ESERCIZI SPIRITUALI CG27
“Testimoni della radicalità evangelica con Gesù come modello”
Riflessioni bibliche sul profilo del nuovo salesiano
Mercoledì 26 febbraio
Introduzione
Pomeriggio: Figlio di Dio per decisione del Padre
(Mt 3, 13-17)
Giovedì 27 febbraio
Mistico: difensore e annunciatore del primato assoluto di Dio
Mattino: Figlio amato, figlio provato
Figlio amato, figlio messo alla prova (Mt 4,1-11)
Pomeriggio: Con Dio e il regno come unica causa
Dio e il suo regno come unica causa (Mt 4,12-17)
Venerdì 28 febbraio
Profeta: costruttore e restauratore della vita fraterna
Lodi: Costruttore e restautore della vita fraterna
Mattino: Costruire comunità, ascoltando Gesù
Fare fraternità ascoltando Gesù (Mc 3,29-21.31-35)
Pomeriggio: Rifare la fraternità,
Rifare la fraternità mediante la correzione e il perdono (Mt 18,15-20.21-35)
Sabato 1 marzo
Servo: compassionevoli con i bisognosi e loro custodi
Lodi: Compassionevole con i bisognosi e loro guardiano
Mattino: Testimoni e amministratori
Testimoni e amministratori della misericordia di Gesù (Mc 6,30-44)
Pomeriggio: Prendersi cura del piccolo
Curare i piccoli per godere delle cure di Dio Padre (Mt 18,1-5.6-9.10.12-14)
Domenica 2 marzo
Conclusione
Lodi: La madre di Gesù
Mattino: La madre di Gesù
Maria, Ausiliatrice e Madre (Gv 2,1-12)
Introduzione agli Esercizi Spirituali
1. Il motivo di base
“Questa è volontà di Dio, la vostra santificazione” (1 Ts 4,3). Così Paolo scrisse da Corinto ai tessalonicesi l’anno 51, un anno cioè dopo la loro conversione. Padre attento e affettuoso (1Ts 2,11-12), l’apostolo temeva per la loro perseveranza, poiché, appena fondata la comunità, aveva dovuto lasciarla a causa dell’ostilità della colonia ebraica. “Dio non ci ha chiamati all’impurità, ma alla santificazione. Perció – concludeva – chi disprezza queste norme non disprezza un uomo, ma Dio stesso” (1 Ts 4,8). 1 Tes, prima lettera dell’apostolo e, perciò, la prima opera scritta del NT, è testimone che, dagli inizi del cristianesimo, la santità era presentata come volere di Dio e come vocazione dei suoi. (cfr. Lv 19,2).
Nella prima delle lettere circolari di don Bosco ai Salesiani, “piccoli capolavori di spiritualità”[1], Don Bosco confessava di sentire il bisogno di parlare “ai miei figli con frequenza” poiché la Congregazione “sarà forse fra non molto definitivamente approvata”. “Comincerò adunque a dire qualche cosa intorno allo scopo generale della Società… Primo oggetto della nostra Società è la santificazione dei suoi membri. Perciò ognuno nella sua entrata si spogli di ogni altro pensiero, di ogni altra sollecitudine”.[2] Non siamo, dunque, nati per fare il bene, ma, primo et per se, per farci buoni…, facendo del bene.
“Cari salesiani, siate santi” è stato il tema della prima lettera che don Chávez ci ha inviato, “al alba del suo servizio”. Oltre a far suo l’invito pressante del beato Giovanni Paolo II[3], il Rettor Maggiore voleva espressamente far “diventare la santità programma di vita e di governo”, giacché la santità è “il compito essenziale della nostra vita… Raggiunto questo, tutto è raggiunto; fallito questo, tutto è perduto”.[4]
È una coincidenza che gli inizi del NT, della Congregazione e del rettorato di don Chávez siano stati contrassegnati dall’appello alla santità personale? Non lo credo affatto. “Assunzione (accoglienza) prima di essere ascensione (sforzo),”[5] la santità è sempre dono gratuito. Dio ci da quello che ci esige; e ci lo da, prima di chiederlo, come diede a Maria lo Spirito prima di farla madre. Ma che sia dono non lo fa né superfluo né elettivo. “Essere santi non è un lusso, è necessario per la salvezza del mondo. È questo che il Signore chiede a noi”, ha ricordato papa Francesco ai nuovi cardinali domenica scorsa.[6] Dobbiamo, dunque, a Dio e al mondo, ai giovani con preferenza, la nostra santità.
