«Quando questi (Barnaba) giunse e vide la grazia del Signore, si rallegrò» (Atti 11,23)
Incontro del Rettor Maggiore con gli Ispettori di Europa
Salesianum 1-5.XII.2004
Carissimi fratelli e sorelle,
vi saluto cordialmente, vi do il benvenuto alla Casa Generalizia e vi auguro che vi sentiate a casa durante questi giorni in cui vogliamo contemplare con lo sguardo e il cuore pastorale di Don Bosco la realtà entusiasmante e sfidante della nuova Europa.
È la prima volta che il Rettor Maggiore convoca gli ispettori di tutto un Continente, che comprende in questo caso tre Regioni, per analizzare insieme la situazione sociale, politica, economica, culturale, religiosa in cui i Salesiani sono chiamati a vivere la propria vita religiosa e svolgere la missione salesiana, cercando di conoscerla meglio, vagliare le possibilità e le risorse, affrontare le sfide, e disegnare una presenza di futuro.
Premetto ricordare che il punto di partenza è stato un orientamento del CG25, che chiedeva al Rettor Maggiore di presentare al prossimo Capitolo Generale una proposta di riconfigurazione delle Regioni in Europa. Nel Consiglio abbiamo visto che più importante che la riconfigurazione delle Ispettorie e Regioni è la definizione del tipo di presenza che vogliamo per questa Europa d’oggi, e di conseguenza i cambi strutturali che la rendano possibile.
Europa vive una situazione inedita nella sua storia, dopo che ha voluto voltare pagina alle guerre, ai campi di concentramento, ai gulag, alla Shoah che l’hanno martoriata, insanguinata e divisa per tanti secoli. È stato appunto la reazione matura dei “Padri della nuova Europa” (Robert Schumann, De Gasperi, Konrad Adenauer) dopo la Seconda Guerra Mondiale a sognare una Europa diversa, riconciliata, unita, libera, democratica e solidale, con il rispetto alla autonomia delle proprie nazioni.
Il risultato è alla vista di tutti:
Certo non tutto è roseo, nemmeno a livello di funzionamento dell’Europarlamento e la Commissione (manca per esempio una definizione chiara di che cosa è l’Europa, come lo sta a dimostrare la questione della Turchia, o la difficoltà per stabilire una politica estera comune, come lo sta a manifestare il rapporto con gli Stati Uniti, o l’incubo che risulta del fatto di continuare ad operare con un sistema che richiede di unanimità per la presa di decisioni, come il caso della approvazione della Costituzione), ma soprattutto a livello di società, dove il relativismo morale e il riconoscimento con stato di diritto di situazioni di fatto sta erodendo il sistema di valori umani e cristiani che hanno collaborato alla costruzione di questa Europa d’oggi.
Nel caso nostro, la preoccupazione più grandi la si trova nella convinzione che si cela dietro l’attuale laicismo anticattolico, vale a dire, che umanesimo e cristianesimo sono due realtà escludenti, anzi, che tra il cristianesimo cattolico e i principi in cui si riconosce l’Europa come istituzione esiste una incompatibilità sostanziale (si veda il caso Bottiglione), e che le nazioni (lo Stato) sono riuscite a fare quello che non è riuscita a fare la Chiesa o le religioni: l’unità, il progresso. Dunque, che, d’ora in poi l’unica forma di garantire l’unità delle nazioni di questa nuova Europa è mettendo completamente in disparte la religione, qualsiasi religione.
Questo progetto di Europa senza religione e senza Dio, si manifesta non soltanto nel rifiuto alla riconoscenza delle radici cristiane dell’Europa nella Costituzione che si è data, ma soprattutto nel tessuto sociale caratterizzato da:
In questo contesto mi sembra molto illuminante un testo degli Atti degli Apostoli (11,19-26) che ci offre un modello concreto e l’atteggiamento più adeguato per affrontare la situazione presente. Vorrei condividerne una riflessione.
Il testo riguarda la fondazione della Chiesa di Antiochia. L’importanza della Chiesa antiochena per l’espansione del messaggio cristiano è evidente in Atti: da essa partiranno le missioni ai pagani e per essa sarà radunata la Chiesa di Gerusalemme a decidere le modalità di accoglienza dei non circoncisi. Intorno alla Chiesa di Antiochia gravitò tutto l’apostolato di Paolo. Non è indifferente il fatto che è stato proprio in Antiochia che per la prima volta i discepoli di Gesù ricevettero il nome di cristiani. Oltre al valore storico di questa notizia possiamo rilevare la sua portata teologica: fin dagli inizi questo gruppo di discepoli si qualifica e si nomina in diretto e stretto rapporto al suo fondatore: Gesù Cristo.
