LAS - ROMA
Aldo Giraudo
La vita di Domenico Savio (1859) e i profili biografici di Michele Magone (1861) e Francesco Besucco (1864),' sono tra i documenti pedagogici e spirituali più importanti di don Bosco, efficace illustrazione narrativa delle convinzioni e della pratica formativa del santo, nel primo ventennio di attività. Ci presentano tre ragazzi, diversi tra di loro, molto radicati nella cultura del tempo ed insieme significativi per la freschezza e la vivacità, la capacità di riflessione, la qualità dell'apertura spirituale, la determinazione e lo slancio generoso che caratterizza l'animo adolescenziale di sempre. L'autore li mette in scena come discepoli docili e ardenti di educatori dedicati e affettuosi. Ci presenta le tappe del loro breve percorso di vita, nei diversi ambienti della loro formazione, nelle relazioni quotidiane, negli impegni e nei sentimenti.
Questi scritti offrono gli elementi essenziali per comprendere il cuore del messaggio educativo di don Bosco: la religiosità come centro unificante e vitalizzante del cammino formativo; la comunanza di vita paterna e fraterna dell'educatore con gli allievi; l'intreccio dinamico di amore, letizia e impegno; l'efficacia del coinvolgimento attivo dei giovani nella comunità; l'importanza strategica degli spazi offerti al loro protagonismo. Sono considerati «una sintesi pedagogica già matura, nella quale il divino e l'umano, il soprannaturale e il naturale, dovere e gioia, con modalità tipologiche diverse, raggiungono una perfezione che è caratteristica nel sistema educativo di don Bosco».2
1 Vita del giovanetto Savio Domenico allievo dell'Oratorio di san Francesco di Sales, per cura del sacerdote Bosco Giovanni, Torino, Tip. G. B. Paravia e Comp., 1859, 142 p. (e altre 5 edizioni curate dall'autore: 21860;'1861; 4 1866; '1878; 61880); Cenno biografico sul giovanetto Magone Michele allievo dell'Oratorio di S. Francesco di Sales per cura del sacerdote Bosco Giovanni, Torino, Tip. G. B. Paravia e Comp., 1861, 96 p. (con altra ed. curata dall'autore: 21866); Il pastorello delle Alpi ovvero vita del giovane Besucco Francesco d'Argentera pel sacerdote Bosco Giovanni, Torino, Tip. dell'Orat, di S. Franc. di Sales, 1864, 192 p. (con altra ed. curata dall'autore: 21878).
2 Pietro BRAIDO, Il sistema preventivo di don Bosco, 2° edizione, Dirich, Pas-Verlag, 1964, 58.
I commentatori hanno classificato, a ragione, tali operette nell'area delle biografie edificanti e dei modelli esemplari di vita. Così le presenta l'autore. Ma, a ben vedere, esse sono, nello stesso tempo, documenti autobiografici di grande efficacia rappresentativa: ci permettono di osservare don Bosco educatore cristiano in azione; ci introducono nei suoi quadri mentali e nelle sue visioni; ci mettono in contatto con le sue aspirazioni interiori; ci svelano lo sguardo meravigliato, affettuoso e insieme rispettosissimo, rivolto ai giovani protagonisti. I commenti più acuti restano ancora quelli di don Alberto Caviglia, ricchi di intuizioni e di feconde rappresentazioni sulla pedagogia spirituale di don Bosco, nonostante slanci lirici ed entusiasmi retorici tipici della sensibilità culturale in cui furono prodotti.'
Delle tre, la Vita di Domenico Savio ha avuto maggior fortuna e un influsso importante ben oltre i confini del mondo salesiano, per l'efficace raffigurazione della qualità morale e spirituale del ragazzo, per l'intreccio dinamico tra la santità del protagonista e la conduzione del Maestro, per la notorietà seguita all'esito dei processi di beatificazione e canonizzazione.4 È un libro riuscito, nel quale, accanto alla bella raffigurazione del protagonista, troviamo la migliore rappresentazione della pedagogia plenaria di don Bosco.
Meno noto è il Cenno biografico su Michele Magone, anche se il ragazzo ci appare «forse più immediatamente simpatico, perché più "naturale" e prodotto più esclusivo dell'intervento di don Bosco».5 La sua biografia sembra «la meno lontana dall'immagine della media dei giovani» e rappresenta, «nella successione dei capitoli, tappe essenziali di quella che sarebbe dovuta essere la più comune vita spirituale giovanile» nella prospettiva del santo educatore.'
3 Alberto CAVIGLIA, Savio Domenico e don Bosco. Studio, in Opere e scritti editi e inediti di don Bosco nuovamente pubblicati e riveduti secondo le edizioni originali e manoscritti superstiti, vol. IV, Torino, Società Editrice Internazionale, 1943, 5-590; ID., Il "Magone Michele" una classica esperienza educativa. Studio, «Salesianum» 11 (1949) 451-481, 588-614 (ripubblicato in Opere e scritti editi e inediti di don Bosco, vol. V, Torino, Società Editrice Internazionale, 1965, 131-200); ID., Un documento inesplorato. La Vita di Besucco Francesco scritta da Don Bosco e il suo contenuto spirituale, «Salesianum» 10 (1948) 103-113, 257-287, 641-672; 11 (1949) 122-145, 288-319 (ripubblicato in Opere e scritti editi e inediti di don Bosco, vol. VI, Torino, Società Editrice Internazionale, 1965, 105-262). Sulla figura e l'opera scientifica del Caviglia cf. Cosimo SEMERARO, Don Alberto Caviglia (1868-1943): i documenti e i libri del primo editore di don Bosco tra erudizione storica e spiritualità pedagogica, Torino, Società Editrice Internazionale, 1994.
4 Sulle edizioni, le traduzioni e l'influsso della Vita di Domenico Savio, cf. José Manuel PRELLEZO, La "Vita" di Domenico Savio scritta da don Bosco nella storiografia salesiana (1859-1954), in Domenico Savio raccontato da don Bosco. Riflessioni sulla "Vita". Atti del Simposio (Università Pontificia Salesiana, Roma, 8 maggio 2004), a cura di A. GIRAUDO, Roma, LAS, 2004, 61-102. Joseph AUBRY, Domenico, Michele, Francesco.. tre figure di santi adolescenti, in G. Bosco, Scritti spirituali. Introduzione, scelta dei testi e note a cura di J. AUBRY, Roma, Città Nuova, 1988, 109.
5 Pietro BRAIDO, Don Bosco prete dei giovani nel secolo delle libertà, 3a edizione corretta e ritoccata, Roma, LAS, 2009, vol. I, 556.
Quasi del tutto sconosciuta è la Vita di Francesco Besucco, il Pastorello delle Alpi, probabilmente per la prolissità della «parte dedicata alla prima infanzia e all'educazione ricevuta in famiglia e nella parrocchia montana di Argentera»7 (15 capitoli ricavati quasi alla lettera dalla relazione del parroco), forse anche per il pochissimo tempo da lui trascorso all'Oratorio o per la sua apparenza un po' ingenua, a tratti sempliciotta, poco conforme all'immagine convenzionale dell'allievo salesiano. Eppure Alberto Caviglia, nonostante le riserve sulla forma letteraria della prima parte, la considera un prezioso «documento costruttivo della pedagogia spirituale e morale del santo educatore [...], in quanto l'autore, più che in ogni altro libro congenere, scende alla teoria, ed espone le sue idee con l'espressa intenzione d'insegnarle»,' notando che al tempo della pubblicazione (1864) don Bosco era «al termine della sua autoformazione pedagogica, con idee ormai definitivamente formulate».' La sensibilità attuale, tuttavia, ci permette di apprezzare anche la prima parte dell'opera, sia perché centrata sul ruolo educativo della famiglia e della parrocchia, sia per il suo valore antropologico, poiché, attraverso la testimonianza di don Pepino, restituisce molti tratti del clima emotivo, della sensibilità spirituale e dei ritmi di vita di una cultura ormai scomparsa, quella dei villaggi alpestri di lingua e tradizioni occitane tra Piemonte e Provenza.
Il decennio che trascorre tra l'arrivo di Domenico Savio a Valdocco (ottobre 1854) e la pubblicazione della vita di Francesco Besucco (luglio 1864) è decisivo per l'opera di don Bosco. Negli anni precedenti al 1854, la difficoltà di reperire cooperatori stabili e una serie di abbandoni lo avevano convinto della necessità di scegliere gli aiutanti tra i giovani più affezionati, per educarli secondo il suo spirito. Poco alla volta si è formato attorno a lui un gruppetto di volenterosi disponibili per le varie necessità dell'Oratorio.
Quando, nel novembre 1848, a causa del sequestro governativo del seminario di Torino, il chierico Ascanio Savio è accolto nell'Oratorio, don Bosco trova un valido collaboratore.
7 Ibid., I, 556.
8 CAVIGLIA, La Vita di Besucco Francesco scritta da Don Bosco, in Opere e scritti editi e inediti di don Bosco, VI, 16.
9 Ibid.,17.
Dinamico, attivo e disponibile, si rivela prezioso per i catechismi, per le scuole serali e festive, per l'assistenza. Durante le due tornate di esercizi spirituali organizzate nel luglio successivo, il santo individua altri quattro giovani che gli danno speranza di vocazione: Giuseppe Buzzetti, Carlo Gastini, Giacomo Bellia e Felice Reviglio. Propone loro di abitare nell'Oratorio e intraprendere gli studi in vista della carriera sacerdotale, abbandonando il lavoro. Nel febbraio 1851, col permesso dell'arcivescovo li riveste dell'abito talare. Così, le quattro reclute diventano parte attiva, con Ascanio Savio e il seminarista pensionante Giuseppe Vacchetta, della prima comunità apostolica raccolta attorno a don Bosco. «Sono di esemplarissima condotta e si prestano a fare il catechismo nella parrocchia di Borgo Dora, ed in modo particolare nell'Oratorio di S. Francesco di Sales, dove oltre il catechismo fanno la scuola serale, insegnano il canto fermo e la musica e tutto gratuitamente», scrive il Santo in un attestato di buona condotta.° Questa piccola accolta di discepoli, che lo amano come padre e benefattore, gli permette di sperimentare cosa significhi il lavoro in gruppo nella comunanza di aneliti, fatiche e gioie. È una singolare famiglia, che divide con mamma Margherita e una ventina di poveri artigianelli le stanze della casa Pinardi, nella sobrietà di vita e nella laboriosità.
Il 31 marzo 1852 l'arcivescovo Fransoni nomina don Bosco «direttore capo spirituale»11 degli oratori di Valdocco, Porta Nuova e Vanchiglia. È un evento determinante per i futuri sviluppi. Ora egli è, di fatto, indipendente nella gestione delle tre istituzioni, libero di selezionare e organizzare i collaboratori. Così, nonostante Buzzetti e Gastini si rivelino inadatti allo studio, e Ascanio Savio, scoraggiato per l'austerità di vita, lo abbandoni per aggregarsi agli Oblati di Maria Vergine (maggio 1852), seguito di lì a poco da Bellia e Vacchetta, egli non si lascia sgomentare, deciso a proseguire sulla strada intrapresa. Com-prende che deve scegliere soggetti ancor più giovani, avviarli a studi regolari, formarli fin dall'adolescenza ad una solida vita interiore, allenarli allo spirito di sacrificio e al servizio generoso, affezionarli a sé e alla missione oratoriana. Nell'ottobre 1852 impone l'abito ecclesiastico a Michele Rua e Giuseppe Rocchietti, che hanno rispettivamente 15 e 16 anni. Nel corso di quell'anno 'scolastico accoglie gli studenti Giacomo Artiglia, Giovanni Cagliero, Giovanni Turchi e Giovanni Battista Francesia, tutti tredicenni. I tempi sono maturi, per evolvere l'opera, ampliare la casa e incrementare il vivaio di vocazioni.
Conclusa la costruzione della chiesa di S. Francesco di Sales (giugno 1852), don Bosco getta le fondamenta di una nuova costruzione. L'edificio, nonostante
10 Cf. AST Grande Cancelleria m. 259/1 n. 1370: domanda di sussidio pei chierici dell'Oratorio, ms. Bosco, 1 mag. 1851,
11 Il decreto di nomina è riportato in Giovanni Bosco, Memorie dell'Oratorio di S. Francesco di Sales dal 18915 al 1855. Saggio introduttivo e note storiche a cura di A. GIRAUDO, Roma, LAS, 2011, 218.
un cedimento strutturale nel corso dei lavori, è pronto nell'ottobre 1853.12 Ora la comunità giovanile può accrescersi nelle sue due componenti: gli studenti avviati al sacerdozio e gli apprendisti, per i quali iniziano i primi laboratori interni di calzoleria e sartoria.13
Domenico Savio approda all'Oratorio nell'ottobre 1854, proprio nel momento in cui la comunità, trasferita nei nuovi locali, prende la forma di un convitto. Le due sezioni sono cresciute: trenta studenti, tra i 12 e i 16 anni, e cinquanta artigiani." Ad aiutare don Bosco, in qualità di prefetto, è arrivato il generoso don Vittorio Alasonatti, dopo aver abbandonato una tranquilla vita di maestro comunale per consacrarsi ai giovani poveri. Col suo aiuto il santo riformula il Regolamento dell'Oratorio adattandolo alle nuove esigenze della casa.
Mentre fa i suoi studi, Domenico assiste agli sviluppi dell'opera: l'abbattimento della casa e della tettoia Pinardi, sostituite da un bell'edificio di collegamento tra la casa del 1853 e la chiesa di S. Francesco di Sales, la decorazione del porticato con scritte bibliche in latino e italiano," l'apertura progressiva di scuole e di nuovi laboratori.
12 Leggiamo in una memoria del 1854: «1853. Il corpo di casa rovinato [2 dicembre 1852] è rialzato: si compie, si stabilisce la maggior parte e nel mese di ottobre viene abitato. Il locale nuovo permette che i dormitori, il refettorio dei giovani ricoverati siano meglio regolarizzati. Il loro numero monta a 65», in Giovanni Bosco, Cenno storico dell'Oratorio di S. Francesco di Sales [1854], in Pietro BRAIDO (ed.), Don Bosco educatore. Scritti e testimonianze, Roma, LAS, 1992, 132.
13 Col decollo delle Letture cattoliche, nel 1854 viene aperta la legatoria di libri; nel 1856 la falegnameria; nel 1862 la tipografia, il laboratorio di fonderia dei caratteri e il laboratorio dei fabbri-ferrai (Fedele GIRAUDI, L'Oratorio di don Bosco. Inizio e progressivo sviluppo edilizio della Casa madre dei Salesiani in Torino, Torino, SEI, 1935, 152-153).
14 In agosto, in piena epidemia di colera, don Bosco aveva scritto al sindaco della città: «Debbo fare una considerevole provvista di lenzuola, coperte, camicie a fine di conservare la debita pulizia ad ottantotto giovani, tale è il numero dei ricoverati nella casa annessa all'Oratorio maschile di Valdocco», lett. G. Bosco - G.B, Notta, 5 ago. 1853, in Giovanni Bosco, Epistolario. Introduzione, testi critici e note a cura di Francesco MOTTO, I: (1835-1863), Roma, LAS, 1991, 229. In base alle registrazioni conservate in archivio si può ritenere «con certezza che fino al 1856 i giovani accettati ciascun anno non superarono il centinaio; non superarono i duecento fino al 1859; oscillarono tra i 257 (1854) e i 412 (1867) nel periodo 1860-1869» (Pietro STELLA, Don Bosco nella storia economica e sociale, 1815-1870, Roma, LAS, 1980, 178).
l5 I versetti dipinti sui pilastri si riferivano ai dieci comandamenti; quelli inseriti nelle nove lunette degli archi costituivano quasi una catechesi sul sacramento della penitenza. Nel 1965 le scritte furono sostituite da lapidi in marmo con citazioni scritturistiche in parte diverse dalle antiche, che possono essere lette in MB 5, 542-547; cf. Fausto PERRENCHIO, L'utilizzazione della Bibbia da parte di don Bosco nell'educazione dei giovani alla fede, in «Bollettino di collegamento dell'Associazione Biblica Salesiana» n. 10 (1993) 159-165.
Durante il suo primo anno di permanenza a Valdocco frequenta la scuola di grammatica del prof. Carlo Bonzanino, collocata al terzo piano di un edificio di via Guardinfati (oggi Barbaroux), mentre altri compagni seguono i corsi di retorica presso don Matteo Picco, in via Sant'Agostino. Nell'anno scolastico 1855-56 inizia il primo embrione di scuola interna: al chierico Francesia, diciassettenne, viene affidata la terza grammatica.16L'anno successivo, completato il nuovo edificio, la comunità cresce: gli artigiani sono settanta e gli studenti ottantacinque. Il fondatore dell'Oratorio, deciso a potenziare i corsi di latino," chiama il prof. Francesco Blanch e lo incarica delle classi di prima e seconda grammatica. Domenico Savio frequenta la prima retorica presso don Picco per pochi mesi, poi si ammala. Nel 1857-58, con 120 studenti, le tre classi interne vengono affidate rispettivamente a Francesia, a Giovanni Turchi e a don Giuseppe Ramello, sacerdote di idee liberaleggianti, raccomandato dall'arcivescovo a don Bosco.18 Finalmente con l'anno scolastico 1859-60 il Santo riesce ad avere nell'Oratorio l'intero corso ginnasiale con insegnanti suoi. Assegna le prime tre classi a Celestino Durando, Secondo Pettiva e Giovanni Turchi, le ultime due a Francesia; sono tutti chierici dell'Oratorio, da lui coltivati. Da questo momento la sezione studenti acquista importanza e supera in numero quella degli artigiani.
Mentre cresce nel popolo il desiderio di istruzione, incoraggiato da iniziative private o pubbliche e il governo sta riorganizzando il sistema scolastico nazionale, emerge la categoria degli studenti di ceto umile, alla quale è urgente provvedere con approcci formativi adeguati: «La brama ardente manifestatasi in molti di percorrere i corsi scientifici [umanistici] regolari ha fatto fare qualche eccezione sulle condizioni di accettazione. Laonde per lo studio si accettano anche giovani non abbandonati e non totalmente poveri purché abbiano tale condotta morale e tale attitudine allo studio da lasciar non dubbia speranza d'onorevole e cristiana riuscita in una carriera scientifica»."
16 A seguito della riforma scolastica Boncompagni (Regio decreto del 4 ott. 1848, in Raccolta degli atti del Governo di S. M il Re di Sardegna 1848, Torino, Stamperia Reale, vol. 16/11, 937-966) si era portato il corso elementare a 4 anni (due classi inferiori e due classi superiori) e si era modificato l'ordinamento delle scuole di latinità ordinandole in un triennio di grammatica latina e composizione italiana, un biennio di retorica latina e italiana, e un biennio di filosofia. Con la riforma Casati (Regio decreto del 13 nov, 1859, in Raccolta degli atti del Governo di S.M. il Re di Sardegna 1859, vol. 28/ III, 1903-1988) la scuola secondaria classica venne divisa in due gradi, il primo di cinque anni chiamato ginnasio (aa. 194-198), il secondo di due anni chiamato liceo (aa. 199-200); si previde anche la gestione dell'istruzione da parte di privati cittadini sotto una duplice figura giuridica: il ginnasio privato (aa. 246-250) e la scuola paterna (aa. 250-253), «prosciolta da ogni vincolo d'ispezione per parte dello Stato» (aa. 251): nella mente e nella prassi di don Bosco, quella di Valdocco era, nei primi anni, più scuola paterna che ginnasio privato (cf. BRAIDO, Don Bosco prete dei giovani, I, 56).
17 Cf. BRAIDO, Don Bosco prete dei giovani, I, 309.
18 Cf. ibid., I, 349.
19 Giovanni Bosco, Cenni storici intorno all 'Oratorio di S. Francesco di Sales [1862], in BRAIDO (ed.), Don Bosco educatore, 147.
Scopo di don Bosco è quello di aiutare questi ragazzi dotati e poveri ad affrontare gli studi superiori, perché possano riuscire di vantaggio alla Chiesa e alla società, ma anche assicurare alla nascente Congregazione educatori motivati, generosi e fedeli. Leggiamo in una memoria di quegli anni: «Fra gli studenti molti intraprendono la carriera ecclesiastica. [...] Tra essi è scelto quel numero che esercitano la qualità d'insegnanti in questa casa, fanno i catechismi negli Oratori, assistono i vari laboratori e dormitori. Giunti al sacerdozio parecchi continuano ad esercitare il sacro ministero a favore de' giovani ivi radunati o che frequentano gli altri Oratori della città. [...] In tutto il personale di questa casa e di tutti gli Oratori comprese le persone di servizio non v'è alcuno stipendiato, ma ognuno presta gratuitamente l'opera sua»."
Le tre biografie non restituiscono le turbolente vicende dell'ambiente circostante. Chi le sfoglia non percepisce l'eco dei dibattiti che infiammano la Torino degli anni Cinquanta e accompagnano il processo di unificazione nazionale, non coglie lo sconcerto del mondo cattolico per la soppressione forzata delle corporazioni religiose o l'entusiasmo popolare per la campagna di Crimea, la spedizione dei Mille e la seconda guerra d'indipendenza. Altre fonti ci assicurano che tutto ciò aveva un certo impatto sulla vita dell'Oratorio.2' Anche gli sviluppi interni all'opera non emergono: le costruzioni, i passi cauti di don Bosco per la fondazione della Società Salesiana, il suo viaggio a Roma della durata di due mesi (18 febbraio - 16 aprile 1858), intensamente sentito dalla comunità di Valdocco, l'atto di fondazione della Congregazione, l'apertura della prima casa a Mirabello Monferrato. Nelle tre Vite l'Oratorio appare come un'isola di fervore educativo, di laboriosità e di tensione spirituale. Ci sono cenni alla produzione editoriale, ma in funzione del discorso formativo. Si citano i libri messi in mano agli allievi: il Giovane provveduto, la collana Letture cattoliche, la riedizione della vita di Luigi Comollo, e poi le stesse vite di Domenico Savio e di Michele Magone.
20 Bosco, Cenni storici intorno all'Oratorio, 150. Uno dei primi manoscritti del Regolamento elenca anche le condizioni di ammissione degli studenti: «Niuno è ammesso a studiare: 1° Se non ha una speciale attitudine allo studio, e che nelle classi percorse abbia primeggiato; 2° Abbia un certificato di eminente pietà. Le quali due condizioni dovranno essere comprovate da una buona condotta qualche tempo tenuta nella casa dell'Oratorio; 3° Niuno è ammesso a studiare il latino se non ha volontà di abbracciare lo stato ecclesiastico; lasciandosi però libero di seguire la sua vocazione compiuto il corso di latinità» (ASC D4820205: Piano di regolamento per la casa annessa all'Oratorio di S. Francesco di Sales. Appendice per gli studenti, ms. s.d., 17).
21 Don Bosco, per esempio, in quegli anni pubblicava nelle Letture cattoliche l'ultra reazionario Catechismo cattolico sulle rivoluzioni del gesuita Serafino Sordi (Torino, Tip. P. De-Agostini, 1854) e, in occasione delle leggi di soppressione, un battagliero pamphlet, I beni della Chiesa: come si rubino e quali siano le conseguenze, del Barone di Nilinse. Con breve appendice sulle vicende particolari del Piemonte (Torino, Tip. Ribotta, 1855); inoltre, ne La forza della buona educazione, descriveva le avventure di un antico allievo dell'Oratorio valoroso combattente nella guerra di Crimea (Torino, Tip. Paravia e comp., 1855). Sono opuscoli che Domenico Savio aveva letto, poiché possedeva l'intera annata 1854-55 delle Letture cattoliche, come risulta da una lista di libri autografa che ancora si conserva (cf, ASC A4920108: Nota dei libri di Savio Domenico, ms. aut, s.d. [1856]).
Insomma, tutto è centrato sulla persona dei protagonisti, sul loro impegno, sui progressi, le scoperte e gli ardori della loro vita spirituale, sul calore delle relazioni amicali, le crisi superate e le gioie interiori, sulla confidenza e apertura collaborativa con gli educatori, sulla commozione suscitata dalla loro morte. Il biografo pare voler estrapolare intenzionalmente queste storie di vita dal grande flusso degli eventi, isolarle dai rumori esterni, per mostrarne la funzione esemplare, la significatività formativa, la novità pe-dagogica e la carica carismatica. Così ne salva l'universalità e la freschezza, nonostante la patina del tempo.
In quegli anni, progressivamente, la ricerca di personale dedicato e affidabile si traduce in scelte concrete. Il 26 gennaio 1854 don Bosco propone ai fidatissimi Rua, Artiglia, Cagliero e Rocchietti, raccolti in conferenza privata, «una prova di esercizio pratico della carità verso il prossimo, per venirne poi ad una promessa, e quindi se parrà possibile e conveniente di farne un voto al Signore». L'esercizio pratico di carità è inteso come dedizione ai giovani poveri e la promessa o il voto sono espressione di stabile vincolamento alla missione oratoriana: «da tal sera fu posto il nome di Salesiani a coloro che si proposero e proporranno tal'esercizio».22 Privati e segreti sono i voti emessi nelle mani di don Bosco dal chierico Rua il 23 marzo 1855, ma l'idea di una fondazione religiosa comincia a prendere forma. Paradossalmente, proprio nella combinazione dei suggerimenti del ministro Rattazzi, campione dell'anticlericalismo militante, e delle indicazioni di Pio IX, bersaglio del liberalismo radicale, don Bosco delinea la formula giuridica della nuova Congregazione.
Michele Magone è allievo all'Oratorio, quando don Bosco va a Roma per sottoporre al papa il suo progetto di fondazione e nei mesi in cui il chierico Rua, in gran segreto, copia in bella scrittura il primo testo delle Regole per la revisione ecclesiastica. L'atto fondativo ufficiale della Pia Società Salesiana è stilato il 18 dicembre 1859, undici mesi dopo la morte di Michele; il 14 maggio 1862 il primo gruppo di religiosi salesiani emette i voti in forma canonica.
Quando Francesco Besucco giunge all'Oratorio (agosto 1863), don Rua è in fase di trasferimento a Mirabello Monferrato, per l'apertura del Collegio-Seminario S. Carlo, la prima opera salesiana fuori di Torino."
22 ASC A4630102: ms Rua s.d.
23 Besucco ne fa cenno in una lettera al parroco, cf. ASC A1010903: lett. F. Besucco - F. Pepino, 23 nov. 1863,12v.
In quell'anno la Congregazione conta 22 professi e 17 novizi. Nell'autunno 1864, pochi mesi dopo la pubblicazione del Pastorello delle Alpi, si inaugura il Collegio-Convitto S. Filippo Neri di Lanzo Torinese. Inizia così una nuova fase, quella dell'espansione attraverso l'apertura di collegi, convitti, ospizi e scuole artigianali: è il mezzo attraverso il quale il modello formativo preventivo sperimentato da don Bosco nell'Oratorio e raccontato nei profili biografici dei suoi ragazzi, verrà esportato e inculturato a livello mondiale.
Nella compilazione di queste tre Vite, don Bosco è mosso da intenti chiari, in riferimento ai lettori cui s'indirizza e alle circostanze in cui le produce. Innanzitutto seleziona i sui interlocutori, ai quali narra e coi quali si intrattiene, ma in funzione di un discorso rivolto ad una platea che egli sa essere molto più vasta. Per comprendere il contenuto del discorso e le sue intenzioni noi dobbiamo tener conto dei lettori concreti come si presentano alla mente dell'autore.
I destinatari principali sono indicati nella lettera introduttiva, che serve da proemio: i «giovani carissimi» ai quali si rivolge sono gli studenti di Valdocco, compagni e amici di Domenico, di Michele e di Francesco. È su loro richiesta che l'autore si è accinto all'opera. Il particolare è importante, perché permette di collegare il testo col contesto vitale, il discorso con l'orizzonte di riferimento, con valori ed aneliti condivisi da autore e interlocutori. Si narra di compagni conosciuti e amati: si rievocano scelte di vita, amicizie, esempi e parole di cui sono stati testimoni. I lettori si muovono negli stessi ambienti e riconoscono situazioni che quotidianamente li coinvolgono: la messa mattutina, le lezioni e lo studio, i discorsetti della buona notte, gli incontri col confessore, le sue parole affettuose o severe, le emozioni provate nell'esercizio mensile della buona morte, durante le novene e le feste. Anch'essi, come i protagonisti, vivono l'essenzialità imposta dalla loro condizione di poveri. Pagina dopo pagina si imbattono in nomi e volti noti. Soprattutto sono in grado di percepire nella voce narrante, l'eco di una voce nota, quella di don Bosco. Anche a distanza di anni, leggendo quelle righe, riudranno il suono delle sue parole, «cadenzate in un modo piuttosto che in un altro» e ricorderanno il «singolarissimo ascendente» che aveva su di loro.24
24 Paolo ALBERA, Lettera intorno a don Bosco proposto a modello dei salesiani nell'acquisto della perfezione religiosa, nell'educare e santificare la gioventù, nel trattare col prossimo, nel far del bene a tutti, 24 ott. 1920, in ACS 1 (1920) 65.
Alla coscienza dell'autore, tuttavia (lo si coglie nel corso della lettura), l'uditorio di fatto si presenta molto più vasto: è costituito dalla folla variegata dei lettori delle Letture cattoliche. La strategia narrativa continuamente li mette in campo, ora come testimoni, ora come interlocutori del racconto. Si tratta, soprattutto, della schiera di giovanetti che frequentano le scuole elementari o intraprendono lo studio del latino nel desiderio di realizzare i loro progetti di vita. Per essi don Bosco raffigura un mondo con caratteristiche ben definite, quello della scuola pubblica e dei convitti, sorvegliato da insegnanti ispirati da solidi principi cristiani. I lettori si rispecchiano nel racconto. Sono ragazzi di ceto popolare che ogni giorno, come Domenico Savio, spinti dal desiderio di riscatto sociale e culturale o dall'attrattiva vocazionale, percorrono i viottoli delle campagne e le strade delle città per raggiungere la scuola. Essi possono riconoscersi nella psicologia dei protagonisti, sperimentano i medesimi turbamenti e le stesse gioie, provano emozioni spirituali. Impregnati dello spirito del loro tempo, hanno il gusto della totalità, sono attratti dal sentimento religioso e dalle pratiche devote, provano slanci interiori e desideri di eroismo, sono sensibili all'etica del dovere e all'impegno volontaristico, amano cimentarsi con le austerità. Leggendo i dialoghi, sentono riecheggiare discorsi familiari. Nelle vicende narrate colgono anche un rispecchiamento fedele dei pericoli e delle minacce in cui s'imbattono nella vita quotidiana, come le suggestioni o le prepotenze di compagni "cattivi", le tentazioni di evasione dal dovere, le malattie frequenti, la morte di amici carissimi.
Insomma, i ragazzi dell'Oratorio e i loro coetanei trovano rappresentata in queste biografie la loro esistenza quotidiana e i loro progetti, una società e una cultura, una mentalità e uno stile di vita, una ritualità e una relazionalità tipiche di un territorio umano e di un periodo ben definito della storia sociale e religiosa.
I racconti di don Bosco, accanto ai giovani protagonisti, mettono in scena educatori attivi e stimolanti: genitori, insegnanti e pastori. Anche a costoro si rivolge l'autore, soprattutto quando formula le sue brevi considerazioni pedagogiche, illustra i frutti della loro cura o raffigura la novità della comunità educativa dell'Oratorio col suo programma di vita e l'interazione dialogica e affettiva tra formatori ed allievi.
Siamo in tempi di transizione tra l'antico sistema di istruzione pubblica, impregnato di valori tradizionali, affidato a insegnanti prevalentemente ecclesiastici, che conferivano indirizzi e stili peculiari alla formazione scolastica, e il nuovo modello liberale emergente dalle riforme della pubblica istruzione dei ministri Boncompagni (1848) e Casati (1859), controllato fermamente dal Governo, funzionale alle sue mire e per questo guardato con sospetto dal mondo cattolico. Fino a quel momento la presenza massiccia di ecclesiastici nelle scuole pareva del tutto naturale, perché rispecchiava una tradizione educativa di carattere umanistico plenario condivisa, che mirava, simultaneamente, a istruire, a formare le coscienze nei valori cristiani, a forgiare le volontà, ad affinare i costumi. Ora, nel clima di scontro tra radicalismo liberale e intransi-gentismo cattolico tali figure stanno scomparendo dalle scuole pubbliche. La visione laica penetra irrimediabilmente nella società e nelle istituzioni scolastiche, scalzando l'influsso dei valori religiosi, proprio mentre, nei ceti popolari, cresce la domanda di istruzione. Tutto questo suscita apprensioni e stimola nuove ipotesi di soluzione.
Nonostante le riserve sul rigido controllo statale sancito dalla riforma scolastica di Gabrio Casati, don Bosco ne coglie le sfide e le opportunità. La legge prevede la possibilità di aprire scuole private, seppur sottoposte a vincoli e ispezioni:25 egli intraprende questa strada che presagisce feconda di frutti. Sente inoltre che è giunto il momento di prospettare modelli meno ripiegati sul mero svolgimento dei programmi scolastici, più centrati su una visione integrale dell'educazione, sul coinvolgimento attivo e il protagonismo degli alunni. Vuole dimostrare che è anche importante creare spazi educativi extrascolastici complementari all'interno delle comunità ecclesiali. Insomma, è necessario un sistema educativo adatto ai tempi nuovi, ma radicato nei valori sostanziosi della tradizione cristiana.
Tutti questi moventi fanno da sfondo alla composizione delle tre Vite e trapelano dalle loro pagine, incorniciando una linea formativa e una metodologia educativa peculiare. Non è difficile scoprire, capitolo dopo capitolo, accanto alla conversazione tenuta in primo piano con i giovani lettori, un suadente discorso parallelo rivolto agli educatori e ai pastori dei giovani. Se alcuni di loro sono portati in scena, testimoni commossi dei fatti e delle virtù dei tre piccoli campioni, è perché li si vuole indicare come categoria privilegiata d'interlo
cutori. Nei primi sette capitoli della vita di Domenico Savio, sentiamo le voci narranti dei genitori, del cappellano di Morialdo, dei maestri di Castelnuovo e Mondonio; più avanti sono introdotte le testimonianze del prof. Bonzanino, di don Picco, del prevosto di Mondonio.
25 Cf. Regio decreto del 13 nov. 1859, aa. 246-250, 355-356, in Raccolta degli atti del Governo, vol. 28/111, 1958-1960, 1983.
Nella biografia di Michele Magone leggiamo la lettera essenziale ma attenta del viceparroco, scopriamo, attraverso le annotazioni del giovanissimo Francesia, un'eco degli insegnamenti di don Bosco ai suoi collaboratori, ci commuoviamo per le parole della madre accanto al figlio morente, ammiriamo la capacità retorica di don Zattini nel delineare la figura morale del ragazzo. Nella vita di Francesco Besucco don Bosco utilizza ampiamente l'affettuosa testimonianza del parroco, con notizie fornite dai genitori, dalle sorelle maggiori, dal maestro del villaggio e dai compagni, che restituisce il clima educativo in cui è cresciuto il piccolo montanaro e lo spirito ardente di un pastore tutto consacrato alla sua missione e attentissimo alla formazione dei ragazzi.
Il narratore dirige questo coro di voci, orientandole in funzione dell'unico profilo che va delineando. Così, quando in prima persona entra in scena e diventa personaggio della storia, cogliamo una continuità senza forzature, un riepilogo efficace di atteggiamenti educativi qualificanti, di sfumature e di accenti che ci danno anche la novità del suo sistema e del suo modello di educatore.
Qui la testimonianza biografica diventa pienamente autobiografica. Don Bosco, narrando le gesta dei suoi allievi, racconta di sé e dell'ambiente educativo creato a Valdocco, svela l'intensità e l'importanza delle relazioni, delle attenzioni nel rispetto delle singolarità, ricostruisce il clima degli incontri, illustra le esperienze proposte e il modo del coinvolgimento attivo dei giovani.
Tutto ciò permette ad un lettore avvertito di cogliere messaggi più profondi, di comprendere la funzione dell'educatore nel sistema di don Bosco in quanto ingranaggio portante di tutta la macchina educativa.
Questa duplicità di destinatari e di modelli, proposta in forma narrativa, in un amalgama di storia e di riflessione, produce un genere letterario composito e fa sì che le tre Vite, come altre opere del santo, siano innanzitutto testimonianze di spiritualità e di pedagogia narrativa, un manifesto di educazione cristiana.
Francesco Cerruti suddivide gli scritti a stampa di don Bosco in tre categorie: opere religiose, morali e storiche, e colloca le tre Vite tra le operette morali," secondo l'accezione umanistica che riferisce l'aggettivo ai mores, ai costumi, ai modelli di comportamento.
26 La classificazione è data nel corso della testimonianza resa 20 novembre 1893 ai processi di beatificazione di don Bosco, cf. Copia publica transumpti processus ordinaria auctoritate constructi in curia ecclesiastica taurinensi super fama sanctitatis vitae, virtutum et miraculorum servi Dei Joannes Bosco sacerdotis fundatoris Piae Societatis Salesianae, vol. III, anno 1899,f1385v (il documento è conservato nell'Archivio del Postulatore, presso la Direzione Generale Opere Don Bosco, Roma).
Cerruti è uno dei primi destinatari di queste tre biografie, in quanto compagno di Domenico Savio e di Michele Magone, poi insegnante nei mesi in cui Francesco Besucco frequenta la seconda ginnasiale a Valdocco. Quando fa tale classificazione è il responsabile centrale delle scuole salesiane e instancabile promotore del sistema educativo di don Bosco." Egli ha ben chiaro il fine a cui tende il santo educatore con questi scritti: non ricostruire una biografia nei particolari, secondo i canoni storiografici positivisti, ma offrire, attraverso la narrazione di momenti assortiti della vita dei tre giovanetti, osservati con la sua lente di educatore e pastore, un messaggio pratico, un comportamento esemplare.
D'altra parte don Bosco è esplicito. Come vediamo dalla dichiarazione d'intenti illustrata nel prologo della Vita di Domenico Savio, egli si prefigge di presentare un esempio da imitare.28 La stessa intenzione orienta la scrittura del Cenno biografico sul giovanetto Magone Michele e del Pastorello delle Alpi.
Studiosi più recenti precisano ulteriormente il genere letterario delle tre Vite riconducendolo alla tipologia delle «biografie edificanti» fiorite «dall'era tridentina in poi» negli ambienti collegiali ed ecclesiastici. Nello scriverle don Bosco riprende gli stessi meccanismi da lui sperimentati nella compilazione della Storia ecclesiastica e della Storia d'Italia: a un tessuto biografico essenziale, documentato, ma «ancorato a pochi dati cronologici, affida episodi classificati secondo lo schema scolastico, moralistico e agiografico delle virtù: spirito di preghiera, di innocenza o di penitenza, pratica dei sacramenti, devozione a Maria SS., morte a coronamento di una vita che ha corrisposto alle divine grazie».29 Il genere biografico edificante, con la sua concisione, gli fornisce uno strumento idoneo a focalizzare messaggi e comportamenti virtuosi.