2. Il tema da sviluppare
Al tramonto del suo rettorato, Don Chávez, quando ha indetto questo Capitolo ci proponeva la radicalità evangelica, “una dimensione fondamentale della nostra vita”, come il nostro specifico cammino verso la santità. Infatti, “essa coinvolge tutto il nostro essere, concernendo le sue componenti vitali: la sequela di Cristo e la ricerca di Dio, la vita fraterna in comunità, la missione”.[7]
Per facilitare questo compito nel fronteggiare “le sfide attuali e future della vita consacrata salesiana e della missione in tutta la Congregazione”, il Rettor Maggiore ha sentito il bisogno di abbozzare “il profilo del nuovo salesiano”,[8] che concretizza il cammino pedagogico verso la santità salesiana. Il nuovo, e santo, salesiano è mistico, “perché, come scrive il Rettor Maggiore, si ha incontrato personalmente Cristo Gesù e, come Lui e accanto a Lui, vive testimoniando il primato assoluto di Dio. Il salesiano si fa profeta se vive e lavora insieme al fratello che Dio gli ha donato e con cui condivide vocazione e missione. Il salesiano si converte in servo dei giovani, quando per lui loro diventano, come furono per don Bosco, unica ragione per vivere e la causa della sua consegna a Dio”.
Mistico, profeta e servo, questi tre tratti caratteristici saranno l’obietto delle nostre riflessioni, il motivo della nostra preghiera durante i tre giorni di Esercizi Spirituali.
Ÿ Fissando il nostro sguardo in Cristo Gesù, contempleremo la sua inequivoca, e sofferta, identificazione con Dio, la sua volontà paterna e la sua causa (il regno), imparando a obbedirlo “pur essendo suo Figlio” (Eb 5,8).
Ÿ Ascoltando la sua parola, sapremmo che la nostra vita fraterna nasce non dal nostro bisogno ma dal trovarsi attorno a Lui ascoltandolo, lasciando di essere abituali compagni per diventare dei familiari intimi. Una vita comune nata dall’ascolto di Gesù dovrà per forza crescere, alimentarsi e difendersi con preciso adempimento delle sue istruzioni; chiamati da Lui a vivere da fratelli, dovremmo vivere come Lui ci insegna.
Ÿ Accompagnandolo da vicino, impareremmo da Lui la compassione per il popolo e mettendo a sua disposizione le nostre scarse riserve, Lui farà il miracolo di sfamare la gente e di evangelizzare il loro, e il nostro, cuore. Immedesimati con Lui accetteremo diventare piccoli per avere cura dei più piccoli e diventare, come loro, grandi nel regno dei cieli.
3. Un metodo da seguire
Gli esercizi spirituali, a dire di Sant’Ignazio, sono più preghiera/desiderio e contemplazione/consolazione che riflessioni personali o discorsi altrui. L’obiettivo è “preparare e disporre l'anima a liberarsi da tutte le affezioni disordinate e, dopo averle eliminate, a cercare e trovare la volontà di Dio nell'organizzazione della propria vita in ordine alla salvezza dell'anima.” (E.S. 1). Osservate bene, prego, la sequenza: prima, identificare il disordine in cui viviamo, per rimuoverlo; poi, ricercare la volontà di Dio, per riorganizzare la propria vita.
Il contenuto della preghiera è la propria vita, quella che si sta conducendo nel presente, nella sua complessità, con le sue ambiguità, con le sue luci e le sue ombre. La preghiera, negli Esercizi Spirituali, è specificatamente personale. Non si prega per chiedere perdono o per voglia di migliorare; non sono i desideri di conversione quelli che mantengono la preghiera: quello che dipende da me non è un cambiamento realizzato con uno sforzo di volontà, ma la supplica! (io posso solo supplicare che Dio mi converta, non posso convertirmi da solo, in modo volontaristico). Si prega per riordinare la propria vita, e guardandola come Dio la vede (contemplazione), per volerla come Dio la vuole (la scelta).
