far “largo ai giovani”.
La Congregazione salesiano, in ripresa organizzativa e impegnata a ricostituire il tessuto delle sue opere, gode anch’essa di quella ripresa di prestigio spirituale di cui (come sottolineava all’epoca Romano Guarini) beneficia la Chiesa, al cospetto del fallimento dell’ottimismo positivista, sostenitore di un progresso umano generato dalla scienza. La sua azione a favore di orfani e derelitti appare particolarmente orientata a venire incontro ai danni postumi del sanguinoso conflitto (pensiamo a infanzia e gioventù abbandonata, con fenomeni di rifiuto della normalizzazione sociale, come i Wandervoegel in Germania). Di fronte ai rivolgimenti politici in questi anni la direzione salesiana segue ovunque il consueto sistema del riserbo riguardo agli schieramenti politici. Ma, come ha documentato Sivano Oni, questo atteggiamento, dopo la conquista del potere fascista, e un periodo di attesa nei suoi confronti, si trova a dover fare i conti con l’intenzione del regime di realizzare un monopolio dell’educazione, impostata su ordine e disciplina, con aspetti di esaltazione militarista in contrasto con la pedagogia salesiana. La Conciliazione e la beatificazione di don Bosco avviano bensì una “collaborazione nella distinzione”, ma la crisi del ’31, con gli scioglimenti di circoli cattolici che toccano anche le opere salesiane sembrano rinnovare un conflitto di valori. Gli accordi del 30 dicembre successivo, con la scelta di un compromesso che esclude per la Chiesa alternative politiche e per lo Stato fascista funzioni esclusive in campo associazionistico ed educativo, aprono la “fase del consenso”: espresso dai diversi soggetti ecclesiastici e laici per l’esercizio senza attriti delle rispettive missioni o esibito con partecipazione “patriottica”.
La supposta “moderazione” del fascismo a paragone dello statalismo esasperato del comunismo e poi del nazismo hanno consentito ad una corrente di studi di considerarlo un “totalitarismo imperfetto “, capace di organizzare le masse popolari italiane (e soprattutto i giovani), sottraendole al ribellismo e orientandole alla collaborazione nazionale. Ciò può conciliarsi con una versione del boschiano “educare a divenire buoni cittadini”, e convince molti salesiani a marciare in sintonia con il regime, sia accentuando l’autoritarismo nelle strutture di formazione sia favorendo nelle missioni estere l’insegnamento della cultura italiana “faro di civiltà”. Tuttavia alla fine degli anni ’30 come è noto nella Chiesa, sia nella gerarchia e sia tra i fedeli delle associazioni e della cultura, si verifica un raffreddamento verso il regime fascista ed il suo capo: causa principale l’accostamento al nazismo (di cui le opere salesiane avevano già dovuto subire le imposizioni nelle loro scuole in Germania ed Austria) ), nello statalismo educativo, nella legislazione antisemita, nella volontà di giungere ad un totalitarismo “perfetto”, senza i vincoli costituiti in Italia da monarchia e Chiesa.
La scelta bellica tedesca nel settembre ’39 e l’intervento italiano del giugno del ’40 (esorcizzati da Pio XII) configurano uno scenario in cui i giovani sono nuovamente chiamati (in nome di un “nuovo ordine” contro il dominio delle nazioni “vecchie e plutocratiche”) a pagare un grave scotto. Fallita la “guerra lampo”, man mano che l’allargarsi di un conflitto lungo e crudele determina in Europa condizioni di vita sempre più dure, le strutture salesiane non solo cercano di mantenere attive le istituzioni educative e forniscono servizio religioso ai militari (stanziati in loco o occupanti), ma intervengono con iniziative di solidarietà civile in occasione di bombardamenti aerei, ospitalità ai profughi e, dopo l’8 settembre, con protezione di perseguitati, con offerta di mediazioni fra truppe avverse e di sedi per convegni di resistenti. Contribuiscono così, con la declinazione dei valori cristiani di accoglienza e speranza a preparare una ripresa dalle rovine morali e materiali. Dopo un’esperienza bellica, che porta con sé scoraggiamento di fronte a modi sempre più spietati di agire e reazione alle scelte del passato, il desiderio più diffuso è quello di una ricostruzione secondo attese di democrazia e rispetto dei diritti delle persone (con un maggiore coinvolgimento delle donne), e l’aspirazione a una pace non effimera. Sono ormai divenute evidenti le conseguenze di un perseguimento senza scrupoli di potenza nazionale e superiorità razziale: questo le giovani generazioni, che si erano illuse di poter divenire protagoniste, lo hanno pagato sulla propria pelle, e guardano ad altre prospettive. Le vecchie potenze europee, uscite dal conflitto vittoriose sul nazifascismo solo grazie ai mezzi della democrazia americana e alla capacità di sacrificio dei sovietici, in pochi anni avrebbero perduto peso e domini coloniali. Il mondo appare diviso fra le due opzioni democratico-liberale americana e comunista sovietica, che, avverse ideologicamente, sono d’accordo sulla fine dell’imperialismo europeo. Ma fra questi due modelli antagonisti nel vecchio continente si inserisce un terzo, quello di una democrazia solidaristica di ispirazione cristiana o social-riformista, cui molti giovani europei guardano come una scelta che eviti sia il dominio dei poteri forti economici e il ritorno ai confronti nazionalistici, sia i “salti nel buio rivoluzionario”: essa avrebbe consentito di dare agli Stati nuove costituzioni rispettose dei diritti umani (con un richiamo in quella italiana al lavoro quale elemento fondamentale della Repubblica), ripresa economica non squilibrata come nell’altro dopoguerra, un’intesa di conciliazione fra popoli e collaborazione di governi (protagonisti Il francese Schuman, l’Italiano De Gasperi, il tedesco Adenauer, il belga Spaak) nella prospettiva di una Comunità Europea.