Come scrive Claudio Magris, rievocando l'essenzialità delle biografie edificanti che da ragazzo gli venivano proposte dai suoi maestri gesuiti, «quella brevità era infatti una lezione di letteratura, la capacità di sforbiciare la prolissità dell'esistenza [...] e di porre in risalto, come un epitaffio, valori e significati: era l'arte di scegliere e tralasciare, indispensabile ad ogni narratore. Quelle vitellae — pure quelle di santi appartenenti ad altri ordini e pubblicate soprattutto dai salesiani, meno esclusivi e meno concorrenziali dei compilatori della Beata coorte — erano, a loro modo, uno Spoon River.
27 Sulla personalità e l'opera di F. Cerruti cf. José Manuel PRELLEZO, Introduzione, in Francesco CERRUTI, Lettere circolari e programmi di insegnamento (1885-1917). Introduzione, testi critici e note a cura di J.M. PRELLEZO, Roma, LAS, 2006, 7-42.
28 Savio, prologo, 40. L'invito è ripreso nella perorazione conclusiva: «Ora, o amico lettore, [...] vorrei che venissi meco ad una conclusione [...], vorrei cioè che ci adoperassimo con animo risoluto ad imitare il giovane Savio in quelle virtù che sono compatibili col nostro stato» (ibid., c. XXVII, 108).
29 Pietro STELLA, Don Bosco nella storia della religiosità cattolica. I: Vita e opere, Roma, LAS, 1968, 235.
Forse la brevità non era solo una scelta retorica, ma era connessa alla santità, che non è mortificante rinuncia ma decisa capacità di sfrondare il tentatore e soffocante ciarpame dell'inutile»."
Grazie al loro genere letterario, chi si accosta a questi scritti di don Bosco trova una testimonianza di vita reale ed insieme la raffigurazione efficace di una prassi educativa esemplare, «un insieme di messaggi religiosi e pedagogici costruiti entro un tessuto biografico», un discorso educativo «fatto su misura dei ragazzi e dei loro educatori». È indispensabile vedere queste biografie, «oltre che nel quadro della produzione letteraria di don Bosco, nel contesto delle opere educative che egli andava promuovendo», inserirle «entro una specifica cultura» e tener conto «dei diversi criteri di scrittura postulata dall'attenzione ai destinatari»." Ci appaiono documenti capitali dello spirito e della pedagogia di don Bosco, che narrando l'esperienza di vita dei tre ragazzi, fanno scoprire «il lavoro del Maestro e il pensiero che lo conduce»."
Nel prologo delle tre Vite, l'autore attesta la sua preoccupazione «di narrare unicamente le cose che da voi o da me furono vedute, e che quasi tutte conservo scritte e segnate di vostra mano medesima»," e afferma di aver attinto «da fonti sicure»," che nel Pastorello delle Alpi elenca esplicitamente."
Quelle di don Bosco non sono affermazioni retoriche. Se esaminiamo le testimonianze originali raccolte a sostegno della ricostruzione biografica, tuttora conservate, constatiamo l'onestà storica e la preoccupazione documentaria di don Bosco. Il confronto tra quei materiali e il testo ci rivela anche il suo modo di lavorare. Prendiamo atto di una fedeltà sostanziale, insieme ad un trattamento dei dati funzionale al raggiungimento degli scopi e al coinvolgimento dei destinatari. Le fonti più abbondanti sono quelle relative a Domenico Savio e a Francesco Besucco.
30 Claudio MAGRIS, L'infinito viaggiare, Milano, Mondadori, 2005, 20-21.
31 Pietro STELLA, Per una storia dell'agiografia in età contemporanea. Il "giovanetto Savio Domenico" (1859) di san Giovanni Bosco, in Vita religiosa, problemi sociali e impegno civile dei cattolici. Studi storici in onore di Alberto Monticone, a cura di Angelo SINDONI e Mario TOSTI, Roma, Editrice Studium, 2009, 167.
32 CAVIGLIA, La vita di Savio Domenico scritta da don Bosco, in Opere e scritti editi e inediti di don Bosco, IV, xxxix.
33 Savio, prologo, 39.
34 Magone, prologo, 114.
35 «Per il tempo che il giovane Besucco visse in patria, mi sono tenuto alla relazione trasmessami dal suo parroco, dal suo maestro di scuola, e dai suoi parenti ed amici. [...] Per il tempo che visse tra noi ho procurato di raccogliere accuratamente le cose avvenute in presenza di mille testimoni oculari: cose tutte scritte e firmate da testimoni degni di fede» (Besucco, prologo, 161).
Nel volumetto sul Savio emerge la preoccupazione di mettere in massimo rilievo il protagonista, lasciando in ombra situazioni e persone che potrebbero distrarre l'attenzione. L'autore lo fa selezionando i dati raccolti, sopprimendo elementi secondari, trasponendo alcune notizie, operando amplificazioni narrative di «episodi nei quali l'affabulazione poté essere frutto di memorizzazione ovvero anche il risultato di esigenze di arte letteraria e di motivazioni educative»." Così, mentre la testimonianza del maestro di Castelnuovo viene riferita con fedeltà quasi letterale," quella di don Cugliero è dilatata e drammatizzata nel punto in cui racconta della falsa accusa da parte di due compagni di scuola." Gli aneddoti sul servizio all'altare e sulla promozione alla prima comunione, tratti da un documento di Michele Rua," sono trasposti nella lettera del cappellano di Morialdo; in questa però viene depennata la notizia di Domenico che canta in chiesa, in casa e nelle stalle «lodi ed inni con un compagno di scuola alternativamente col padre».4° Cadono anche vari particolari forniti dai testimoni, come l'accenno di Giuseppe Reano sul modo di affrontare la sofferenza fisica,'" e il rimprovero all'anziana zia di don Bosco per la sua «poca pazienza nel sopportare il male».42 La selezione è fatta in base alla significatività e all'utilità dei dati offerti, oppure per motivi componitivi, come si può constatare dal raffronto del testo con le testimonianze dei compagni."
36 Pietro STELLA, Il modo di lavorare di don Bosco, in Domenico Savio raccontato da don Bosco, 2004, 22.
37 Cf. ASC A4920131: lett. A. Allora - G. Bosco, 25 ago. 1857.
38 «Avendolo io un giorno rimproverato aspramente per una mancanza di cui era stato a torto accusato, esso soffrì ogni cosa pazientemente, non proferì parola e come se fosse stato realmente colpevole non si scolpò, portando in pace la correzione pel supposto fallo, quale venne poscia a cognizione mia esser stato commesso da altro suo condiscepolo», ASC A4920129: lett. G. Cugliero - G. Bosco, 19 apr. 1857,f2r-v; cf. Savio, e. VI, 52-53.
39 Cf. ASC, A4920138: Memorie su Domenico Savio, ms. Rua s.d., flr.
40 ASC A4920130: lett. G.13. Zucca - G. Bosco, 5 mag. 1857, flr.
41 «Interrogato da me una volta, che il vedeva mesto, perché non favellasse volentieri mi rispose che si sentiva colpito da sì forti dolori di capo che sembrava avesse due coltelli fitti nelle tempie; ma che sopportava questo male con pazienza affinché questa unita ai meriti del Signore nostro Gesù Cristo gli acquistasse il Paradiso. Che Gesù assai più di lui aveva sofferto senza querelarsi» (ASC A4920134: Alcune notizie su Savio Domenico, ms. Reano s.d., fl v).
42 La notizia per noi è interessante perché ci aiuta a capire il clima familiare che si viveva nella casa dell'Oratorio: «Si alzò qualche volta dal letto, ed io una volta il trovai presso al fuoco nella stanza di Magna [dialettale per zia: Marianna Occhiena] la quale gemeva e si lamentava alquanto. Egli benché di età così minore non lasciò di rimproverarla della poca pazienza nel sopportare il male» (ibid., f2r).
43 Le testimonianze coeve dei compagni Giovanni Bonetti, Angelo Savio, Paolo Vaschetti, Giusto 011agnier, Giuseppe Reano, Antonio Duina, Celestino Durando, Antonio Roetto, Luigi Marcellino e Giovanni Battista Piano sono conservate in ASC A492.
Malgrado questo trattamento, sia i documenti originali sia le deposizioni raccolte nel corso dei processi di beatificazione dimostrano che la fisionomia del Savio non viene stravolta; anzi, l'operazione di ripulitura dello stile e di scarto dei dettagli, le stesse accentuazioni e gli indugi narrativi, danno all'insieme un accento di freschezza e di verità che restituisce i tratti essenziali dell'esperienza e della fisionomia di Domenico."
Riscontriamo caratteristiche analoghe nella vita di Francesco Besucco. I primi quindici capitoli del Pastorello delle Alpi sono costituiti quasi integralmente dall'ampia e dettagliata memoria inviata dal parroco di Argentera, ordinata, depurata di alcuni particolari secondari. Per esempio, viene eliminato il simpatico cenno ad una consuetudine della mamma di Francesco, che «conoscendo di quanta importanza sia il cominciar fin da principio a dar buona educazione alla famiglia, non sapeva allattare il suo caro bambino e prestargli qualunque altro materno servizio senza avere sempre e preventivamente dei buoni pensieri in mente, divote preghiere sulle labbra, così che insieme al latte infondevagli pure il suo spirito di divozione». Sono scartate anche le notizie della voce del figlio defunto percepita in sogno dalla madre e dal padre," mentre si racconta la premonizione della morte di Francesco avuta dalla sorella» Inoltre le testimonianze dei compagni e dei superiori dell'Oratorio" sono trattate in modo analogo a quelle relative a Domenico Savio.
44 Cf. Jean Bosco, Saint Dominique Savio 1842-18S7. Introduction, traduction et notes de F. Desramaut, Paris, Apostolat des Editions-Ed. Paulines, 1978, 10-12.
45 «Era ella coricata in letto in compagnia delle due sue figlie nubili Valentina e Maria, abbandonata ad un sonno affannoso per l'estrema afflizione che la tormentava, quando le parve sentir cantare queste precise parole, ma con un'armonia soave oltre ogni dire: Caro figlio, re del ciel, tanto bel, grazioso giglio. Sentite queste parole ella vi ragionò sopra in questo modo: "Caro figlio, e che vuol dire questa voce, è voce di una figlia? no, se dice caro figlio, re del Ciel, è tuo figlio, è Franceschino, dunque se è re del Ciel egli è salvo. Mio Dio, se il mio figlio è salvo, e sì perché è re del Ciel, vi prego di alleviarmi il mio insopportabile mal di stomaco, altrimenti men muoio". Detto fatto, da quell'istante cessò la pia genitrice di Francesco, Rosa Robert, il suo mal di stomaco che minacciava terribili conseguenze, riacquistò una perfetta tranquillità con cui essa e la famiglia si rassegnano alla volontà di Dio. E qui per maggior intelligenza della visione debbo notare, che la madre del nostro Francesco essendo dell'Arches cantone Marboinet non sa leggere l'italiano, e m'assicura che mai poté imparare una strofa di lode in italiano, e tanto meno la predetta, solo avendola sentita canterellare qualche volta da Francesco come lo asserirono le sorelle» (ASC A2280701: Vita del pio giovanetto Besucco Francesco, ms. F. Pepino, con annotazioni aut. di don Bosco, s.d. [gen.-feb. 1864], 21-22).
46 «Occasione favorevole finora non si presentò a D. Bianchi dell'Ospizio in Cuneo di spedirmi il depositato fardello del sempre più caro Francesco Besucco, il quale il lunedì dopo la festa dell'Ascensione chiaramente sul far dell'alba disse al suo padre: Padre mio caro, mandate a prendere il mio fardello in Cuneo, ove trovasi da tre giorni, dopo le quali parole il padre provò una contentezza inesprimibile che manifestò alla famiglia. Nel leggere a Valentina sorella di Francesco la lettera in cui D. Bianchi avvertivaeni del deposito ricevuto, mi venne comunicata la detta visione che esaminate le circostanze credo esatta» (ASC A1010912: lett. F. Pepino - G. Bosco, 6 giu. 1864,f1r).
47 Cf. Besucco, c. XXXIII, 229-230.
48 Cf. la testimonianza dell'infermiere di Valdocco (ASC A1010913: lett. I. Mamardi - G. Bosco, s.d. [gen. 1864]), l'articolata relazione di don Domenico Ruffino (ASC A1010915: Relazione intorno a Besucco Francesco, ms Ruffino, s.d. [gen.-feb. 1864]) e la raccolta di testimonianze dei coetanei fatta attraverso il compagno Francesco Botto (ASC A1010917: lett. F. Botto - G. Bosco, 21 gen. 1864).
Diverso è il caso di Michele Magone. Non si dice nulla del periodo trascorso in famiglia, ad esclusione dei dati essenziali forniti nell'attestato del viceparroco. Tutta la vicenda si svolge tra le mura dell'Oratorio, dopo l'incontro fortuito tra il ragazzo e don Bosco nella stazione di Carmagnola. Della sobrietà dei particolari si avvantaggia la dinamica del racconto e la figura del protagonista, che resta sempre al centro dell'attenzione. L'autore è il testimone principale degli eventi, ma si appoggia anche su altre testimonianze: la relazione del prof. Francesia, la deposizione di alcuni compagni," l'ampia commemorazione funebre di don Zattini," ricca di riferimenti utili a tratteggiare il profilo del ragazzo. Nell'insieme è la biografia più povera di dati biografici, eppure la più efficace. La scrittura di don Bosco ci restituisce una «oggettività, non solo storica, ma rappresentativa che ci mette senz'altro in presenza della realtà», come nota Alberto Caviglia; il quale aggiunge che, in ogni caso, la «simpatica e attraente biografia» va «letta come un libro di idee», perché, «a differenza degli altri giovanetti di cui don Bosco scrisse la Vita, i quali a lui pervennero già predi-sposti, e in parte preparati, il monello, condotto in soli quattordici mesi "ad un meraviglioso grado di perfezione cristiana", è un prodotto puro ed esclusivo della pedagogia di don Bosco».51
Quest'uso delle fonti da parte dell'autore pone certamente problemi di critica documentaria, come quelli rilevati dal benedettino Henri Quentin nel 1931-32 nel corso dei processi di beatificazione di Domenico Savio» Ciò nondimeno, tenendo conto del genere letterario, della mentalità e degli obiettivi che si prefigge l'autore, appare evidente che don Bosco non ha fatto «opera di manipolazione per costruire un modello da proporre ai giovani e agli ambienti popolari» a scapito della verità storica: nel vissuto concreto dei suoi tre ragazzi ha «piuttosto riconosciuto, e non solo lui, la personificazione di quanto andava carezzando»," e lo ha posto sotto gli occhi dei lettori per la sua esemplarità.
L'analisi del modo di lavorare sulle fonti ci convince che l'interesse di queste biografie non va cercato nella quantità dei dati biografici offerti o nell'acribia filologica con cui si trattano i documenti, bensì nella valenza testimoniale del messaggio pedagogico e spirituale che l'autore intende consegnare ai lettori suoi contemporanei.
49 Cf. ASC, A1230106/7: relazioni s.d. di Matteo Galleano, e di altro compagno anonimo.
50 Cf. ASC, A2320101: In morte di Michele Magone di Carmagnola, ms Zattini, 23 feb. 1859.
51 CAVIGLIA, Il "Magone Michele", una classica esperienza educativa, in Opere e scritti editi e inediti di don Bosco, V, 132.
52 Cf. Pietro STELLA, Don Bosco nella storia della religiosità cattolica, vol. III: La canonizzazione (1888-1934), Roma, LAS, 1988, 211-224.
53 Ibid., 218, che sintetizza la replica di Alberto Caviglia alle obiezioni del Quentin.
Ci troviamo di fronte a tre scritti distinti tra loro: «La Vita del giovanetto Savio Domenico è la rievocazione edificante dell'esistenza di un giovane, che aveva incarnato nella sua effettiva realtà una compiuta santità cristiana adolescenziale alla portata di altri determinati e ardimentosi. È diversa dalle due biografie successive, di Michele Magone e Besucco Francesco, dove la narrazione è in un modo o in un altro idealizzata — soprattutto nella prima —, con l'intenzione di trarne un modello di vita adeguato alla media dei giovani dalle diverse origini e dai differenti livelli spirituali»." Il racconto mette in luce personalità inconfondibili, abbozzate con tratti essenziali nell'aspetto esteriore, nella sensibilità spirituale, nel temperamento e nei lineamenti psicologici. Diverso è il loro punto di partenza. Diverso è il modo della loro relazione con gli educatori. Diversa è la missione affidata a ciascuno, pur nell'unità e coerenza generale del messaggio proposto ai lettori. Domenico ebbe un «tenor di vita notoriamente meraviglioso»," «visse una vita la più lieta, virtuosa ed innocente»," coltivò la virtù, che pareva «nata con lui», «fino all'eroismo» in tutto il corso della sua esistenza." Michele, ragazzo «abbandonato a se stesso», rischiava «di cominciar a battere il tristo sentiero del male», ma ascoltò l'amorosa chiamata del Signore che lo invitava «a seguirlo» e «costantemente corrispondendo alla grazia divina giunse a trarre in ammirazione quanti lo conobbero»." Francesco corrispose con docilità alle cure educative dei genitori, del parroco e del maestro, dimostrò «un grado di scienza ordinariamente superiore» alla sua età, «grande diligenza per imparare», «felice memoria nel ritenere le cose udite e lette», e fu favorito in «modo speciale» dei «lumi» divini," soprattutto nello spirito di preghiera, tanto da essere «padrone di raccogliere il suo spirito per elevarlo al Signore» in qualsiasi momento della giornata."
Tali diversità si riverberano sulla disposizione narrativa. Tuttavia l'architettura del racconto si ripete pressoché identica nelle tre biografie. Vi riconosciamo una triplice segmentazione, introdotta dal proemio e seguita da un epilogo: la vita familiare, l'inserimento nell'Oratorio, la malattia e la morte. Ogni biografia attribuisce diverso peso a ciascuna di queste sezioni, sulla base delle fonti disponibili, della significatività degli eventi e dei messaggi che si vogliono veicolare.
54 BRAIDO, Don Bosco prete dei giovani, I, 327.
55 Savio, prologo, 39-40.
56 Ibid., c. XXVII, 108.
57 Cf. Magone, prologo, 113.
58 Ibid., 113.
59 Besucco, prologo, 162.
60 Ibid., c. XXII, 206.
Nella Vita del giovanetto Savio Domenico, la più bilanciata, gli episodi che precedono l'incontro con don Bosco (c. VII) sono distribuiti in sei capitoli (cc. I-VI); tredici capitoli illustrano il periodo trascorso a Valdocco (cc. VIII-XX); cinque narrano la malattia e la morte (cc. XXI-XXV); gli ultimi due costituiscono l'epilogo che riassume il doppio messaggio dell'opera, uno affidato all'elogio funebre del prof. Picco (Domenico è modello di vita virtuosa e di esattezza nei doveri61), l'altro orchestrato con la partecipazione corale dei compagni, del padre, del narratore stesso (Domenico è un santo a cui raccomandarsi62).
Il Cenno biografico sul giovanetto Magone Michele, spigliato e avvincente, riassume in un semplice paragrafo il vissuto precedente (la letterina del viceparroco, c. II), e prende l'avvio con la scena dell'incontro alla stazione di Carmagnola (c. I), un incipit letterario felicissimo; undici capitoli sono dedicati al periodo trascorso nella casa dell'Oratorio (cc. II-XII); altri tre alla malattia e alla morte (cc. XIII-XV); uno all'epilogo (c. XVI).
Il Pastorello delle Alpi consacra ben quindici capitoli alla storia precedente (cc. I-XV), mettendo così in grande risalto l'educazione familiare e parrocchiale, a svantaggio della fluidità narrativa; undici capitoli presentano il «tenore di vita nell'Oratorio» (cc, XVI-XXVI); cinque descrivono il decorso della malattia e la morte (cc. XXVII-XXI); i tre ultimi formano l'epilogo (cc. XXXIIXXXIV).
Identico è anche il processo compositivo, caratterizzato da una strategia propria di questo genere letterario che permette di dare la massima evidenza al protagonista e al messaggio. Si parte con un procedimento cronologico per la narrazione del periodo che va dalla nascita all'entrata all'Oratorio (Savio e Besucco), al quale si dedicano una serie di capitoli per illustrare il processo formativo dei protagonisti e delinearne la personalità; nel Magone questa funzione è svolta dai primi due capitoli. I capitoli che stanno al cuore dei tre racconti, in cui l'intento didascalico è prevalente, sono caratterizzati da un trattamento tematico che risulta il più efficace in funzione della presentazione del messaggio che l'autore intende proporre ai lettori. Si torna nuovamente al registro cronologico per la rievocazione commossa e coinvolgente del declino fisico e della morte dei protagonisti. I capitoli conclusivi orientano sulla "lezione" da trarre, e ribadiscono alcuni dei punti che più stanno a cuore all'autore.
Simili sono alcuni snodi narrativi che danno ritmo al racconto, illustrano i progressi interiori dei ragazzi, mettono a fuoco le tesi educative: 1) l'importanza della prima comunione ben preparata di Domenico e Francesco, e il riverbero morale e spirituale sulla loro vita; 2) la vivace descrizione del primo e dei
61 Savio, c. XXVI, 103-106.
62 Ibid, c. XXVII, 106-108: questo messaggio sarà rinforzato dalla II ed. in poi, con l'aggiunta della corposa Appendice di grazie ottenute da Dio ad intercessione di Savio Domenico.
successivi incontri tra i ragazzi e il direttore dell'Oratorio, con la ricostruzione dei dialoghi e delle dinamiche comunicative; 3) la messa in scena dei momenti critici e della loro soluzione, occasione feconda offerta all'educatore per un intervento mirato a rasserenare, stimolare la riflessione, indurre approfondimenti e prese di coscienza, favorire processi di riformulazione nella percezione di sé e del senso della vita, condurre a scelte di valore, ad assunzione di impegni; 4) la delicata gestione psicologica e spirituale della malattia finale per un approccio rasserenante e spiritualmente fecondo.
Da quanto si è detto, risulterà evidente che i «giovani carissimi», cioè i lettori previsti dall'autore nell'atto della scrittura, oggi non esistono più. Essi, infatti, rivelano aneliti, schemi mentali e sensibilità in gran parte estranee alle attuali. Se vogliamo fare nostro il suo metodo e presentare modelli di vita significativi e stimolanti per i nostri giovani, non possiamo mettere nelle loro mani queste biografie senza una mediazione interpretativa che decodifichi i nuclei essenziali del messaggio e lo renda significativo. È un'operazione in qualche modo prevista nelle storie di vita narrate da don Bosco. Infatti, non solo egli, qua e là, offre esplicite istruzioni di lettura, ma quando entra in scena nel racconto, come direttore dell'Oratorio o confidente o confessore e si pone in dialogo educativo con i giovani, procede in modo interattivo, sollecitando la loro collaborazione, inducendo riflessioni che spalancano orizzonti, sollecitando prese di coscienza, sensibilizzando a sistemi di valore e di senso posti in piani diversi da quelli della comune esperienza quotidiana. Le Vite stesse, dunque, con la tecnica del racconto e della rappresentazione, oltre a comunicare modelli e modalità pratiche di comportamento virtuoso, illustrano le motivazioni che inducono tali condotte, ne presentano gli esiti appaganti e cercano di renderle attraenti attraverso un coinvolgimento emotivo.
Oggi i destinatari principali di queste biografie sono gli educatori che si vogliono ispirare al metodo di don Bosco: a loro spetta il compito di approfondirne criticamente il messaggio per l'interpretazione e l' attualizzazione operativa.
Le chiavi interpretative per una lettura feconda sono di due tipi principalmente: quelle fornite dall'autore, espressione della sua intenzione primaria; e quelle che possiamo stabilire a partire dalle nostre domande e dai nostri interessi in quanto studiosi o continuatori della missione e della pedagogia di don Bosco."
63 Un esempio di lettura pedagogica di questo tipo è offerto da Carlo NANNI, Destinazione educativa, convinzioni pedagogiche e idea di educazione. Lettura pedagogica della "Vita", in Domenico Savio raccontato da don Bosco, 155-176.
L'introduzione e l'epilogo di ciascuna biografia offrono chiavi interpretative precise. Nel prologo della Vita di Domenico Savio, don Bosco afferma che la rappresentazione del tenore di vita «maraviglioso» e delle virtù «speciose» del ragazzo ha lo scopo di spingere i lettori a trarne «profitto», a passare dall'ammirazione all'imitazione operativa." Il percorso di lettura suggerito, dunque, orienta la ricerca degli stati d'animo, dei sentimenti, degli atteggiamenti, delle scelte e dei comportamenti virtuosi che connotano il modello di vita proposto all'imitazione. È un'idea che viene ripresa nell'epilogo," con l'aggiunta di un'indicazione puntuale, che focalizza uno dei cardini della pedagogia religiosa di don Bosco: «Ma non manchiamo d'imitare il Savio nella frequenza del sacramento della confessione, che fu il suo sostegno nella pratica costante della virtù, e fu guida sicura che lo condusse ad un termine di vita cotanto glorioso. Accostiamoci con frequenza e con le dovute disposizioni a questo bagno di salute nel corso della vita [...]. A me sembra che questo sia il mezzo più sicuro per vivere giorni felici in mezzo alle afflizioni della vita, in fine della quale vedremo anche noi con calma avvicinarsi il momento della morte»."
Questa stessa tesi è presente anche nelle altre due biografie, particolarmente nel Cenno biografico di Michele Magone." Tuttavia, il prologo di quest'ultima non si limita a suggerire l'imitazione di uno o dell'altro aspetto virtuoso; indica un processo più profondo e personale, suggerisce la dinamica evangelica dell'ascolto e della corrispondenza: «In questa [biografia] di Magone noi abbiamo un giovanetto che abbandonato a se stesso era in pericolo di cominciar a battere il tristo sentiero del male; ma che il Signore invitò a seguirlo. Ascoltò egli l'amorosa chiamata e costantemente corrispondendo alla grazia divina giunse a trarre in ammirazione quanti lo conobbero, palesandosi così quanto siano maravigliosi gli effetti della grazia di Dio verso di coloro che si adoperano per corrispondervi»." Solo la docilità operativa agli impulsi della grazia è in grado di produrre frutti di «zelo, amore e carità», permette di vivere «buoni, casti, divoti, virtuosi» e «di morire lieti, sereni, calmi, fidenti nelle divine misericordie»."
64 Savio, prologo, 40.
65 Ibid., c. XXVII, 108-109.
66 Ibid., 109.
67 Cf. Magone, c. V, 124-126.
68 Ibid., 113.
69 Ibid, c. XVI, 157.
Il lettore, dunque, viene orientato ad una ricerca delle forme di ascolto e di corrispondenza nella storia spirituale del biografato, nella semplicità del suo vissuto quotidiano: tutte «cose facili», fa notare l'autore, ma fatte «con perseveranza» sono diventate «il sentiero che condusse il nostro Michele ad un maraviglioso grado di perfezione»."
Nell'introdurre la Vita di Francesco Besucco, molto più semplicemente don Bosco si presenta come «un padre che parla di un figlio teneramente amato; un padre, che dà campo ai paterni affetti» per istruire i lettori «nella pratica delle virtù» affinché si sentano «mossi a fuggire qualche vizio o a praticare qualche virtù»." Dunque qui si propone una lettura calma, affettuosa e contemplativa della parola di don Bosco. È necessaria anche un po' di pazienza: infatti, le digressioni narrative sono abbondanti, soprattutto nei primi quindici capitoli, tratti dalla documentazione inviata dal buon parroco di Argentera. Don Bosco ha rinunciato a sfrondarli, forse perché li sente in sintonia col suo stesso spirito e gli pare che rappresentino in modo incantevole l'animo buono e remissivo di Francesco, il carattere calmo e tranquillo di lui, la profondità dei suoi sentimenti affettuosi. Forse anche perché riproducono con efficacia la ricchezza umana di un ambiente popolare semplice e genuino, radicato nei valori tradizionali, come era stato quello della sua giovinezza ai Becchi: una società profondamente cristiana, di cui aveva grande nostalgia e che in quegli anni incominciava a dissolversi.
Tutte e tre le Vite concludono con l'invito a tenersi preparati per una buona morte. È un tema caro alla spiritualità tradizionale che faceva dei Novissimi argomento preferito di meditazione e di predicazione. Nella pedagogia di don Bosco, veniva declinato con accenti particolari, in funzione della conversione del cuore «franca e risoluta»72 e del dono totale di sé a Dio, che genera un vissuto ardente, fecondo di frutti spirituali, di impegno etico ed insieme gaudioso. Era questa la prospettiva nella quale veniva celebrato mensilmente l'esercizio della buona morte:" per educare alla visione cristiana della morte, per stimolare un'efficace e periodica revisione del proprio spirito e delle proprie azioni, per incoraggiare uno stile di vita costantemente aperto all'azione della grazia, sereno, fecondo di opere e di frutti, per disporre positivamente l'animo all'incontro col Signore. Non a caso i capitoli conclusivi raffigurano le ultime ore dei tre protagonisti come un'attesa fervente e serena dell'incontro. Ammiriamo stupiti i dialoghi, le "commissioni" per il paradiso, gli addii."
70 Ibid., c. IX, 136-137.
7' Besucco, prologo, 162.
72 Cf. Magone, c. V, 124.
73 Don Bosco lo spiega così: «Consiste questo esercizio nel prepararci a fare una confessione e comunione come fosse l'ultima della vita» (Savio, c. XXI, 93).
74 «Ma prima di lasciarti partire per il paradiso vorrei incaricarti d'una commissione [...]. Quando sarai in paradiso e avrai veduta la grande Vergine Maria, falle un umile e rispettoso saluto da parte mia e da parte di quelli che sono in questa casa. Pregala che si degni di darci la sua santa benedizione; che ci accolga tutti sotto la potente sua protezione, e ci aiuti in modo che ninno di quelli che sono, o che la divina Provvidenza manderà in questa casa abbia a perdersi» (Magone, c. XV, 154).
Il momento della morte poi è descritto quasi come un rapimento estatico: Domenico «con voce chiara e ridente» dà l'addio a suo padre, poi esclama: «Oh! che bella cosa io vedo mai...» e si spegne «ridendo con aria di paradiso»; Michele spira «colla ordinaria serenità di volto e col riso sulle labbra», dopo aver baciato il crocifisso e invocato: Gesù, Giuseppe e Maria io metto nelle vostre mani l'anima mia; i momenti conclusivi della vita di Francesco sono connotati da fenomeni straordinari e ardori incontenibili: «Sembrava che gli balenasse sul volto una bellezza, un tale splendore che fece scomparire tutti gli altri lumi dell'inferme-ria»; «elevando alquanto il capo e prolungando le mani quanto poteva come chi stringe la mano a persona amata, cominciò con voce giuliva e sonora a cantar così: Lodate Maria [...]. Dopo faceva vari sforzi per sollevare più in alto la persona, che di fatto si andava elevando, mentre egli stendendo le mani unite in forma divota, si pose di nuovo a cantare così: O Gesù d'amor acceso [...]. Sembrava divenuto un angiolo cogli angioli del paradiso». In fondo è su questo punto che confluiscono tutti i discorsi di don Bosco, è questo il cuore del suo messaggio." Tutto il resto appare funzionale ad esso: la sua arte educativa, il suo accompagnamento affettuoso e creativo, i consigli offerti e il programma di vita, la devozione mariana e i sacramenti, tutto è orientato all'oggetto primo dei suoi pensieri e delle sue preoccupazioni, al grande affare della salvezza eterna." Così si conclude la Vita di Domenico Savio: «E allora colla ilarità sul volto, colla pace nel cuore andremo incontro al nostro Signore Gesù Cristo, che benigno ci accoglierà per giudicarci secondo la sua grande misericordia e condurci, siccome spero per me e per te, o lettore, dalle tribolazioni della vita alla beata eternità, per lodarlo e benedirlo per tutti i secoli. Così sia»."
Questa pista di lettura trovava sicuro aggancio nella sensibilità religiosa dei lettori del tempo. Oggi, nel clima culturale e spirituale in cui ci muoviamo, risuona estranea. Siamo portati a scansarla, operando selezioni, concentrandoci sugli aspetti solari e dinamici, escludendo quelli che riteniamo arcaici o irrilevanti per la comprensione di don Bosco e del suo messaggio pedagogico.
75 «Vorrei che facessimo insieme una conclusione, che tornasse a mio e a tuo vantaggio. È certo che o più presto o più tardi la morte verrà per ambidue e forse l'abbiamo più vicina di quel che ci possiamo immaginare. È parimente certo che se non facciamo opere buone nel corso della vita, non potremo raccoglierne il frutto in punto di morte, né aspettarci da Dio alcuna ricompensa. [...] Animo, o cristiano lettore, animo a fare opere buone mentre siamo in tempo; i patimenti sono brevi, e ciò che si gode dura in eterno. [...] Il Signore aiuti te, aiuti me a perseverare nell'osservanza dei suoi precetti nei giorni della vita, perché possiamo poi un giorno andare a godere in cielo quel gran bene, quel sommo bene pei secoli dei secoli. Così sia» (Besucco, conclusione, 231).
76 «La divina Provvidenza che dà lezione all'uomo col chiamare quando vecchi cadenti, quando giovanetti imberbi, ci conceda il grande favore di poterci trovare tutti preparati in quell'ultimo momento da cui dipende la beata o la infelice eternità. La grazia di nostro Signor Gesù Cristo sia il nostro aiuto nella vita, nella morte, e tenga fermi nella via che conduce al cielo» (Magone, prologo, 114).
77 Savio, c. XXVII, 109.
Allo stesso modo in cui, quando citiamo la fortunata espressione di Domenico Savio, «Sappi che noi qui facciamo consistere la santità nello star molto allegri», la estrapoliamo, separandola dal resto del discorso, nel quale il giovane discepolo sintetizza felicemente la proposta formativa del Maestro: «Noi procureremo soltanto di evitar il peccato, come un gran nemico che ci ruba la grazia di Dio e la pace del cuore, procureremo di adempiere esattamente i nostri doveri, e frequentare le cose di pietà. Comincia fin d'oggi a scriverti per ricordo: Servite Domino in laetitia, serviamo il Signore in santa allegria»." Invece è necessaria la lettura integrale di queste biografie, rispettate nella loro coerenza interna, negli orizzonti di senso in cui si collocano, con attenzione ai particolari e senza filtrature. Essa risulterà certamente feconda in funzione di una più completa conoscenza di don Bosco e della sua articolata proposta formativa. Nello stesso tempo ci offrirà uno stimolante termine di confronto per la riflessione critica sui nostri programmi e progetti educativi.
Le chiavi interpretative emergenti dalle domande che ci poniamo, come discepoli di don Bosco e educatori di giovani, di fronte a queste piccole biografie
attivano percorsi di lettura diversi e stimolanti: come possono essere riformulati oggi i capisaldi del programma formativo proposto da don Bosco? Quale è il modello di integrazione educativa tra famiglia, parrocchia, scuola e Oratorio? Quali sono le caratteristiche dell'ambiente educativo e gli atteggiamenti qualificanti dell'educatore delineato in queste operette? In che modo il Santo si pone in relazione con i suoi allievi? Come li accompagna nei momenti critici? Quali sono le forme del coinvolgimento attivo degli educandi nella cura formativa dei compagni? Quale rapporto pone l'autore tra educazione, formazione cristiana e vita spirituale?
Tra le varie piste di lettura, ci limitiamo a suggerire l'analisi delle scene in cui è descritta la relazione personale tra don Bosco e i protagonisti, per coglierne atteggiamenti caratterizzanti e dinamiche.
Notiamo innanzitutto la rilevanza che viene data ai dialoghi con i tre ragazzi, a cominciare dal primo incontro. Emergono evidenti le caratteristiche della conversazione educativa preventiva e della specifica modalità relazionale intessuta dall'educatore in funzione del lavoro successivo. Come possiamo costatane dalle Vite di Domenico Savio e Michele Magone," obiettivo del primo incontro è la conoscenza, necessaria alla fiducia e alla confidenza reciproca: attraverso l'accoglienza cordiale del giovane e la generosa disponibilità nel farsi carico dei suoi bisogni, don Bosco attiva un canale comunicativo di tonalità affettiva che apre gli animi a quel tipo di interazione che è caratteristica del sistema educativo dell'Oratorio.
78 Savio, c. XVIII, 84.
79 Cf. Ibid., c. VII, 53-55; Magone, c. I, 114-116.
L'approccio è sempre informale, empatico, colloquiale: egli si mette sul piano dell'interlocutore, intesse un dialogo sereno, familiare — verbale e non verbale —, tale da far cadere la diffidenza, permettendo al ragazzo di esprimere liberamente se stesso. Così può raccogliere informazioni essenziali sulla condizione, sulla storia, sullo stato d'animo, sulle caratteristiche temperamentali e la domanda educativa di chi gli sta di fronte. Individuate le sue attese, gli offre opportunità e soluzioni concrete, e lo aiuta ad alzare lo sguardo, a scoprire nuovi orizzonti. Da parte sua, il ragazzo prova un senso di accoglienza, si sente, capito e amato, scopre le opportunità offerte dalla relazione con un adulto paterno, dedicato e rispettoso, sul quale capisce di poter contare. Viene così stimolato alla corrispondenza, portato alla confidenza. Questa prima conversazione, che si conclude con la decisione di ammettere il giovane all'Oratorio, suscita nell'animo suo un sentimento di gratitudine, di gioiosa attesa, di desiderio: premesse fecondissime per una felice relazione educativa. L'incontro successivo, al momento dell'inserimento nella comunità, presenta le caratteristiche di un "contratto" educativo, in cui all'accoglienza generosa dell'educatore corrisponde la promessa e l'impegno del ragazzo."
Il cuore delle tre biografie è costituito dalla descrizione di una crisi, che interessa in forma diversa i protagonisti e risulta determinante nell'intreccio narrativo. Il racconto del suo superamento, nel colloquio tra educatore e educando, offre l'occasione per illustrare, incarnato nella storia dei tre ragazzi, il messaggio che l'autore intende offrire ai lettori. Sono situazioni diverse, legate alle caratteristiche personali di ciascun protagonista. In Domenico il momento critico sopraggiunge a sei mesi dal suo inserimento a Valdocco, dopo l'offerta oblativa di sé fatta in occasione dell' 8 dicembre 1854, dalla quale era scaturita una condotta morale «così edificante e congiunta a tali atti di virtù» da sorpren-dere il suo formatore.81 Lo stato d'animo in cui si trova è quello della disponibilità incondizionata all'azione interiore della grazia e agli stimoli formativi degli educatori. Così, è sufficiente un'esortazione alla santità per scatenare nel suo intimo desideri incontenibili di perfezione: la sua è una crisi "mistica", che l'intervento del direttore spirituale orienta verso la perfezione virtuosa nel quotidiano e in funzione apostolica, prevenendo ripiegamenti intimistici e fughe dalla realtà."