La preghiera personale, l’esercizio fondamentale se non unico, dovrebbe durare “un’ora intera, e piuttosto di più che di meno. Infatti il demonio cerca in tutti i modi di far abbreviare l'ora.” (E.S. 12). E, più decisivo, dovrà “suscitare gli affetti” (E.S. 3), commuovere, scuotere, in modo che quando “l’esercitante non riceve nell’anima alcuna mozione spirituale…, e nemmeno è agitato da alcuno spirito, deve informarsi accuratamente se fa gli esercizi nei tempi stabiliti e come li fa” (E.S. 6). Se non capita niente, o appena niente, non si sta facendo niente o appena…
Ancora due annotazioni importanti. “Giova molto che chi fa gli esercizi li intraprenda con animo aperto e generoso verso il suo Creatore e Signore, mettendogli a disposizione tutta la propria volontà e libertà, in modo che la divina maestà possa disporre di lui e di quanto possiede secondo la sua santissima volontà.” (E. S. 5). Dio no si lascerà vincere in generosità: ci darà sempre di più, e meglio, di quanto noi saremmo stati capaci di consegnarGli. A questo primo suggerimento sull’atteggiamento basico dell’esercitante verso il suo Dio, si aggiunge un consiglio pratico su come realizzare la preghiera: “dove troverò quello che voglio, lì mi fermerò, senza aver fretta di passare oltre, finché non ne sia pienamente soddisfatto” (E. S. 76). Non è necessario, ne consigliabile, ‘finire’ il tema proposto per la preghiera; non si persegue la completezza nella realizzazione dell’esercizio, ma la sua profondità: quando la Parola tocca il mio cuore, chiede pure tutto il mio tempo.
4. “Principio e fondamento”
Sant’Ignazio fa iniziare sempre i suoi Esercizi fissando in Dio, principio e fondamento di tutto il creato, l’attenzione, e il cuore, di chi fa gli esercizi. Si tratta di entrare in noi stessi per scoprire, facendoci coscienti di quello che siamo e viviamo (l’universo della nostra esistenza), di quanto ci occupa e ci preoccupa (l’universo del nostro agire), quello che desideriamo raggiungere o di cui siamo privi (l’universo dei nostri affetti).
Questo pomeriggio vi invito a mettervi sotto lo sguardo di Dio, tanto giusto quanto comprensivo, per vederci come Lui ci vede. Anzi, vorremmo che Lui ci veda così come ha visto Gesù, cioè come figli benamati; e si dichiari, come ha fatto con Gesù, nostro Padre. Il racconto del battessimo di Gesù secondo Matteo ci offre un chiaro itinerario per arrivare a essere come Dio ci vuole e, permettere così a Dio, che sia per noi quello che vuole.
1º. Il Gesù che sarà proclamato da Dio suo figlio amato “venne al Giordano da Giovanni per farsi battezzare da lui” (Mt 3,13): Dio ha dichiarato figlio a chi si è collocato tra i peccatori che anelavano convertirsi a Dio. Tra i malfattori Dio trovò suo figlio! Il nostro peccato, se riconosciuto, non è impedimento per diventare figli di Dio.
2. Gesù ha voluto essere battezzato superando la resistenza del Battista “per compiere ogni giustizia” (Mt 3,15). Non si lascia intimidire da quanto pensino gli altri, compresi i migliori, ma cerca solo quello che importa a Dio, la giustizia.
3º. Immediatamente dopo il battesimo, Dio si dichiara Padre amante e identifica Gesù come Figlio amato (Mt 3,17). Gesù non ha fatto nulla ancora – nulla si è raccontato su di lui nel vangelo – per meritare tale riconoscimento: non è figlio per quel che ha realizzato, né per quanto si accinge a realizzare. E’ figlio prima di farlo e per farlo.
Come Cristo stesso, il cristiano non s’identifica con quanto vuole fare o diventare in vita sua, ma piuttosto si riconosce e accetta dono immeritato del Dio vivente. La sua esistenza, il suo più autentico profilo, dunque, gli viene dato. Non potrà mai né definirlo lui né conquistarlo con le sue forze. Prima Dio ci vuole e siamo; poi ci dice come, e quanto, ci vuole. Identificarsi con quanto ha detto, e vuole, Dio nei nostri confronti porta a saperci figli suoi come il Figlio.
Juan J. Bartolomé
[2] G. Bosco, Epistolario. Introduzione, testi critiche e note a cura di F. Motto. II, Roma, LAS, 1996, 385-386.
[3] Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti al Capitolo Generale, in “L’Osservatore Romano” (13 aprile 2002), 5.
[4] P. Chávez, «Cari Salesiani, siate santi!»: ACG 379 (2002) 5.11.
[5] L. J. Suenens, Lo Spirito nostra speranza, Roma, Paoline, 2001, 88.