La persecuzione che si abbatte nella Chiesa di Gerusalemme (At 8,1) anziché stroncare sul nascere l’esperienza cristiana, diventò paradossalmente o meglio provvidenzialmente una delle cause della sua diffusione e del suo dinamismo missionario. Essa, infatti, obbligò la comunità degli apostoli a uscire dagli strettissimi limiti geografici e dai cerchi ideologici del giudaismo.
Ad Antiochia nasce un nuovo modello di Chiesa. Nuova non solo perché formata interamente da pagani convertiti, ma specialmente perché supera un mortale pericolo della Chiesa di Gerusalemme. Questa infatti, fedele alle pratiche giudaiche, rischiava di svuotare la novità del messaggio cristiano e diventare un’altra setta giudaica.
La comunità di Antiochia si caratterizza per essere una comunità in cui si intrecciano diverse persone, diverse lingue, diverse culture, diverse razze. Eppure formano una vera comunità. E’ però inevitabile che in una comunità così composita sorgano problemi di ordine disciplinare e dottrinale. Allora – dice l’autore degli Atti degli Apostoli – i responsabili della Chiesa di Gerusalemme inviarono Barnaba allo scopo di vedere e di discernere.
La presentazione che si fa di Barnaba è riassunta in tre qualità, come sono tre li azioni che egli svolge ad Antiochia. Egli è l’esempio di virtù cristiana: buono, pieno di Spirito e di fede; sa riconoscere l’azione di Dio e gioirne; esorta i credenti alla fedeltà al cuore. Si tratta di caratteristiche che ne fanno il modello della Chiesa apostolica; ai lettori di Luca viene insegnato che queste qualità hanno causato l’ingresso dei pagani nella Chiesa.
Noi siamo qui radunati come Barnaba per leggere la realtà della nuova Europa, per assumere le sfide che ci presenta, per fare i conti con le risorse disponibili, per dare luogo spazio a una presenza salesiana con futuro.
Gli atteggiamenti possibili sono diversi, da quelli più pessimisti che pensano che il ciclo vitale della Congregazione in Europa sta raggiungendo il suo termine e che solo dobbiamo attendere che l’ultimo spenga la luce e chiuda la porta, a quelli più ingenui che si resistono ad accogliere la novità del contesto, del modello sociale, della cultura imperante, della sensibilità antropologica e continuano ad agire come trenta anni fa.
C’è però un atteggiamento migliore, più evangelico – quello che ci viene infatti offerto da questo meraviglioso testo degli Atti e che io vi vorrei proporre –, quello di Barnaba. Significa assumere una prospettiva da credenti che in questa nuova situazione dell’Europa riescono a “vedere la grazia del Signore e rallegrarsene”. Significa fare nostro il comportamento di Barnaba di modo di esortare ai confratelli delle nostre Ispettorie a perseverare alla fedeltà al Vangelo, vissuto e predicato. Implica porre le basi per la missione coinvolgendo le persone che come Paolo, con zelo missionario, possano fare una nuova evangelizzazione. Significa avere l’audacia per creare quelle strutture che rendano possibile la diffusione del Vangelo. Significa essere semplicemente docili allo Spirito che rende nuove tutte le cose.
Non possiamo rassegnarci a una morte naturale, propria di coloro che vogliono lasciare le cose come stanno pur di non cambiare. Non possiamo fare nostra la scelta di quel miliardario giapponese che decise che alla sua morte insieme a lui fossero seppellite le opere di arte che avevo acquistato lungo la sua vita. A ragione questo fatto scatenò una protesta: quelle opere non gli appartenevano perché erano un patrimonio dell’umanità. La fede, il Vangelo, il carisma salesiano sono un patrimonio che dobbiamo trasmettere vitalmente perché sono un dono di Dio per la Chiesa e per i giovani.
Io mi auguro che possiamo uscire da questo incontro storico convinti che abbiamo futuro, perché questa Europa ha bisogno più che mai del Vangelo, anche se esplicitamente lo rifiuta; perché Cristo è l’unico che può rispondere ai bisogni più profondi della persona umana, anche se si cerca di affogare questi nel mare del consumismo; perché i giovani sono la nostra eredità e continuano ad avere necessità di persone adulte che vogliano accompagnarli, anche se sovente non sanno come chiederlo.
L’esortazione apostolica “Ecclesia in Europa”, che convoca tutti i cristiani a venire incontro allo smarrimento in cui si trova l’Europa riproponendo Cristo come fonte sicura di speranza, è compito particolare dei consacrati. Oggi, più che mai è urgente a lottare contro la rassegnazione e aiutare i giovani, tentati di andare a dissetarsi a cisterne screpolate (cf. Ger 2,13), a ritrovare le ragioni della speranza, additando loro Cristo quale fonte sicura a cui attingere.
Ecco, cari miei, il nostro bellissimo compito oggi. La missione salesiana nella nuova Europa.
Don Pascual Chavez V.
Salesianum – Roma 01 Dicembre ‘04