80 Cf. Magone, c. II, 117-118.
81 Cf. Savio, c. VIII, 57.
82 Cf. Ibid., e, X, 61-62.
Michele Magone, dopo un mese di permanenza nella casa dell'Oratorio, attraverso la mediazione di un buon compagno, messo al suo fianco da don Bosco, e nel confronto con la qualità morale dell'ambiente, prende coscienza vivissima della propria mediocrità: la sua è una crisi "etica", caratterizzata da sensi di colpa e angosce. Michele riesce ad uscirne con le proprie forze, dopo un dialogo rasserenante con l'educatore che gli suggerisce le ipotesi di soluzione. È un processo di conversione, che gli permette di accedere ad uno stato di serenità spirituale mai prima sperimentata e di appropriarsi di un nuovo sistema di valori, al quale aderisce liberamente, con totalità e gusto."
Francesco Besucco, a pochi giorni dal suo arrivo a Torino, è assalito dalla nostalgia di casa, si sente spaesato in un ambiente tanto diverso da quello originario: la sua è una crisi "culturale" ed affettiva, connotata da senso di inadeguatezza, disorientamento e inferiorità nei confronti dei compagni. Nella conversazione affettuosa con don Bosco, che lo consola e lo incoraggia, orientandolo su un programma di vita semplificato — «Pratica tre sole cose e tutto andrà bene [...]: Allegria, Studio, Pietà»" —, trova il modo per compensare costruttivamente la dissonanza culturale e raggiungere la serenità.
Nonostante la diversità delle esperienze, il superamento del momento critico si risolve per i tre ragazzi in un passaggio di crescita umana e spirituale. È un processo di maturazione, grazie al quale non soltanto viene risolto il problema e si ritrova l'equilibrio interiore, ma si consolida l'identità personale, si interiorizzano valori, significati e modi di agire e si attua una più profonda e radicale consegna a Dio. Tutto ciò permette una accresciuta coscienza di sé, una riconfigurazione dell'approccio al quotidiano e alle relazioni umane e un incremento nella capacità di amore oblativo, da cui scaturisce slancio operativo, gioia di vivere, fervore spirituale e docilità all'azione della grazia.
Alla soluzione della crisi seguono, in tutte tre le Vite, alcuni capitoli dedicati ad illustrare gli itinerari educativi intrapresi dai protagonisti sotto la guida dell'educatore. Al di là delle diverse accentuazioni, si può facilmente constatare l'impianto unitario del programma formativo delineato dall'autore in queste biografie. Basta seguire i titoli dei capitoli per vederne la sintonia. L'accento è posto sull'uso scrupoloso del tempo e la diligenza nell'adempimento dei doveri quotidiani, affrontati con amore e con gioia, sulla pratica regolare dei sacramenti della confessione e della comunione, sulla confidenza col direttore-confessore, sullo spirito di preghiera e l'unione con Dio, sulla devozione mariana, sull'esercizio pratico delle virtù (l'obbedienza, la carità, la mortificazione dei sensi, la castità), su tutte le forme di servizio verso il prossimo, sulle buone amicizie, sull'ardore apostolico.
83 Cf. Magone, c. III e IV, 120-124.
84 Cf. Besucco, c. XVII, 195-196.
Perché leggere oggi queste biografie edificanti? Prima di tutto perché sono un prezioso documento di vita, un discorso di don Bosco sull'esperienza dei tre protagonisti riservato a lettori attenti. Attraverso di esse possiamo introdurci nel suo mondo interiore, accedere alle sue visioni e alle sue preoccupazioni, capire quanta fiducia egli ponesse nelle risorse dell'animo giovanile. Vanno lette anche perché sono lo specchio di un umanesimo educativo plenario che oggi merita riconsiderare, di una affascinante cultura dello spirito che la patina del tempo non ha offuscato. Nella loro semplicità restituiscono un affiato morale, un entusiasmo educativo e una tensione pastorale, dalla cui contemplazione abbiamo molto da imparare per non lasciarci sommergere dal disincanto e dalla mediocrità. Sono l'espressione di una proposta formativa, di una metodologia educativa e di una spiritualità che ci sembra tanto lontana dal mondo giovanile di oggi, ma che sentiamo importante: è lontana per lo scarto temporale e culturale, per la scomparsa di quella tensione morale e ideale che caratterizzava la gioventù dell'Ottocento; tuttavia resta importante per la forza carismatica e profetica che contiene, per gli stimoli di cui è portatrice, per i salutari sommovimenti che può suscitare nella nostra coscienza di educatori.
Come leggerle? Con affetto, con curiosità e con rispetto. L'affetto di figli per la memoria di un padre amato, per l'eredità spirituale e il patrimonio di esperienza e di sapienza che ha lasciato; la curiosità dell'esploratore che risale la corrente di un grande fiume per scoprirne la sorgente e abbeverarsi alla purezza delle sue acque; il rispetto col quale l'autore, che è anche confidente e confessore, ha accostato l'intimità ardente di quelle giovani anime, ne ha raccolto le confidenze e i propositi, ne ha contemplato stupito i progressi.
Vanno anche lette con apertura mentale, con attenzione e con sensibilità. L'apertura mentale è anzitutto onestà intellettuale e abbandono di ogni pregiudizio, a cominciare da quell'insidioso senso di superiorità culturale e teologica che spesso traspare nelle ricerche sull'esperienza religiosa del passato, quella che definiamo "popolare" e "devozionale"; l'attenzione implica uno studio accurato del testo, della sua organizzazione, dei suoi possibili livelli di lettura, delle sue allusioni; la sensibilità si traduce nello sforzo per un accostamento empatico ai personaggi, nell'ascolto delle ripercussioni del racconto sul nostro spirito, nell'attenzione alle ragioni di don Bosco, ai diversi accenti che egli pone qua e là.
Le Vite non sono solo monumenti all'adolescenza del buon tempo passato, miniature deliziose di una realtà educativa nella sua fase carismatica: costituiscono una mediazione efficace per entrare in quel mondo condotti per mano dal narratore e lasciarci istruire da lui.
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—, La Vita di Besucco Francesco scritta da Don Bosco e il suo contenuto spirituale, in Opere e scritti editi e inediti di don Bosco, vol. VI, Torino, Società Editrice Internazionale, 1965, 105-262.
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—, Santi per giovani e santi giovani nell'Ottocento, in Santi, culti, simboli nell'età della secolarizzazione (1815-1915), a cura di E. Fattorini, Torino, Rosenberg & Sellier, 1997, 563-586.
Considerando le finalità e i destinatari di questa pubblicazione (che non è un'edizione critica) abbiamo adottato i seguenti criteri:
a) adattamento della punteggiatura e delle accentuazioni secondo l'uso attuale;
b) uso uniforme delle iniziali maiuscole nei nomi comuni;
c) uso del trattino nei dialoghi per introdurre le battute dei vari interlocutori, quando queste sono mandate a capo; uso delle virgolette basse o caporali (« ») per i discorsi diretti all'interno di un paragrafo; virgolette alte o doppi apici (" ") per citazioni all'interno di discorsi diretti;
d) scioglimento delle forme tronche desuete delle preposizioni articolate al maschile plurale (a': ai; co ': con i; da': dai; de': dei; ne': nei; pe': per i; que': quei; tra': tra i); come anche pegli: per gli; pel: per il; nol: non lo; mel: me lo; mentre abbiamo mantenuto le forme abbreviate delle prime persone singolari al presente dei verbi fare e andare (fo: faccio; vo: vado);
e) scioglimento dell'abbreviazione SS. quando è accostata a Sacramento e Maria;
f) trascrizione corretta di date, nomi propri oppure di termini scritti in modo errato dall'autore;"
g) abbiamo lasciato invariate le finali tronche, i termini e le locuzioni ottocentesche che caratterizzano la scrittura di don Bosco," le numerose voci verbali all'indicativo imperfetto col suffisso pronominale," come pure la finale in —a della prima persona dell'imperfetto indicativo secondo l'uso antico (era: ero; rimirava: rimiravo; sperava: speravo; pensava: pensavo; desiderava: desideravo...) e le parole uscenti al singolare con il dittongo discendente 'io', che al plurale hanno finale doppia —ii secondo l'uso antico (testimonii; desiderii; proprii; principii; studii...);
h) nella numerazione dei capitoli abbiamo conservato le cifre romane, come nelle edizioni originali.
85 30 dicembre 1856: 29 dicembre 1855; acconcio: acconce; ale: ali; alloraché: allorché; ammessione: ammissione; angiolol i: angelo/i; Bongiovanni: Bongioanni; bricciolo: briciolo; Caffasso: Cafasso; che che: checché; cherico: chierico; colezione: colazione; crociati: crucciati; difatto: difatti; Dreco: Drec; Eucarestia: Eucaristia; Eysautier: Eyzautier; leggiera: leggera; lenticchioso: lentigginoso; Murialdo: Morialdo; ommettere: omettere; ommetto: ometto; ammissione: omissione; parochia: parrocchia; parochiale: parrocchiale; paroco: parroco; pel che: per la qual cosa; Pietra Porzio: Pietraporzio; Ponte Bernardo: Pontebernardo; posseda: possieda; qual è: qual è; rettorica: retorica; Roburento: Roburent; Rufino: Ruffino; sabbato: sabato; Sambucco: Sambuco; scoltura: scultura; viceparoco: viceparroco.
86 abbiateli: considerateli; accostarvisi: accostarsi a qualcosa; accostossi: si accostò; adunque: dunque; affatto: interamente; aggiugnere: aggiungere; aggradendo: gradendo; al domani: il giorno successivo; ambidue: l'uno e l'altro; amendue: entrambi; anco: ancora; apparecchio: preparazione; apparisce: appare; assaissimo: moltissimo; astanti: presenti; attestare: testimoniare; auspizi: auspici; avea: aveva; avvertirneli: avvertirli di; ovvi: c'è; beverete: berrete; cagionare: causare; cagione: causa; campo: spazio; cangiamento: trasformazione; cangiare: cambiare; capo: capitolo; che ti abbisogna: di che hai bisogno; colà: in quel luogo; commendevole: lodevole; commendevolissima: raccomandabile; comparisce: compare; complessione: costituzione fisica; conchiuse: concluse; copiosi: abbondanti; corpicciuolo: piccolo corpo; cotal: tale; danari: denari; dar campo: dare spazio; datore: dispensatore; debbe: deve; decorso: corso; di leggeri: facilmente; di poi: in seguito; dicea: diceva; dicevoli: convenienti; dimanda: domanda; dimandare: domandare; dimandato: domandato; dimandavano: domandavano; dimandò: domandò; dimani: domani; dimostrane: rimproveri; dipoi: in seguito; diportato: comportato; dirottissimo: incontenibile; disfogare: sfogare; dispregio: disprezzo; dissegli: gli disse; dissemi: mi disse; divotol a: devoto/ a; divozione: devozione; domesticamente: famigliarmente; durarla: continuare così; edifizi: edifici; egli è: è; eglino: essi; era per: stava per; eziandio: anche; fa cuore: coraggio; Tacciasi: si faccia; facea: faceva; facezia: scherzo; faceziando: scherzando; fallo: errore; fattogli: avendogli fatto; fe': fece; fecemi: mi fece; fecesi: si fece; fiate: volte; figliolanza: figli; figliuol: figliolo; fo: faccio; forestiere: forestiero; genitrice: madre; ginocchioni: in ginocchio; giogaie: cime; giovine: giovane; giubbetta: giacchetta; giudicio: giudizio; gratissima: piacevole; guardaronsi: si guardarono; guisa: modo; havvi: vi è; il destro: l'occasione; il sa: lo sa; il sapesse: lo sapesse; imperciocché: poiché; imperocché: poiché/infatti; impetrami: ottienimi; impreteribilmente: immancabilmente; in luogo di: invece di; indurvelo: indurlo a; inspirano: ispirano; instando: insistendo; instruiva: istruiva; interamente: totalmente; intermissione: sosta; intieramente: interamente; invigilare: vigilare; involò: rubò; ischivar: evitare; iscuola: scuola; !sgridateli: sgridateli; ispaventino: spaventino; ispecial: speciale; istanchezza: stanchezza; istantemente: con insistenza; istato: stato; istiamo: stiamo; istrascini: strascini; istrumentale: strumentale; istudiare: studiare; istudio: studio; istupore: stupore; ivi: qui; lacrimare: lacrimare; lagrime: lacrime; laonde: per cui; licenza: permesso; loquela: modo di parlare; mancamento: mancanza; maraviglial e: meraviglia/e; meravigliare: meravigliare; maraviglioso: meraviglioso; mentovate: citate; mentovato: citato; mercé cui: con i quali; mercede: ricompensa; mi avveggo: mi accorgo; minchionare: prendere in giro; mirava: guardava; nissun: nessun; nissuno: nessuno; niun: nessuno; niuno: nessuno; non di sorta: nessuna; notabilissimo: notevolissimo; nudrì: nutrì; nulladimeno: tuttavia; nuova: notizia; offerire: offrire; offeriva: offriva; ognor: sempre; opporsegli: opporsi a lui; ottienmi: ottienimi; palesandosi: mostrandosi; palesata rivelata; parimente/i: ugualmente; panni: mi pare; perciocché: perché; perocché: perché; poscia che: poiché; poscia: poi; potrebbesi: si potrebbe; primeggiare: essere tra i primi; proferire: dire; provasi: si prova; purità: castità; quegli: colui; raccomandarsegli: raccomandarsi a lui; raccomandossi: si raccomandò; raggiugnere: raggiungere; rammentare: ricordare; rattenendo: trattenendo; ravviso: vedo; regaluzzo: regalino; rendette: rese; replicatamente: ripetutamente; rianderemo: ripenseremo; ricordomi: mi ricordo; rimettere: restituire; rimirare: guardare; ritiratezza: vita ritirata; sanità: salute; sarebbesi: si sarebbe; scandere: scandire; scemando: diminuendo; scemare: diminuire; scorgiam: vediamo; sebben: sebbene; seco: con sé; secolui: con lui; sembiante: aspetto; si è: è; sì: così; siasi: si sia; siavi: vi sia; simiglianti: simili; sogliono: sono soliti; specchiata: esemplare; talor: talora; taluno: qualcuno; tenore: contenuto; tenor: modo; testimonio: testimone; tosto: subito; trar: trarre/attirare; trastullare: giocare; trastullarsi: giocare; trastullo: giuoco; triviali: ordinarie; trovossi: si trovò; uopo: scopo/fine; veggo: vedo; vegnente: successivo; vestimenta: vestiti; viemaggiormente: sempre di più; viemmeglio: meglio; vienmi: vienimi; vo: vado.
87 abbandonavali: li lasciava; accomunavasi: si metteva insieme; accostavasi: si accostava; alzavasi: si alzava; ammiravasi: si ammirava; andavasene: se ne andava; avvenivagli: gli capitava; chiamavalo: lo chiamava; chiamavasi: si chiamava; dicevagli: gli diceva; dicevami: mi diceva; dispensavasi: si esimeva; eragli: gli era; erangli: gli erano; eranmi: mi erano; erasi: si era; eravi: vi era; facevagli: gli faceva; facevalo: lo faceva; facevami: mi faceva; facevansi: si facevano; facevasi: si faceva; fermavasi: si fermava; guardavansi: si guardavano; imponevasi: si imponeva; incontravasi: si incontrava; insegnavasi: si insegnava; interrogavali: li interrogava; invitaveli: li invitava; lamentavasi: si lamentava; lanciavasi: si lanciava; lasciavale: le lasciava; lasciavasi: si lasciava; metteva-gli: gli metteva; mettevalo: lo metteva; mostravasi: si mostrava; offerivasi: si offriva; parevagli: gli sembrava; passavagli: gli passava; pensavasi: si immaginava; pregavali: li pregava; preparavasi: si preparava; presentavasi: si presentava; prestavasi: si prestava; privavasi: si privava; raccomandava-gli: gli raccomandava; raccomandavasi: si raccomandava; recavasi: si recava; recitavale: le recitava; recitavano: si recitavano; rendevagli: gli rendeva; ricordavasi: si ricordava; rifiutavasi: si rifiutava; rimiravansi: si ammiravano; rispondevagli: gli rispondeva; ritiravasi: si ritirava; sambravami: mi pareva; scrivevagli: gli scriveva; sembravaeni: mi sembrava; sentivansi: si sentivano; sentivasi: si sentiva; stavagli: gli stava; tenevansi: si tenevano; tornavagli: gli era; trattavasi: si trattava; trova-vasi: si trovava.
a. anno
aa. articoli
AAT Archivio Arcivescovile, Torino
APARC Archivio della Parrocchia Maria Assunta, Riva presso Chieri (Torino)
APSAC Archivio della Parrocchia S. Andrea, Castelnuovo Don Bosco (Asti)
APSGM Archivio della Parrocchia S. Giacomo Maggiore, Mondonio San Domenico Savio (Asti)
APSPPC Archivio della Parrocchia santi Pietro e Paolo, Carmagnola (Torino)
ASC Archivio Salesiano Centrale, Roma
aut. autografo
AVA Archivio Vescovile, Asti
B. V. Beata Vergine
c. capitolo
cav. cavaliere
cf. confronta/vedi
corr. corregge
D. don
ed. edizione
foglio
fase. fascicolo
ins. inserita/o
MB G.B. LEMOYNE - A. AMADEI - E. CERIA, Memorie biografiche di don [del venerabile servo di Dio I del beato / di san] Giovani Bosco, S. Benigno Canavese-Torino, Tipografia e Libreria Salesiana-Società Editrice Internazionale, 18981939, 19 voll.
mons. monsignore
ms. manoscritto
OE Giovanni Bosco, Opere edite. Prima serie: Libri e opuscoli, 37 vol., Roma,
LAS, 1976-1977
r retto
S. santo/santa
S. M. Sua Maestà
S. V. signoria vostra
s.d. senza data
sig. signor
SS. santi/santissimo/a
v. verso
vol. volume
________________________
Questa edizione della vita di Domenico Savio si attiene al testo dell'ultima edizione curata da don Bosco, la V ed. (Vita del giovanetto Savio Domenico allievo dell'Oratorio di S. Francesco di Sales con appendice sulle grazie ottenute per sua intercessione, per cura del sac. Giovanni Bosco, Torino, Tipografia e Libreria Salesiana, 51878, 158 p.), confrontata con le edizioni precedenti: I ed. (Vita del giovanetto Savio Domenico allievo dell'Oratorio di san Francesco di Sales, per cura del sacerdote Bosco Giovanni, Torino, Tip. G. B. Paravia e Comp., 1859, 142 p.); II ed. (Torino, Tip. Italiana di F. Martinengo e Comp., 21860, 176 p.); III ed. (Vita del giovanetto Savio Domenico allievo dell'Oratorio di san Francesco di Sales con appendice sulle grazie ottenute per sua intercessione; per cura del sacerdote Bosco Giovanni, terza edizione accresciuta, Torino, Tip. Italiana di Fr. Martinengo e Comp., 31861, 186 p.); IV ed. (Vita del giovanetto Savio Domenico allievo dell'Oratorio di s. Franc. di Sales con appendice sulle grazie ottenute per sua intercessione, per cura del sacerdote Bosco Giovanni, quarta edizione accresciuta, Torino, Tip. dell'Orat. di S. Frane. di Sales, 4 1 8 66, 156 p.); confrontata anche con la ristampa stereotipa della V ed. (Torino, Tipografia e Libreria Salesiana, 1880, 158 p.) e con l'edizione commentata da Alberto Caviglia (Opere e scritti editi e inediti di don Bosco, vol. IV, parte I: La vita di Domenico Savio, Torino, Società Editrice Internazionale, 1942, pp. 1-72). Abbiamo però tralasciato l'Appendice sopra alcune grazie ottenute da Dio ad intercessione di Savio Domenico (ed. 51878, pp. 130-153), introdotta in ed. 21860 (Grazie ottenute da Dio ad intercessione di Savio Domenico, pp. 152-172), con sette relazioni, che nell'ed. 3 1 8 6 1 salirono a dieci, mantenute invariate nelle edizioni successive.
In nota sono segnalate le varianti testuali più significative o le inserzioni operate nel corso delle varie edizioni. L'inserimento più consistente è costituito dall'intero capitolo XVI (Mortificazione in tutti i sensi esterni), aggiunto in ed. 21860). Quando ci è parso utile, abbiamo inserito nelle note altre informazioni di carattere documentario e storico.
Quando nel testo s'incontra un numero di rimando a nota di piè pagina racchiuso tra parentesi tonda (n) significa che tale nota era già nel testo originale o fu aggiunta in una delle successive edizioni.
Nella numerazione dei capitoli abbiamo conservato le cifre romane, come nelle edizioni originali.
Giovani carissimi,
voi mi avete più volte dimandato, giovani carissimi, di scrivervi qualche cosa intorno al vostro compagno Savio Domenico; ed io ho fatto quello che ho potuto per appagare questo vostro pio desiderio. Eccovi la vita di lui descritta con quella brevità e semplicità che so tornare a voi di gradimento.
Due difficoltà si opponevano alla pubblicazione di questo lavoro; la prima è la critica a cui per lo più va soggetto chi scrive cose delle quali havvi moltitudine di testimoni viventi. Questa difficoltà credo di aver superato col farmi uno studio di narrare unicamente le cose che da voi o da me furono vedute, e che quasi tutte conservo scritte e segnate di vostra mano medesima.
Altro ostacolo era il dovere più volte parlare di me, perciocché essendo questo giovane vissuto circa tre anni in questa casa, mi tocca sovente di riferire cose, a cui ho preso parte. Questo ostacolo credo pure di aver superato tenendomi al dovere dello storico, che è di scrivere la verità dei fatti, senza badare alle persone. Tuttavia se troverete qualche fatto, ove io parli di me con qualche compiacenza, attribuitela al grande affetto che io portava all'amico defunto e che porto a tutti voi; il quale affetto mi fa aprire a voi l'intimo del mio cuore, come farebbe un padre, che parla ai suoi amati figli.
Taluno di voi dimanderà, perché io abbia scritto la vita di Savio Domenico e non quella di altri giovani che vissero tra noi con fama di specchiata virtù. È vero, miei cari, la Divina Provvidenza si degnò di mandarci parecchi modelli di virtù; tali furono Fascio Gabriele, Rua Luigi, Gavio Camillo, Massaglia Giovanni', ed altri: ma le azioni di costoro non sono state ugualmente note e speciose come quelle del Savio, il cui tenor di vita fu notoriamente maraviglioso.
1 Gabriele Fascio (Fassio): morto all'Oratorio nel 1851 all'età di 13 anni (P. STELLA, Don Bosco nella storia economica e sociale. 1815-1870, Roma, LAS, 1980, 630); sul letto di morte avrebbe profetizzato lo scoppio della polveriera di Torino avvenuto il 26 apr. 1852 (G. Bosco, Memorie dell'Oratorio di S. Francesco di Sales dal 1815 al 1855, Roma, LAS, 2011, 192). Luigi Tommaso Rua: nato a Torino (7 mar. 1834) da Giovanni e Giovanna Maria Ferrero, fratello di d. Michele Rua; alunno esemplare dei Fratelli delle Scuole Cristiane, poi operaio nella "Fucina delle canne", frequentò l'Oratorio fin dall'inverno 1844; morì il 25 feb. 1851. Carlo Giuseppe Gavio (detto Camillo): nativo di Tortona (Alessandria), entrò nella casa dell'Oratorio nel nov. 1855 per seguire corsi di scultura all'Accademia Albertina; morì il 27 dic. 1855 (STELLA, Don Bosco nella storia economica e sociale, 214). Giovanni Celestino Filippo Massaglia: nato a Marmorito (Asti), il 1° mag. 1838, da Pietro Giovanni e Anna Maria Caresio; venne a Valdocco nel nov. 1853; il 30 sett. 1855 don Bosco lo vesti dell'abito clericale; per una grave malattia polmonare tornò in famiglia dove morì il 20 mag. 1856 (ibid., 214; cf. AAT, 12.12.3: Registrum clericorum 1808-1847, rubr. M, 1855).
Per altro, se Dio mi darà sanità e grazia, ho in animo di raccogliere le azioni di questi vostri virtuosi compagni, per essere in grado di appagare i vostri ed i miei desiderii col darvele a leggere e ad imitare in quello che è compatibile col vostro stato.
In questa quinta edizione poi, ho aggiunto varie notizie che spero la renderanno interessante anche a coloro che hanno già letto quanto si è nelle antecedenti edizioni stampato'.
Intanto cominciate a trar profitto da quanto vi verrò descrivendo; e dite in cuor vostro quanto diceva S. Agostino: Si ille, cur non ego? Se un mio compagno, della stessa mia età, nel medesimo luogo, esposto ai medesimi e forse maggiori pericoli, tuttavia trovò tempo e modo di mantenersi fedele seguace di Gesù Cristo, perché non posso anch'io fare lo stesso? Ricordatevi bene che la religione vera non consiste in sole parole; bisogna venire alle opere'. Quindi, trovando qualche cosa degna d'ammirazione, non contentatevi di dire questo è bello, questo mi piace. Dite piuttosto: voglio adoperarmi per far quelle cose che lette di altri, mi eccitano alla maraviglia.
Dio doni a voi e a tutti i lettori di questo libretto sanità e grazia per trar profitto di quanto ivi leggeranno; e la Vergine Santissima, di cui il giovane Savio era fervoroso divoto, ci ottenga di poter fare un cuor solo ed un'anima sola per amare il nostro Creatore, che è il solo degno di essere amato sopra ogni cosa, e fedelmente servito in tutti i giorni di nostra vita.
I genitori del giovinetto, di cui intraprendiamo a scrivere la vita, furono Savio Carlo e Brigida di lui consorte", poveri, ma onesti concittadini di Castelnuovo d'Asti (5), paese distante dieci miglia da Torino6.
2 In questa quinta stampato: corr. un testo ins. ed. 21860: «In questa seconda edizione poi, furono aggiunte varie importanti notizie che la renderanno interessante anche a coloro che hanno già letto quanto si è nella prima edizione stampato».
3 Cf. Gc 2,14-26.
4 Carlo Baldassarre Savio: nato a Ranello, frazione di Castelnuovo d'Asti, 1'8 nov. 1815, da Domenico e Caterina Chiara; rimasto vedovo nel 1871, venne accolto all'Oratorio, dove si rese utile come fabbro; mori a Valdocco il 16 dic. 1891. Brigida Rosa Anna Dorotea Gaiato: nata a Cerreto d'Asti il 2 feb. 1820 da Giuseppe e Teresa Tosino, di professione sarta; morì a Mondonio il 14 lug. 1871. Carlo e Brigida si sposarono il 1° mar. 1840 a Cerreto d'Asti (cf. estratto dell'atto di matrimonio in ASC A4920102); ebbero 10 figli: il primo, Domenico Carlo, visse pochi giorni (318 nov. 1840); il nostro Domenico fu il secondo; poi vennero Carlo (15-16 feb. 1844), Remondina (1845-1913), Maria (1847-1859), Giovanni (1850-1894), Guglielmo (1853-1865), Caterina (18561915?), Teresa (1859-1933), Luigia (1863-1864), cf. M, MOLINERIS, Nuova vita di Domenico Savio: quello che le biografie di san Domenico Savio non dicono, Colle Don Bosco (At), Ist. Sal. "Bernardi Semeria", 1974, 24.
5 «Anticamente appellavasi Castelnuovo di Rivalba, perché dipendeva dai conti Biandrate signori di questo paese. Circa l'anno 1300 essendo stato conquistato dagli astigiani, fu di poi detto Castelnuovo d'Asti. — In quel tempo era molto popolato di gente industriosa ed applicatissima al commercio, che andavano ad esercitare in varie città d'Europa. Fu patria di molti uomini celebri. Il famoso Argentero Giovanni, detto il gran medico di quel secolo, nacque in Castelnuovo d'Asti nel 1513; scrisse molte opere di vasta erudizione. Egli era molto pio ed assai divoto della gran madre di Dio, ed eresse in di Lei onore la cappella della B. V. del popolo nella chiesa parrocchiale di S. Agostino in Torino. Il suo corpo fu sepolto nella chiesa metropolitana con una onorevole iscrizione, che tuttora si osserva. Molti altri personaggi illustrarono questo paese. Ultimamente fu il sacerdote Giuseppe Cafasso, uomo commendevolissimo per pietà, scienza teologica e carità verso gli ammalati, carcerati, condannati al patibolo ed infelici di ogni genere. Nacque nel 1811 e mori nel 1860 (V. Casalis, diz.)» (nota ins. ed. 4 1 866). Questi cenni sono tratti da G. CASALIS, Dizionario geografico storico-statisticocommerciale degli Stati di S. M il Re di Sardegna, vol. IV, Torino, Cassone-Marzorati-Vercellotti, 1837, 196-200; un profilo del Cafasso è pubblicato nelle Letture cattoliche: G. Bosco, Biografia del sacerdote Giuseppe Caffasso esposta in due ragionamenti funebri, Torino, Tip. G.B. Paravia e Comp., 1860.
6 Castelnuovo d'Asti (oggi Castelnuovo Don Bosco): comune in prov. di Asti; contava allora 3.332 abitanti (censimento 1848), distribuiti tra il capoluogo e quattro borgate, Morialdo, Bardella, Nevissano, Ranello (cf. G. STEFANI, Dizionario generale geografico-statistico degli Stati Sardi desunto dalle più accreditate opere corografiche, dalle recenti statistiche officiali e da documenti inediti, Torino, Pomba, 1855, 272). Dieci miglia: 25 chilometri; il miglio piemontese corrispondeva a 2,5 chilometri (cf. G. Bosco, Il sistema metrico decimale ridotto a semplicità... ad uso degli artigiani e della gente di campagna, Torino, Gio. Battista Paravia e Comp., 1849, 45).
L'anno 1841, trovandosi i buoni coniugi in gravi strettezze e privi di lavoro, andarono a dimorare in Riva (7), paese distante due miglia da Chieri, ove il marito si diede a fare il fabbro-ferraio, mestiere a cui erasi nella sua giovinezza esercitato. Mentre dimoravano in questo paese, Dio benedisse il loro matrimonio concedendo un figliuolo, che doveva esser la loro consolazione. La nascita di lui avvenne il 2 di aprile 1842. Quando lo portarono ad esser rigenerato nelle acque battesimali, gl'imposero il nome di Domenico8, la qual cosa, sebben per sé sia indifferente, tuttavia fu soggetto di alta considerazione per il nostro fanciullo, siccome vedremo.
7 «Dicesi Riva di Chieri per distinguersi da altri paesi di questo nome. È distante quattro chilometri da Chieri. L'imperatore Federico con diploma del 1164 investi il conte Biandrate del dominio di Riva di Chieri. Di poi venne ceduto agli astigiani. Nel secolo decimo sesto passò sotto al dominio di Casa Savoia — Monsignor Agostino della Chiesa, e Bonino nella biografia medica parlano a lungo di molti celebri personaggi che ivi ebbero i loro natali» (nota ins. ed, 41 8 6 6). Le notizie su Riva presso Chieri sono tratte, con alcune sviste, da CASALI, Dizionario geografico, vol. XVI (1847), 243-248. In quegli anni Riva contava 2.869 abitanti (cf. STEFANI, Dizionario generale, 986).
8 Nacque alle nove del mattino; battezzato lo stesso giorno, «alle ore cinque 'di sera», gli furono imposti i nomi di Domenico Giuseppe (in onore dei nonni); padrini furono il falegname Giovanni Batt. Gianoglio e la contadina Luigia Savio (cf. APARC, Liber baptizatorum, 1842, atto n. 30; ASC A4920103: Estratto dell'Atto di nascita e battesimo).
Compieva Domenico il secondo anno di sua età, quando per alcune convenienze di famiglia, i suoi genitori deliberarono di ritornare in patria, e andarono a fissare la loro dimora in Morialdo, borgata di Castelnuovo d'Asti'.
Le sollecitudini dei buoni genitori erano tutte rivolte a dare una cristiana educazione al loro fanciullo, che fin d'allora formava l'oggetto delle loro compiacenze. Egli aveva sortito dalla natura un'indole buona, un cuore propriamente nato per la pietà. Apprese con maravigliosa facilità le preghiere del mattino e della sera, ed all'età di soli quattro anni già recitavate da sé. Anche in quella età di naturale divagazione egli dipendeva in tutto e per tutto dalla sua genitrice; e se qualche volta da lei si allontanava era solamente per mettersi in qualche cantuccio della casa e fare con maggior libertà preghiere lungo il giorno.
«Fin dalla più tenera età, affermano i suoi genitori, nella quale per mancanza di riflessione i fanciulli sono un disturbo e cruccio continuo per le madri, età in cui tutto vogliono vedere, toccare e per lo più guastare, il nostro Domenico non ci diede mai il minimo dispiacere. Non solo era ubbidiente, pronto a qualsiasi nostro comando, ma si studiava di prevenire le cose, che egli scorgeva tornare a noi di gradimento».
Erano poi curiose e nel tempo stesso piacevoli le accoglienze che faceva al padre quando lo vedeva giungere a casa, dopo i suoi ordinari lavori. Correva ad incontrarlo e presolo per mano e talor saltandogli al collo, «caro papà, gli diceva, quanto siete stanco! non è vero? voi lavorate tanto per me ed io non sono buono ad altro che a darvi fastidio; io pregherò il buon Dio che doni a voi la sanità, e che mi faccia buono». Così dicendo lo accompagnava in casa, gli presentava la sedia o lo scanno perché vi si sedesse; gli teneva compagnia e gli faceva mille carezze. Questo, dice il padre, era per me un dolce conforto nelle mie fatiche, ed io era come impaziente di giungere a casa per imprimere un tenero bacio al mio Domenico, che possedeva tutti gli affetti del mio cuore.
La sua divozione cresceva più dell'età, ed a soli quattro anni non occorreva più di avvisarlo di recitare le preghiere del mattino e della sera, prima e dopo il cibo, dell'Angelus; che anzi egli medesimo invitava gli altri di casa a recitarle qualora se ne fossero dimenticati.
Avvenne che un giorno i suoi parenti distratti da alcuni schiamazzi si posero senz'altro a desinare. «O papà, disse l'attento Domenico, non abbiamo ancora invocato la benedizione del Signore sopra i nostri cibi». Ciò detto cominciò egli stesso a fare il segno della santa croce e a recitare la solita preghiera. Altra volta un forestiere accolto in casa sua si pose parimenti a mangiare senza fare alcun atto di religione.
9 Don Bosco scrive Murialdo, secondo la pronuncia dialettale. La casa dove abitavano i Savio si trovava a un centinaio di passi dalla cappella di Morialdo. La famiglia si trasferì a Morialdo nel nov. 1843 (in quel tempo contratti agricoli e traslochi avvenivano intorno all'I 1 nov. festa di san Martino); là, il 15 feb, 1844, nacque il terzogenito Carlo che visse un solo giorno (cf. APSAC, Liber mortuorum, 1844).
Domenico non osando avvisarlo si ritirò afflitto in un angolo della casa. Interrogato di poi dai suoi parenti intorno a tale novità rispose: «Io non ho osato pormi a tavola con uno che si mette a mangiare come fanno le bestie»10.
Qui ci sono cose che appena si crederebbero, se chi le asserisce non escludesse i nostri dubbi. Io mi attengo alla relazione che il cappellano di quella borgata (11) ebbe la cortesia dì farmi intorno a quel suo caro alunno.
«Nei primi giorni, egli dice, che io sono venuto a questa borgata di Morialdo, vedeva spesse volte un fanciullo di forse cinque anni venire alla chiesa in
compagnia di sua madre. La serenità del suo sembiante, la compostezza della persona, il suo atteggiamento divoto, trassero sopra di lui gli sguardi miei e gli sguardi degli altri. Che se giunto alla chiesa l'avesse trovata chiusa, allor succedeva un ameno spettacolo. Ben lungi dallo scorrazzare o schiamazzare da sé o con altri, come sogliono fare i ragazzi di tale età, egli recavasi sul limitare della porta, si metteva in ginocchio e col capolino chinato e colle innocenti manine giunte dinanzi al petto fervorosamente pregava finché venisse aperta la chiesa. Si noti che talvolta il terreno era coperto di fango, oppure cadeva neve o pioggia; ma egli a nulla badava e vi si metteva egualmente ginocchioni a pregare'''. Maravigliato e mosso da pia curiosità ho voluto sapere chi fosse quel fanciullo, che era divenuto l'oggetto della mia ammirazione, e seppi essere il figliuolo del ferrai() Carlo Savio.
10 Avvenne ... bestie: paragrafo ins. ed. 4 1 866 .
11 Nota della I ed. (1859), aggiornata ed. 41 8 6 1 : «Cappellano di questa Borgata era allora il sac. Zucca Giovanni di Moriondo; ora domiciliato in patria sua»; nella I ed. diceva: «ora dimorante a Buttigliera d'Asti». Giovanni Battista Zucca: nato a Moriondo Torinese (26 mar. 1818) da Giovanni Battista e Maria Caterina Lusso; come don Bosco fece la vestizione ecclesiastica nell'ott. 1835 e fu suo compagno nel seminario di Chieri; dopo l'ordinazione sacerdotale (21 mag. 1842) prestò servizio come maestro elementare e cappellano fino alla morte, avvenuta il 16 ott. 1878 nella borgata Bausone di Moriondo (cf. AAT 12.12.3: Registrum clericorum 1808-1847, rubr. Z, 1835; AAT 12.3.12: Registrum ordinationum 1836-1847; Calendarium liturgicum archidioecesis taurinensis... servandum anno MDCCCLXXIX, Augustae Taurinorum, Botta, 1878, 86; MOLINERIS, Nuova vita di Domenico Savio, 63).
12 e vi si metteva ... a pregare: espressione ins. nell'ed. 41866, in sostituzione della precedente: «e mettevasi colà per pregare».
Quando poi m'incontrava per la strada cominciava di lontano a dar segni di compiacenza, e con un'aria veramente angelica preveniva rispettosamente il mio saluto. Cominciò egli pure a venire alla scuola, e poiché era fornito d'ingegno ed assai diligente nell'adempimento dei suoi doveri, fece in breve tempo notevole progresso nello studio. Egli era costretto a conversare con giovani discoli e divagati, ma non mi è mai accaduto di vederlo in contesa. Se poi fosse avvenuto qualche alterco, egli, sopportando con pazienza gl'insulti dei compagni, tosto da loro si allontanava. Né mi ricordo di averlo veduto a prendere parte a divertimenti pericolosi, a dare il minimo disturbo nella scuola. Anzi molti compagni lo invitavano ad andare seco loro a fare delle burle a persone d'età avanzata, a scagliar sassi, a rubar frutta altrui o a cagionar guasti nelle campagne; ma egli destramente sapeva disapprovare la loro condotta e rifiutavasi dal prendervi parte.