[6] Cfr. http://www.vatican.va/holy_father/francesco/homilies/2014/documents/papa-francesco_20140223_omelia-nuovi-cardinali_it.html
[7] Chávez, ««Testimoni della radicalità evangelica». Chiamati a vivere in fedeltà il progetto apostolico di Don Bosco. «Lavoro e temperanza», ACG 413 (2012) 8.22. La corsiva è mia.
[8] Chávez, «Testimoni», 19.
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Mistico.
Difensore e annunciatore del primato assoluto di Dio
Oggi facciamo motivo di preghiera il primo tratto del “profilo del nuovo salesiano”: essere mistico porta al salesiano a vivere la sua vocazione con una dedizione totale e in permanente conversione, sotto la supremazia incondizionata di Dio. Centreremo la nostra attenzione, il nostro cuore, sulla persona di Gesù, testimone e modello di fedeltà al Dio che lo aveva dichiarato figlio e la cui causa, il regno, assunse come occupazione esclusiva. Un solo Dio, il Padre, una sola causa, il regno.
Vogliamo ricalcare la passione di Gesù per Dio e per i suoi interessi come chiave per la comprensione della sua persona e della sua opera. La totale identificazione con Dio e con la sua causa lo confermò come il figlio prediletto e lo rese il suo migliore evangelizzatore. Non si tratta di compiti diversi, ma Gesù dovette differenziarne l’esecuzione: prima di dedicarsi a predicare Dio e il suo regno, Gesù dovette provare a se stesso che si accettava come Dio lo voleva, figlio suo.
1. Figlio prediletto, figlio tentato
Non aveva ancora cominciato il ministero pubblico, che avrebbe avuto il regno di Dio come compito (Mtb 4,17; Mc 1,15), quando Gesù ricevette lo Spirito e Dio gli si dichiarò suo Padre amoroso (Mt 3,17; Mc 1,11; Lc 3,22): non aveva ancora operato come apostolo e già era stato proclamato figlio. Ma prima di mettersi a lavorare come predicatore del Regno, dovrà superare la tentazione: il figlio amato di Dio deve scegliere liberamente vivere come figlio.
Il fatto che la tentazione faccia seguito alla filiazione divina, e si incentri su di essa, non è meno illustrativo del modo in cui avvenne l’insidia. Il tentatore non oserà negare quel che Dio ha dichiarato; esprime un dubbio, che comunica al figlio di Dio. Cercando che questi faccia suo il dubbio, lo motiva con attese logiche. Gesù dovrà optare per Dio, senza altro appoggio e certezza che la Parola di Dio. Di essa si alimentano i figli di Dio.
Il tentatore – occorre rendersene conto – ha concentrato il suo attacco non sulla missione di Gesù ma sulla sua filiazione divina; non su quel che veniva a fare ma su quel che gli avevano detto che era. In realtà, tentando Gesù, Satana attenta a Dio. Solo quando il figlio di Dio si afferra alla volontà di Dio potrà inaugurare la propria vittoria sul Maligno predicando il Regno.
2. Essendo portavoce di Dio, deve identificarsi con la sua causa
Gesù supera la tentazione perché preferisce identificarsi con Dio, essere come Egli lo vuole (Mt 4,3-11). In seguito può apparire in pubblico abbracciando ora la causa di Dio, il suo regno sulla terra. L’annunciatore di Dio ha saputo opporsi personalmente a Satana e ne è uscito vincitore. C’è da meravigliarsi se Gesù farà il suo primo annuncio del regno espellendo demoni e liberando dal male (Mt 4,24; cfr. Mc 1,21-28)?
Essendosi identificato con Dio, può diventarne il portavoce. Consapevole di esserne figlio, è al corrente dei suoi progetti (cfr. Gv 3,45; 5,19; 7,29). Li annuncia, perché li conosce (cfr. Gv 8,28.55). Dirà agli altri quel che conosce per vissuto personale: il vangelo predicato è espressione pubblica della sua fede, la confessione della sua fedeltà a tutta prova ( cfr. Gv 5,17.19). E’ stato presentato da Dio come il suo figlio amato (Mt 3,17); ora presenta se stesso come suo predicatore. Il vangelo del regno è la sua carta d’identità. Nella tentazione si è identificato come figlio di Dio, nella missione si identifica con quanto desidera suo Padre: regnare su Israele (Mt 4,17). E’ un fatto che bisogna riconoscersi come figli di Dio per parlare di Dio Padre.