La pietà già dimostrata pregando sul limitare della chiesa non venne meno col crescere dell'età. Di cinque anni egli aveva già imparato a servire la santa Messa e la serviva divotissimamente. Ogni giorno vi andava, e se altri voleva servirla, egli la ascoltava, altrimenti vi si prestava con un contegno il più edificante. Siccome era giovane d'età e piccolo di statura13, non poteva trasportare il messale; ed era cosa curiosa il vederlo avvicinarsi ansioso all'altare, levarsi sulla punta dei piedi, tendere quanto poteva le braccia, fare ogni sforzo per toccare il leggio. Se il sacerdote od altri avesse voluto fargli la cosa più cara al mondo, doveva non già trasportare il messale, ma avvicinargli il leggio tanto che lo potesse raggiugnere; ed allora egli con gioia lo portava all'altro lato dell' altare".
Si confessava con frequenza, e come fu capace di distinguere il pane celeste dal pane terreno, venne ammesso alla santa comunione, che egli riceveva con una divozione veramente ammirabile. Alla vista di quei belli lavori, che la grazia Divina compieva in quell'anima innocente, ho più volte detto tra me: Ecco un giovinetto di ottime speranze. Dio voglia che gli si apra una strada per condurre a maturità frutti così preziosi» (fin qui il cappellano di Morialdo)15.
13 La statura di Domenico al momento della morte, secondo il prof. Francesco Volante che fece la ricognizione della salma, «si può ritenere di metri 1,50 circa» (cf. ASC A4920119, lett. F. Volante - F. Giraudi, 18 feb. 1950).
14 Il racconto è basato su una memoria raccolta da Michele Rua (ASC A4920138: Memorie su Domenico Savio, ms. Rua, s.d.,f1r).
15 La lettera di don Zucca, qui riprodotta con integrazioni e adattamenti, è conservata in ASC A4920130: lett. G.B. Zucca - G. Bosco, 6 mag. 1857.
Nulla mancava a Domenico per essere ammesso alla prima comunione. Sapeva a memoria tutto il piccolo catechismo; aveva chiara cognizione di questo augusto sacramento, e ardeva dal desiderio di accostarvisi. Soltanto l'età se gli opponeva, perciocché nei villaggi ordinariamente non si ammettono i fanciulli a fare la prima comunione se non agli undici o dodici anni compiuti". Il Savio correva soltanto il settimo anno di sua età. Oltre la fanciullesca sembianza" aveva un corpicciuolo che lo faceva parer ancor più giovane; sicché il cappellano esitava a promuoverlo. Ne dimandò anche consiglio ad altri sacerdoti, i quali ponderata bene la cognizione precoce, l'istruzione ed i vivi desideri di Domenico, lasciarono da parte tutte le difficoltà, e lo ammisero a partecipare per la prima volta al cibo degli angeli".
È assai difficile esprimere gli affetti di santa gioia, di cui gli riempì il cuore un tale annunzio. Corse a casa e lo disse con trasporto alla madre; ora pregava, ora leggeva; passava molto tempo in chiesa prima e dopo la messa, e pareva che l'anima sua abitasse già cogli angeli del cielo. La vigilia del giorno fissato per la comunione' 9 chiamò la sua genitrice: «Mamma, le disse, domani vo a fare la mia comunione; perdonatemi tutti i dispiaceri che vi diedi per il passato: per l'avvenire vi prometto di essere molto più buono; sarò attento alla scuola, ubbidiente, docile, rispettoso a quanto sarete per comandarmi». Ciò detto fu commosso e si mise a piangere. La madre, che da lui non aveva ricevuto altro che consolazioni, ne fu ella pure commossa e rattenendo a stento le lacrime lo consolò dicendogli: «Va' pure tranquillo, caro Domenico, tutto è perdonato: prega Iddio che ti conservi sempre buono, pregalo anche per me e per tuo padre».
16 Nel passato a Castelnuovo si ammettevano i ragazzi alla comunione «all'età di 12 anni, scorgendosi però in essi una tal quale capacità e sodezza» (cf. Relazione dello stato della Parrocchia di S. Andrea Apostolo del luogo di Castelnuovo d'Asti [1825], in AAT 8.2.12: Relazione sullo stato delle chiese, vol. 11, f471r); tuttavia, alla fine degli anni '40, i giovani sacerdoti influenzati dalla morale alfonsiana e dalla scuola del Convitto, cominciavano, in alcuni casi, ad anticipare l'età.
17 sembianza: correzione nell'ed. 41866 del precedente: età.
18 Don Bosco attinge ad una testimonianza raccolta da Michele Rua: «Il cappellano che doveva promuoverlo stava in dubbio per cagione dell'età ancor sì tenera; ma chiesto consiglio ad altri sacerdoti che conoscevano anche il fanciullo, lo esortarono a promuoverlo, affinché un angioletto qual era s'accostasse alla mensa degli angeli», ASC A4920138: Memorie su Domenico Savio. Ms. Rua, s.d., fl r).
19 La prima comunione si faceva solitamente la domenica di Pasqua, il lunedì dell'Angelo o la domenica in Albis (nel 1849 cadevano rispettivamente 1'8, il 9 e il 15 aprile).
Al mattino di quel memorando giorno si levò per tempo e, vestitosi dei suoi abiti più belli, andò alla chiesa che trovò ancor chiusa. S'inginocchiò, come già aveva fatto altre volte, sul limitare di quella e pregò finché giungendo altri fanciulli ne fu aperta la porta. Tra le confessioni, preparazione e ringraziamento della comunione la funzione durò cinque ore. Domenico entrò il primo in chiesa e ne usci l'ultimo. In tutto quel tempo egli non sapeva più se fosse in cielo o in terra.
Quel giorno fu per lui sempre memorabile e si può chiamare vero principio o piuttosto continuazione di una vita, che può servire di modello a qualsiasi fedel cristiano. Parecchi anni dopo facendolo parlare della sua prima comunione, gli si vedeva ancor trasparire la più viva gioia sul volto. «Oh! quello, soleva dire, fu per me il più bel giorno ed un gran giorno». Si scrisse alcuni ricordi che conservava gelosamente in un libro di divozione e che spesso leggeva. Io ho potuto averli tra le mani e li inserisco qui nella loro originale semplicità. Erano di questo tenore:
«Ricordi fatti da me Savio Domenico l'anno 1849 quando ho fatta la prima comunione essendo di 7 anni.
1° Mi confesserò molto sovente e farò la comunione tutte le volte che il confessore mi darà licenza.
2° Voglio santificare i giorni festivi.
3° I miei amici saranno Gesù e Maria.
4° La morte, ma non peccati».
Questi ricordi, che spesso andava ripetendo, furono come la guida delle sue azioni sino alla fine della vita.
Se tra quelli che leggeranno questo libretto vi fosse mai chi avesse ancora da fare la prima comunione, io vorrei caldamente raccomandargli di farsi modello il giovane Savio. Ma raccomando poi quanto so e posso ai padri, alle madri di famiglia e a tutti quelli che esercitano qualche autorità sulla gioventù, di dare la più grande importanza a questo atto religioso. Siate persuasi che la prima comunione ben fatta pone un solido fondamento morale per tutta la vita"; e sarà cosa strana che si trovi alcuno che abbia compiuto bene quel solenne dovere, e non ne sia succeduta una vita buona e virtuosa. Al contrario si contano a migliaia i giovani discoli, che sono la desolazione dei genitori e di chi si occupa di loro; ma se si va alla radice del male si conosce, che la loro condotta cominciò ad apparire tale nella poca o nessuna preparazione alla prima comunione. È meglio differirla, anzi è meglio non farla, che farla male.
20 ben fatta ... per tutta la vita: ins. ed. 51878, per modificare il precedente: è l'elemento di tutta la vita.
Compiute le prime scuole, Domenico avrebbe già dovuto molto prima essere inviato altrove per proseguire i suoi studi, il che non poteva fare in una cappellania di campagna. Ciò desiderava Domenico, ciò eziandio stava molto a cuore ai genitori di lui. Ma come effettuarlo mancando affatto i mezzi pecuniari? Iddio, padrone supremo di tutte le cose, provvederà i mezzi necessari affinché questo fanciullo possa camminare per quella carriera a cui lo chiama. «Se io fossi un uccello, diceva talvolta Domenico, vorrei volare mattina e sera a Castelnuovo e così continuare le mie scuole».
Il suo vivo desiderio di studiare gli fece superare ogni difficoltà e risolse di recarsi alla scuola municipale del paese, sebbene vi fosse la distanza di quasi due miglia. Ed ecco un fanciullo appena di dieci anni intraprendere un cammino di sei miglia al dì tra andata e ritorno dalla scuola21. Talvolta vi è un vento molesto, un sole che cuoce, un fango, una pioggia che opprimono. Non importa, si tollerano tutti i disagi e si superano tutte le difficoltà; egli vi trova l'ubbidienza ai suoi genitori, un mezzo per imparare la scienza della salute, e questo basta per fargli tollerare con piacere ogni incomodo. Una persona alquanto attempata vedendo un giorno Domenico solo andare a scuola alle due pomeridiane mentre sferzava un cocente sole, quasi per sollevarlo gli si avvicinò e gli tenne questo discorso:
— Caro mio, non hai timore a camminare tutto solo per queste strade?
— Io non sono solo, ho l'angelo custode che mi accompagna in tutti i passi. — Almeno ti sarà penosa la strada per questo caldo, dovendola fare quattro volte al giorno!
— Niente è penoso, niente è fatica quando si lavora per un padrone che paga molto bene.
— Chi è questo padrone?
— È Dio creatore che paga un bicchiere d'acqua dato per amor suo".
Quella medesima persona raccontò questo episodio ad alcuni suoi amici, e finiva sempre il suo discorso dicendo: «Un giovinetto di così tenera età, che già nutriste tali pensieri, farà certamente parlare di sé in quella carriera che sarà per intraprendere».
Nell'andare e venire da scuola egli corse un grave pericolo per l'anima a motivo di alcuni compagni.
21 sei miglia: 15 chilometri.
22 Cf. Mt 10,42.
Sogliono molti giovanetti nei caldi estivi andarsi a bagnare ora nei fossi, ora nei ruscelli, ora negli stagni e simili. Il trovarsi più fanciulli insieme, svestiti e talvolta in luoghi pubblici a bagnarsi, riesce cosa pericolosa per il corpo, a segno che noi dobbiamo pur troppo spesse volte lamentare annegamenti di ragazzi e di altre persone, che terminano la loro vita affogati nell'acqua; ma il pericolo è assai maggiore per l'anima. Quanti giovanetti deplorano la perdita della loro innocenza ripetendone la cagione dall'essere andati a bagnarsi con quei compagni in quei luoghi malaugurati!
Parecchi condiscepoli del Savio avevano l'abitudine di andarvi. Non paghi di andarvi eglino stessi, volevano condurre seco loro anch'esso ed erano riusciti a sedurlo una volta. Ma essendo stato avvertito che tal cosa era male, si mostrò profondamente addolorato; né fu mai possibile indurvelo di nuovo, anzi deplorò e pianse più volte il pericolo in cui si era messo riguardo all'anima e riguardo al corpo". Tuttavia due compagni dei più disinvolti e ciarlieri gli diedero un nuovo assalto, parlando così:
— Domenico vuoi venire con noi a fare una partita? — Che partita? — Una partita a nuotare?
— Oh no! io non ci vado, non sono pratico, temo di morir nell'acqua.
— Vieni, fa molto piacere. Quelli che vanno a nuotare non sentono più il caldo, hanno molto buon appetito, ed acquistano molta sanità. — Ma io temo di morire nell'acqua.
— Oibò, non temere, noi t'insegneremo quanto è necessario; comincerai a vedere come facciamo noi, e poi farai tu altrettanto. Tu ci vedrai a camminare nell'acqua come pesci, e faremo salti da gigante.
— Ma non è peccato l'andar in quei luoghi dove sono tanti pericoli?24
23 ed erano riusciti ... al corpo: ins. ed. 21860, a seguito di un'obiezione fatta da un allievo dell'Oratorio, secondo il quale Domenico avrebbe ceduto alle insistenze dei compagni. G.B. Lemoyne riferisce la reazione di don Bosco durante una "buona notte", ricostruendone il discorso: «In questi giorni avete udite alcune osservazioni sopra certi fatti della vita di Savio Domenico, vostro compagno, e, fra le altre cose, che io era incolpato di aver detto una bugia. Si negò che Savio si fosse rifiutato di andare al bagno. si è vero: andò a bagnarsi!... Nel racconto però bisogna distinguere due circostanze. Egli fu invitato due volte. La prima si lasciò condurre, ma ritornato a casa e narrato alla madre quanto gli era occorso, da essa fu avvertito di non andar più. E il povero Savio pianse tanto quando conobbe di aver fatto male! Ma la seconda volta invitato si rifiutò risolutamente. Io volli solamente scrivere e pubblicare della seconda, perché nell'Oratorio vi è quel compagno che avealo condotto una volta e tentato di condurlo un'altra. L. .1 Sappiate adunque che io per risparmiare una triste figura al compagno vivente e per nascondere ciò che doveva formare il suo eterno rimorso, il pericolo cioè al quale si era esposto di tradire un amico, ho narrato solo del secondo fatto. Egli volle scoprirsi da sé» (MB 7,148-149). Il compagno in questione potrebbe essere Giuseppe Antonio Zucca, nato a Castelnuovo il 4 mag. 1843, entrato all'Oratorio il 14 ott. 1856 (cf. APSAC: Liber baptizatorum, 1843; ASC E720: Censimento dal 1847 al 1869).
24 dove sono tanti pericoli: ins. ed. '1878.
— Niente affatto; anzi ci vanno tutti.
— L'andarvi tutti non dimostra che non sia peccato.
— Se non vuoi tuffarti nell'acqua, comincerai a vedere gli altri.
— Basta, io sono imbrogliato, e non so che dire".
— Vieni, vieni: sta' sulla nostra parola: non c'è male, e noi ti libereremo da ogni pericolo.
— Prima di fare quanto mi dite, voglio dimandare licenza a mia madre: se ella mi dice di sì ci andrò; altrimenti non ci vado.
— Sta' zitto, minchione; guardati bene dal dirlo a tua madre; essa non ti lascerà certamente venire, anzi lo dirà ai nostri genitori e ci faranno passare il caldo con buoni colpi di bacchetta26.
— Oh! se mia madre non mi lascia andare, è segno che è cosa malfatta; perciò non ci vado; se poi volete che vi parli schiettamente, vi dirò che fui ingannato e vi andai una volta sola, ma non ci andrò mai più per l'avvenire; perché in tali luoghi havvi sempre pericolo o di morire nell'acqua, o di offendere altrimenti il Signore". Né statemi più a parlarmi di nuoto; se tal cosa dispiace ai vostri genitori, voi non dovreste più farla; perché il Signore castiga quei figliuoli che fanno cose contrarie ai voleri del padre e della madre.
Così il nostro Domenico, dando una savia risposta a quei cattivi consiglieri, evitava un grave pericolo, in cui se si fosse precipitato, avrebbe forse perduto l'inestimabile tesoro dell'innocenza a cui tengono dietro mille tristi conseguenze.
Nel frequentare questa scuola, egli cominciò ad imparare il modo di regolarsi coi suoi compagni. Se egli vedeva un compagno attento alla scuola, docile, rispettoso, che sapesse bene le lezioni, che facesse i suoi lavori, e che fosse lodato dal maestro, questi diveniva tosto l'amico di Domenico. Eravi un discolo, un insolente, che trascurasse i suoi doveri, parlasse male o bestemmiasse? Domenico lo fuggiva come la peste. Quelli poi che erano un po' indolenti ei li salutava, loro rendeva qualche servizio, qualora ne fosse caso, ma non contraeva seco loro alcuna famigliarità.
25 Nella I ed. (1859) questa battuta era preceduta da un'altra, soppressa nelle ed. successive: «Se è male andare credo che sia anche male il vedere gli altri».
26 ci faranno ... bacchetta: ins. ed. 4 1 866.
27 se poi volete ... il Signore: ins. ed. 21860,
La condotta da lui tenuta nella scuola di Castelnuovo d'Asti può servire di modello a qualsiasi giovane studente, che desideri progredire nella scienza e nella pietà. Su tal proposito io trascrivo la giudiziosa relazione scritta dal suo maestro D. Allora sac. Alessandro, tuttora maestro comunale di questo capoluogo di mandamento". Eccone il tenore:
«Molto mi compiaccio di esporre il mio giudicio intorno al giovinetto Savio Domenico che in breve tempo seppe acquistarsi tutta la mia benevolenza, sicché io l'ho amato colla tenerezza di un padre. Aderisco di buon grado a questo invito, perché conservo ancora viva, distinta e piena memoria del suo studio, della sua condotta e delle sue virtù.
Non posso dire molte cose della sua condotta religiosa, perché, dimorando assai distante dal paese era dispensato dalla congregazione, a cui se fosse intervenuto avrebbe certamente fatto risplendere la sua pietà e divozione.
Compiuti gli studi di la elementare in Morialdo, questo buon fanciullo chiese ed ottenne distintamente l'ammissione alla mia scuola di 2a elementare, propriamente il 21 giugno 185229; giorno dagli scolari dedicato a S. Luigi, protettore della gioventù. Egli era di una complessione alquanto debole e gracile, di aspetto grave misto al dolce con un non so che di grande e piacevole. Era d'indole mitissima e dolcissima, di un umore sempre uguale. Aveva costantemente tale contegno nella scuola e fuori, in chiesa ed ovunque, che quando l'occhio, il pensiero od il parlare del maestro volgevasi a lui, vi lasciava la più bella e gioconda impressione. La qual cosa per un maestro si può chiamare uno dei cari compensi delle dure fatiche, che spesso gli tocca di sostenere indarno nella coltura di aridi e mal disposti animi di certi allievi. La onde posso dire che egli fu Savio di nome e tale pur sempre si mostrò col fatto, vale a dire nello studio, nella pietà, nel conversare coi suoi compagni ed in ogni sua azione. Dal primo giorno che entrò nella mia scuola sino alla fine di quell'anno scolastico e nei quattro mesi dell'anno successivo ei progredì nello studio in modo straordinario.
28 Alessandro Giuseppe Allora: nato a Castelnuovo d'Asti (18 gen. 1819) dal chirurgo Giuseppe e da Irene Vairo; conobbe Giovanni Bosco a Chieri nelle scuole pubbliche e in seminario; fece la vestizione ecclesiastica il 22 ott. 1837; fu ordinato sacerdote il 1° giu. 1844 (cf. AAT 12.12.3: Registrum clericorum 1808-1847, rubr. A, 1837; AAT 12.3.12: Registrum ordinationum 1836-1847); frequentò il Convitto ecclesiastico e fu amico di don Cafasso, con cui ebbe una corrispondenza epistolare (cf. G. COLOMBERO, Vita del servo di Dio D. Giuseppe Cafasso, con cenni sul Convitto ecclesiastico di Torino, Torino, Fratelli Canonica, 1895, 404-431); per tutta la vita fu maestro e cappellano; morì a Castelnuovo il 3 mar. 1885 (Calendarium liturgicum... anno MDCCCXXXVI, Taurini, Botta, 1885, 115).
29 Il 21 giu. Domenico, superato il prescritto esame, venne ammesso alla classe superiore; l'anno scolastico si concludeva a fine sett., ma secondo la prassi si poteva passare a classe superiore anche durante il corso dell'anno.
Egli si meritò costantemente il primo posto di suo periodo, e le altre onorificenze della scuola e quasi sempre tutti i voti di ciascuna materia, che di mano in mano si andava insegnando. Tal felice risultato nella scienza non è solo da attribuirsi all'ingegno non comune, di cui egli era fornito, ma eziandio al grandissimo suo amore allo studio ed alla sua virtù.
È poi degna di speciale ammirazione la diligenza con cui procurava di adempiere i più minuti doveri di scolaro cristiano e segnatamente l'assiduità e la costanza mirabile nella frequenza della scuola. Di modo che, debole quale egli fu sempre di salute, percorreva ogni giorno oltre 4 chilometri di strada, il che ripeteva pur quattro fiate tra l'andata ed il ritorno. E ciò faceva con maravigliosa tranquillità d'animo e serenità di aspetto anche sotto l'intemperie della stagione invernale, per crudo freddo, per pioggia o neve, cosa che non poteva a meno di essere riconosciuta dal proprio maestro per prova ed esempio di raro merito. Ammalando frattanto sì degno alunno nel corso dello stesso anno 1852-53, ed i parenti di lui mutando successivamente domicilio, fu cagione che con mio vero rincrescimento non ho più potuto continuare l'insegnamento ad un sì caro allievo, le cui sì grandi e bellissime speranze andavano scemando col crescere dei timori, ch'io aveva che non potesse più proseguire gli studi per mancanza di salute o di mezzi di fortuna.
Mi riuscì poi di grande consolazione quando seppi che egli era stato accolto fra i giovani dell'Oratorio di S. Francesco di Sales, essendogli così aperta la via alla coltura del raro suo ingegno e della sua luminosa pietà» (fin qui il maestro di scuola)".
Pare che la divina provvidenza abbia voluto far vedere a questo giovanetto che codesto mondo è un vero esilio ove andiamo di luogo in luogo pellegrinando32; o meglio abbia voluto che egli andasse a farsi conoscere in diversi paesi e così mostrarsi in più luoghi esimio specchio di virtù.
30 La testimonianza di don Alessandro Allora, qui riprodotta fedelmente, è conservata in ASC A4920131: lett. A. Allora - G. Bosco, 25 ago. 1857.
31 «Mondonio, o Mondomio, oppure Mondone è un piccolo paese di circa 400 abitanti; distante due miglia da Castelnuovo d'Asti, con cui ha facile relazione per mezzo di una strada che ultimamente fu praticata mediante il traforo di una collina — Vi sono memorie di questo paese che rimontano al 1034. Passò al dominio di Casa Savoia col trattato di Cherasco del 1631 (V. Casalis, diz.)» (nota ins. ed. 4l866). Le notizie sono tratte da CASALIS, Dizionario geografico, vol. X (1842), 600-601. Nel 1847 gli abitanti di Mondonio erano 430 (cf. Notizie della parrocchia di Mondonio da darsi in occasione della visita pastorale di Sua Ecc. Reuma Mons. Filippo Artico, ms. del prevosto Domenico Grassi, 18 ago.1847, in AVA: Relazioni per visite pastorali, 1847).
32 Cf. 2 Cor 5,6-7.
Sul finire dell'anno 1852 i genitori di Domenico da Morialdo andarono a fissar la loro dimora in Mondonio", che è un piccolo paese confinante con Castelnuovo. Egli continuò colà nel tenor di vita praticato in Morialdo ed a Castelnuovo; perciò dovrei ripetere le cose che di lui scrissero gli antecedenti suoi maestri; giacché il signor D. Cugliero (34), che l'ebbe a scolaro, fa una relazione quasi simile. Io trascelgo da essa solamente alcuni fatti speciali, omettendo il rimanente per non fare ripetizioni.
«Io posso dire, egli scrive, che in venti anni da che attendo ad istruire i ragazzi non ne ebbi mai alcuno che abbia pareggiato il Savio nella pietà. Egli era giovane di età, ma assennato al pari di un uomo perfetto. La sua diligenza, assiduità allo studio, e l'affabilità si cattivavano l'affetto del maestro e lo rendevano la delizia dei compagni. Quando lo rimirava in chiesa, io era compreso da alta meraviglia nel vedere tanto raccoglimento in un giovanetto di così tenera età. Più volte ho detto tra me stesso: Ecco un'anima innocente, cui si aprono le delizie del paradiso, e che coi suoi affetti va ad abitare cogli angeli del cielo».
Tra i fatti speciali il suo maestro annovera il seguente: «Un giorno fu fatta una mancanza tra i miei allievi, e la cosa era tale che il colpevole meritava l'espulsione dalla scuola. I delinquenti prevengono il colpo, e portandosi dal maestro si accordano di gettare tutta la colpa sopra il buon Domenico. Io non poteva crederlo capace di simile disordine; ma gli accusatori seppero dare tale colore di verità alla calunnia che dovetti crederla. Entro adunque nella scuola giustamente sdegnato per il disordine avvenuto; parlo al colpevole in genere; poi mi volgo al Savio, e "Questo fallo, gli dico, bisognava che fosse commesso da te? non meriteresti di essere sull'istante cacciato dalla scuola?
33 Il trasferimento avvenne forse nell'inverno 1852-1853 (MouNEius, Nuova vita di Domenico Savio, 83, lo colloca nel feb. 1853): infatti don Allora scrive che Domenico fu suo allievo solo «per pochi mesi» (ASC A4920131, lett. A. Allora - G.Bosco, 25 ago. 1857, flv); d'altra parte il settimo figlio dei Savio, Guglielmo, nacque in Mondonio il 20 apr. 1853 (cf. APSGM: Liber baptizatorum, an. 1853). Domenico ricevette la cresima nella parrocchia di Castelnuovo (13 apr. 1853) da mons. Luigi Moreno vescovo d'Ivrea (ASC 14020104: Estratto di Atto di Cresima), ma in quell'occasione i cresimandi, che erano «più di 800», confluirono da varie parrocchie limitrofe, quindi si può pensare che i Savio abitassero già a Mondonio (cf. MOLINERIS, Nuova vita di Domenico Savio, 87).
34 Nota ins. ed. 1859, aggiornata nell'ed. 51878: «Il Sac. Cugliero Giuseppe, dopo aver passati alcuni anni in qualità di Cappellano beneficiato a Pino di Chieri, dopo una vita esemplare riposava nel Signore in quello stesso paese»; nella I ed. (1859) diceva: «Il Sac. Cugliero Giuseppe presentemente è Cappellano beneficiato a Barbasio, borgata di Moncucco». Giuseppe Giovanni Cugliero (Curriero), nato a Pino Torinese (27 giu. 1808) da Antonio e Margherita Casalegno; fece la vestizione chiericale il 27 ott. 1827 e fu ordinato sacerdote il 24 mag. 1834 (cf. AAT 12.12.3: Registrum clericorum 1808-1847, rubi-. C, 1827; AAT 12.3.11: Registrum ordinationum 1834-1835); finì i suoi anni come cappellano a Pino Torinese (fraz. Podio), dove morì il 1° giu. 1880 (Calendarium liturgicum... anno MDCCCXXX, Augustae Taurinorum, Botta, 1879, 83).
Buon per te che è la prima che mi fai di questo genere, altrimenti..., fa' che sia pur l'ultima". Domenico avrebbe potuto dire una parola sola in discolpa, e la sua innocenza sarebbe stata conosciuta. Ma egli si tacque: chinò il capo, e a guisa di chi è con ragione rimproverato, più non alzò gli occhi. Ma Dio protegge gl' innocenti, e il dì seguente furono scoperti i veri colpevoli e così palesata l'innocenza di Domenico. Pieno di rincrescimento pei rimproveri fatti al supposto colpevole, il presi da parte, e, "Domenico, gli dissi, perché non mi hai subito detto che tu eri innocente?". Domenico rispose: "Perché quel tale essendo già colpevole di altri falli sarebbe forse stato cacciato di scuola; dal canto mio sperava di essere perdonato, essendo la prima mancanza di cui era accusato nella scuola; d'altronde pensava anche al nostro Divin Salvatore, il quale fu ingiustamente calunniato"". Tacqui allora, ma tutti ammirarono la pazienza del Savio, che aveva saputo render bene per male, disposto a tollerare anche un grave castigo a favore del medesimo calunniatore» (così D. Cugliero)".
Le cose che sono per raccontare posso esporle con maggior corredo di circostanze, perché sono quasi tutte avvenute sotto gli occhi miei, e per lo più alla presenza di una moltitudine di giovani che tutti vanno d'accordo nell'asserirle. Correva l'anno 1854 quando il nominato D. Cugliero venne a parlarmi di un suo allievo per ingegno e per pietà degno di particolare riguardo. «Qui in sua casa, egli diceva, può avere giovani uguali, ma difficilmente avrà chi lo superi in talento e virtù. Ne faccia la prova e troverà un S. Luigi». Fummo intesi che me lo avrebbe mandato a Morialdo all'occasione che sono solito di trovarmi colà coi giovani di questa casa per far loro godere un po' di campagna, e nel tempo stesso fare la novena e celebrare la solennità del Rosario di Maria Santissima.
Era il primo lunedì d'ottobre di buon mattino", allorché vedo un fanciullo accompagnato da suo padre che si avvicinava per parlarmi. Il volto suo ilare, l'aria ridente, ma rispettosa, trassero verso di lui i miei sguardi.
35 Cf. 1Pt 2,23.
36 La testimonianza di don Cugliero (19 apr. 1857), utilizzata con grande libertà da don Bosco, che amplifica e drammatizza la scena dell'accusa da parte dei compagni (forse integrando altre relazioni), è conservata in ASC A4920129: Cenni storici sulla vita del giovine Domenico Savio nativo di Riva di Chieri frazione borgata di S. Giovanni, ms. Giuseppe Cugliero, 19 apr. 1857.
37 Da ASC E720: Censimento dal 1847 al 1869, risulta che Domenico entrò all'Oratorio il 22 ago.1854; se prestassimo fede a questa fonte (non coeva e zeppa di imprecisioni), l'incontro tra don Bosco e Domenico sarebbe avvenuto prima di quella data. In mancanza di altri riscontri, ci atteniamo alla versione di don Bosco.
— Chi sei, gli dissi, onde vieni?
— Io sono, rispose, Savio Domenico, di cui le ha parlato D. Cugliero mio maestro, e veniamo da Mondonio.
Allora lo chiamai da parte, e messici a ragionare dello studio fatto, del tenor di vita fino allora praticato, siamo tosto entrati in piena confidenza egli con me, io con lui.
Conobbi in quel giovane un animo tutto secondo lo spirito del Signore e rimasi non poco stupito considerando i lavori che la grazia divina aveva già operato in così tenera età.
Dopo un ragionamento alquanto prolungato, prima che io chiamassi il padre, mi disse queste precise parole: «Ebbene che gliene pare? mi condurrà a Torino per istudiare?».
— Eh! mi pare che ci sia buona stoffa.
— A che può servire questa stoffa?
—A fare un bell'abito da regalare al Signore.
— Dunque io sono la stoffa; ella ne sia il sarto; dunque mi prenda con lei e farà un bell'abito per il Signore.
— Io temo che la tua gracilità non regga per lo studio.
— Non tema questo; quel Signore che mi ha dato finora sanità e grazia, mi aiuterà anche per l'avvenire.
— Ma quando tu abbia terminato lo studio del latino, che cosa vorrai fare? — Se il Signore mi concederà tanta grazia, desidero ardentemente di abbracciare lo stato ecclesiastico.
— Bene: ora voglio provare se hai bastante capacità per lo studio: prendi questo libretto (era un fascicolo delle Letture cattoliche), di quest'oggi studia questa pagina, domani ritornerai per recitarmela.
Ciò detto lo lasciai in libertà d'andarsi a trastullare con altri giovani, indi mi posi a parlare col padre. Passarono non più di otto minuti, quando ridendo si avanza Domenico e mi dice: «Se vuole, recito adesso la mia pagina». Presi il libro e con mia sorpresa conobbi che non solo aveva letteralmente studiato la pagina assegnata, ma che comprendeva benissimo il senso delle cose in essa contenute.
— Bravo, gli dissi, tu hai anticipato lo studio della tua lezione ed io anticipo la risposta. Si, ti condurrò a Torino e fin d'ora sei annoverato tra i miei cari figliuoli, comincia anche tu fin d'ora a pregare Iddio, affinché aiuti me e te a fare la sua santa volontà.
Non sapendo egli come esprimere meglio la sua contentezza e la sua gratitudine, mi prese la mano, la strinse, la baciò più volte e infine disse: «Spero di regolarmi in modo che non abbia mai a lamentarsi" della mia condotta».
Egli è proprio dell'età volubile della gioventù di cangiar sovente proposito intorno a quello che si vuole; perciò non di rado avviene che oggi si delibera una cosa, dimani un'altra; oggi una virtù praticata in grado eminente, domani l'opposto; e qui se non havvi chi vegli attento, spesso va a terminare con mal esito un'educazione che forse poteva riuscire delle più fortunate. Del nostro Domenico non fu così. Tutte quelle virtù, che noi abbiamo veduto nascere e crescere nei vari stadi di sua vita, crebbero ognora maravigliosamente e crebbero insieme senza che una fosse di nocumento all'altra.
Venuto nella casa dell'Oratorio, si recò in mia camera per darsi, come egli diceva, interamente nelle mani dei suoi superiori". Il suo sguardo si portò subito su di un cartello, sopra cui a grossi caratteri sono scritte le seguenti parole che soleva ripetere S. Francesco di Sales: Da mihi animas, coetera tolle". Fecesi a leggere attentamente, ed io desiderava che ne capisse il significato. Perciò l'invitai, anzi l'aiutai a tradurle e cavar questo senso: O Signore, datemi anime, e prendetevi tutte le altre cose. Egli pensò un momento e poi soggiunse: «Ho capito; qui non havvi negozio di danaro, ma negozio di anime, ho capito; spero che l'anima mia farà anche parte di questo commercio».
38 spero ... lamentarsi: ins. ed. 31861, per correggere il precedente: l'assicuro che non avrà a lagnarsi.
39 La camera di don Bosco si trovava al secondo piano dell'edificio terminato nell'ott. 1853 e posto sul prolungamento di casa Pinardi, «nel braccio parallelo alla chiesa di San Francesco di Sales» (F. GIRAUDI, L'Oratorio di don Bosco. Inizio e progressivo sviluppo edilizio della Casa Madre dei salesiani in Torino, Torino, SEI, 1935, 124). Durante la permanenza di Domenico a Valdocco venne abbattuta casa Pinardi (1855) per collegare l'edificio del 1853 fino alla chiesa di san Francesco di Sales (la costruzione fu conclusa nell'ott. 1856).
40 L'espressione (tratta da Gen 14,21), non si trova negli scritti di san Francesco di Sales: è riportata da un discepolo (Lo spirito di S. Francesco di Sales vescovo e principe di Ginevra raccolto da diversi scritti di monsignor Gio. Pietro Camus vescovo di Belley..., Venezia, Remondini, 1758, 129); fu scelta da don Bosco come motto del suo sacerdozio per influsso di don Cafasso.
Il suo tenor di vita per qualche tempo fu tutto ordinario; né altro in esso ammiravasi che un'esatta osservanza delle regole della casa». Si applicò con impegno allo studio. Attendeva con ardore a tutti i suoi doveri. Ascoltava con delizia le prediche. Aveva radicato nel cuore che la parola di Dio è la guida dell'uomo per la strada del cielo; quindi ogni massima udita in una predica era per lui un ricordo invariabile che più non dimenticava.
Ogni discorso morale, ogni catechismo, ogni predica quantunque prolungata era sempre per lui una delizia. Udendo qualche cosa che non avesse ben inteso, tosto facevasi a dimandarne la spiegazione, Di qui ebbe cominciamento quell'esemplare tenor di vita, quel continuo progredire di virtù in virtù, quella esattezza nell'adempimento dei suoi doveri, oltre cui difficilmente si può andare.
Per essere ammaestrato intorno alle regole e disciplina della casa, egli con bel garbo procurava di avvicinarsi a qualcheduno dei suoi superiori42; lo interrogava, gli dimandava lumi e consigli, supplicando di volerlo con bontà avvisare ogni volta che lo vedesse trasgredire i suoi doveri. Né era meno commendevole il contegno che egli serbava coi suoi compagni. Vedeva egli taluno dissipato, negligente nei proprii doveri, o trascurato nella pietà? Domenico lo fuggiva. Eravi un compagno esemplare, studioso, diligente, lodato dal maestro? Costui diveniva tosto amico e famigliare di Domenice.
Avvicinandosi la festa dell'Immacolata Concezione di Maria, il direttore diceva tutte le sere qualche parola d'incoraggiamento ai giovani della casa, affinché ciascuno si desse sollecitudine a celebrarla in modo degno della gran madre di Dio, ma insistette specialmente a voler chiedere a questa celeste protettrice quelle grazie di cui ciascuno avesse conosciuto maggior bisogno.
Correva l'anno 1854 in cui i cristiani di tutto il mondo erano in una specie di spirituale agitazione perché trattavasi a Roma della definizione dogmatica dell'immacolato concepimento di Maria". Anche tra di noi si faceva quanto la nostra condizione comportava per celebrare quella solennità con decoro e con frutto spirituale dei nostri giovani.
41 Nell'autunno 1854 entrava in vigore una versione aggiornata del regolamento dell'Oratorio (rimasta manoscritta fino al 1877), adattata soprattutto alla comunità degli interni, che da quell'anno cresceranno sempre di più; un ms allografo con correzioni aut. di don Bosco si conserva in ASC D4820201: Piano di Regolamento per la Casa annessa all'Oratorio di S. Francesco di Sales in Valdocco (se ne veda la trascrizione in MB 4, 735-755, in particolare l'Appendice per gli studenti, 745-747). Le «regole della casa» venivano lette pubblicamente all'inizio dell'anno scolastico «ed ogni domenica se ne faceva leggere un capitolo agli alunni» (MB 4, 543).
42 Secondo il regolamento citato, «superiori della casa» erano «1. Rettore; 2. Prefetto; 3. Catechista; 4. Assistente; 5. Protettore; 6. Capi di camerata; 7. Persone di servizio» (cf. MB 4, 736).
43 Per essere ammaestrato di Domenico: paragrafo ins. ed. 4 1 866.
44 Il dogma dell'Immacolata Concezione di Maria fu promulgato da Pio IX (8 dic. 1854) con la lettera apostolica Ineffabilis Deus (cf. Pii IX Pontificis maximi Acta. Pars prima: Acta exhibens quae ad Ecclesiam universalem spectant, Romae, Ex Typographia Bonarum Artium, 1854, 597-619).
Il Savio era uno di quelli che sentivansi ardere dal desiderio di celebrarla santamente. Scrisse egli nove fioretti, ovvero nove atti di virtù da praticarsi estraendone a sorte uno per giorno. Si preparò e fece con piacere dell'animo suo la confessione generale, e si accostò ai santi sacramenti col massimo raccoglimento.