Non deve, poi, passare sotto silenzio che, dopo aver annunciato per la prima volta il regno (Mt 4,17), Gesù per prima cosa ordina a due coppie di fratelli di seguirlo (Mt 4,18-22). Aveva una sola causa, Dio e il suo regno, ma non volle perseguirla da solo. Colui che annuncia un Dio vicino, non solo deve avvicinare i suoi uditori, dev’essere accompagnato da seguaci. Il discepolato è il primo frutto di una vera evangelizzazione.
Obiettivi del giorno
Sant’ Ignazio non chiama predicatore, nemmeno direttore, a chi li dirige, ma parla semplicemente di “chi da gli esercizi”. Dare “esercizi” suppone, in primo luogo, proporre i temi per la preghiera del modo più breve possibile; ma implica pure fissare con chiarezza gli obiettivi che l’esercizio dovrebbe raggiungere.
Traguardo fondamentale di questo primo giorno è rendersene conto del livello di identificazione con Dio con cui viviamo nostra vita consacrata salesiana, dando nome concreto alle cause che in noi causano distacco, tradimenti persino, da Dio (dis-ordine) e cercare i mezzi che si riporteranno a dare a Dio il primato nella nostra vita (ri-organizzazione).
Lo faremo in due tappe. Durante la mattina, ci domanderemo se ci accettiamo a noi stessi come Dio ci vuole, suoi figli, e se lo vogliamo come Lui vuole essere per noi, nostro Padre. In questione è la nostra relazione con Dio, la sua accoglienza nella nostra vita. Dovremmo identificare le nostre personali ‘tentazioni’ che – tentazioni dei figli di Dio – avranno come cause la nostra debolezza, indotta o naturale, il mettere la Parola a nostro servizio, o la brama di essere come Lui senza essere di Lui. Ci deve consolare il poter considerare la tentazione come esperienza spirituale, come cammino pedagogico voluto dal Padre.
Nel pomeriggio, contemplando Gesù evangelista del regno, ci domanderemo quale sono le cause che portiamo avanti, che dando senso alla nostra vita da consacrati. Qualsiasi altro progetto che non sia il progetto di Dio è suo antagonista, un nostro signore che non ci salva. È preciso identificarlo e ripudiarlo. Sta in gioco il nostro essere più radicale, l’essere figli di Dio. Il figlio non ha altra causa che il regno dei cieli.
Maria che contemplava nel suo cuore quanto accadeva intorno a se e dentro di se sia vostra guida e compagna nella giornata.
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Testimoni della radicalità evangelica
Figlio amato, figlio provato
(Mt 4,1-11)
Della vita pubblica di Gesù, iniziata con la proclamazione che il regno di Dio stava per arrivare (Mt 4,17), Matteo ricorda due momenti, collocati strategicamente, in cui Gesù deve lottare per mantenersi figlio del suo Dio, prima contro il tentatore (Mt 4,1-11) e più tardi contro se stesso, in agonia solitaria (Mt 26,36-46).
All’inizio del suo ministero, Gesù deve difendere tre volte la sua condizione filiale, solo nel deserto, solo con la propria necessità, di fronte all’assalto tenace del tentatore. Alla fine della sua vita Gesù si dedica, nella preghiera, a difendersi dal Padre e a liberarsi dal suo volere come ultimo tentativo di salvare la vita. Sentì la tentazione di disertare da suo Padre, abiurando dalla proclamata filiazione, quando poté scegliere, nel deserto, cammini che non gli indicava la Parola e quando dovette scegliere, nel Getsemani, tra continuare a vivere o perdere tutto, meno il suo essere figlio di Dio. Ebbene, non ci risulta sintomatico il fatto che Gesù abbia vinto la prima prova ricorrendo alla Parola (Mt 4,4.7.10) e la seconda, e definitiva, non abbandonando la preghiera (Mt 26,36.39.42.44)?
Ci fermiamo sul primo episodio, quello delle tentazioni. La grazia della filiazione, appena concessa, diventa per lui immediatamente un compito da accettare liberamente, a costo di tante, e tanto incresciose, rinunce.
Matteo ha redatto con la sua solita chiarezza l’episodio. Comincia con Gesù condotto fino al diavolo (Mt 4,1-3) e termina quando il diavolo lascia il posto agli angeli che vengono a servire (Mt 4,11). Tutta la scena presenta Gesù che affronta il tentatore: nessun altro assiste alla tentazione…, né al tentato! La solitudine del figlio tentato è assoluta.