La sera di quel giorno, 8 dicembre, compiute le sacre funzioni di chiesa, col consiglio del confessore, Domenico andò avanti l'altare di Maria, rinnovò le promesse fatte nella prima comunione, di poi disse più e più volte queste precise parole: «Maria, vi dono il mio cuore; fate che sia sempre vostro. Gesù e Maria, siate voi sempre gli amici miei! ma per pietà, fatemi morir piuttosto che mi accada la disgrazia di commettere un solo peccato».
Presa così Maria per sostegno della sua divozione, la morale di lui condotta apparve così edificante e congiunta a tali atti di virtù che ho cominciato fin d'allora a notarli per non dimenticarmene.
Giunto a questo punto a descrivere le azioni del giovane Savio, io mi veggo davanti un complesso di fatti e di virtù che meritano speciale attenzione e in chi scrive ed in chi legge. Onde per maggior chiarezza giudico bene di esporre le cose non secondo l'ordine dei tempi, ma secondo l'analogia dei fatti che hanno tra di loro special relazione od hanno rapporto colla medesima materia. Dividerò pertanto le cose in altrettanti capitoli, cominciando dallo studio del latino, che fu motivo principale per cui venne e fu accolto in questa casa di Valdocco".
Egli aveva studiato i principii di latinità a Mondonio; e perciò colla sua grande assiduità nello studio e colla non ordinaria sua capacità ottenne in breve di essere classificato nella quarta, o come diciamo oggidì, nella seconda grammatica latina".caritatevole professore
45 di Valdocco: ins. ed. 51878.
46 Seconda grammatica latina: seconda ginnasiale. Qui don Bosco utilizza in parte l'antica terminologia; con la legge Casati (1859) il curricolo di studi classici tradizionale, che prima era suddiviso in 3 classi di latinità inferiore (chiamate in ordine discendente: sesta, quinta, quarta), 3 classi di latinità superiore (terza o grammatica, umanità o prima retorica, retorica o seconda retorica) e biennio di filosofia (fisica e logica), venne articolato in due fasi: ginnasio (5 classi: prima, seconda, terza, quarta e quinta) e liceo (3 classi).
47 pio e caritatevole: ins. ed. 51878. Il prof. Carlo Giuseppe Bonzanino (in. 1888) teneva scuola privata nella sua abitazione, al terzo piano di via Guardinfanti 30 (oggi via Barbaroux 20), per 20 allievi (cf. P. BARICCO, Torino descritta, Torino, G.B. Paravia e Comp., 1869, 709).
Fece egli questo corso presso il pio e Bonzanino Giuseppe; imperciocché allora non erano ancora stabilite le scuole ginnasiali nella casa dell'Oratorio, come sono presentemente". Io dovrei anche qui esprimere il suo contegno, profitto e la sua esemplarità colle stesse parole degl'antecedenti suoi maestri. Laonde esporrò solamente alcune cose che in quest'anno di latinità e nei due susseguenti furono notate con particolare ammirazione" da coloro che lo conobbero. Il professore Bonzanino ebbe più volte a dire che non ricordavasi di aver avuto alcuno più attento, più docile, più rispettoso, quale era il giovane Savio". Egli compariva modello in tutte le cose. Nel vestito e nella capigliatura non era punto ricercato; ma in quella modestia di abiti e nella umile sua condizione egli appariva pulito, ben educato, cortese, in guisa che i suoi compagni di civile ed anche di nobile condizione, i quali in buon numero intervenivano alla detta scuola, godevano assai di potersi trattenere con Domenico non solo per la scienza e pietà, ma anche per le sue civili e piacevoli maniere di trattare. Se poi fosse avvenuto al professore di ravvisare qualche scolaro un po' ciarliero, mettevagli Domenico ai fianchi, ed egli con destrezza studiavisi di indurlo al silenzio, allo studio, all'adempimento dei suoi doveri.
Egli è nel decorso di quest'anno, che la vita di Domenico ci somministra un fatto che ha dell'eroismo, e che è appena credibile in quella giovanile sua età. Esso riguarda a due suoi compagni di scuola che vennero tra di loro ad una rissa pericolosa. Il litigio cominciò da alcune parole dettesi scambievolmente in dispregio della loro famiglia. Dopo alcuni insulti si dissero villanie e si sfidarono a far valere le loro ragioni a colpi di pietra. Domenico giunse a scoprire quella discordia; ma come impedirla, essendo i due rivali maggiori di forze e di età? Si provò di persuaderli a desistere da quel progetto facendo ad ambidue osservare che la vendetta è contraria alla ragione ed alla santa legge di Dio; scrisse lettere all'uno e all'altro; li minacciò di riferire la cosa al professore ed anche ai loro parenti; ma tutto invano, i loro animi erano così inaspriti, che tornava inutile ogni panila. Oltre il pericolo di farsi grave male alla persona, commettevasi grande offesa contro Dio. Domenico era oltre modo crucciato, desiderava di opporsi e non sapeva come. Dio lo inspirò di fare così. Li attese dopo la scuola, e come poté parlare ad ambidue da parte, disse: «Poiché persistete nel bestiale vostro divisamento, vi prego almeno di voler accettare una condizione».
48 imperciocché presentemente: ins. ed. 4 1 8 6 6 . Fino all'estate 1855 tutti gli studenti ospiti a Valdocco frequentavano le scuole esterne dei professori Carlo Bonzanino e don Matteo Picco. Nell'anno scolastico 1855-1856 don Bosco apri la prima classe ginnasiale interna, affidata al chierico Giovanni Battista Francesia (1838-1930).
49 furono ... ammirazione: ins. ed. '1861, per correggere il precedente: trassero l'ammirazione.
50 In ASC A4920106 sono conservati 5 biglietti di diligenza e di merito rilasciati a Domenico dal prof. Bonzanino.
«L'accettiamo, risposero, purché non impedisca la nostra sfida». «Egli è un birbante», replicò tosto un di loro. «Ed io non sarò in pace con lui, soggiungeva l'altro, finché egli od io non abbiamo rotta la testa». Savio tremava a quel brutale diverbio, tuttavia, nel desiderio d'impedire maggior male, si frenò e disse: «La condizione che sono per mettervi non impedisce la sfida».
— Qual è questa condizione?
— Vorrei soltanto dirvela al luogo dove volete misurarvi a sassate.
— Tu ci minchioni, o studierai di metterci qualche incaglio.
— Sarò con voi, e non vi minchionerò; state tranquilli.
— Forse tu vorrai andare a chiamare qualcheduno.
— Dovrei farlo, ma non lo farò; andiamo, io sarò con voi. Mantenetemi soltanto la parola.
Glielo promisero; andarono nei così detti prati della Cittadella fuori di Porta Susa (51).
Tanto era l'odio dei due contendenti che a stento il Savio poté impedire che non venissero alle mani nel breve tratto di strada che era a farsi.
Giunti al luogo stabilito, il Savio fece una cosa che certamente niuno sarebbesi immaginato. Lasciò che si ponessero in una certa distanza; già avevano le pietre in mano, cinque caduno, quando Domenico parlò così: «Prima di effettuare la vostra sfida voglio che adempiate la condizione accettata». Ciò dicendo trasse fuori il piccolo crocifisso, che aveva al collo, e tenendolo in una mano, «voglio, disse, che ciascheduno fissi lo sguardo in questo crocifisso, di poi, gettando una pietra contro di me, pronunzi a chiara voce queste parole: Gesù Cristo innocente morì perdonando ai suoi crocifissori 52, io peccatore voglio offenderlo e far una solenne vendetta».
Ciò detto andò ad inginocchiarsi davanti a colui che mostravasi più infuriato dicendo: «Fa' il primo colpo sopra di me: tira una forte sassata sul mio capo». Costui, che non si aspettava simile proposta, cominciò a tremare. «No, disse, e mai no. Io non ho alcuna cosa contro di te e vorrei difenderti, se qualcuno ti volesse oltraggiare».
Domenico, ciò udito, corse dall'altro dicendo le stesse parole. Egli pure ne fu sconcertato, e tremando diceva, che essendo egli suo amico, non gli avrebbe mai fatto alcun male.
Allora Domenico si rizzò in piedi, e prendendo un aspetto serio e commosso: «Come, loro disse, voi siete ambedue disposti ad affrontare anche un grave pericolo per difendere me, che sono una miserabile creatura, e non siete capaci di perdonarvi un insulto ed una derisione fattavi nella scuola per salvare l'anima vostra, che costò il sangue del Salvatore, e che voi andate a perdere con questo peccato?». Ciò detto si tacque, tenendo sempre il crocifisso alto colla mano.
51 «Quei prati ora sono tutti coperti di edifizi, ed il sito di quell'alterco corrisponde all'area sopra cui giace la chiesa parrocchiale di S. Barbara»: nota ins. ed. '1878. La chiesa di Santa Barbara, a cui si fa riferimento, inaugurata il 18 apr. 1869, si trova all'incrocio di via Assarotti e via Bertola (cf. BARICCO, Torino descritta, 191-192).
52 Cf, Le 23,34.
A tale spettacolo di carità e di coraggio i compagni furono vinti. «In quel momento, asserisce uno di loro, io fui intenerito; un freddo mi corse per le membra, e mi sentii pieno di vergogna per aver costretto un amico sì buono, come era Savio, ad usare misure estreme per impedire l'empio nostro divisamento. Volendogli almeno dare un segno di compiacenza perdonai di cuore a chi mi aveva offeso, e pregai Domenico di suggerirmi qualche paziente e caritatevole sacerdote per andarmi a confessare. Egli mi appagò; ed alcuni giorni dopo andai col mio rivale a fare la confessione. In questa guisa dopo di essermi novellamente fatto suo amico fui riconciliato col Signore, che coll'odio e col desiderio di vendetta aveva di certo gravemente offeso».
Esempio è questo ben degno di essere imitato da ogni giovane cristiano qualora gli avvenga di vedere il suo simile in atto di far vendetta, od essere da altri in qualche maniera offeso, oppure ingiuriato.
Quello poi che in questo fatto onora singolarmente la condotta e la carità del Savio si è il silenzio in cui seppe tenere quanto era accaduto. Ed ogni cosa sarebbe stata totalmente ignorata, se coloro stessi, che vi ebbero parte, non l'avessero ripetutamente raccontata.
L'andata poi ed il ritorno da scuola, che è tanto pericoloso pei giovanetti che dai villaggi vengono nelle grandi città, per il nostro Domenico fu un vero esercizio di virtù. Costante nell'eseguire gli ordini dei suoi superiori, andava a scuola, ritornava a casa senza neppur dare un'occhiata, o porre ascolto a cosa che ad un giovane cristiano non convenisse. Se avesse veduto alcuno a fermarsi, correre, saltellare, tirar pietre, o andar a passar in luoghi non permessi, egli tosto da costui si allontanava. Che anzi un giorno fu invitato ad andare a far una passeggiata senza permesso; un'altra volta venne consigliato ad omettere la scuola per andarsi a divertire, ma egli seppe sempre rispondere con un rifiuto. «Il mio divertimento più bello, loro rispondeva, è l'adempimento dei miei doveri: e se voi siete veri amici, dovete consigliarmi ad adempirli con esattezza e non mai a trasgredirli». Nulladimeno ebbe la sventura di aver alcuni compagni che lo molestarono a segno, che il Savio si trovò sul punto di cadere nei loro lacci. E già risolvevasi di andare con loro e così per quel giorno tralasciare la scuola. Ma fatto breve tratto di cammino si accorse che seguiva un cattivo consiglio, ne provò gran rimorso, chiamò i tristi consiglieri, e loro disse: «Miei cari, il dovere m'impone di andare a scuola ed io vi voglio andare: noi facciamo cosa che dispiace a Dio ed ai nostri superiori. Sono pentito di quello che ho fatto; se mi darete altra volta somiglianti consigli, voi cesserete di essere miei amici».
Quei giovani accolsero l'avviso del loro amico; andarono seco lui a scuola, e per l'avvenire non cercarono più di distoglierlo dai suoi doveri. Nel fine dell'anno, mediante la sua buona condotta e la sua costante sollecitudine allo studio, meritò di essere promosso fra gli ottimi alla classe superiore. Ma sul principio del terzo anno di grammatica la sanità di Domenico apparendo alquanto deteriorata, si giudicò bene di lasciargli fare il corso privato qui nella casa dell'Oratorio a fine di potergli usare i dovuti riguardi nel riposo, nello studio e nella ricreazione.
L'anno di umanità o di 1 a retorica sembrando meglio in salute, fu mandato dal benemerito signor professore D. Picco Matteo". Esso aveva già più volte udito a parlare delle belle doti che adornavano il Savio, sicché di buon grado l'accolse gratuitamente nella sua scuola che passava fra le migliori approvate in questa nostra città54.
Molte sono le cose edificanti o dette o fatte dal Savio nell'anno di terza grammatica e di prima retorica; e noi le andremo esponendo di mano in mano che racconteremo i fatti che con quelle sono collegati.
Dato così un cenno sullo studio fatto nelle classi di latinità, parleremo ora della grande sua deliberazione di farsi santo.
Erano sei mesi da che il Savio dimorava all'Oratorio quando fu ivi fatta una predica sul modo facile di farsi santo. Il predicatore si fermò specialmente a sviluppare tre pensieri che fecero profonda impressione sull'animo di Domenico, vale a dire: è volontà di Dio che ci facciamo tutti santi"; è assai facile di riuscirvi; è un gran premio preparato in cielo a chi si fa santo. Quella predica per Domenico fu come una scintilla che gl'infiammò tutto il cuore d'amore di Dio. Per qualche giorno disse nulla, ma era meno allegro del solito, sicché se ne accorsero i compagni e me ne accorsi anch'io.
53 Matteo Picco: nato a Torino (25 gen. 1810) da Francesco e Domenica Borgarelli, fece la vestizione il 1° ott. 1825 e venne ordinato sacerdote 22 sett. 1832; teneva una scuola privata al primo piano di via Sant'Agostino N. 1; amico di don Bosco e dell'opera salesiana; mori nel 1880 (cf. AAT, 12.12.3: Registrum clericorum 1808-1847, rubr. P, 1825; AAT 12.3.10: Registrum ordinationum 1830-1833; STELLA, Don Bosco nella storia economica e sociale, 232).
54 città: ins. ed. 51878, per correggere il precedente: capitale. La capitale del regno d'Italia, dopo il conseguimento dell'unità, era stata trasferita a Firenze (1865), poi a Roma (1870).
55 Cf. 1 Ts 4,3.
Giudicando che ciò provenisse da novello incomodo di sanità, gli chiesi se pativa qualche male. «Anzi, mi rispose, patisco qualche bene». «Che vorresti dire?». «Voglio dire che mi sento un desiderio ed un bisogno di farmi santo: io non pensava di potermi far santo con tanta facilità; ma ora che ho capito potersi ciò effettuare anche stando allegro, io voglio assolutamente, ed ho assolutamente bisogno di farmi santo. Mi dica adunque come debbo regolarmi per incominciare tale impresa».
Io lodai il proposito, ma lo esortai a non inquietarsi, perché nelle commozioni dell'animo non si conosce la voce del Signore; che anzi io voleva per prima cosa una costante e moderata allegria: e consigliandolo ad essere perseverante nell'adempimento dei suoi doveri di pietà e di studio, gli raccomandai che non mancasse di prendere sempre parte alla ricreazione coi suoi compagni.
Un giorno gli dissi di volergli fare un regalo di suo gusto; ma esser mio volere che la scelta fosse fatta da lui. «Il regalo che domando, prontamente egli soggiunse, è che mi faccia santo. Io mi voglio dare tutto al Signore, per sempre al Signore", e sento un bisogno di farmi santo, e se non mi fo santo io fo niente. Iddio mi vuole santo, ed io debbo farmi tale».
In una congiuntura il direttore voleva dare un segno di speciale affetto ai giovani della casa e fece loro facoltà di chiedere con un biglietto qualunque cosa fosse a lui possibile, promettendo che l'avrebbe concessa. Quivi può ognuno facilmente immaginarsi le ridicole e le stravaganti dimande fatte dagli uni e dagli altri. Il Savio, preso un pezzetto di carta, scrisse queste sole parole: «Dimando che mi salvi l'anima" e mi faccia santo».
Un giorno si andavano spiegando alcune parole secondo la etimologia. «E Domenico, egli disse, che cosa vuoi dire?». Fu risposto: «Domenico vuol dire del Signore». «Veda, tosto soggiunse, se non ho ragione di chiederle che mi faccia santo: fino il nome dice che io sono del Signore. Dunque io debbo e voglio essere tutto del Signore e voglio farmi santo e sarò infelice finché non sarò santo».
La smania che egli dimostrava di volersi fare santo non derivava dal non tenere una vita veramente da santo, ma ciò diceva, perché egli voleva far rigide penitenze, passar lunghe ore nella preghiera, le quali cose erangli dal direttore proibite, perché non compatibili colla sua età e sanità e colle sue occupazioni.
56 voglio ... sempre al Signore: ins. ed. 51878.
57 mi salvi l'anima: ins. ed. '1866.
La prima cosa che gli venne consigliata per farsi santo fu di adoperarsi per guadagnar anime a Dio; perciocché non havvi cosa più santa al mondo che cooperare al bene delle anime, per la cui salvezza Gesù Cristo sparse fin l'ultima goccia del prezioso suo sangue". Conobbe Domenico l'importanza di tale pratica, e fu più volte udito a dire: «Se io potessi guadagnare a Dio tutti i miei compagni, quanto sarei felice!». Intanto non lasciava sfuggire alcuna occasione per dare buoni consigli, avvisar chi avesse detto o fatto cosa contraria alla santa legge di Dio.
La cosa che gli cagionava grande orrore e che recava non piccolo danno alla sua sanità, era la bestemmia, o l'udir nominare il santo nome di Dio invano. Se mai nelle vie della città o altrove gli fosse accaduto di udire alcuna di somiglianti parole, egli tosto abbassava dolente il capo, e diceva con cuor divoto: «Sia lodato Gesù Cristo»".
Passando un giorno per mezzo ad una piazza della città, un compagno lo vide a togliersi il cappello e proferire sotto voce alcune parole: «Che fai? gli disse, che dici?». «Non hai udito?, Domenico rispose, quel carrettiere nominò il santo nome di Dio invano. Se avessi creduto utile sarei corso ad avvisarlo di non farlo mai più: ma temendo di fargli dire cose peggiori, mi limito a togliermi il cappello e dire: Sia lodato Gesù Cristo. E questo con animo di riparare qualche poco l'ingiuria fatta al santo nome del Signore».
Il compagno ammirò la condotta ed il coraggio di Domenico, e va tuttora con piacere raccontando tale episodio ad onore dell'amico e ad edificazione dei compagni.
Nel ritornare dalla scuola una volta udì un cotale di età alquanto avanzata che proferì un'orribile bestemmia. Il nostro Domenico tremò all'udirla; lodò Dio in cuor suo, dipoi fece una cosa certamente ammirabile. Con aria la più rispettosa corse verso l'incauto bestemmiatore e gli domandò se sapeva indicargli la casa dell'Oratorio di S. Francesco di Sales. A quell'aria di paradiso, l'altro depose quella specie di ferocia, e «Non so, caro ragazzino, mi rincresce».
— Oh! se non sapete questo, voi potreste farmi un altro piacere.
— Dimmelo pure, volentieri.
58 Cf. I Pt 1,18-19.
59 La cosa .,. Cristo: paragrafo ins. ed. 21860.
Domenico gli si avvicinò quanto poté all'orecchio, e piano che altri non capisse, «Voi, soggiunse, mi farete un gran piacere se nella vostra collera direte altre parole senza bestemmiare il santo nome di Dio».
— Bravo, disse l'altro, pieno di stupore e di ammirazione; bene, hai ragione: è questo un vizio maledetto che voglio vincere a qualunque costo".
Un giorno avvenne che un fanciullo di forse nove anni si pose ad altercare con un compagno in vicinanza della porta della casa, e nella rissa proferì l'adorabile nome di Gesù Cristo. Domenico a tale parola, sebbene sentisse un giusto sdegno in cuor suo, tuttavia con animo pacato s'intromise tra i due contendenti e li acquetò; poi disse a chi aveva nominato il nome di Dio invano: «Vieni meco e sarai contento». I suoi bei modi indussero il fanciullo ad accondiscendere. Lo prese per mano, lo condusse in chiesa avanti all'altare, di poi lo fece inginocchiare vicino a lui dicendogli: «Dimanda al Signore perdono dell'offesa che gli hai fatta col nominarlo invano». E poiché il ragazzo non sapeva l'atto di contrizione, lo recitò egli seco lui. Dopo soggiunse: «Di' con me queste parole per riparare l'ingiuria fatta a Gesù Cristo: Sia lodato Gesù Cristo, e il suo santo e adorabile nome sia sempre lodato».
Leggeva di preferenza la vita di quei santi che avevano lavorato in modo speciale per la salute delle anime. Parlava volentieri dei missionari, che faticano tanto in lontani paesi per il bene delle anime, e non potendo mandar loro soccorsi materiali, offeriva ogni giorno al Signore qualche preghiera, e almeno una volta alla settimana faceva per loro la santa comunione.
Più volte l'ho udito esclamare: «Quante anime aspettano il nostro aiuto nell'Inghilterra: oh, se avessi forza e virtù vorrei andarvi sul momento, e colle prediche e col buon esempio vorrei guadagnarle tutte al Signore»". Si lagnava spesso con sé medesimo, e spesso ne parlava ai compagni del poco zelo che molti hanno per istruire i fanciulli nelle verità della fede. «Appena sarò chierico, diceva, voglio andare a Mondonio, e voglio radunare tutti i fanciulli sotto di una tettoia e voglio far loro il catechismo, raccontare tanti esempi e farli tutti santi. Quanti poveri fanciulli forse andranno alla perdizione per mancanza di chi li istruisca nella fede!».
60 Passando un giorno ... qualunque costo: due episodi ins. ed. '1861.
61 Sulla scia del movimento di Oxford, iniziato da John Keble (1792-1866) e John Henry New-man (1801-1890), e soprattutto dopo il passaggio al cattolicesimo di Newman (9 ottobre 1845), si verificò un flusso di conversioni che suscitò grande fervore tra i cattolici. Tra i libri di Domenico Savio c'era l'intera annata 1855 delle Letture cattoliche, che includeva un fascicolo intitolato Conversione d'una nobile e ricca signora inglese alla Chiesa cattolica al tempo che le leggi penali contro i cattolici erano ancora in vigore in Inghilterra, racconto storico tradotto dall'inglese, Torino, Tip. Paravia e Comp., 1855 (cf. ASC A4920108: Nota dei libri di Savio Domenico, ins. aut. s.d.). A Valdocco don Bosco teneva corrispondenza con Lorenzo Gastaldi, che entrato nell'Istituto della Carità del Rosmini (1851) era stato inviato in Inghilterra come missionario (1853-1863); è probabile che nei suoi due soggiorni in Italia (1856 e 1857), Gastaldi sia stato in visita a Valdocco e abbia parlato della situazione inglese (cf. G. TUNINETTI, Lorenzo Gastaldi 1815-1883, Casale Monferrato, Ed. Piemme, 1983, vol. I, 110-111).
Ciò che diceva con parole lo confermava coi fatti, poiché per quanto comportava la sua età ed istruzione faceva con piacere il catechismo nella chiesa dell'Oratorio, e se qualcheduno ne avesse avuto bisogno, gli faceva scuola e lo ammaestrava nel catechismo a qualunque ora del giorno ed in qualunque giorno della settimana, ad unico scopo di poter parlare di cose spirituali e far loro conoscere l'importanza di salvar l'anima.
Un giorno un compagno indiscreto voleva interromperlo mentre raccontava un esempio in tempo di ricreazione. «Che te ne fa di queste cose?» gli disse. «Che me ne fa?, rispose, me ne fa perché l'anima dei miei compagni è redenta col sangue di Gesù Cristo; me ne fa perché siamo tutti fratelli e come tali dobbiamo amare vicendevolmente l'anima nostra; me ne fa perché Iddio raccomanda di aiutarci l'un l'altro a salvarci; me ne fa perché se riesco a salvare un anima, metterò anche in sicuro la salvezza della mia».
Né questa sollecitudine per il bene delle anime in Domenico si rallentava nel breve tempo di vacanza, che passava nella casa paterna. Ogni immagine, medaglia, crocifisso, libretto od altro oggetto che egli si fosse guadagnato nella scuola o nel catechismo mettevalo da parte per servirsene quando fosse in vacanza. Anzi prima di partire dall'Oratorio soleva fare speciale dimanda ai suoi superiori, che gli volessero dare simili oggetti per far stare allegri, come egli diceva, i suoi amici di ricreazione. Giunto appena in patria, vedevasi tosto circondato da fanciulli suoi pari, più piccoli, ed anche più grandi, che provavano un vero piacere trattenendosi con lui. Egli poi distribuendo i suoi regali a tempo opportuno, eccitavali a star attenti alle dimande, che loro faceva ora sul catechismo ora sui loro doveri.
Con questi bei modi riusciva a condurne parecchi con lui al catechismo, alla preghiera, alla messa e ad altre pratiche di pietà.
Sono assicurato che egli impiegò non poco tempo per istruire un compagno. «Se giungerai, dicevagli, a far bene il segno della santa croce, ti fo dono d'una medaglia, di poi ti raccomanderò ad un prete che ti doni un bel libro. Ma vorrei che fosse ben fatto, e che dicendo le parole colla bocca, la mano destra partisse dalla fronte, si portasse al petto, indi andasse a toccar bene la spalla sinistra, poscia la destra e terminasse col giungere veramente le mani dicendo: Così sia». Egli desiderava ardentemente che questo segno di nostra redenzione fosse ben fatto, ed egli stesso facevalo più volte alla loro presenza, invitando gli altri a fare altrettanto62.
Oltre l'esattezza nell'adempimento d'ogni più minuto suo dovere, egli prendevasi cura poi di due fratellini, cui insegnava a leggere, scrivere, recitare il catechismo e li assisteva nella preghiera del mattino e della sera. Li conduceva in chiesa, porgeva loro l'acqua benedetta, mostrava loro il vero modo di far il segno della santa croce.
62 Ogni immagine ... fare altrettanto: quattro paragrafi ins. ed. 21860.
Il medesimo tempo che avrebbe passato qua e là trastullandosi, egli lo passava raccontando esempi ai parenti, o ad altri compagni che l'avessero voluto ascoltare. Anche in patria era solito a fare ogni giorno una visita al santissimo Sacramento; ed era per lui un vero guadagno quando poteva indurre qualche compagno ad andargli a tenere compagnia. Onde si può dire che non presentavasi a lui occasione di far opera buona, di dare un buon consiglio, che tendesse al bene dell'anima, che egli la lasciasse sfuggire.
Il pensiero di guadagnar anime a Dio lo accompagnava ovunque. In tempo libero era l'anima della ricreazione; ma quanto diceva o faceva tendeva sempre al bene morale o di sé o di altri. Aveva ognor presente quei bei principii di educazione, di non interrompere gli altri quando parlano. Se per altro i compagni facevano silenzio, egli tosto metteva fuori questioni di scuola, di storia, di aritmetica, ed aveva sempre alla mano mille storielle, che rendevano amabile la sua compagnia. Se mai taluno avesse rivolto il discorso intorno a cose che fossero mormorazioni o simili, egli lo interrompeva e metteva fuori qualche facezia od anche una favola o altra cosa per far ridere, e intanto distoglieva il discorso dalla mormorazione ed impediva l'offesa di Dio trai suoi compagni.
La sua aria allegra, l'indole vivace lo rendevano caro anche ai compagni meno amanti della pietà, per modo che ognuno godeva di potersi trattenere con lui, e prendevano in buona parte quegli avvisi che di quando in quando suggeriva.
Un giorno un suo compagno desiderava andarsi a mascherare, ed egli non voleva. «Saresti contento, gli diceva, di divenir realmente quale vuoi vestirti, con due corna sulla fronte, con un naso lungo un palmo, con un abito da ciarlatano?». «Mai no, rispose l'altro». «Dunque, soggiunse Domenico, se non desideri avere questo sembiante, perché vuoi comparir tale e deturpare le belle fattezze che Dio ti ha donato?».
Una volta in tempo di ricreazione accadde che un uomo si avanzò in mezzo ai giovani che si divertivano; e voltosi ad uno di loro si mise a discorrere, ma con voce alta che tutti i circostanti potevano udire. L'astuto, onde trarli vicino a sé, da principio si diede a raccontare cose strane per far ridere. I giovani tratti dalla curiosità in breve gli furono attorno affollati, e attenti pendevano dal suo labbro nell'udire quelle stranezze. Appena si vide così circondato, fece cadere il discorso su cose di religione, e, come suol fare tal sorta di gente, gettava giù
degli strafalcioni da far inorridire, mettendo in burla le cose più sante e screditando tutte quante le persone ecclesiastiche. Alcuni degli astanti, non potendo soffrire tali empietà e non osando opporsegli, si contentarono di ritirarsi. Un buon numero incautamente continuava ad ascoltarlo. Intanto per caso sopraggiunse il Savio. Appena poté conoscere di che genere fosse quel discorso, rotto ogni rispetto umano, subito si rivolse ai compagni: «Andiamocene, disse, lasciamo solo quest'infelice; egli ci vuol rubare l'anima». I giovani ubbidienti alla voce di un sì amabile e virtuoso compagno, tutti quanti si allontanarono prontamente da quell'inviato del demonio. Questi vedutosi così da tutti abbandonato, se ne partì senza più lasciarsi vedere".
Altra volta alcuni volevano andarsi a bagnare, la qual cosa, se è altrove pericolosa, lo è assai più nel circondario di Torino, ove, senza parlare dei pericoli d'immoralità, trovansi acque sì profonde ed impetuose, che" spesso i giovani restano vittima infelice del nuoto. Se ne accorse Domenico, e cercava di trattenersi con loro raccontando or questa, or quell'altra novità. Ma quando li vide decisi di volersene assolutamente andare, allora si pose a parlare risoluto:
— No, disse, io non voglio che andiate.
— Noi non facciamo alcun male.
— Voi disubbidite ai vostri superiori", voi vi esponete al pericolo di dare o ricevere scandalo, e di rimaner morti nell'acqua, e questo non è male?
— Ma noi abbiamo un caldo che non ne possiamo più.
— Se non potete più tollerare il caldo di questo mondo, potrete poi tollerare il caldo terribile dell'inferno, che voi vi andate a meritare?
Mossi da queste parole cangiarono divisamento e si posero seco lui a fare ricreazione, e all'ora dovuta andarono in chiesa per assistere alle sacre funzioni.
Alcuni altri giovani dell'Oratorio amanti del bene dei loro compagni si unirono in una specie di società per darsi alla conversione dei discoli. Savio vi apparteneva ed era dei più zelanti. Se avesse avuto un confetto, un frutto, una croce, un'immagine o simili, la riserbava per questo scopo. «Chi lo vuole, chi lo vuole», andava dicendo. «Io, io», da tutti si gridava correndo verso di lui. «Adagio, egli diceva, voglio darlo a chi meglio mi risponderà ad una domanda di catechismo». Intanto egli interrogava solo i più discoli, ed appena essi davano risposta alquanto soddisfacente faceva loro quel piccolo regalo.
Altri poi erano guadagnati in altre maniere: li prendeva, li invitava a passeggiare con lui, li faceva discorrere, se occorreva, giocava con loro.
63 Una volta vedere: paragrafo ins. ed. 21860; trascrizione di una testimonianza raccolta da Michele Rua (cf. ASC A4920137: Memorie riguardo al giovane Savio Domenico, ms. Rua, s.d., fl r-v).
64 acque ... che: ins. ed. 21860.
65 ai vostri superiori: ins. ed. 21860.
Fu talvolta veduto con un grosso bastone sulle spalle che sembrava Ercole colla clava, giocare alla rana, volgarmente cirimella, e mostrarsi perdutamente affezionato a quel giuoco". Ma ad un tratto sospendeva la partita e diceva al compagno: «Vuoi che sabato ci andiamo a confessare?». L'altro per la distanza del tempo e per ripigliare presto la partita e anche per compiacerlo rispondeva di sì. Domenico ne aveva abbastanza e continuava il giuoco. Ma non lo perdeva più di vista: ogni giorno o per un motivo o per l'altro gli richiamava sempre quel sì alla memoria, e gli andava insinuando il modo di confessarsi bene. Venuto il sabato, qual cacciatore che ha colto buona preda, l'accompagnava in chiesa, lo precedeva nel confessarsi, per lo più ne preveniva il confessore, si tratteneva seco dopo a fare il ringraziamento. Questi fatti, che pur erano frequenti, tornavano a lui della più grande consolazione e di grande vantaggio ai compagni; perciocché spesso avveniva che taluno non riportasse alcun frutto da una predica udita in chiesa, mentre arrendevasi alle pie insinuazioni di Domenico.
Avveniva qualche volta che taluno il lusingava tutta la settimana e poi al sabato non lasciavasi più vedere per l'ora di confessarsi. Come poi lo vedeva di nuovo, quasi scherzando gli diceva: «Eh! birichino! me l'hai fatta». «Ma vedi, dicea l'altro, non era disposto, non mi sentiva...». «Poverino, soggiungeva Domenico, hai ceduto al demonio che era assai ben disposto a riceverti; ma ora ancor più sei indisposto, anzi ti vedo tutto di mal umore. Orsù fa' la prova di andarti a confessare, fa' uno sforzo e procura di confessarti bene e vedrai di quanta gioia sarà ripieno il tuo cuore». Per lo più dopo che quel tale erasi confessato andava tosto da Domenico col cuore pieno di contentezza: «È vero, diceva, sono veramente contento; per l'avvenire voglio andarmi a confessare più sovente».
Nelle comunità di giovani sogliono esservene alcuni che o per essere alquanto rozzi, ignoranti, meno educati o crucciati da qualche dispiacere, sono per lo più lasciati da parte dai loro compagni. Costoro soffrono il peso dell'abbandono, quando avrebbero maggior bisogno del conforto di un amico.
Questi erano gli amici di Domenico". Loro si avvicinava, li ricreava con qualche buon discorso, loro dava buoni consigli; quindi spesso è avvenuto che giovani, decisi di darsi in preda al disordine, animati dalle caritatevoli parole del Savio, ritornavano a buoni sentimenti.
Per questo motivo tutti quelli che avevano qualche incomodo di salute di-mandavano Domenico per infermiere, e quelli che avevano delle pene provavano conforto esponendole a lui. In questa guisa egli aveva la strada aperta ad esercitare continuamente la carità verso il prossimo ed accrescersi merito davanti a Dio.
66 Cirimella: gioco di origini antiche, diffuso nel passato in varie regioni d'Italia; consisteva nel colpire con una mazza la punta della lippa (cilindro ligneo, lungo un palmo, con estremità smussate e appuntite), facendola sollevare in aria per colpirla nuovamente al volo e lanciarla il più lontano possibile.
67 Questi Domenico: ins. ed. 21860.
Fra i doni, di cui Dio lo arricchì, era eminente quello del fervore nella preghiera. Il suo spirito era così abituato a conversare con Dio, che in qualsiasi luogo, anche in mezzo ai più clamorosi trambusti, raccoglieva i suoi pensieri e con pii affetti sollevava il cuore a Dio.
Quando poi si metteva a pregare in comune pareva veramente un angioletto: immobile e composto a divozione in tutta la persona, senza appoggiarsi altrove, fuorché sopra le ginocchia, colla faccia ridente, col capo alquanto chino, cogli occhi bassi; l'avresti detto un altro S. Luigi.
Bastava vederlo per esserne edificati. L'anno 1854 fu eletto il signor conte Cays priore della compagnia di S. Luigi, eretta in quest'Oratorio". La prima volta che prese parte alle nostre funzioni vide egli un giovanetto che pregava con atteggiamento così divoto, che nè fu pieno di stupore. Terminate le sacre funzioni volle informarsi e sapere chi fosse quel fanciullo che era stato il soggetto della sua ammirazione: quel fanciullo era Domenico Savio.
La stessa sua ricreazione era quasi sempre dimezzata; una parte per lo più era passata in pia lettura, oppur in qualche preghiera che egli andava a fare in chiesa con alcuni compagni in suffragio delle anime del purgatorio o in onore di Maria Santissima.
La divozione verso la Madre di Dio in Domenico era grande assai. In onore di lei faceva ogni giorno qualche mortificazione. Non rimirava mai in faccia persone di sesso diverso; andando a scuola non alzava mai gli occhi. Talvolta passava vicino a pubblici spettacoli, che dai compagni rimiravansi con tale ansietà da non saper più dove si fossero. Interrogato il Savio se quelli spettacoli gli fossero piaciuti rispondeva, che nulla aveva veduto. Di che quasi incollerito una volta un compagno lo rimproverò dicendo: «Che vuoi dunque fare degli occhi, se non te ne servi a rimirare queste cose?». «Io voglio servirmene, rispondeva, per rimirare la faccia della nostra celeste Madre Maria, quando, se coll'aiuto di Dio ne sarò degno, andrò a trovarla in paradiso».
68 Carlo Cays (1813-1882), conte di Giletta e Caselette, laureato in legge; confondatore e presidente delle Conferenze di san Vincenzo de' Paoli a Torino, priore della Compagnia di S. Luigi nell'Oratorio (1854-1855), deputato del Parlamento Subalpino (1857-1860). Rimasto vedovo nel 1877 si fece salesiano e venne ordinato sacerdote (cf. L. TERRONE, Il conte Cays, sacerdote salesiano. Memorie, Colle Don Bosco, Asti, Libreria Dottrina Cristiana, 1947). Compagnia di S. Luigi: si conserva il ms della Regola con l'approvazione di mons. Fransoni in data 12 apr. 1847 (ASC A230); il testo della regola è riprodotto in MB 3, 216-220; una versione ritoccata si trova nel Regolamento dell'Oratorio di S. Francesco di Sales per gli esterni, Torino, Tipografia Salesiana, 1877, 45-46 (OE XXIX 75-76).
Aveva una speciale divozione all'immacolato cuore di Maria. Tutte le volte che recavasi in chiesa andava avanti all'altare di lei per pregarla ad ottenergli la grazia di conservare il suo cuore sempre lontano da ogni affetto impuro. «Maria, dicea, io voglio essere sempre vostro figliuolo: ottenetemi di morire prima che io commetta un peccato contrario alla virtù della modestia».
Ogni venerdì poi sceglieva un tempo di ricreazione, si portava in chiesa con altri compagni per recitare la corona dei sette dolori di Maria, o almeno le litanie di Maria addolorata".
Non solo egli era divoto di Maria SS., ma godeva assai quando poteva condurre qualcheduno a prestarle pratiche di pietà. Un giorno di sabato aveva invitato un compagno a recarsi con lui in chiesa a recitare il vespro della B. Vergine'''. Questi si arrendeva di mala voglia, adducendo aver freddo alle mani. Domenico si levò i guanti dalle mani e glieli diede, e così andarono ambidue in chiesa. Altra volta si tolse il martelletto dalle proprie spalle, per imprestarlo ad un altro, affinché andasse volentieri con lui in chiesa a pregare. Chi non sentesi compreso d'ammirazione a tali atti di generosa pietà?
In nessun tempo Domenico appariva maggiormente infervorato verso la celeste nostra protettrice Maria quanto nel mese di maggio. Si accordava con altri per fare ogni giorno di quel mese qualche pratica particolare oltre a quanto aveva luogo nella pubblica chiesa. Preparavasi una serie di esempi edificanti, che egli andava con gran piacere raccontando per animare altri ad essere divoti di Maria. Ne parlava spesso in ricreazione; animava tutti a confessarsi e frequentare la santa comunione specialmente in quel mese. Egli ne dava l'esempio accostandosi ogni giorno alla mensa eucaristica con tal raccoglimento, che maggiore non si può desiderare.
Un curioso episodio fa vedere la tenerezza del suo cuore per la divozione di Maria. Gli alunni della camera, ove egli dormiva, deliberarono di fare a spese proprie un elegante altarino, che servisse a solennizzare la chiusura del mese di Maria. Domenico era tutto in faccende per questo affare; ma venendosi alla quota che ciascuno avrebbe dovuto sborsare: «Ohimè!, esclamò, sì che stiamo bene! per questi affari ci vogliono danari; ed io non ho un quattrino in tasca. Pure voglio fare qualche cosa a qualunque costo». Andò, prese un libro, che eragli stato donato in premio, e chiestone il permesso dal superiore, ritornò pieno di gioia dicendo: «Compagni, eccomi in grado di concorrere anch'io per onorar Maria: prendete questo libro, cavatene quell'utilità che potete; questa è la mia oblazione».
69 Cf. Corona di Maria Addolorata, in G. Bosco, Il giovane provveduto per la pratica dei suoi doveri di cristiana pietà..., ed. 2n accresciuta, Torino, Tipografia G.B. Paravia, 1851, 114-119 (è l'ed. usata da Domenico); Litanie della B. V Addolorata, ibid., 119-122.
70 Cf. Bosco, Il giovane provveduto, ed. 21851, 193-200.
Alla vista di quell'atto spontaneo e così generoso s'intenerirono i compagni, e vollero essi pure offerir libri ed altri oggetti. Con essi fu fatta una piccola lotteria, il cui prodotto fu abbondante per sopperire alle spese che occorrevano.
Terminato l'altare, i giovani desideravano di celebrare la loro festa colla massima sontuosità. Ognuno se ne dava grande sollecitudine, ma non essendosi potuto totalmente terminare l'apparato, era mestiere lavorare la notte precedente alla festa. «Io, disse il Savio, io passerò volentieri la notte lavorando». Ma i suoi compagni, perché aveva poco prima fatto una malattia, l'obbligarono di andarsi a coricare. Non voleva arrendersi, e solo andò a letto per ubbidienza. «Almeno, disse ad uno dei compagni, appena sia tutto terminato, vienmi tosto a risvegliare, affinché io possa essere dei primi a rimirare l'altare addobbato in onore della nostra cara madre».
Egli è comprovato dall'esperienza che i più validi sostegni della gioventù sono il sacramento della confessione e della comunione. Datemi un giovanetto, che frequenti questi sacramenti, voi lo vedrete crescere nella giovanile, giungere alla virile età e arrivare, se così piace a Dio, fino alla più tarda vecchiaia con una condotta, che è l'esempio di tutti quelli che lo conoscono. Questa massima la comprendano i giovanetti per praticarla; la comprendano tutti quelli che si occupano dell'educazione dei medesimi per insinuarla.
Prima che il Savio venisse a dimorare all'Oratorio frequentava questi due sacramenti una volta al mese secondo l'uso delle scuole. Di poi li frequentò con assai maggiore assiduità. Un giorno udì dal pulpito questa massima: «Giovani, se volete perseverare nella via del cielo, vi si raccomandano tre cose: accostatevi spesso al sacramento della confessione, frequentate la santa comunione, sceglietevi un confessore cui osiate aprire il vostro cuore, ma non cangiatelo senza necessità». Comprese Domenico l'importanza di questi consigli".
Cominciò egli a scegliersi un confessore, che tenne regolarmente tutto il tempo che dimorò tra noi. Affinché questi potesse poi formarsi un giusto giudizio di sua coscienza, volle, come si disse, fare la confessione generale.
71 «Sceglietevi un buon confessore, a lui aprite l'interno del vostro cuore; e per quanto vi è possibile, non cangiatelo mai» (G. Bosco, Cenni sulla vita del giovane Luigi Comollo morto nel seminario di Chieri ammirato da tutti per le sue rare virtù, Torino, Tipografia P. De-Agostini, 1854, 32); le stesse indicazioni troviamo in Cenno biografico sul giovanetto Magone Michele (c. V) e nel Pastorello delle Alpi (c. XIX).
Cominciò a confessarsi ogni quindici giorni, poi ogni otto giorni, comunicandosi colla medesima frequenza. Il confessore osservando il grande profitto che faceva nelle cose di spirito, lo consigliò a comunicarsi tre volte per settimana e nel termine di un anno gli permise anche la comunione quotidiana.
Fu qualche tempo dominato dagli scrupoli; perciò voleva confessarsi ogni quattro giorni ed anche più spesso; ma il suo direttore spirituale non lo permise e lo tenne all'obbedienza della confessione settimanale.
Aveva con lui una confidenza illimitata. Anzi parlava col medesimo con tutta semplicità delle cose di coscienza anche fuori di confessione. Qualcheduno lo aveva consigliato a cangiar qualche volta confessore, ma egli non volle mai arrendersi. «Il confessore, diceva, è il medico dell'anima, né mai si suole cangiar medico se non per mancanza di fiducia in lui, o perché il male è quasi disperato. Io non mi trovo in questi casi. Ho piena fiducia nel confessore che con paterna bontà e sollecitudine si adopera per il bene dell'anima mia; né io vedo in me alcun male che egli non possa guarire». Tuttavia il direttore ordinario lo consigliò a cangiar qualche volta confessore, specialmente in occasione degli spirituali esercizi; ed egli senza opporre difficoltà prontamente ubbidiva.
Il Savio godeva di se medesimo. «Se ho qualche pena in cuore, egli diceva, vo dal confessore, che mi consiglia secondo la volontà di Dio; giacché Gesù Cristo ha detto che la voce del confessore per noi è come la voce di Dio72. Se poi voglio qualche cosa di grande, vo a ricevere l'ostia santa in cui trovasi corpus quod pro nobis traditum est", cioè quello stesso corpo, sangue, anima e divinità, che Gesù Cristo offerse al suo eterno Padre per noi sopra la croce. Che cosa mi manca per essere felice? nulla in questo mondo: mi manca solo di poter godere, svelato in cielo colui, che ora con occhio di fede miro e adoro sull' altare».
Con questi pensieri Domenico traeva i suoi giorni veramente felici. Di qui nasceva quella ilarità, quella gioia celeste che traspariva in tutte le sue azioni. Né pensiamoci che egli non comprendesse l'importanza di quanto faceva, e non avesse un tenor di vita cristiana, quale si conviene a chi desidera di far la comunione frequente". Perciocché la sua condotta era per ogni lato irreprensibile. Io ho invitato i suoi compagni a dirmi se nei tre anni, che dimorò fra noi, avessero notato nel Savio qualche difetto da correggere o qualche virtù da suggerire; ma tutti asserirono d'accordo che in lui non trovarono mai cosa che meritasse correzione; né avrebbero saputo quale virtù aggiungere in lui.
72 Cf. Lc 10,16.
73 Cf. Lc 22,19.
74 frequente: ins. ed. 51878, per correggere il precedente: quotidiana: cautela probabilmente mirata ad evitare ulteriori questioni con l'arciv. Gastaldi che era su posizioni più rigide.
Il suo apparecchio a ricevere la santa eucaristia era il più edificante. La sera che precedeva la comunione, prima di coricarsi faceva una preghiera a questo scopo e conchiudeva sempre così: «Sia lodato e ringraziato ogni momento il santissimo e divinissimo Sacramento». Al mattino poi premetteva una sufficiente preparazione; ma il ringraziamento era senza limite. Per lo più, se non era chiamato, dimenticava la colazione, la ricreazione e talvolta fino la scuola, standosi in orazione, o meglio in contemplazione della divina bontà che in modo ineffabile comunica agli uomini i tesori della sua infinita misericordia.
Era per lui una vera delizia il poter passare qualche ora dinanzi a Gesù sacramentato. Almeno una volta al giorno andava invariabilmente a fargli visita, invitando altri ad andarvi in sua compagnia. La preghiera a lui prediletta era una coroncina (75) al Sacro Cuore di Gesù per compensare le ingiurie che riceve dagli eretici, dagli infedeli e dai cattivi cristiani.
Affinché le sue comunioni fossero più fruttuose e nel tempo stesso in ciascun giorno gli dessero novello eccitamento a farle con fervore egli si era prefisso ogni dì un fine speciale.
Ecco come distribuiva le comunioni lungo la settimana:
Domenica. In onore della santissima Trinità.
Lunedì. Per i miei benefattori spirituali e temporali.
Martedì. In onore di S. Domenico e del mio angelo custode.
Mercoledì. A Maria Addolorata per la conversione dei peccatori.
Giovedì. In suffragio delle anime del purgatorio.
Venerdì. In onore della passione di Gesù Cristo.
Sabato. Ad onore di Maria santissima per ottenere la sua protezione in vita ed in morte.
Prendeva parte con trasporto di gioia a tutte le pratiche, le quali riguardassero al santissimo Sacramento. Se gli fosse capitato d'incontrare il viatico quando veniva portato a qualche infermo, egli si inginocchiava tosto ovunque fosse; e, se il tempo glielo permetteva, l'accompagnava finché fosse terminata la funzione.
Un giorno passavagli vicino il viatico mentre pioveva e le strade erano fangose. Non avendo miglior sito, si pose ginocchioni in mezzo alla fanghiglia. Un compagno lo rimproverò di poi, osservandogli non essere necessario imbrattarsi così gli abiti, né il Signore comandare tal cosa. Egli rispose semplicemente: «Ginocchia e calzoni è tutto del Signore, perciò tutto deve servire a rendergli onore e gloria.
75 Nota ins. ed. 21860: «Questa coroncina trovasi stampata in molti libri e fra gli altri nel Giovane Provveduto, a pag. 105». Era una pratica devota mirata a risarcire Gesù «degli oltraggi che riceve nella SS. Eucaristia dagli eretici, dagli infedeli e da' cattivi cristiani», costituita da sette brevi orazioni seguite da un Pater (cf. Corona del Sacro Cuore di Gesù, in Bosco, Il giovane provveduto, ed. 21851, 105-107).
Quando passo vicino a lui non solo mi getterei nel fango per onorarlo, sibbene mi precipiterei in una fornace, perché così sarei fatto partecipe di quel fuoco di carità infinita che lo spinse ad istituire questo gran Sacramento».
In simile congiuntura vide un giorno un militare che se ne stava in piedi nel momento appunto che passava vicino il santissimo Sacramento. Non osando invitarlo ad inginocchiarsi, trasse di saccoccia il piccolo suo moccichino, lo stese sul terreno insudiciato, poi fe' cenno al militare a volersene servire. Il soldato si mostrò da prima confuso, poi lasciando a parte il moccichino, si inginocchiò in mezzo della medesima strada".
Alla festa del Corpus Domini fu con altri compagni vestito da chierico, e mandato alla processione della parrocchia. Egli vi andò con sommo piacere, ed ebbe tal cosa come prezioso regalo, che maggiore niuno gli avrebbe potuto fare.
La sua età, la sanità cagionevole, l'innocenza di sua vita l'avrebbero certamente dispensato da ogni sorta di penitenza; ma egli sapeva che difficilmente un giovane può conservare l'innocenza senza la penitenza, e questo pensiero faceva sì che la via dei patimenti per lui sembrava coperta di rose. Per penitenza non parlo del sopportare pazientemente le ingiurie e i dispiaceri, non parlo della continua mortificazione e compostezza di tutti i suoi sensi nel pregare, nella scuola, nello studio, nella ricreazione. Queste penitenze in lui erano continue.
Io parlo solamente delle penitenze afflittive del corpo. Nel suo fervore avea stabilito di digiunare ogni sabato a pane ed acqua in onore della Beata Vergine, ma il confessore glielo proibì; voleva digiunare la quaresima, ma dopo una settimana la cosa venne a notizia del direttore della casa, e tosto gli fu vietata. Voleva almeno lasciare la colazione, ed anche tal cosa gli venne proibita. La ragione per cui non gli si permettevano quelle penitenze era per impedire che la sua cagionevole sanità non venisse rovinata interamente. Che fare adunque? Proibito di fare astinenza nel cibo, prese ad affliggere il corpo in altre maniere. Cominciò a mettersi schegge di legno e pezzi di mattone in letto per rendersi molesto il medesimo riposo; voleva portare una specie di cilicio; le quali cose gli vennero eziandio tutte proibite. Egli si appigliò ad un novello mezzo. In
76 Un giorno ... strada: due paragrafi ins. ed. '1860.
tempo d'autunno e d'inverno lasciò inoltrare la stagione senza accrescere coperte al letto, sicché eravamo a gennaio, ed egli era tuttora coperto da estate. Un mattino rimasto a letto per qualche incomodo, il direttore l'andò a visitare. Al vederlo tutto aggomitolato gli si avvicinò, e si accorse che non aveva altro addosso che una sottile copertura. «Perché hai fatto questo, gli disse? Vuoi morire di freddo?». «No, rispose, non morrò di freddo. Gesù nella capanna di Betlemme, e quando pendeva in croce, era meno coperto di me».
Allora gli fu assolutamente proibito di intraprendere penitenze di qualsiasi genere, senza prima dimandarne espressa licenza; al quale comando, sebben con pena, si sottomise. Una volta lo incontrai tutto afflitto, che andava esclamando: «Povero me! io sono veramente imbrogliato. Il Salvatore dice, che se non fo penitenza, non andrò in paradiso"; ed a me è proibito di farne: quale adunque sarà il mio paradiso?».
— La penitenza, che il Signore vuole da te, gli dissi, è l'ubbidienza. Ubbidisci, e a te basta.
— Non potrebbe permettermi qualche altra penitenza?
— Sì: ti si permettono le penitenze, di sopportare pazientemente le ingiurie qualora te ne venissero fatte; tollerare con rassegnazione il caldo, il freddo, il vento, la pioggia, la stanchezza e tutti gli incomodi di salute che a Dio piacerà di mandarti.
— Ma questo si soffre per necessità.
— Ciò che dovresti soffrire per necessità offrilo a Dio, e diventa virtù e merito per l'anima tua.
Contento e rassegnato a questi consigli se ne andò tranquillo.
Chi mirava il Savio nella sua compostezza esteriore ci trovava tanta naturalezza che avrebbe facilmente detto essere stato così creato dal Signore. Ma quelli che lo conobbero da vicino, od ebbero cura della sua educazione, possono assicurare che vi era grande sforzo umano coadiuvato dalla grazia di Dio.
I suoi occhi erano vivacissimi, ed egli doveva farsi non piccola violenza per tenerli raccolti. «Da prima, egli ripeté più volte con un amico, quando mi son fatto una legge di voler assolutamente dominare gli occhi miei, incontrai non poca fatica: e talvolta ebbi a patire grave male di capo».
77 Cf. Lc 13,5.
78 L'intero capitolo XVI è stato ins. ed. 21860.
La riservatezza dei suoi sguardi fu tale che di tutti quelli che lo conobbero niuno si ricorda di averlo veduto a dare una sola occhiata, la quale eccedesse i limiti della più rigorosa modestia. «Gli occhi, egli soleva dire, sono due finestre. Per le finestre passa ciò che si fa passare. E noi per queste finestre possiamo far passare un angelo, oppure il demonio colle sue corna e condurre l'uno e l'altro ad essere padroni del nostro cuore».
Un giorno avvenne, che un giovanetto estraneo alla casa inconsideratamente portò seco un giornale sopra cui erano figure sconce ed irreligiose. Una turba
di ragazzi lo circonda per vedere le maraviglie di quelle figure, che avrebbero fatto ribrezzo ai turchi ed ai pagani medesimi. Corre pure il Savio, pensandosi di lontano, che colà si facesse vedere qualche immagine divota.
Ma quando ne fu vicino fece atto di sorpresa, poi quasi ridendo prese il foglio, e lo fece a minuti pezzi. Rimasero i suoi compagni pieni di stupore, sicché l'uno guardava l'altro senza parlare.
Egli allora parlò così: «Poveri noi! il Signore ci ha dato gli occhi per contemplare la bellezza delle cose da lui create, e voi ve ne servite per mirare tali sconcezze inventate dalla malizia degli uomini a danno dell'anima nostra? Avete forse dimenticato quello che tante volte fu predicato? Il Salvatore ci dice, che dando un solo sguardo cattivo macchiamo di colpa l'anima nostra; e voi pascete i vostri occhi sopra oggetti di questa fatta?».
— Noi, rispose uno, andavamo osservando quelle figure per ridere.
— Sì, sì, per ridere, intanto vi preparate per andare all'inferno ridendo..., ma riderete ancora se aveste la sventura di cadervi?
— Ma noi, ripigliò un altro, non ci vediamo tanto male in quelle figure.
— Peggio ancora; il non vedere tanto male in guardar simili sconcezze è segno che i vostri occhi sono già abituati a rimirarle; e queste abitudini non vi scusano dal male, ma vi rendono più colpevoli. O Giobbe, o Giobbe! tu eri vecchio, tu eri un santo, tu eri oppresso da una malattia per cui giacevi sdraiato sopra un letamaio; nulladimeno facesti un patto coi tuoi occhi di non dar loro la minima libertà intorno alle cose invereconde!
A quelle parole tutti si tacquero e niuno più osò di fargli alcun rimprovero, neppure altra osservazione.
Alla modestia degli occhi era congiunta una gran riservatezza nel parlare. O per torto o per ragione quando alcuno parlava, egli taceva e più volte troncava la propria parola per dar campo ad altri di parlare. I suoi maestri e gli altri suoi superiori vanno tutti d'accordo nell'asserire, che non ebbero mai alcun motivo di soltanto avvisarlo d'aver detto anche una sola parola fuori di proposito nello studio, nella scuola, nella chiesa o mentre aveva luogo l'adempimento di qualche dovere di studio o pietà. Anzi in quelle stesse occasioni che riceveva qualche oltraggio, sapeva moderare la lingua e la bile.
Un giorno egli aveva avvisato un compagno di una cattiva abitudine. Costui invece di accogliere con gratitudine la fatta ammonizione si lasciò trasportare a brutali eccessi. Lo coprì di villanie, di poi lo percosse con pugni e calci. Il Savio avrebbe potuto far valere la sua ragione coi fatti, poiché era maggiore di età e di forze. Egli per altro non fece altra vendetta se non quella dei cristiani. Divenne bensì tutto rosso nella faccia, ma frenando l'impeto della collera si limitò a queste parole: «Io ti perdono; hai fatto male; non trattar con altri in simile guisa».
Che diremo poi della mortificazione degli altri sensi del corpo? Mi restringo ad accennare soltanto alcuni fatti.
In tempo d'inverno egli pativa i geloni alle mani. Ma comunque ne sentisse dolore, non fu mai udito a fare parola o dar segno di lamento. Piuttosto pareva che ne avesse piacere. «Più sono grossi i geloni, egli diceva, e più faranno bene alla sanità», volendo indicare la sanità dell'anima. Molti suoi compagni asseriscono, che nei crudi freddi invernali egli soleva andare a scuola a passo lento e ciò per il desiderio di patire e fare penitenza in ogni cosa che gliene porgesse occasione. «Più volte il vidi, depone un suo compagno, nel più rigido inverno squarciarsi la pelle ed anche la carne con aghi e con punte di penna, affinché tali lacerazioni convertendosi in piaghe lo rendessero più simile al suo divin maestro».
Nelle comunità di giovani se ne incontrano di quelli che non sono mai contenti di nulla. Ora si lamentano delle funzioni religiose, ora della disciplina, ora del riposo, o degli apprestamenti di tavola; in tutto trovano di che disapprovare. Costoro sono una vera croce pei superiori; perché il malcontento di uno solo si comunica agli altri compagni, talvolta con non piccolo danno della comunità. La condotta del Savio era totalmente opposta a costoro. Non mai il suo labbro proferiva voce di lamento né per il caldo dell'estate, né per il freddo dell'inverno. Facesse bello o cattivo tempo egli era sempre ugualmente allegro. Checché gli si fosse apprestato a mensa mostravasi in tutto soddisfatto. Anzi con un'arte ammirabile trovava ivi un mezzo onde mortificarsi. Quando una cosa era censurata da altri, perché troppo cotta o troppo cruda, meno o molto salata, egli all'opposto mostravasi contento, dicendo essere quello appunto il suo gusto.
Era sua pratica ordinaria trattenersi in refettorio dopo i suoi compagni, raccogliere i minuzzoli di pane lasciati sopra la tavola o dispersi sul pavimento, e quelli mangiarseli come cosa saporita. Ad alcuni che ne facevano le maraviglie egli copriva il suo spirito di penitenza dicendo: «Le pagnotte non si mangiano intere e se sono ridotte in briciole è già un lavoro fatto pei denti». Ogni rimasuglio di minestra, di pietanza, di altra qualità di cibo era da lui colto e mangiato. Né ciò faceva per ghiottoneria, perciocché spesso egli donava la medesima sua porzione agli altri compagni. Interrogato perché si desse tanta sollecitudine per raccogliere quegli avanzi che avrebbero mosso taluno a schifo, egli rispondeva:
«Quanto abbiamo nel mondo, tutto è dono prezioso fattoci da Dio; ma di tutti i doni, dopo la sua santa grazia, il più grande è l'alimento con cui ci conserva la vita. Perciò la più piccola parte di questo dono merita la nostra gratitudine, ed è veramente degno di essere custodito colla più scrupolosa diligenza»".
Il pulire le scarpe, spazzolare abiti ai compagni, prestare agli infermi i più bassi uffizi, scopare e fare altri simili lavori era per lui un gradito passatempo. «Ciascuno faccia quel che può, soleva dire: io non sono capace di far cose grandi, ma quello che posso, voglio farlo a maggior gloria di Dio; e spero che Iddio nella sua infinita bontà vorrà gradire queste miserabili mie offerte».
Mangiar cose contrarie al suo gusto, evitare quelle che gli sarebbero piaciute; domare gli sguardi anche nelle cose indifferenti; trattenersi ove sentisse ingrato odore; rinnegare la sua volontà; sopportare con perfetta rassegnazione ogni cosa che avesse prodotto afflizione al suo corpo od al suo spirito sono atti di virtù che da Domenico esercitavansi ogni giorno, e possiamo anche dire ogni momento di sua vita.
Taccio pertanto moltissimi altri fatti di questo genere che tutti concorrono a dimostrare quanto in Domenico fosse grande lo spirito di penitenza, di carità e di mortificazione in tutti i sensi della persona, e nel tempo stesso quanta fosse industriosa la sua virtù nel saper approfittare delle grandi e piccole occasioni, anzi delle stesse cose indifferenti per santificarsi ed accrescersi il merito davanti al Signore.
Tutta la vita di Domenico si può dire essere un esercizio di divozione verso Maria Santissima. Né lasciavasi sfuggire occasione alcuna a fine di tributarle qualche omaggio. L'anno 1854 il supremo gerarca della Chiesa definiva dogma di fede l'immacolato concepimento di Maria. Il Savio desiderava ardentemente di rendere tra di noi vivo e durevole il pensiero di questo augusto titolo dalla Chiesa dato alla Regina del Cielo. «Io desidererei, soleva dire, di fare qualche cosa in onore di Maria, ma di farlo presto, perché temo che mi manchi il tempo».
Guidato egli adunque dalla solita industriosa sua carità, scelse alcuni dei suoi fidi compagni e li invitò ad unirsi insieme con lui per formare una compagnia detta dell'Immacolata Concezione.
79 Il racconto si basa su testimonianze di Michele Rua e Giovanni Bonetti (cf. ASC A4920137: Memorie riguardo al giovane Savio Domenico, ms. Rua, s.d., flv-2r; ASC A4920139: Fatti e detti del Savio Domenico, ms. Bonetti, s.d.,f3r).
Lo scopo era di procurarsi la protezione della gran Madre di Dio in vita e specialmente in punto di morte. Due mezzi proponeva il Savio a questo fine: esercitare e promuovere pratiche di pietà in onore di Maria Immacolata e la frequente comunione. D'accordo coi suoi amici compilò un regolamento e dopo molte sollecitudini nel giorno 8 di giugno 1856, nove mesi prima di sua morte, leggevalo con loro dinanzi all'altare di Maria santissima. Io lo trascrivo di buon grado nel pensiero che possa servire ad altri di norma a fare altrettanto". Eccone adunque il tenore:
«Noi Savio Domenico, ecc. (segue il nome di altri compagni) per assicurarci in vita ed in morte il patrocinio della Beatissima Vergine Immacolata e per dedicarci interamente al suo santo servizio, nel giorno 8 del mese di giugno, muniti tutti dei santi sacramenti della confessione e comunione, e risoluti di professar verso la Madre nostra una figliale e costante divozione, protestiamo davanti all'altare di Lei e col consenso del nostro spiritual direttore, di voler imitare per quanto lo permetteranno le nostre forze, Luigi Comollo (9. Onde ci obblighiamo:
1° Di osservare rigorosamente le regole della casa.
2° Di edificare i compagni ammonendoli caritatevolmente ed eccitandoli al bene colle parole ma molto più col buon esempio.
3° Di occupare esattamente il tempo. A fine poi di assicurarci della perseveranza nel tenor di vita, cui intendiamo di obbligarci, sottomettiamo il seguente regolamento al nostro direttore.
N. 1. A regola primaria adotteremo una rigorosa ubbidienza ai nostri superiori, cui ci sottomettiamo con una illimitata confidenza.
N. 2. L'adempimento dei propri doveri sarà nostra prima e speciale occupazione.
N. 3. Carità reciproca unirà i nostri animi, ci farà amare indistintamente i nostri fratelli, i quali con dolcezza ammoniremo, quando apparisce utile una correzione.
N. 4. Si sceglierà una mezz'ora nella settimana per convocarci, e dopo l'invocazione del S. Spirito, fatta breve lettura spirituale, si tratteranno i progressi della compagnia nella divozione e nella virtù.
80 II documento originale, trascritto da don Bosco con alcuni adattamenti, è conservato in ASC E452: Regolamento della Compagnia dell'Immacolata Concezione approvato da D. Bosco, ms. Giuseppe Bongioanni, 9 giu. 1856.
81 «Luigi Comollo nacque in Cinzano l'anno 1818 e moriva l'anno 1839 in concetto di singolar virtù nel Seminario di Chieri in età di anni 22. La vita di questo modello della gioventù fu la seconda volta stampata nell'anno I delle Letture Cattoliche» (nota presente già nella I ed.). Fino alla ed. '1861 si leggeva: «nell'anno IV delle Letture Cattoliche», errore corretto a partire dalla ed. 41866. La prima edizione della vita di Comollo era apparsa anonima nel 1844 (Cenni storici sulla vita del chierico Luigi Comollo morto nel seminario di Chieri ammirato da tutti per le sue singolari virtù, scritti da un suo collega, Torino, Speirani e Ferrero, 1844); il santo ne fece un'ed. aumentata per la collana Letture cattoliche (Cenni sulla vita del giovane Luigi Comollo morto nel seminario di Chieri ammirato da tutti per le sue rare virtù, scritti dal sac. Bosco Giovanni suo collega, Torino, P. De-Agostini, 1854); la terza ed. (1867) riprende la seconda, mentre la quarta ed. (1884), quella definitiva, sarà completamente rifatta e integrata da molte altre notizie.
N. 5. Separatamente per altro ci ammoniremo di quei difetti, di cui dobbiamo emendarci.
N. 6. Procureremo di evitare fra noi qualunque minimo dispiacere, sopportando con pazienza i compagni e le altre persone moleste.
N. 7. Non è fissata alcuna preghiera giacché il tempo, che rimane dopo compiuto il dover nostro, sarà consacrato a quello scopo che parrà più utile all'anima nostra.
N. 8. Ammettiamo tuttavia queste poche pratiche:
§ 1° La frequenza ai santi sacramenti, quanto più sovente ci verrà permesso.
§ 2° Ci accosteremo alla mensa eucaristica tutte le domeniche, le feste di precetto, tutte le novene e solennità di Maria santissima e dei santi protettori dell'Oratorio.
§ 3° Nella settimana procureremo di accostarvici al giovedì, eccetto che ne siamo distolti da qualche grave occupazione.
N. 9. Ogni giorno, specialmente nella recita del rosario, raccomanderemo a Maria la nostra società, pregandola di ottenerci la grazia della perseveranza.
N. 10. Procureremo di consacrare ogni sabato in onor di Maria qualche pratica speciale od atto di cristiana pietà in onor dell'immacolato suo concepimento.
N. 11. Useremo quindi un contegno viemaggiormente edificante nella preghiera, nelle divote letture, durante i divini uffizi, nello studio e nella scuola.
N. 12. Custodiremo colla massima gelosia la santa parola di Dio e ne rianderemo le verità ascoltate".
N. 13. Eviteremo qualunque perdita di tempo per assicurare l'animo nostro dalle tentazioni che sogliono fortemente assalirci nell'ozio; perciò:
N. 14. Dopo aver soddisfatto agli obblighi che appartengono a ciascun di noi, consacreremo le ore rimaste libere in utili occupazioni, come in divote ed istruttive letture o nella preghiera.
N. 15. La ricreazione è voluta o almeno permessa dopo il cibo, dopo la scuola e dopo lo studio.
N. 16. Procureremo di manifestare ai nostri superiori qualunque cosa possa giovare alla nostra morale condotta.
N. 17. Procureremo eziandio di fare gran risparmio di quei permessi, che ci vengono largiti dalla bontà dei nostri superiori, imperciocché una delle nostre mire speciali è certamente un'esatta osservanza delle regole della casa, troppo spesso offese dall'abuso di codesti permessi.
N. 18. Accetteremo dai nostri superiori quello che verrà destinato a nostro alimento senza mai muovere lamento intorno agli apprestamenti di tavola e distoglieremo anche gli altri dal farlo.
N. 19. Chi bramerà far parte a questa società, dovrà anzitutto purgarsi la coscienza col sacramento della confessione e cibarsi alla mensa eucaristica, dar quindi saggio della sua condotta con una settimana di prova, leggere attentamente queste regole e prometterne esatta osservanza a Dio ed a Maria santissima Immacolata.
N. 20. Nel giorno di sua ammissione i fratelli si accosteranno alla santa comu
82 Cf. Le 11,28.
nione pregando Sua Divina Maestà di accordare al compagno le virtù della perseveranza, dell'ubbidienza, il vero amor di Dio.
N. 21. La società è posta sotto gli auspizi dell'Immacolata Concezione, di cui avremo il titolo e porteremo una divota medaglia. Una sincera, figliale, illimitata fiducia in Maria, una tenerezza singolare verso di Lei, una divozione costante ci renderanno superiori ad ogni ostacolo, tenaci nelle risoluzioni, rigidi verso di noi, amorevoli col nostro prossimo, ed esatti in tutto.
Consigliamo inoltre i fratelli a scrivere i santi nomi di Gesù e di Maria prima nel cuore e nella mente, poi sui libri e sopra gli oggetti che ci possono cadere sott'occhio.
Il nostro direttore è pregato di esaminare queste regole e di manifestarci intorno ad esse il suo giudizio, assicurandolo che noi tutti intieramente dipendiamo dalla sua volontà. Egli potrà far subire a questo regolamento quelle modificazioni, che gli parranno convenienti.
E Maria? Benedica essa i nostri sforzi, giacché l'ispirazione di dar vita a questa pia società fu tutta sua. Ella arrida alle nostre speranze, esaudisca i nostri voti, e noi coperti dal suo manto, forti del suo patrocinio, sfideremo le procelle di questo mare infido, supereremo gli assalti del nemico infernale. In simil guisa da Lei confortati speriamo di essere l'edificazione dei compagni, la consolazione dei superiori, diletti figliuoli di Lei. E se Dio ci concederà grazia e vita di poterlo servire nel sacerdotal ministero, noi ci adopreremo con tutte le nostre forze, per farlo col massimo zelo, e diffidando delle nostre forze, illimitatamente fidando nel divino soccorso, potremo sperare che dopo questa valle di pianto, consolati dalla presenza di Maria, raggiungeremo sicuri in quell'ultima ora quel guiderdone eterno, che Iddio tien serbato a chi lo serve in ispirito e verità».
Il direttore dell'Oratorio lesse di fatto il sopra esposto regolamento di vita, e dopo di averlo attentamente esaminato, lo approvò colle seguenti condizioni:
1. Le mentovate promesse non hanno forza di voto.
2. Nemmeno obbligano sotto pena di colpa alcuna.
3. Nelle conferenze si stabilisca qualche opera di carità esterna, come la nettezza della chiesa, l'assistenza od il catechismo di qualche fanciullo più ignorante.
4. Si dividano i giorni della settimana in modo che in ciascun giorno vi siano alcune comunioni.
5. Non si aggiunga alcuna pratica religiosa senza speciale permesso dei superiori.
6. Si proponga per iscopo fondamentale di promuovere la divozione verso Maria santissima Immacolata, e verso il santissimo Sacramento.
7. Prima di accettare qualcheduno, gli si faccia leggere la vita di Luigi Co-mollo (83).
83 «Uno fra quelli che più efficacemente aiutarono Savio Domenico nell'istituire la compagnia dell'Immacolata Concezione e compilarne il regolamento fu Bongioanni Giuseppe. Questi, rimasto orfano di padre e di madre, era stato raccomandato da una zia al direttore dell'Oratorio, che caritatevolmente lo accolse nel novembre del 1854. Trovavasi allora all'età di 17 anni, e a malincuore forzato dalle circostanze egli venne, ma ancora colla mente piena delle vanità del mondo e con vari pregiudizi in fatto di religione. Si vede però in lui chiaramente l'operazione della divina grazia, giacché in breve si affezionò grandemente alla casa, alle regole e ai superiori; rettificò insensibilmente le sue idee e diedesi con tutto ardore all'acquisto delle virtù ed alle pratiche di pietà. Dotato com'era d'ingegno molto perspicace e di grande facilità ad imparare venne applicato allo studio. Con mirabile rapidità compie gli studi classici, facendovi eccellente riuscita. Fornito di fervida immaginazione spiegò una grande abilità nel poetare sia nell'italiana favella, sia in dialetto; e mentre nelle famigliari conversazioni serviva di diletto agli amici coll'improvvisare su argomenti scherzevoli, scriveva al tavolino bellissime poesie di cui molte furono pubblicate, come quella ad onore di Maria Ausiliatrice che comincia: Salve, Salve, pietosa Regina [Maria] ecc. che trovasi nel Giovane provveduto [cf. ed. "1874, 444-446].
Avviatosi alla carriera ecclesiastica sempre si segnalò durante il chiericato per la sua pietà e fedele osservanza delle regole e zelo per il bene dei suoi compagni. Fatto sacerdote nel 1863, non è a dire con qual fervore siasi dato all'esercizio del sacro ministero. Sebbene poco fosse favorito nella voce, riusciva tuttavia di tanto gradimento nella predicazione per la bellezza della materia e per l'unzione nell'esposizione, che era ascoltato molto volentieri e ne riportava copiosi frutti.
Dopo aver aiutato Savio Domenico, con cui era unito in santa amicizia, ad istituire la compagnia dell'Immacolata, essendo allora solamente chierico, fondò col permesso del Superiore un'altra compagnia ad onore del SS. Sacramento che aveva per iscopo di promuoverne il culto fra la gioventù e di addestrare gli allievi più noti in virtù al servizio delle sacre funzioni, formando così un piccolo clero ad accrescerne la maestà e la grazia. Tale compagnia continuò a coltivare con maggior attività e con ottimi risultati quando fu sacerdote. E ben si può dire che se la congregazione di S. Francesco di Sales poté già dare alla chiesa un bel numero di ministri degli altari, in gran parte si deve alle sante premure del sac. Bongioanni intorno al Piccolo Clero.
Nel 1868 avvicinandosi l'epoca della consacrazione della Chiesa eretta in Valdocco ad onore di Maria Ausiliatrice, D. Bongioanni s'adoperò con tutto l'impegno per disporre le cose necessarie a tale funzione e specialmente nel preparare il Piccolo Clero a fare con edificazione la parte sua nel giorno della festa e nell'ottava successiva, che dovevasi pur solennizzare in modo straordinario. Trasportato da ardente amore a Maria SS. nulla risparmiò di sollecitudini, di fatiche e sudori, particolarmente nella vigilia che fu agli 8 di giugno di tale anno. La Vergine Ausiliatrice aggradendo la sua fervorosa divozione ed ossequio, gliene ottenne ben presto il premio. Prima però lo volle assoggettare ad una prova che sopportata con rassegnazione riuscì certamente al buon sacerdote di gran merito. Egli che tanto erasi adoperato per la buona riuscita delle feste, al 9 giugno, giorno della consacrazione trovossi infermo, in modo da non poter alzarsi dal letto. Pei giorni seguenti la malattia continuava. Esso desideroso di poter almeno una volta celebrare i divini misteri nella nuova chiesa, supplicò la SS. Vergine con calde istanze ad ottenergliene la grazia. Fu esaudito. Nella domenica fra l'ottava sentissi tale miglioramento ed aumento di forze, che poté colla debita preparazione accostarsi all'altare e celebrare la santa messa con immensa consolazione del suo cuore. Dopo la messa disse a qualcuno dei suoi amici che era tanto contento che ben poteva intonare il Nunc dimittis. E così fu: giacché sentendosi venir meno le forze ritornò a letto; né più si rialzò. Al mercoledì successivo, essendo finita l'ottava, si fece un servizio funebre pei benefattori defunti; e nel pomeriggio, compiuta ogni funzione e solennità, i giovani allievi dei vari collegi che eran venuti a prendere parte alla festa, partirono per la loro destinazione.
Un'ora dopo il sac. Bongioanni Giuseppe munito dei conforti della religione, assistito dall'amato suo direttore, circondato da una corona dei suoi più cari amici e confratelli rese la sua bell'anima al Signore, andando, come fermamente si spera, a vedere come si festeggia in cielo Colei, che formava l'oggetto della sua più tenera divozione» (nota ins. ed. 51878).