La tentazione avviene in tre assalti, che vengono narrati in modo conciso e simmetrico:
a) Il tentatore prende sempre l’iniziativa (Mt 4,3.5.8). La tentazione non sorge in nessun momento come frutto della situazione di Gesù: non è effetto della sua fame, né conseguenza delle sue carenze. È indotta da fuori, ma lo sorprende in un momento di chiara debolezza. Senza esserne la causa, la sua impotenza è il ‘brodo di coltura’ della tentazione, che diventa in questo modo reale e pericolosa.
b) Gesù reagisce invariabilmente citando Dio, appoggiandosi sulla Parola scritta (Mt 4,4.6.10). Essa gli serve da discernimento per aver successo nella prova e come guida della sua opzione personale. Rifugiandosi nella voce nota – scritta – di Dio, riesce a intravedere il volere nascosto del Padre. Prestare ascolto alla Parola lo salva dall’ascoltare altre voci.
c) Il tentatore cambia continuamente la proposta. Ripete il tentativo, ma cambia i motivi: offrirà beni sempre più grandi, più appetibili (Mt 4,3.4.9). Non si tenta con il male; e se in realtà è male, si presenterà “sotto apparenza di bene”. Bisogna osservare una certa progressione nei motivi su cui si basa la proposta diabolica: dal mettere in discussione la propria vita, data la fame prolungata, si passa a discutere l’assistenza divina in un momento di urgenza, per finire poi proponendo tout a court di rinunciare a Dio. Superata una tentazione, ne arriva un’altra peggiore, da superare. Solo aggrappati alla volontà espressa di Dio diventano invincibili i suoi figli.
2. Alcuni rilievi
La prima cosa che dovette fare Gesù come figlio di Dio fu confermare la propria filiazione, sottomettendosi alla tentazione. La prova fa seguito immediatamente alla grazia: ne è la ratificazione. Come preparazione idonea alla sua missione evangelizzatrice, Gesù deve fare propria la grazia data, lottando per conservarla.
La tentazione, prova dello Spirito!
Gesù, già figlio di Dio ma non ancora predicatore del Regno, si trova solo e debole, dopo il digiuno prolungato. La solitudine di un Gesù affamato di fronte al diavolo sarebbe una situazione esecrabile se non fosse stata provocata dallo Spirito. È stato lo Spirito che ha lasciato nelle mani del diavolo il figlio di Dio (Mt 4,1)!
Un prolungato digiuno lo aveva indebolito per l’incontro col suo tentatore. La prova sopravviene a Gesù dopo aver fatto il bene (!), ma quando ha meno forze, senza che ci sia al suo fianco qualcuno che lo aiuti. E’ un fatto che i figli di Dio si trovano in grave necessità, perché non abbiano altro bisogno se non quello del loro Dio (Es 16.17.32; 34,28). E’ questa la pedagogia divina (Eb 12,5-8).
Anche se ripetuta, la tentazione è fondamentalmente una, come unico è il tentatore. Il diavolo pretende che Gesù abiuri dalla sua condizione filiale, proclamata pubblicamente nel battesimo. La tentazione per il cristiano, indipendentemente dalle circostanze che la concretizzano o dai motivi che la possano giustificare, mette sempre in discussione il legame personale con Dio. Considerandolo bene, si tratta di un attacco a Dio Padre nel suo figlio. Possono variare i motivi di tentazione, ciò che non cambia è, alla fin fine, quel che rimane sempre ipotecato: la filiazione divina.
La Parola come scudo e alimento
Il primo assalto diabolico (Mt 4,3-4) presuppone una situazione di penuria e fa leva su questo. Un figlio di Dio che si rispetti, suggerisce il tentatore, potrebbe benissimo trarre alimento dalle pietre pur di non trovarsi nel bisogno. Se è veramente figlio, perché non ci prova?
In fondo la tentazione poggia su un concetto del divino a cui siamo molto abituati: Dio, e chi gli appartiene, non deve soffrire mancanze né avere delle necessità. A cosa serve avere Dio, se ci manca il necessario? Cosa si può aspettare da un Dio che non vale per liberarci dalla fame? Non è qualcosa di suicida confidare in un Dio che sembra indifferente alla nostra sopravvivenza?
Gesù, citando un testo in cui si ricordava a Israele che la fame, sofferta nel deserto, era stata prova di una pedagogia paterna (Dt 8,2-6), risponde che per vivere non ha bisogno del pane, sempre necessario in tempo di fame, ma di tutto quel che Dio vuole dire. Figlio di Dio non è chi non patisce necessità, bensì chi si alimenta della parola di Dio. Saziare la fame non costituisce una priorità da figli di Dio, che vivono sicuri di essere tali e hanno fame della volontà del Padre.