Ognuno era amico con Domenico: chi non lo amava, lo rispettava per le sue virtù. Egli sapeva poi passarsela bene con tutti. Era così rassodato nella virtù che fu consigliato di trattenersi anche con alcuni giovani alquanto discoli per far prova di guadagnarli al Signore. Ed egli approfittava della ricreazione, dei trastulli, dei discorsi anche indifferenti per tirarne vantaggio spirituale. Tuttavia quelli che erano inscritti nella società dell'Immacolata Concezione erano" i suoi amici particolari, coi quali, come si è detto, si radunava ora in conferenze spirituali, ora per compiere esercizi di cristiana pietà. Queste conferenze tenevansi con licenza dei superiori; ma erano assistite e regolate dagli stessi giovani. In esse trattavano del modo di celebrare le novene delle maggiori solennità, si ripartivano le comunioni, che ciascuno avrebbe avuto cura di fare in giorni determinati della settimana, si assegnavano a vicenda quei giovani che avevano maggior bisogno di assistenza morale e ciascuno lo faceva suo cliente, ovvero protetto, e adoperavano tutti i mezzi che suggerisce la carità cristiana per avviarlo alla virtù. Il Savio era dei più animati, e si può dire che in queste conferenze la faceva da dottore.
Si potrebbero accennare parecchi compagni del Savio che prendevano parte a queste conferenze e che trattarono molto con lui, ma essendo ancor essi tra i vivi, pare prudenza non parlarne". Ne accennerò solamente due, che sono già stati chiamati alla patria celeste. Questi sono Gavio Camillo di Tortona, e Massaglia Giovanni di Marmorito86. Il Gavio dimorò solamente due mesi tra noi, e questo tempo bastò per lasciare santa rimembranza di sé presso i compagni.
La sua luminosa pietà e il suo gran genio per la pittura e la scultura avevano risolto il municipio di quella città ad aiutarlo affinché potesse venire a Torino a proseguire gli studii per l'arte sua.
84 quelli che erano: ins. ed. 21860, in sostituzione di aveva.
85 Nel verbale di fondazione della compagnia dell'Immacolata, stilato da Giuseppe Bongioanni (ASC A230), sono elencati i soci fondatori in quest'ordine: «Bonetti Giovanni, Vaschetti Francesco, Savio Domenico, Marcellino Luigi, Durando Celestino, Momo Giuseppe, Bongioanni Giuseppe»; in altra copia del verbale troviamo, anche i nomi di Giuseppe Rocchietti, Michele Rua e Giovanni Cagliero.
86 Entrambi morirono prima della fondazione della compagnia dell'Immacolata (9 giu. 1856): Gavio si spense il 29 dic. 1855 e Massaglia il 20 mag. 1856; tuttavia è probabile che essi si radunassero con Domenico ed altri «ora in conferenze spirituali, ora per compiere esercizi di cristiana pietà», com'era usanza in Valdocco anche prima della fondazione della compagnia. La confusione si deve all'inserimento in ed. 21860 dell'inciso segnalato alla nota 84.
Egli aveva fatto una grave malattia in patria; e come venne all'Oratorio, sia per essere convalescente, sia per trovarsi lontano dalla patria e dai parenti, sia anche per la compagnia dei giovinetti tutti sconosciuti, se ne stava osservando gli altri a trastullarsi, ma assorto in gravi pensieri. Lo vide il Savio, e tosto si avvicinò per confortarlo, e tenne secolui questo preciso discorso.
Il Savio cominciò: «Ebbene, mio caro, non conosci ancora alcuno, non è vero?».
— È vero, ma mi ricreo rimirando gli altri a trastullarsi.
— Come ti chiami?
— Gavio Camillo di Tortona. — Quanti anni hai?
— Ne ho quindici compiuti.
— Da che deriva quella malinconia che ti trasparisce in volto; sei forse stato ammalato?
— Sì, sono stato veramente ammalato; ho fatto una malattia di palpitazione, che mi portò sull'orlo della tomba, ed ora non ne sono ancora ben guarito. — Desideri di guarire, non è vero?
— Non tanto, desidero di far la volontà di Dio.
Queste ultime parole fecero conoscere il Gavio per un giovane di non ordinaria pietà, e cagionarono nel cuor del Savio una vera consolazione; sicché con tutta confidenza continuò:
— Chi desidera di fare la volontà di Dio, desidera di santificare se stesso"; hai dunque volontà di farti santo?
— Questa volontà in me è grande.
— Bene, accresceremo il numero dei nostri amici, tu sarai uno di quelli che prenderanno parte a quanto facciamo noi per farci santi.
— È bello quanto mi dici; ma io non so che cosa debba fare!
— Te lo dirò io in poche parole": sappi che noi qui facciamo consistere la santità nello star molto allegri. Noi procureremo soltanto di evitar il peccato, come un gran nemico che ci ruba la grazia di Dio e la pace del cuore, procureremo di adempiere esattamente i nostri doveri, e frequentare le cose di pietà. Comincia fin d'oggi a scriverti per ricordo: Servite Domino in laetitia, serviamo il Signore in santa allegria".
Questo discorso fu come un balsamo alle afflizioni del Gavio, che ne provò un vero conforto. Che anzi da quel giorno in poi egli divenne fido amico del Savio e costante seguace delle sue virtù. Ma la malattia che lo aveva portato sull'orlo della tomba, e che non era stata sradicata, in capo a due mesi ricomparve, e malgrado le sollecitudini dei medici e degli amici non le si poté più trovar rimedio.
87 Cf. 1 Ts 4,3,
88 È bello quanto ... parole: ins. ed. 3 1 86 1.
89 Cf. Sal 100,2.
Dopo alcuni giorni di peggioramento, dopo di aver con grande edificazione ricevuti gli ultimi sacramenti, mandava l'anima al Creatore il 29 dicembre 1855 90.
Domenico andò più volte a visitarlo nel corso della malattia, e si offriva di passare le notti vegliando presso di lui, sebbene non gli venisse permesso. Quando seppe che era spirato, volle andarlo a vedere per l'ultima volta, e mirandolo estinto, commosso gli diceva: «Addio, o Gavio, io sono intimamente persuaso che91 tu sei volato al cielo; perciò prepara anche un posto per me. Io ti sarò sempre amico, ma finché il Signore mi lascerà in vita, pregherò per il riposo dell'anima tua».
Dopo andò con altri compagni a recitare l'uffizio dei morti nella camera del defunto, si fecero altre preghiere lungo il giorno; quindi invitò alcuni dei più buoni condiscepoli a fare la santa comunione, ed egli stesso la fece più volte in suffragio dell'amico defunto.
Fra le altre cose egli disse ai suoi amici: «Miei cari, non dimentichiamo l'anima del nostro amico. Io spero che a quest'ora egli goda già la gloria del cielo; tuttavia non cessiamo di pregare per il riposo dell'anima di lui»92. Tutto quello che ora facciamo per lui, Dio disporrà che altri lo faccia un giorno per noi.
Più lunghe e più intime furono le relazioni del Savio con Massaglia di Mar-monito, paese poco distante da Mondonio.
Vennero amendue contemporaneamente nella casa dell'Oratorio; erano confinanti di patria; avevano amendue la stessa volontà di abbracciare lo stato ecclesiastico, con vero desiderio di farsi santi.
— Non basta, un giorno Domenico diceva al suo amico, non basta il dire che vogliamo farci ecclesiastici, ma bisogna che ci adoperiamo per acquistare le virtù che a questo stato sono necessarie.
— È vero, rispondeva l'amico, ma se facciamo quello che possiamo dal canto nostro, Dio non mancherà di darci grazia e forza per meritarci un favore così grande quale si è diventar ministri di Gesù Cristo.
90 Don Bosco, errando, scrive: 30 dicembre 1856.
91 io sono ... che: ins. ed. 51878.
92 Io spero di lui: ins. ed. '1860.
Venuto il tempo pasquale fecero cogli altri giovani gli spirituali esercizi con molta esemplarità. Terminati gli esercizi, Domenico disse al compagno:
— Voglio che noi siamo veri amici; veri amici per le cose dell'anima; perciò desidero che d'ora in avanti siamo l'uno monitore dell'altro in tutto ciò che può contribuire al bene spirituale. Quindi se tu scorgerai in me qualche difetto, dimmelo tosto, affinché me ne possa emendare: oppure se scorgerai qualche cosa di bene ch'io possa fare, non mancar di suggerirmelo.
— Lo farò volentieri per te, sebbene non ne abbisogni, ma tu lo devi fare assai più verso di me, che, come ben sai, per età, studio e scuola" mi trovo esposto a maggiori pericoli.
— Lasciamo i complimenti da parte ed aiutiamoci vicendevolmente a farci del bene per l'anima.
Da quel tempo il Savio ed il Massaglia divennero veri amici, e la loro amicizia fu durevole, perché fondata sulla virtù; giacché andavano a gara coll'esempio e coi consigli per aiutarsi a fuggire il male e praticare il bene.
Alla fine dell'anno scolastico, subiti gli esami, fu a ciascun giovane della casa data licenza di andar a passare le vacanze o coi genitori o con qualche altro parente. Alcuni, mossi dal desiderio di progredire nello studio ed attendere meglio agli esercizi di pietà" preferirono di rimanere all'Oratorio, e tra questi furono Savio e Massaglia. Sapendo io quanto fossero ansiosamente aspettati dai parenti, e quanto essi medesimi avessero bisogno di ristorare la loro stanchezza, dissi ad ambidue: «Perché non andate a passare qualche giorno in vacanza?». Essi invece di rispondere si misero a ridere. «Che cosa volete dirmi con questo ridere?». Domenico rispose: «Noi sappiamo che i nostri parenti ci attendono con piacere; noi eziandio li amiamo e ci andremmo volentieri; ma sappiamo che l'uccello finché trovasi in gabbia non gode libertà, è vero; è per altro sicuro dal falcone. Al contrario se è fuori di gabbia, vola dove vuole, ma da un momento all'altro può cadere negli artigli del falcone infernale»".
Ciò non ostante ho giudicato bene di mandarli qualche tempo a casa per il bene della loro sanità, e si arresero alla mia volontà soltanto per ubbidienza, restandovi quei soli giorni che erano stati strettamente loro comandati.
Se volessi scrivere i bei tratti di virtù del giovane Massaglia, dovrei ripetere in gran parte le cose dette del Savio, di cui fu fedele seguace finché visse. Egli godeva buona salute, e dava ottima speranza di sé nella carriera degli studi. Compiuto il corso di retorica, subì con esito felice l'esame per la vestizione clericale. Ma questo abito, da lui tanto amato e tanto rispettato poté soltanto portarlo alcuni mesi.
93 studio e scuola: ins. ed. '1860.
94 mossi ... pietà: ins. ed. 21860.
95 cadere ... infernale: ins. ed. 51878, per semplificare il precedente: «cadere negli artigli di quell'uccello di rapina. La nostra gabbia è l'Oratorio; qui stiamo sicuri; se usciamo di qui temiamo di cadere negli artigli del falcone infernale».
Colpito da una costipazione, che aveva aspetto di semplice raffreddore, non voleva nemmeno interrompere i suoi studi. Per il desiderio di fargli fare una cura radicale, e per toglierlo dall'occasione di studiare, i genitori lo condussero a casa. Fu nel tempo di questa sua dimora in patria che scrisse al suo amico una lettera del seguente tenore":
Caro amico.
Mi pensava di dover passare solamente alcuni giorni a casa e poi ritornare all'Oratorio, perciò ho lasciato tutti i miei arnesi di scuola costì. Ora per altro mi avveggo che le cose vanno a lungo e l'esito di mia malattia rendesi ognor più incerto. Il medico mi dice che va meglio. A me sembra che vada peggio. Vedremo chi ha ragione. Caro Domenico, io provo grande afflizione lungi da te e dall'Oratorio, perché qui non ho comodità di attendere agli esercizi di divozione. Solo mi conforto rammentando quei giorni che noi fissavamo per prepararci ed accostarci insieme alla santa comunione.
Spero nulladimeno che, sebbene separati di corpo, non lo saremo di spirito.
Intanto io ti prego di andare nello studio e di fare una visita da questore al mio cancello. Ivi troverai alcune carte Manoscritte, là vicino havvi il mio amico, il Kempis, ossia De imitatione Christi. Farai di tutto un pacco solo e me lo invierai. Bada bene che tal libro è latino; perché sebbene mi piaccia la traduzione, tuttavia è sempre traduzione, ove non trovo il gusto che provo nell'originale latino. Mi sento stanco dal fare niente; tuttavia il medico mi proibisce studiare. Fo molte passeggiate per la mia camera e spesso vado dicendo: Guarirò da questa malattia? Ritornerò a vedere i miei compagni? Sarà questa per me l'ultima malattia? Checché ne sia per essere di tutte queste cose, Dio solo il sa. Parmi di essere pronto a fare in tutti e tre i casi la santa ed amabile volontà di Dio.
Se hai qualche buon consiglio, procura di scrivermelo. Dimmi come va la tua sanità; ricordati di me nelle tue preghiere e specialmente quando fai la santa comunione. Coraggio, amami di tutto cuore nel Signore; che se non potremo trattenerci insieme lungo tempo nella vita presente, spero che potremo un giorno vivere felici in dolce compagnia nella beata eternità.
Saluta i nostri amici e specialmente i confratelli della compagnia dell'Immacolata Concezione. Il Signore sia con te e credimi sempre il tuo affezionatissimo Massaglia Giovanni".
Domenico eseguì la commissione dell'amico, e, nel mandargli quanto gli chiedeva, univa la seguente lettera":
96 Fu nel ... tenore: ins. ed. '1860.
97 Caro amico ... Giovanni: lettera ins. ed. 21860.
98 Domenico ... lettera: ins. ed. 21860.
Mio caro Massaglia.
La tua lettera mi ha fatto piacere, perché con essa fui assicurato che tu vivi ancora, perciocché dopo la tua partenza noi non avevamo più avuto notizie di te e non sapeva se dovessi dirti il Gloria Patri o il De profundis. Riceverai gli oggetti che mi hai richiesto. Debbo soltanto notarti che il Kempis è un buon amico, ma egli è morto, né mai si muove di posto. Bisogna adunque che tu lo cerchi, lo scuota, lo legga adoperandoti per mettere in pratica quanto ivi andrai leggendo.
Tu sospiri la comodità che abbiamo qui per gli esercizi di pietà, ed hai ragione. Quando sono a Mondonio ho il medesimo fastidio. Io studiava di supplire con fare ogni giorno una visita al santissimo Sacramento, procurando di condur teco quanti compagni poteva. Oltre al Kempis leggeva il Tesoro nascosto nella santa messa del beato Leonardo". Se ti par bene fa' anche tu altrettanto. Mi dici di non sapere se ritornerai all'Oratorio a farci visita; la mia carcassa apparisce anche assai logora, e tutto mi fa presagire che mi avvicino a gran passi al termine dei miei studi e della mia vita. Ad ogni modo facciamo così: preghiamo l'uno per l'altro, perché ambi-due possiamo fare una buona morte. Colui che sarà il primo di noi ad andarsene al paradiso prepari un posto all'amico, e quando lo andrà a trovare, gli porga la mano per introdurlo nell'abitazione del cielo.
Dio ci conservi sempre in grazia sua, e ci assista a farci santi, ma presto santi, perché temo che ci manchi il tempo. Tutti i nostri amici sospirano il tuo ritorno all'Oratorio e ti salutano caramente nel Signore.
Io poi con fraterno amore ed affetto mi dichiaro sempre
Affezionatissimo amico Savio Domenico'".
La malattia del giovane Massaglia dapprima sembrava leggera; più volte parve perfettamente vinta, più volte ricadde, finché quasi inaspettatamente venne all'estremo della vital°1.
«Egli ebbe tempo, scriveva il teologo Valfrè direttore spirituale nelle vacanze", di ricevere colla massima esemplarità tutti i conforti di nostra santa cattolica religione; moriva della morte del giusto che lascia il mondo per volare al cielo» (").
99 Cf. LEONARDO DA PORTO MAURIZIO, Il tesoro nascosto, ovvero pregi ed eccellenze della S. Messa, con un modo pratico e divoto per ascoltarla con, frutto, Torino, Giacinto Marietti, 1840; don Bosco lo pubblicherà nella collana Letture cattoliche (VIII, fase. 12, feb. 1861).
100 Mio caro ... Domenico: lettera ins. ed. 21860.
101 La malattia ... vita: ins. ed. 21860.
102 direttore spirituale nelle vacanze: ins. ed. '1861.
103 «Il sacerdote teologo Valfrè Carlo nacque in Villafranca di Piemonte il 23 luglio 1813. Con una condotta veramente esemplare e con felice successo egli percorreva la carriera degli studi; secondando la sua vocazione abbracciò lo stato ecclesiastico. Con zelo apostolico lavorò più anni nel sacro ministero, finché in un concorso fu giudicato degno della parrocchia di Marmorito. Era indefesso nello adempimento dei suoi doveri. L'istruzione ai poveri ragazzi; l'assistenza agli infermi; sollevare i poverelli erano le doti caratteristiche del suo zelo. Per bontà, carità e disinteresse poteva proporsi a modello di qualunque sacerdote che abbia cura di anime. Quando le cure parrocchiali il comportavano, egli andava altrove a dettare esercizi spirituali, tridui, novene e simili. Il Signore benediceva le sue fatiche, le quali erano sempre coronate da frutto copioso. Ma nel tempo che noi avevamo maggior bisogno di lui, Iddio lo trovò maturo per il cielo. Dopo breve malattia, colla morte del giusto, egli passava alla vita beata nella bella età d'anni 47, il 12 febbraio dell'anno 1861. Questa perdita privò la Chiesa di un degno ministro, tolse a Marmorito un pastore che a buon diritto chiamavasi il padre del popolo; ma siamo tutti non poco consolati nella speranza di aver acquistato un benefattore presso Dio in cielo» (nota ins. ed. 31861). Il teologo Carlo Valfré (Valfredo) era nato a Sangano (Torino), non a Villafranca, da Giovanni e Teresa Alberga; vestì l'abito chiericale il 26 ott. 1832, si laureò in teologia all'Università di Torino e fu ordinato sacerdote il 25 mag. 1839; nel 1851 assunse la cura pastorale della parrocchia dell'Immacolata Concezione di Marmorito, che resse fino alla morte (cf. AAT, 12.12.3: Registrum clericorum 1808-1847, rubr. V, 1832; AAT 12.3.12: Registrum ordinationum 1836-1847; Calendarium liturgicum... anno MDCCCLII, Augustae Taurinorum, Botta, 1861, 69). Sulla parrocchia di Marmorito vedi la recensione di G. PASSINO a Marmorito e la sua chiesa: Madonna della Neve, a cura di B. Morso, Marmorito, s.e., 2009, in «Il platano rivista di cultura astigiana» 34 (2009) 533-535.
Alla perdita di quell'amico il Savio fu profondamente addolorato, e sebbene rassegnato ai divini voleri lo pianse per più giorni. Questa è la prima volta che vidi quel volto angelico a rattristarsi e piangere di dolore. L'unico conforto fu di pregare e far pregare per l'amico defunto. Fu udito talvolta ad esclamare: «Caro Massaglia, tu sei morto, e spero che sarai già in compagnia di Gavio in paradiso, ed io quando andrò a raggiungervi nell'immensa felicità del cielo?».
Per tutto il tempo che Domenico sopravvisse al suo amico l'ebbe ognor presente nelle pratiche di pietà e soleva dire, che non poteva andar ad ascoltare la santa messa, od assistere a qualche esercizio divoto senza raccomandare a Dio l'anima di colui che in vita erasi cotanto adoperato per il suo bene. Questa perdita fu assai dolorosa al tenero cuor di Domenico, e la medesima sanità di lui fu notevolmente alterata.
Finora ho raccontate cose che presentano nulla di straordinario, se non vogliamo chiamare straordinaria una condotta costantemente buona, che si andò sempre perfezionando coll'innocenza della vita, con le opere di penitenza e coll'esercizio della pietà. Potrebbesi pur chiamare cosa straordinaria la vivezza di sua fede, la ferma sua speranza e l'infiammata sua carità e la perseveranza nel bene sino all'ultimo respiro. Qui per altro io voglio esporre grazie speciali ed alcuni fatti non comuni, che forse andranno soggetti a qualche critica. Per la qual cosa io stimo bene di notare al lettore, che quanto ivi riferisco ha piena somiglianza coi fatti registrati nella Bibbia e nella vita dei santi; riferisco cose che ho vedute cogli occhi miei, assicuro che scrivo scrupolosamente la verità, rimettendomi poi interamente ai riflessi del discreto lettore. Eccone il racconto.
Più volte andando in chiesa, specialmente nel giorno che Domenico faceva la santa comunione oppure era esposto il santissimo Sacramento, egli restava come rapito dai sensi; talmente che lasciava passare del tempo anche troppo lungo, se non era chiamato per compiere i suoi ordinari doveri. Accadde un giorno che mancò dalla colazione, dalla scuola, e dal medesimo pranzo, e niuno sapeva dove fosse; nello studio non c'era, a letto nemmeno. Riferita al direttore tal cosa, gli nacque sospetto di quello che era realmente, che fosse in chiesa, siccome già altre volte era accaduto. Entra in chiesa, va in coro e lo vede là fermo come un sasso. Egli teneva un piede sull'altro, una mano appoggiata sul leggio dell'antifonario, l'altra sul petto colla faccia fissa e rivolta verso il tabernacolo. Non moveva palpebra. Lo chiama, nulla risponde. Lo scuote, e allora gli volge lo sguardo e dice: «Oh è già finita la messa?». «Vedi, soggiunse il direttore, mostrandogli l'orologio, sono le due». Egli dimandò umile perdono della trasgressione delle regole di casa, ed il direttore lo mandò a pranzo, dicendogli: «Se taluno ti dirà: onde vieni? Risponderai, che vieni dall'eseguire un mio comando». Fu detto questo per evitare le dimande inopportune, che forse i compagni avrebbero fatte.
Un altro giorno, terminato l'ordinario ringraziamento della messa, io era per uscire dalla sacrestia, quando sento in coro una voce come di una persona che disputava. Vado a vedere e trovo il Savio che parlava e poi si arrestava, come chi dà campo alla risposta. Fra le altre cose intesi chiaramente queste parole: «Sì, mio Dio, ve l'ho già detto e ve lo dico di nuovo, io vi amo e vi voglio amare fino alla morte. Se voi vedete che io sia per offendervi, mandatemi la morte: sì, prima la morte, ma non peccare».
Gli ho talvolta dimandato che cosa facesse in quei suoi ritardi, ed egli con tutta semplicità rispondeva: «Povero me, mi salta una distrazione, e in quel momento perdo il filo delle mie preghiere, e parmi di vedere cose tanto belle, che le ore fuggono come un momento».
Un giorno entrò nella mia camera dicendo: «Presto, venga con me, c'è una bell'opera da fare». «Dove vuoi condurmi?», gli chiesi. «Faccia presto, soggiunse, faccia presto». Io esitava tuttora, ma instando egli, ed avendo già provato altre volte l'importanza di questi inviti, accondiscesi. Lo seguo. Esce di casa, passa per una via, poi un'altra, ed un'altra ancora, ma non si arresta, né fa parola; prende in fine un'altra via, io lo accompagno di porta in porta, finché si ferma. Sale una scala, monta al terzo piano e suona una forte scampanellata. «È qua, che deve entrare», egli dice, e tosto se ne parte.
Mi si apre: «Oh presto, mi vien detto; presto, altrimenti non è più a tempo.
Mio marito ebbe la disgrazia di farsi protestante; adesso è in punto di morte e dimanda per pietà di poter morire da buon cattolico».
Io mi recai tosto al letto di quell'infermo, che mostrava viva ansietà di dar sesto alle cose della sua coscienza. Aggiustate colla massima prestezza le cose di quell'anima, giunge il curato della parrocchia di S. Agostino'", che già prima si era fatto chiamare. Esso poté appena amministrargli il sacramento dell'Olio Santo con una sola unzione, poiché l'ammalato divenne cadavere.
Un giorno ho voluto chiedere al Savio come egli avesse potuto sapere che colà eravi un ammalato, ed egli mi guardò con aria di dolore, di poi si mise a piangere. Io non gli ho più fatta ulteriore dimanda.
L'innocenza della vita, l'amor verso Dio, il desiderio delle cose celesti ave-ano portato la mente di Domenico a tale stato che si poteva dire abitualmente assorto in Dio. Talvolta sospendeva la ricreazione, voltava altrove lo sguardo e si metteva a passeggiare da solo. Interrogato perché lasciasse così i compagni, rispondeva: «Mi assalgono le solite distrazioni, e mi pare che il paradiso mi si apra sopra del capo, ed io debbo allontanarmi dai compagni per non dir loro cose che forse essi metterebbero in ridicolo».
Un giorno in ricreazione parlavisi del gran premio da Dio preparato in cielo a coloro che conservavano la stola dell'innocenza. Fra le altre cose dicevasi: «Gli innocenti sono in cielo i più vicini alla persona del nostro divin Salvatore, e gli canteranno speciali inni di gloria in eterno». Questo bastò per sollevare il suo spirito al Signore e, restando immobile, si abbandonò come morto nelle braccia di uno degli astanti".
Questi rapimenti di spirito gli succedevano nello studio, e nell'andata e ritorno dalla scuola e nella scuola medesima.
Parlava assai volentieri del romano pontefice, ed esprimeva il suo vivo desiderio di poterlo vedere prima di morire, asserendo ripetutamente che aveva cosa di grande importanza da dirgli. Ripetendo spesso le medesime cose, volli chiedergli qual fosse quella gran cosa che avrebbe voluto dire al Papa.
— Se potessi parlare al Papa, vorrei dirgli che in mezzo alle tribolazioni che lo attendono non cessi di occuparsi con particolare sollecitudine'" dell'Inghilterra; Iddio prepara un gran trionfo al cattolicismo in quel regno.
— Sopra quali cose appoggi tu queste tue parole?
— Lo dico, ma non vorrei che ne facesse parola con altri, per non espormi forse alle burle. Se però andrà a Roma, lo dica a Pio IX. Ecco dunque: un mattino, mentre faceva il ringraziamento della comunione, fui sorpreso da una forte distrazione, e mi parve di vedere una vastissima pianura piena di gente avvolta in densa nebbia.
104 della parrocchia di S. Agostino: ins. ed. '1878.
105 Un giorno ... astanti: due paragrafi ins. ed. 21860.
106 in mezzo ... sollecitudine: ins. ed. 21860, per accentuare il testo precedente: «si occupi assai».
Camminavano, ma come uomini che, smarrita la via, non vedono più ove mettono il piede. Questo paese, mi disse uno che mi era vicino, è l'Inghilterra. Mentre voleva dimandare altre cose vedo il sommo pontefice Pio IX tale quale aveva veduto dipinto in alcuni quadri. Egli maestosamente vestito, portando una luminosissima fiaccola tra le mani, si avanzava verso quella turba immensa di gente. Di mano in mano che si avvicinava, al chiarore di quella fiaccola, scompariva la nebbia, e gli uomini restavano nella luce come di mezzogiorno. Questa fiaccola, mi disse l'amico, è la religione cattolica che deve illuminare gl'Inglesi.
L'anno 1858 essendo andato a Roma, ho voluto raccontare tale cosa al sommo pontefice, che la udì con bontà e con piacere. «Questo, disse il Papa, mi conferma nel mio proposito di lavorare energicamente a favore dell'Inghilterra, a cui ho già rivolto le mie più vive sollecitudini. Tal racconto, se non altro, mi è come consiglio di un'anima buona».
Ometto molti altri fatti simiglianti, contento di scriverli, lasciando che altri li pubblichi, quando si giudicherà che possano tornare a maggior gloria di Dio.
Chi ha letto quanto abbiamo finora scritto intorno al giovine Savio Domenico, conoscerà di leggeri che la vita di lui fu una continua preparazione alla morte. Ma egli reputava la compagnia dell'Immacolata Concezione come un mezzo efficace per assicurarsi la protezione di Maria in punto di morte, che ognuno presagiva non essergli lontana. Io non so se egli abbia avuto da Dio rivelazione del giorno e delle circostanze di sua morte, o ne avesse egli solo un pio presentimento. Ma è certo che ne parlò molto tempo avanti che quella avvenisse, e ciò facea con tale chiarezza di racconto, che meglio non avrebbe fatto chi ne avesse parlato dopo la medesima di lui mortel".
In vista del suo stato di salute gli si usavano tutti i riguardi per moderarlo nelle cose di studio e di pietà; tuttavia e per la naturale gracilità, e per alcuni incomodi personali ed anche per la continua tensione di spirito, gli si andavano ogni giorno diminuendo le forze.
107 Io non so ... morte: ins. ed. '1860.
Egli stesso se ne accorgeva, e talvolta andava dicendo: «Bisogna che io corra, altrimenti la notte mi sorprende per istrada»1". Volendo dire che gli restava poco tempo di vita e che doveva essere sollecito in fare opere buone prima che giungesse la morte.
Havvi l'uso in questa casa che i nostri giovani facciano l'esercizio della buona morte una volta al mese1°9. Consiste questo esercizio nel prepararci a fare una confessione e comunione come fosse l'ultima della vita. Il regnante Pio IX nella sua grande bontà arricchì questo esercizio di varie indulgenze. Domenico lo faceva con un raccoglimento, che non si può dire maggiore. In fine della sacra funzione si suole recitare un Pater ed Ave per colui che tra gli astanti sarà il primo a morire. Un giorno scherzando egli disse: «In luogo di dire per colui che sarà il primo a morire, dica così: un Pater ed Ave per Savio Domenico che di noi sarà il primo a morire». Questo disse più volte.
Sul finire di aprile del 1856 egli si presentò al direttore e gli domandò come avrebbe dovuto fare per celebrare santamente il mese di Maria.
— Lo celebrerai, rispose, coll'esatto adempimento dei tuoi doveri, raccontando ogni dì un esempio in onore di Maria, e procurando di regolarti in modo da poter fare in ciascun giorno la santa coMunione.
— Ciò procurerò di fare puntualmente; ma quale grazia dovrò dimandare?
— Dimanderai alla santa Vergine che ti ottenga da Dio sanità e grazia per farti santo.
— Che mi aiuti a farmi santo, che mi aiuti a fare una santa morte, e che negli ultimi momenti di vita mi assista e mi conduca in cielo.
Di fatto egli dimostrò tale fervore nel decorso di quel mese, che sembrava un angelo vestito di umane spoglie. Se scriveva parlava di Maria, se studiava, cantava, andava a scuola, tutto era per onore di Lei. In ricreazione procurava di aver ogni giorno pronto un esempio per raccontarlo ora a questi, ora a quegli altri compagni radunati. Un compagno un giorno gli disse: «Se fai tutto in quest'anno, che cosa vorrai fare un altro anno?». «Lascia far da me, rispose: in quest'anno voglio fare quel che posso; l'anno venturo, se ci sarò ancora, ti dirò quello che sarò per fare»'''.
Per usare tutti i mezzi atti a fargli riacquistare la sanità ho fatto fare un consulto di medici. Tutti ammirarono la giovialità, la prontezza di spirito e l'assennatezza delle risposte di Domenico.
108 Cf. Gv 9,4.
109 Pratica devota di origine settecentesca, adattata da don Bosco. «L'esercizio mensile della buona morte per i giovani [...] è una variante del ritiro mensile» (P. STELLA, Don Bosco nella storia della religiosità cattolica, vol. II: Mentalità religiosa e spiritualità, Roma, LAS, 1981, 340); cf. Preghiera di Benedetto papa XIII per impetrare da Dio la grazia di non morire di morte improvvisa e Preghiera per la buona morte, in Bosco, Il giovane provveduto, ed. 21851, 138-142.
110 Di fatto ... per fare: tre paragrafi ins. ed. 21860.
Il dottor Francesco Vallauri, di felice memoria"', che era uno dei benemeriti consulenti, pieno di ammirazione: «Che perla preziosa, disse, è mai questo giovanetto!».
— Qual è l'origine del malore che gli fa diminuire la sanità ogni giorno più? gli dimandai.
— La sua gracile complessione, la cognizione precoce, la continua tensione di spirito, sono come lime che gli rodono insensibilmente le forze vitali.
— Qual rimedio potrebbe tornargli maggiormente utile?
— Il rimedio più utile sarebbe lasciarlo andare al paradiso, per cui mi pare assai preparato. L'unica cosa che potrebbe protrargli la vita si è l'allontanarlo intieramente qualche tempo dallo studio, e trattenerlo in occupazioni materiali adattate alle sue forze.
Lo sfinimento di forze in cui si trovava non era tale da tenerlo continuamente a letto; perciò talvolta andava a scuola, allo studio; oppure si occupava in affari domestici. Fra le cose in cui si occupava con gran piacere era il servire i compagni infermi qualora ve ne fossero stati nella casa.
— Io non ho alcun merito avanti a Dio, diceva, nell'assistere o visitare gl'infermi, perché lo fo con troppo gusto; anzi mi è un caro divertimento.
Mentre poi loro faceva dei servizi temporali, era accortissimo nel suggerire sempre qualche cosa di spirituale. «Questa carcassa, diceva ad un compagno incomodato, non vuol durare in eterno, non è vero? Bisogna lasciare che si logori poco per volta, finché vada alla tomba; ma allora, caro mio, l'anima nostra sciolta dagli impacci del corpo volerà gloriosa al cielo e godrà una sanità ed una felicità interminabile».
Avvenne che un compagno rifiutavasi di bere una medicina, perché amara. «Caro mio, dicevagli Domenico, noi dobbiamo prendere qualsiasi rimedio, perché così facendo obbediamo a Dio, che ha stabilito medici e medicine, perché sono necessari a riacquistare la perduta sanità; che se proviamo qualche ripugnanza per il gusto, avremo maggior merito per l'anima.
111 Il dott. Francesco Vallauri (m. 13 lug. 1856), la moglie Rosa e il figlio sacerdote don Pietro (1829-1909) erano amici e benefattori di don Bosco; in particolare avevano sovvenzionato l'altare maggiore della chiesa di san Francesco di Sales (cf. MB 4, 429).
Del resto credi che questa tua bevanda sia tanto amara ed aspra quanto era amaro il fiele misto con aceto di cui fu abbeverato l'innocentissimo Gesù sopra la croce?». Queste parole dette colla maravigliosa sua schiettezza facevano sì che niuno osava più opporre difficoltà.
Sebbene la sanità del Savio fosse divenuta assai cagionevole, tuttavia l'andare a casa era cosa per lui la più disgustosa, perciocché gli rincresceva interrompere gli studi e le solite sue pratiche di pietà. Alcuni mesi prima io ve l'aveva già mandato, ed egli vi dimorò solo pochi giorni e tosto me lo vidi ricomparire all'Oratorio. Io debbo dirlo, il rincrescimento era reciproco: io l'avrei tenuto in questa casa a qualunque costo, il mio affetto per lui era quello di un padre verso di un figliuolo il più degno di affezione. Pure il consiglio dei medici era tale, ed io voleva eseguirlo; tanto più che da alcuni giorni erasi in lui manifestata una ostinata tosse. Se ne avverte adunque il padre, e si stabilisce la partenza per il primo di marzo 1857.
Si arrese Domenico a tale deliberazione, ma solo per farne un sacrificio a Dio. «Perché, gli si domandò, vai a casa così di mal animo; mentre dovresti andarvi con gioia per godervi la compagnia dei tuoi amati genitori?». «Perché, rispose, desidero di terminare i miei giorni all'Oratorio».
— Andrai a casa, e, dopo che ti sarai alquanto ristabilito in salute, ritornerai. — Oh! questo poi no, no, io me ne vo e non ritornerò più.
La sera precedente alla partenza non poteva levarmelo d'attorno; sempre aveva cose da dimandare. Fra le altre diceva: «Qual è la cosa migliore che possa fare un ammalato per acquistar merito davanti a Dio?».
— Offrire spesso a Dio quanto egli soffre. — Qual altra cosa potrebbe ancor fare? — Offrire la sua vita al Signore.
— Posso esser certo che i miei peccati mi siano stati perdonati? — Ti assicuro a nome di Dio che i tuoi peccati ti sono stati tutti perdonati. — Posso essere certo di essere salvo?
— Sì, mediante la divina misericordia, la quale non ti manca, tu sei certo di salvarti. — Se il demonio venisse a tentarmi che cosa gli dovrei rispondere?
— Gli risponderai che hai venduto l'anima a Gesù Cristo, e che egli l'ha comperata col prezzo del suo sanguem; se il demonio ti facesse ancora altra difficoltà, gli chiederai qual cosa abbia egli fatto per l'anima tua. Al contrario Gesù Cristo ha sparso tutto il suo sangue per liberarla dall'inferno e condurla seco lui al paradiso.
— Dal paradiso potrò vedere i miei compagni dell'Oratorio, ed i miei genitori? — Sì, dal paradiso vedrai tutte le vicende dell'Oratorio, vedrai i tuoi genitori, le cose che li riguardano, ed altre cose mille volte ancor più belle.
112 Cf, 1 Pt 1,18-19.
— Potrò venire a far loro qualche visita?
— Potrai venire, purché tal cosa torni a maggior gloria di Dio.
Queste e moltissime dimande andava facendo, e sembrava una persona che avesse già un piede sulle porte del paradiso e che prima d'entrarvi volesse bene informarsi delle cose che entro vi erano.
Il mattino di sua partenza fece coi suoi compagni l'esercizio della buona morte con tale trasporto di divozione nel confessarsi e nel comunicarsi, che io, che ne fui testimonio, non so come esprimerlo. «Bisogna, egli diceva, che faccia bene questo esercizio, perché spero che sarà per me veramente quello della mia buona morte. Ché se mi accadesse di morire per la strada, sarei già comunicato». Il rimanente della mattinata lo impiegò tutto per mettere in sesto le cose sue. Aggiustò il baule mettendo ogni oggetto come se non dovesse toccarlo mai più. Dopo andava visitando un per uno i suoi compagni, a chi dava un consiglio, avvisava questo ad emendarsi di un difetto, incoraggiava quell'altro a perseverare nel bene. Ad uno cui doveva rimettere due soldim, il richiamò e gli disse: «Vien qua, aggiustiamo i nostri conti, altrimenti tal cosa mi cagionerà imbrogli nell'aggiustamento dei conti col Signore». Parlò ai confratelli della società dell'Immacolata Concezione, e colle più animate espressioni li incoraggiava ad essere costanti nell'osservanza delle promesse fatte a Maria santissima ed a riporre in lei la più viva confidenza. Al momento di partire mi chiamò e dissemi queste precise parole: «Ella adunque non vuole questa mia carcassa (carcame ovvero scheletro) ed io sono costretto a portarla a Mondonio. Il disturbo sarebbe di pochi giorni, ... poi sarebbe tutto finito; tuttavia sia fatta la volontà di Dio. Se va a Roma, si ricordi della commissione dell'Inghilterra presso il Papa; preghi affinché io possa fare una buona morte e a rivederci in paradiso». Eravamo giunti alla porta che mette fuori dell'Oratorio, ed egli mi teneva tuttora stretta la mano quando si volta ai compagni che lo attorniavano e disse114: «Addio, amati compagni, addio tutti, pregate per me e a rivederci colà dove saremo sempre col Signore»115. Era già sulla porta del cortile, quando lo vedo tornare indietro e dirmi:
113 Due soldi: 10 centesimi.
114 Eravamo giunti ... disse: ins. ed. 51878.
115 Cf. I Ts 4,17.
— Mi faccia un regalo da conservare per sua memoria.