La vicinanza del Padre, messa in discussione
Il secondo assalto (Mt 4,5-6) è situato nel tempio di Gerusalemme, luogo privilegiato della presenza di Dio tra il suo popolo. Questo scenario rende più verosimile la tentazione. Lì, anche se solo, Gesù può sentirsi più protetto da Dio. Ma, proprio per questo, rende più logico il dubbio: a cosa serve la vicinanza di Dio se i suoi figli non riescono ad sopravvivere?
La strategia del tentatore è sottile, e tremenda. Respinto dalla forza della Parola (Mt 4,4), si serve della parola di Dio per tentare il figlio di Dio (Mt 4,6): quel che Dio ha detto si può usare come motivo per abbandonare Dio! Si può tergiversare la Parola per andare contro Dio: la Scrittura si può addurre come motivo di resistenza a fare la sua volontà. Malizia suprema: il maligno si fa scudo di Dio per tentare il figlio.
Gesù risponde citando un testo che impone il servizio esclusivo di Dio (Dt 6,16), come se non fosse lui ad essere tentato… Nella prova del figlio si vede messo in discussione anche il Padre. Il fedele che supera la tentazione non rende forse vittorioso il suo Dio? Difendere i diritti di Dio è il cammino che hanno i figli per sfuggire alla tentazione. Si libera da essa non colui che si libera da Dio, ma chi sceglie, come Gesù, solo Dio.
Per un figlio è adorabile solo suo Padre
Il terzo assalto è quello definitivo (Mt 4,8-10). Il tentatore, lungi dal darsi per vinto, diventa più arrogante dopo il ripetuto fallimento. E’ un dato non trascurabile. Ritorna alla carica; ora, senza tergiversazioni, brutalmente. Mostra a Gesù il mondo e la sua gloria e glielo offre…, se gli rende culto. Solo il diavolo, nella sua sfrontatezza, può arrivare a tanto: si maschera da Dio, si presenta divino, seduttore, di fronte al figlio di Dio! Non potendo truccare la scelta contraria a Dio con la Parola di Dio, svela la sua intenzione più intima: pretende di essere servito come solo Dio merita. Questa volta si basa solo sulla propria parola; no può infatti fondarsi su nessuna parola di Dio.
Per la prima volta, e con autorità inusitata, Gesù comanda al tentatore di ritirarsi. La lotta è corpo a corpo, senza intermediari. Si oppongono due volontà, quella del Padre (Mt 3,17: “Questi è il mio Figlio”), quella dell’anti-Padre (Mt 4,10: “se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai”). Ambedue reclamano totale obbedienza al figlio. Ma – a ben vedere – mentre il volere del Padre afferma Gesù come figlio amato, quel che si propone il diavolo è di trasformarlo in servo. Dio ama suo figlio perché sì; il nemico, per sé. Sempre. Resta così svelata la natura – la malizia – di ogni tentazione. Il caduto in tentazione diventa servo. È diversa la nostra esperienza?
Il testo citato in seguito da Gesù (Dt 5,9; cfr. 6,13), parte integrante del decalogo (cfr. Dt 5,6-21), rende inutili successive tentazioni. Non c’è prova che non possa superare colui che ritiene degno di adorazione solo Dio: prestare culto all’unico Dio che affascina, libera dal coltivare piccoli dei, per quanto divertenti possano essere. Solo chi sente una passione unica ed esclusiva per Dio è libero da grandi passioni e da piccole diversioni. Solo lui assomiglierà al Figlio di Dio.
[Ricordare il lavoro spirituale già accennato, cfr. Primo giorno. Presentazione, pag. 2].
I vangeli non dicono se Maria ha sofferto tentazioni. Sappiamo però che lei ha perso suo figlio adolescente nel tempio. Chiediamole di accompagnarci durante la nostra preghiera. Che ci aiuti ad affrontare le nostre tentazioni con la forza della Parola che lei accolse e che, se lo abbandoniamo, possiamo ricuperare Dio, come lei riuscì a farlo nel tempio.
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Con Dio e il regno come unica causa
(Mt 4,12-17)
Questa mattina abbiamo contemplato come Gesù ha superato la tentazione (Mt 4,3-11). Ha provato essere figlio di Dio, può diventare suo rappresentante. La prima cosa che farà Gesù in pubblico, o meglio, quel che deve fare in primo luogo, è dare una buona notizia: Dio e il suo volere stanno per venire. La causa di Dio, il vangelo del regno, è la carta di presentazione di Gesù. Si identifica con ciò che desidera suo Padre: regnare sul suo popolo (Mt 4,17). Questo è il tema della nostra preghiera.