— Dimmi che regalo ti aggrada e te lo farò sull'istante. Vuoi tu un libro?
— No: qualche cosa di meglio.
— Vuoi danaro per il viaggio?
— Sì, appunto: danaro per il viaggio dell'eternità. Ella ha detto che ha ottenuto dal Papa alcune indulgenze plenarie in articolo di morte, metta anche me nel numero di quelli che ne possono partecipare.
— Sì, figlio mio, tu puoi ancora essere compreso in quel numero e vo subito a scrivere il tuo nome in quella carta.
Dopo di che egli lasciava l'Oratorio dove era stato circa tre anni con tanto piacere per sé, con tanta edificazione dei suoi compagni e dei medesimi suoi superiori, e lo lasciava per non ritornarvi mai più.
Noi eravamo tutti maravigliati di quei suoi insoliti saluti. Sapevamo che egli pativa molti incomodi di salute, ma poiché si teneva quasi sempre fuori di letto, non facevamo gran caso della sua malattia. Di più avendo un'aria costantemente allegra, niuno dal volto poteva scorgere, che egli patisse malori di corpo o di spirito. E sebbene quegli insoliti saluti ci avessero posti in afflizione, avevamo però la speranza di rivederlo presto a ritornare fra noi. Ma non era così, egli era maturo per il cielo; nel breve corso di vita erasi già guadagnata la mercede dei giusti, come se fosse vissuto a molto avanzata età, ed il Signore lo voleva sul fiore degli anni chiamare a sé per liberarlo dai pericoli in cui spesso fanno naufragio anche le anime più buone116.
Partiva il nostro Domenico da Torino il primo marzo alle due pomeridiane in compagnia di suo padre, e il suo viaggio fu buono: anzi pareva che la vettura, la varietà de' paesi, la compagnia dei parenti gli avessero fatto del bene. Onde giunto a casa, per quattro giorni non si pose a letto. Ma veduto che gli si diminuivano le forze e l'appetito, e che la tosse si mostrava ognor più forte, fu giudicato bene di mandarlo a farsi visitare dal medico. Questi trovò il male assai più grave che non appariva. Comandò che andasse a casa e si mettesse tosto a letto, e giudicando che fosse malattia d'infiammazione fece uso dei salassi'''.
116 Cf. Sap 4,10-14.
117 Il salasso è un «intervento col quale si sottrae all'organismo una quantità più o meno grande di sangue», incidendo una vena; si usava in «quegli stati morbosi nei quali occorra una rapida azione anticongestizia»; in particolare lo si riteneva utile «per diminuire la congestione arteriosa molto alta, per diminuire la congestione venosa polmonare, per attenuare uno stato di pletora, per sottrarre veleni o tossine all'organismo» (cf. Enciclopedia medica italiana, Milano, Sansoni Edizioni Scientifiche, 1956, vol. VIII, 1164-1165).
È proprio dell'età giovanile il provare grande apprensione pei salassi. Perciò il chirurgo nell'atto di cominciare l'operazione esortava Domenico a voltare altrove la faccia118, aver pazienza e farsi coraggio. Egli si pose a ridere e disse: «Che è mai una piccola puntura in confronto dei chiodi piantati nelle mani e nei piedi dell'innocentissimo nostro Salvatore?». Quindi con tutta pacatezza d'animo, faceziando e senza dar segno del minimo turbamento mirava il sangue ad uscire dalle vene in tutto il tempo dell'operazione119. Fatti alcuni salassi, la malattia sembrava volgere in meglio; cosi assicurava il medico, così credevano i parenti: ma Domenico giudicava altrimenti. Guidato dal pensiero che è meglio prevenire i sacramenti, che perdere i sacramenti, chiamò suo padre: «Papà! gli disse, è bene che facciamo un consulto col medico celeste. Io desidero di confessarmi e di ricevere la santa comunione».
I genitori che eziandio giudicarono la malattia in istato di miglioramento udirono con pena tale proposta, e solo per compiacerlo fu mandato a chiamare il prevosto, che lo venisse a confessare'20. Venne questi prontamente per la confessione, poscia sempre per compiacerlo gli portò il santo viatico. Ognuno può immaginarsi con quale divozione e raccoglimento sfasi comunicato. Tutte le volte che si accostava ai santi sacramenti sembrava sempre un san Luigi. Ora che egli giudicava esser veramente quella l'ultima comunione della sua vita, chi potrebbe esprimere il fervore, gli slanci di teneri affetti che da quell'innocente cuore uscirono verso l'amato suo Gesù?
Richiamò allora alla memoria le promesse fatte nella prima comunione. Disse più volte: «Sì, sì, o Gesù, o Maria, voi sarete ora e sempre gli amici dell'anima mia. Ripeto e lo dico mille volte: morire, ma non peccati». Terminato il ringraziamento, tutto tranquillo disse: «Ora sono contento; è vero che debbo fare il lungo viaggio dell'eternità, ma con Gesù in mia compagnia ho nulla a temere. Oh! dite pur sempre, ditelo a tutti: chi ha Gesù per suo amico e compagno non teme più alcun male, nemmeno la morte».
118 a voltare ... faccia: ins. ed. 21860.
119 Il racconto è basato su una memoria raccolta da Michele Rua (ASC A4920138: Memorie su Domenico Savio. Ms. Rua, s.d., flr).
120 Prevosto di Mondonio: Domenico Grassi, nato a Settime d'Asti (23 lug. 1804), ordinato sacerdote (5 giu. 1830), fu parroco di Mondonio dal 1834 alla morte, avvenuta improvvisamente a Passerano il 6 ago. 1860 (cf. Notizie della parrocchia di Mondonio da darsi in occasione della visita pastorale di Sua Ecc. Reuma Mons. Filippo Artico, ms. del prevosto Domenico Grassi, 18 ago.1847, in AVA: Relazioni per visite pastorali, 1847; APSPP: Liber defunctorum, 1860).
La sua pazienza fu esemplare in tutti gli incomodi sofferti nel corso della vita; ma in questa ultima malattia apparve un vero modello di santità. Non voleva che alcuno lo aiutasse negli ordinari bisogni. «Finché potrò, diceva egli, voglio diminuire il disturbo ai miei cari genitori; essi hanno già tollerati tanti incomodi e tante fatiche per me; potessi io almeno in qualche modo ricompensarli!». Prendeva con indifferenza i rimedi anche i più disgustosi; si sottomise a dieci salassi senza dimostrare il minimo risentimento.
Dopo quattro giorni di malattia, il medico si rallegrò coll'infermo, e disse ai parenti: «Ringraziamo la divina Provvidenza, siamo a buon punto, il male è vinto, abbiamo soltanto bisogno di fare una giudiziosa convalescenza». Godevano di tali parole i buoni genitori. Domenico però si pose a ridere e soggiunse: «Il mondo è vinto121, ho soltanto bisogno di fare una giudiziosa comparsa davanti a Dio». Partito il medico, senza lusingarsi di quanto eragli stato detto, chiese che gli fosse amministrato il sacramento dell'Olio Santo. Anche quivi i parenti accondiscesero per compiacerlo, perché né essi, né il prevosto scor-gevano in lui alcun pericolo prossimo di morte, anzi la serenità del sembiante e la giovialità delle parole il facevano realmente giudicare in istato di miglioramento. Ma egli o fosse mosso da sentimenti di devozione oppure fosse così inspirato da voce divina che gli parlasse al cuore, fatto sta che contava i giorni e le ore di vita come si calcolano colle operazioni dell'aritmetica, ed ogni momento era da lui impiegato a prepararsi a comparire dinanzi a Dio. Prima di ricevere l'Olio Santo fece questa preghiera: «Oh Signore, perdonate i miei peccati, io vi amo, vi voglio amare in eterno! Questo sacramento, che nella vostra infinita misericordia permettete che io riceva, scancelli dall'anima mia tutti i peccati commessi coll'udito, colla vista, colla bocca, colle mani e coi piedi; sia il mio corpo e l'anima mia santificata dai meriti della vostra passione: così sia».
Egli rispondeva a ciascuna occorrenza con tale chiarezza di voce e giustezza di concetti, che noi l'avremmo detto in perfetto stato di salute.
Eravamo al 9 marzo, quarto di sua malattia, ultimo di sua vita. Gli erano già stati praticati dieci salassi con altri rimedi e le sue forze erano intieramente prostrate, perciò gli fu data la benedizione papale. Disse egli stesso il Confiteor, rispondeva a quanto diceva il sacerdote. Quando intese a dirsi che con quell'atto religioso il Papa gli compartiva la benedizione apostolica coll'indulgenza plenaria provò la più grande consolazione. «Deo gratias, andava dicendo, et semper Deo gratias». Quindi si volse al crocifisso e recitò questi versi che gli erano molto famigliari nel corso della vita:
Signor la libertà tutta vi dono, Ecco le mie potenze, il corpo mio,
121 Cf. Gv 16,33.
Tutto vi do, che tutto è vostro, o Dio,
E nel vostro voler io m'abbandono122.
È verità di fede che l'uomo raccoglie in punto di morte il frutto delle opere sue. Quae seminaverit homo, haec et metet'23. Se in vita sua ha seminato opere buone, egli raccoglierà in quegli ultimi momenti frutti di consolazione; se ha seminato opere cattive, allora raccoglierà desolazione sopra desolazione. Nulladimeno avviene talvolta che anime buone dopo una santa vita provino terrore e spavento all'avvicinarsi l'ora della morte. Questo accade secondo gli adorabili decreti di Dio, che vuole purgare quelle anime dalle piccole macchie che forse hanno contratto in vita e così assicurare e rendere loro più bella la corona di gloria in cielo. Del nostro Savio non fu così. Io credo che Iddio abbia voluto dargli tutto quel centuplo che alle anime dei giusti egli fa precedere alla gloria del paradiso. Difatti l'innocenza conservata fino all'ultimo momento di vita, la sua viva fede, e le continue preghiere, le lunghe sue penitenze e la vita tutta seminata di tribolazioni gli meritarono certamente quel conforto in punto di morte.
Egli adunque vedeva appressarsi la morte colla tranquillità dell'anima innocente; anzi sembrava che nemmeno il suo corpo provasse gli affanni e le oppressioni che sono inseparabili dagli sforzi che naturalmente l'anima deve fare nel rompere i legami del corpo. Insomma la morte del Savio si può chiamare piuttosto riposo, che morte.
Era la sera del 9 marzo 1857, egli aveva ricevuto tutti i conforti di nostra santa cattolica religione. Chi l'udiva soltanto a parlare e ne mirava la serenità del volto, avrebbe in lui ravvisato chi giace a letto per riposo. L'aria allegra, gli sguardi tuttora vivaci, piena cognizione di se stesso, erano cose che facevano tutti maravigliare e niuno fuori di lui poteva persuadersi che egli si trovasse in punto di morte.
Un'ora e mezzo prima che tramandasse l'ultimo respiro il prevosto l'andò a visitare, e al vederne la tranquillità lo stava con istupore ascoltando a raccomandarsi l'anima. Egli faceva frequenti e prolungate giaculatorie, che tendevano tutte a manifestare il vivo di lui desiderio di andare presto al cielo.
122 Cf. Lc 23,46.
123 Gal 6,7.
«Quale cosa suggerire per raccomandare l'anima ad agonizzanti di questa fatta?», disse il prevosto124. Dopo aver recitato con lui alcune preghiere, il parroco era per uscire, quando Savio lo chiamò dicendo: «Signor prevosto, prima di partire mi lasci qualche ricordo». «Per me, rispose, non saprei che ricordo lasciarti». «Qualche ricordo, che mi conforti». «Non saprei dirti altro se non che ti ricordi della passione del Signore». «Deo gratias, rispose, la passione di nostro Signor Gesù Cristo sia sempre nella mia mente, nella mia bocca, nel mio cuore. Gesù, Giuseppe e Maria, assistetemi in questa ultima agonia; Gesù, Giuseppe e Maria, spiri in pace con voi l'anima mia». Dopo tali parole si addormentò e prese mezz'ora di riposo. Indi svegliatosi volse uno sguardo ai suoi parenti: «Papà, disse, ci siamo».
— Eccomi, figliuol mio, che ti abbisogna?
— Mio caro papà, è tempo; prendete il mio Giovane provveduto (125) e leggetemi le preghiere della buona morte.
A queste parole la madre ruppe in pianto e si allontanò dalla camera dell'infermo. Al padre scoppiava il cuore di dolore, e le lagrime gli soffocavano la voce; tuttavia si fece coraggio e si mise a leggere quella preghiera. Egli ripeteva attentamente e distintamente ogni parola; ma infine di ciascuna parte voleva dire da solo: «Misericordioso Gesù, abbiate pietà di me»126. Giunto alle parole: «Quando finalmente l'anima mia comparirà davanti a voi, e vedrà per la prima volta lo splendore immortale della vostra maestà, non la rigettate dal vostro cospetto, ma degnatevi di ricevermi nel seno amoroso della vostra misericordia, affinché io canti eternamente le vostre lodi»127. «Ebbene, soggiunse, questo è appunto quello che io desidero. Oh caro papà, cantare eternamente le lodi del Signore!». Poscia parve prendere di nuovo un po' di sonno a guisa di chi riflette seriamente a cosa di grande importanza. Di lì a poco si risvegliò e con voce chiara e ridente: «Addio, caro papà, addio: il prevosto voleva ancora dirmi altro, ed io non posso più ricordarmi... Oh! che bella cosa io vedo mai...». Così dicendo e ridendo con aria di paradiso spirò colle mani giunte innanzi al petto in forma di croce senza fare il minimo movimento128.
124 disse il prevosto: ius. ed. 31861.
125 «Con questo nome indicava un libro totalmente diretto alla gioventù che ha per titolo: il Giovane Provveduto per la pratica dei suoi doveri, degli esercizi di cristiana pietà, per la recita dell'uffizio della B. Vergine, dei vespri di tutto l'anno e dell'uffizio dei morti, ecc.» (nota ins. ed. 1859).
126 Il racconto si basa su una testimonianza raccolta da Michele Rua: «La sera prima di morire non potendo più esso, fecesi leggere dal padre le preghiere per la buona morte che trovarsi nel Giovane provveduto, ed esso le accompagnava» (ASC A4920138: Memorie su Domenico Savio, ms. Rua, s.d., fl r).
127 Bosco, Il giovane provveduto, ed. 21851, 142.
128 La morte avvenne alle ore 22 di lunedì 9 mar. 1857; la sepoltura si fece il mercoledì 11 (cf. ASC A4920159: Estratto dell'atto di morte, rilasciato 1'8 nov. 1864 dal parroco di Mondonio Luigi Mussa). Il racconto della morte fatto da don Bosco modifica la testimonianza raccolta da Michele Rua: «Un'ora e mezzo prima di morire dopo aver ricevuto tutti i sacramenti, vedendo che il parrocousciva, lo dimandò, e gli chiese un qualche ricordo. Il parroco gli rispose: e che mai vuoi che ti lasci per ricordo? Per me non saprei più che dirti che ti ricordi della passione del Signore, non saprei dirti altro per ora. Uscito il parroco, s'addormentò, e di lì a poco svegliatosi rideva e andava dicendo: oh il parroco voleva dirmi, voleva dirmi.., eh! Questa è bella: non posso più ricordarmi di ciò che voleva dirmi, e così dicendo e ridendo con aria di Paradiso spirò colle mani composte in forma di croce innanzi al petto senza fare il menomo movimento» (ASC A4920138: Memorie su Domenico Savio. Ms, Rua, s.d.,f1 v).
Va' pure, anima fedele al tuo Creatore, il cielo ti è aperto, gli angeli ed i santi ti hanno preparata una gran festa; quel Gesù che tanto amasti t'invita e ti chiama dicendo: «Vieni, servo buono e fedele, vieni, tu hai combattuto, hai riportato vittoria, ora vieni al possesso di un gaudio che non ti mancherà mai più: intra in gaudium Domini tui»129.
Quando il padre di Domenico il vide proferire parole nel modo che abbiamo riferito, e poi piegare il capo come per riposare, pensavasi realmente che avesse di nuovo preso sonno. Lo lasciò alcuni istanti in quella posizione, ma tosto volle chiamarlo, e si accorse che egli era già fatto cadavere. Lascio ad ognuno immaginare la desolazione dei genitori per la perdita di un figliuolo che alla innocenza, alla pietà univa i modi più graziosi e più atti a farsi amare!
Noi pure quivi nella casa dell'Oratorio eravamo ansiosi di avere notizie di questo venerato amico e compagno; quando ricevo dal padre di lui una lettera che incominciava così: «Colle lagrime agli occhi le annunzio la più trista novella: il mio caro figliuolo Domenico, di lei discepolo, qual candido giglio, qual Luigi Gonzaga, rese l'anima al Signore ieri sera 9 del corrente mese di marzo dopo aver nel modo più consolante ricevuto i santi sacramenti e la benedizione papale»130.
129 Mt 25,21.
130 Carlo Savio scriveva il 10 marzo: «Signor molto reverendo. Con lacrime agli occhi mi presento con questo viglietto a V. S. molto reverenda ad annunziarle una più che trista novella la quale si è che il mio caro figliuolino Domenico di lei discepolo, qual candido giglio, qual Luigi Gonzaga rese l'anima al Signore la sera delli 9 andante marzo, ben inteso però dopo d'aver ricevuti li SS. Sacramenti una cum la benedizione papale. La sua malattia fu in questo cioè si coricò il mercoledì 4 marzo e sotto la cura del sig. dottor Cafassi gli fecero dieci salassi e nel mentre che stavamo per intendere qual fosse la malattia onde scrivere a V. S. ci mancò come sopra dissi avendo pure la tosse alquanto profonda. D'altro non m'occorre che profondamente riverire vostra Sig.ria molto reverenda augurandole ogni prosperità e sono di Ella ubb.m° servo Carlo Savio» (ASC A4920112: lett. C. Savio - G. Bosco, 10 mar. 1857).
Tale notizia pose in costernazione i suoi compagni. Chi piangeva in lui la perdita di un amico, di un consigliere fedele; chi sospirava di aver perduto un modello di vera pietà. Alcuni si radunarono a pregare per il riposo dell'anima di lui. Ma il maggior numero andava dicendo: «Egli era santo, ora è già in paradiso». Altri cominciarono a raccomandarsi a lui come ad un protettore presso Dio. Tutti poi andarono a gara per avere qualche oggetto che avesse appartenuto a lui.
Recata quella notizia al prof. D. Picco, ne fu profondamente addolorato. Come furono radunati i suoi alunni, tutto commosso partecipava loro il tristo annunzio con queste parole:
«Non è molto tempo, o giovani carissimi, parlandovi a caso della caducità della vita umana, vi faceva osservare come la morte non risparmii talvolta anche la vostra florida età, e per esempio vi adduceva, come or sono due anni, in questi stessi giorni frequentava questa medesima scuola, sedeva qui presente ad ascoltarmi un giovane pieno di vita e di vigore, il quale, dopo l'assenza di pochi giorni, passava da questa vita, dai parenti e dagli amici compianto (131). Quando io vi rammentava quel caso doloroso era ben lungi dal pensare che il presente anno avesse ad essere funestato da un somigliante duolo, e che tale esempio si avesse a rinnovare sì presto in uno di quelli stessi che mi ascoltavano. Sì, miei cari, io debbo amareggiarvi con una dolorosa nuova. La falce della morte mieteva ieri l'altro la vita di uno tra i più virtuosi vostri compagni, del buon giovinetto Domenico Savio. Voi forse vi ricorderete, come negli ultimi giorni, in cui frequentò la scuola, si mostrasse tormentato da una tosse maligna che già mi faceva presagire una seria malattia, onde nissuno di noi si stupì quando udimmo che era stato da quella obbligato ad assentarsi dalla scuola. Per meglio curare il suo morbo, e già prevedendo, come replicatamente disse ad alcuni, il suo prossimo fine, egli secondò il consiglio dei medici e dei suoi superiori, e andò in seno della famiglia. Quivi la violenza del male si sviluppò oltre modo e dopo soli quattro giorni di malattia rese l'innocente suo spirito al Creatore.
Io lessi ieri la lettera, con cui il desolato genitore dava la dolorosa nuova, e questa nella sua semplicità faceva tale pittura della santa morte di quell'angelo, che mi commosse fino alle lagrime. Egli non trova espressioni più acconce a lodare l'amato suo figliuolo che col chiamarlo un altro S. Luigi Gonzaga sì nella santità della vita come nella beata rassegnazione alla morte. Io vi assicuro che assai mi duole, che egli abbia frequentato sì poco la mia scuola, e che in questo breve tempo la sua poca sanità non mi abbia permesso di conoscerlo e praticarlo più che si può fare in una scuola alquanto numerosa.
131 «Leone Cocchis studente di 2° Retorica, giovanetto di belle speranze, morto il 25 mar. 1855 in età di 15 anni» (nota ins. ed. 1859).
Perciò io lascio ai suoi superiori il dirvi quale fosse la santità dei suoi sentimenti, quale il suo fervore nella divozione e nella pietà; lascio ai suoi compagni ed amici, che quotidianamente lo avevano seco, e con lui domesticamente conversavano, il dirvi la modestia dei suoi costumi e di ogni suo portamento, la severità dei suoi discorsi; lascio ai suoi parenti il dirvi quale fosse la sua obbedienza, il suo rispetto, la sua docilità. E che potrò io ricordarvi che a tutti voi non sia noto? Io altro non dirò se non che sempre si rese commendevole per il suo contegno e per la sua tranquillità nella scuola, per la sua diligenza ed esattezza nell'adempimento di ogni suo dovere, e per la sua continua attenzione ai miei insegnamenti, e che io sarei beato se ognuno di voi si proponesse di seguirne il santo esempio.
Prima ancor che l'età e gli studi gli permettessero di frequentare la nostra scuola, essendo egli da tre anni annoverato tra quelli che hanno ricetto ed istruzione presso l'Oratorio di S. Francesco di Sales, io ne aveva più volte udito a fare parola dal direttore di quell'Oratorio, e lo aveva udito ad encomiare come uno tra i più studiosi e virtuosi giovani di quella casa. Tale era il suo ardore nello studio, tale il rapido progresso che aveva fatto nelle prime scuole di latinità, che sommo era il mio desiderio di porlo nel numero dei miei allievi e grande era 1' aspettazione che io aveva della felicità del suo ingegno. E prima di averlo in iscuola già l'aveva annunziato ad alcuno dei miei allievi come un emulo, con cui bello sarebbe stato il gareggiare non meno nello studio che nella virtù. E nelle frequenti mie visite all'Oratorio scorgendo in lui una fisionomia sì dolce, quale voi sapete essere stata la sua, scorgendo quel suo sguardo sì innocente, mai non lo vedeva che non mi sentissi tratto ad amarlo e ad ammirarlo. Alle belle speranze, che io ne aveva concepite, certamente egli non venne meno allorché nel presente anno scolastico prese a frequentare la mia scuola. A voi mi appello, giovani dilettissimi, che siete stati testimoni del suo raccoglimento e della sua applicazione non solamente nel tempo che il dovere lo chiamava ad ascoltarmi, ma in quello eziandio, il quale per lo più non si fanno scrupolo di perdere molti giovanetti, i quali non sono privi di docilità e diligenza. A voi domando, che gli eravate compagni non solo nella scuola, ma pur anche negli usi domestici della vita, se mai lo avete veduto a far cosa che lo mostrasse dimentico di alcuno dei suoi doveri.
Parmi ancora di vederlo, quando con quella modestia, che era tutta sua propria, entrava nella scuola, prendeva il suo luogo e in tutto il tempo dell'ingresso, lungi dal vano cicaleccio consueto dei giovani della sua età, ripeteva la sua lezione, scriveva annotazioni, oppure si tratteneva in qualche utile lettura; e quindi cominciata la scuola con quale applicazione io vedeva quel suo angelico volto pendere dalle mie parole! Perciò non fa maraviglia se non ostante la sua tenera età e la sua poca salute fosse grandissimo il profitto che col suo ingegno dagli studi ricavava. E prova ne sia che in un considerevole numero di giovani, la maggior parte di più che mediocre ingegno, benché già covasse in seno la malattia, che alfine lo trasse alla tomba, e fosse perciò obbligato a frequenti assenze, tuttavia egli tenne quasi sempre i primi posti della sua classe. Ma una cosa destava in modo affatto particolare la mia attenzione, e traeva a sé la mia ammirazione, ed era il vedere come quella giovanile sua mente si mostrasse unita a Dio, ed affettuosa e fervida nelle preghiere. Ella è cosa consueta anche nei giovani meno dissipati, che tratti dalla naturale vivacità e dalle distrazioni, a cui va soggetta questa fervida vostra età, pochissima riflessione facciano al senso delle orazioni, che sono invitati a recitare, e quasi con nessuno affetto del cuore le accompagnino. Onde avviene che in gran parte di essi niente altro vi ha che le labbra e la voce. Or se così abituale è la distrazione della gioventù anche nelle preghiere che indirizzano al Signore nel silenzio e nella tranquillità delle chiese, oppure nella solitudine delle proprie celle, nelle quotidiane orazioni, voi, o giovani, lo sapete quanto questo avvenga più facilmente in quelle brevissime preghiere che sogliono dirsi prima e dopo le lezioni della scuola. Ed è appunto in queste che mi fu dato di ammirare il fervore del nostro Domenico alla pietà, e l'unione dell'anima sua con Dio. Quante volte io l'osservai con quel suo sguardo rivolto al cielo, al cielo che sì presto doveva essere la sua dimora, raccogliere tutti i suoi sentimenti, e con quell'atto offrirli al Signore e alla beatissima sua madre, con quella pienezza di affetti che appunto richiedono le recitate preghiere! E questi sentimenti, o amatissimi giovani, erano poi quelli, che animavano i suoi pensieri nel compiere ogni suo dovere, erano quelli, che ogni suo atto, ogni sua parola santificavano, che tutta la sua vita interamente dirigevano alla gloria di Dio. O beati quei giovani che a tali concetti s'inspirano! Faranno la loro felicità in questa vita e nell'altra, e beati renderanno i parenti che li educano, i maestri che li istruiscono, tutte le persone che si occupano del loro bene.
Dilettissimi giovani, la vita è un dono preziosissimo, che Iddio ci fece, per darci il mezzo di acquistarci dei meriti per il cielo, e così sarà se tutto quello che noi facciamo è tale che offerir si possa a quel supremo Donatore, come appunto faceva il nostro Domenico. Ma che direm noi di quel giovane, che passa tutta intera la vita dimentico affatto del fine a cui Dio lo ha destinato, che mai non trova un momento, in cui pensi a dedicare i suoi affetti al Creatore, che nel suo cuore non dà mai luogo ad alcuna aspirazione che lo sollevi verso il suo Dio? Inoltre che diremo di quel giovane che fa quanto sta in lui per tenere da sé lontani simili sentimenti, o per combatterli e soffocarli, se li sente vicini a penetrare nel suo cuore? Deh! riflettete alquanto sulla santa vita e santo fine del carissimo vostro compagno, sulla invidiabile sorte, di cui possiamo avere fiducia che goda; e quindi ritornando col pensiero su voi stessi esaminate che cosa ancora vi manchi per somigliargli e quali voi essere vorreste, se al pari di lui vi trovaste sul punto di dovervi presentare a quel tribunale ove Dio chiederà a tutti stretto conto di ogni più leggero mancamento. Quindi se a questo confronto voi ritrovate che grande sia la differenza, proponetevelo per esempio, imitatene le cristiane virtù, disponete l'anima vostra ad essere come la sua, pura e monda agli occhi di Dio, acciocché all'improvvisa chiamata, la quale immancabilmente o tosto o tardi dovrà udirsi da tutti noi, le possiamo rispondere coll'ilarità sul volto, col sorriso sulle labbra, come fece l'angelico vostro condiscepolo. Ascoltate ancora un mio voto, con cui io conchiudo queste mie parole. Se io m'accorgerò che i miei allievi diano luogo nella loro condotta ad un notevole miglioramento, se li vedrò d'or innanzi più esatti nei loro doveri, e più compresi dell'importanza di una vera pietà, lo crederò effetto del santo esempio del nostro Domenico e lo riguarderò quale grazia di lassù impetrata dalle sue preghiere in premio di essergli stati per breve tempo voi compagni ed io maestro»'".
Così il professore D. Picco esponeva ai suoi allievi la profonda e dolorosa sensazione provata all'annunzio della morte del caro suo alunno Savio Domenico.
Chiunque ha letto le cose che abbiamo scritto intorno al giovanetto Savio Domenico non si maraviglierà che Dio siasi degnato di favorirlo di doni speciali, facendo risplendere le virtù di lui in molte guise. Mentre egli ancor viveva, molti si davano sollecitudine per seguirne i consigli, gli esempi ed imitarne le virtù; molti anche mossi dalla specchiata condotta, dalla santità della vita, dall'innocenza dei suoi costumi, si raccomandavano alle sue preghiere. E si raccontano non poche grazie ottenute per le preghiere fatte a Dio dal giovane Savio mentre egli era ancora nella vita mortale. Ma dopo morte crebbe assai verso di lui la confidenza e la venerazione.
Appena giunse tra noi la notizia di sua morte, parecchi suoi compagni lo andavano proclamando per santo. Si radunarono essi per recitare le litanie per un defunto; ma invece di rispondere ora pro eo, cioè Santa Maria, pregate per il riposo dell'anima di lui, non pochi rispondevano: ora pro nobis: Santa Maria, pregate per noi. «Perché, dicevano, a quest' ora Savio gode già la gloria del paradiso e non ha più bisogno delle nostre preghiere».
132 Il testo originale di don Picco non è stato conservato.
Altri poi soggiungevano: «Se non è andato direttamente al paradiso Domenico Savio, che tenne una vita così pura e così santa, chi potrà mai dirsi che ci possa andare?». Laonde fin d'allora diversi amici e compagni, che ammirarono le sue virtù in vita, studiavano di farselo modello nel bene operare e cominciavano a raccomandarsi a lui come a celeste protettore.
Quasi ogni giorno si raccontavano grazie ricevute ora per il corpo ora per l'anima. Io ho veduto un giovane che pativa mal di dente che lo faceva smaniare. Raccomandatosi al suo compagno Savio con breve preghiera, ebbe calma sull'istante, e finora non andò più soggetto a questo desolante malore. Molti si raccomandarono per essere liberati dalle febbri e ne furono esauditi. Io fui testimonio di uno che istantaneamente ottenne la grazia di essere liberato da gagliarda febbre (1"). Ho sott'occhio molte relazioni di persone che espongono celesti favori da Dio ottenuti per intercessione del Savio. Ma sebbene il carattere e l'autorità delle persone che depongono questi fatti siano per ogni lato degne di fede, tuttavia essendo esse ancor viventi, stimo meglio di ometterli per ora e contentarmi di riferire qui soltanto una grazia speciale ottenuta da uno studente di filosofia, compagno di scuola di Domenico. L'anno 1858 questo giovane incontrò gravi incomodi di salute. La sua sanità fu così alterata che dovette interrompere il corso di filosofia, assoggettarsi a molte cure e in fine dell'anno non gli fu possibile di subire l'esame. Stavagli molto a cuore di potersi almeno preparare per l'esame di Tutti i Santi, perciocché in tale guisa avrebbe impedito la perdita di un anno di studio. Ma, aumentandosi i suoi incomodi, le sue speranze andavano ognor più scemando. Si recò a passare il tempo autunnale ora coi parenti in patria, ora con amici in campagna, e già parevagli di avere alquanto migliorato nella sanità.
133 «Tale venerazione e confidenza nel giovine Savio crebbe grandemente da che fu ivi fatto un curioso racconto dal genitore di Domenico, che è pronto a confermare la sua asserzione in qualunque luogo e in presenza di qualunque persona. Egli espose la cosa cosi: "La perdita di quel mio figliuolo, egli dice, mi fu causa di profondissima afflizione, che si andava fomentando dal desiderio di sapere che si fosse avvenuto di lui nell'altra vita. Dio mi ha voluto consolare. Circa un mese dopo la sua morte, una notte, dopo essere stato lungo tempo senza poter prender sonno, mi parve di vedere spalancarsi il soffitto della camera in cui dormiva, ed ecco in mezzo ad una grande luce comparirmi Domenico con volto ridente e giulivo, ma con aspetto maestoso e imponente. A quel sorprendente spettacolo io son rimasto fuori di me. — O Domenico! mi posi ad esclamare: Domenico mio! come va? Dove sei? Sei già in paradiso? Si, padre, rispose, io sono veramente in paradiso! Deh! io replicai, se Iddio ti ha fatto tanto favore di poter andare a godere la felicità del cielo, prega pei tuoi fratelli e sorelle affinché possano un giorno venir con te. — Sì, si, padre, rispose, pregherò Dio per loro affinché possano un giorno venire con me a godere l'immensa felicità del cielo. — Prega anche per me, replicai, prega per tua madre, affinché possiamo tutti salvarci e trovarci un giorno insieme in Paradiso. — Si, si pregherò. Ciò detto disparve, e la camera tornò nell'oscurità come prima". Il padre assicura, che depone semplicemente la verità e dice che né prima né dopo, né vegliando né dormendo, ebbe ad essere consolato da somigliante apparizione» (nota ins. ed. 1859). Qui don Bosco rielabora la testimonianza raccolta da Michele Rua (cf. ASC A4920138: Memorie su Domenico Savio, ms. Rua, s.d., fl v).
Ma giunto a Torino e postosi per poco tempo a studiare, egli ricadde peggio di prima. «Io era vicino agli esami, egli depone, e la mia salute trovavasi in deplorevole stato. I malori di stomaco e di capo mi toglievano ogni speranza di poter subire il desiderato esame, che per me era cosa della massima importanza. Animato da quanto udiva raccontare del mio amato compagno Domenico, volli anch'io a lui raccomandarmi facendo a Dio una novena in onore di questo mio collega. Fra le preghiere che mi era prefisso di fare era questa: "Caro compagno, tu che a somma mia consolazione e fortuna mi fosti condiscepolo più di un anno, tu che santamente meco gareggiavi per primeggiare nella nostra classe, tu sai quanto io abbia bisogno di subire il mio esame. Impetrami adunque, ti prego, dal Signore un po' di salute, affinché io mi possa preparare".
Non era ancor compiuto il quinto giorno della novena, quando la mia salute cominciò a fare così notabile e rapido miglioramento, che tosto potei mettermi a studiare, e con insolita facilità imparare le materie prescritte e prendere benissimo l'esame. La grazia poi non fu di un momento, imperciocché attualmente io mi trovo in uno stato di regolare salute, che da oltre un anno non ho più goduto. Riconosco questa grazia ottenuta da Dio per intercessione di questo mio compagno, mio famigliare in vita, mio aiuto e conforto ora che gode la gloria del cielo. Sono oltre due mesi che tale grazia fu ottenuta, e la mia sanità continua ad essere la medesima con grande mia consolazione e vantaggio»134.
Con questo fatto io pongo termine alla vita del giovine Savio, riservandomi a stampare più sotto alcuni altri fatti in forma d'appendicem, nel modo che sembrano tornare a maggior gloria di Dio e vantaggio delle anime. Ora, o amico lettore, giacché fosti benevolo di leggere quanto fu scritto di questo virtuoso giovanetto, vorrei che venissi meco ad una conclusione che possa apportar vera utilità a me, a te e a tutti quelli cui accadrà di leggere questo libretto; vorrei cioè che ci adoperassimo con animo risoluto ad imitare il giovane Savio in quelle virtù che sono compatibili col nostro stato. Nella povera sua condizione egli visse una vita la più lieta, virtuosa ed innocente, che fu coronata da una santa morte.
134 Trascrizione, con arrangiamenti, di una testimonianza di Francesco Vaschetti (ASC A4920141: lett. F. Vaschetti - G. Bosco [dic. 1857]). Nato ad Avigliana (16 ott. 1839), da Pietro e Maria Caterina Allais, entrato all'Oratorio nel 1855, Vaschetti fu tra i fondatori della compagnia dell'Immacolata; fece la vestizione chiericale (8 sett. 1857) per mano del prefetto dell'Oratorio don Vittorio Alasonatti; aderì alla Società Salesiana nel 1859, ma non emise i voti; ordinato sacerdote (19 seti. 1863), fu viceparroco, poi, dall'ago. 1870, prevosto e vicario foraneo di Volpiano, dove morì il 13 gen. 1916 (cf. AAT, 12.12.3:, Registrum clericorum 1808-1847, rubi.. V, 1857; AAT 12.3.14: Registrum ordinationum 1848-1871; Calendarium liturgicum archidioecesis taurinensis ... anno 1917, Taurini, s.i., 1916, 111).
135 Nell'ed. '1860 venne introdotta un'appendice (Grazie ottenute da Dio ad intercessione di Savio Domenico, pp. 152-172), con sette relazioni, che nell'ed. 31861 salirono a dieci, e tali rimasero nelle edizioni successive.
Imitiamolo nel modo di vivere ed avremo una doppia136 caparra di essergli simili nella preziosa morte.
Ma non manchiamo d'imitare il Savio nella frequenza del sacramento della confessione, che fu il suo sostegno nella pratica costante della virtù, e fu guida sicura che lo condusse ad un termine di vita cotanto glorioso. Accostiamoci con frequenza e con le dovute disposizioni a questo bagno di salute nel corso della vita; ma tutte le volte che ci accosteremo al medesimo non manchiamo di volgere un pensiero sulle confessioni passate per assicurarci che siano state ben fatte, e se ne scorgiam il bisogno rimediamo ai difetti che per avventura fossero occorsi. A me sembra che questo sia il mezzo più sicuro per vivere giorni felici in mezzo alle afflizioni della vita, in fine della quale vedremo anche noi con calma avvicinarsi il momento della morte. E allora colla ilarità sul volto, colla pace nel cuore andremo incontro al nostro Signore Gesù Cristo, che benigno ci accoglierà per giudicarci secondo la sua grande misericordia e condurci, siccome spero per me e per te, o lettore, dalle tribolazioni della vita alla beata eternità, per lodarlo e benedirlo per tutti i secoli. Così sia.
136 una doppia: ins. ed. '1878 per correggere il precedente: non dubbia.