1. Il racconto evangelico
Matteo narra l’inizio del ministero pubblico di Gesù con sobrietà. Evidentemente, non gli interessa tracciare una biografia del suo personaggio, bensì di identificarlo con la causa di Dio, essendo stato già identificato con Dio. La sequenza è significativa: prima Dio, poi, il suo progetto.
Dopo aver menzionato la genealogia (Mt 1,1-7), la nascita a Betlemme (Mt 1,18-2,12) e l’infanzia in Egitto (Mt 2,13-22), Matteo lo dichiara nazareno (Mt 2,23). Come Luca (Lc 3,1-20), fa che Gesù vada da Giovanni per farsi battezzare nel Giordano (Mt 3,13; Lc 3,21). Solo quando il Battista è gettato in carcere, ritorna Gesù in Galilea e comincia il suo ministero facendo dell’annuncio del vangelo di Dio la sua unica occupazione. Da notare che non sia stato precisato a chi si dirige la sua proclamazione. Le sue prime parole sembrano non avere ascoltatori definiti: quel che importa al cronista non è il pubblico ma il messaggio.
Matteo annota solamente che Gesù ritorna in Galilea, da dove procedeva (Mt 4,12). La Galilea è il luogo dove deve sempre cominciare la evangelizzazione e, di conseguenza, dove deve andare colui che evangelizza. L’evangelizzatore si deve al luogo dove lo attende il vangelo. Non importa da dove viene; quel che conta è dove deve andare (cfr. Mt 28,16-20). Gesù non rimane nel deserto, come Giovanni (Mt 3,1). Lascia Nazaret, sua patria di adozione, per stabilirsi in un villaggio che gode di migliori comunicazioni, Cafarnao (Mt 4,13). Questo cambio di residenza non è una semplice decisione tattica, di comodo, bensì la realizzazione del progetto divino. Si compie così la profezia: una grande luce brilla in una regione di ombre, per un popolo che vive nelle tenebre (cfr. Is 9,1). Dove appare un evangelizzatore, la luce vince le tenebre. Dove viene annunziato il vangelo, si compiono le promesse di Dio.
Il Dio che annuncia vuol essere vicino agli uomini. Il suo araldo non può rimanere staccato da loro. Senza attardarsi cercherà i suoi ascoltatori dove essi sogliono trovarsi, tra occupazioni e infermità (Mt 4,23-24; 9,35), sui monti (Mt 5,1; 8,1) o vicino al mare (Mt 4,18, a casa (Mt 8,14), in campagna (Mt 12,1) o, al sabato, nella sinagoga (Mt 12,9-10). Non può parlare di presenza di Dio, proprio perché non è così evidente, senza annunciarla avvicinandosi. E perciò Gesù esce dall’anonimato e si introduce tra gli uomini in cerca di ascoltatori. Non può predicare un Dio che cerca la vicinanza del suo popolo restando lontano da esso. E’ il vangelo al cui servizio si è dedicato che lo obbliga a ‘collocarsi’ tra i suoi ascoltatori. Non vorrà proclamare il volere di Dio, se non da una posizione di comprensione (Mt 9,2) e di misericordia (Mt 8,2-3; 14,14) verso chi lo ascolta. Se Dio è impegnato a venire, non vi è tempo da perdere né motivo che giustifichi ritardi. Vive pressato da un Dio che ha fretta di regnare. Non c’è tempo per ritardi o diversioni, quando Dio è imminente.
2. Alcuni rilievi
Tutti i gruppi religiosi contemporanei di Gesù, al di là del loro divergenze, condividevano la fede in una manifestazione finale del regno di Dio: il Signore, un giorno, si sarebbe imposto come sovrano del mondo e della storia. I fedeli ne anelavano la sua venuta. Non la potevano accelerare né riusciranno a ritardarla. Se sperano in un avvenire migliore è perché sono convinti di stare vivendo una situazione catastrofica, a cui si è giunti per inadempienza della volontà di Dio.
L’attesa del regno di Dio coincide, quindi, con la sicurezza che Dio sta per intervenire, facendo giustizia a quanti hanno cercato di vivere secondo il suo volere. Chi sa che il giudizio sovrano sta per arrivare si occupa di predisporre la conversione dal proprio peccato. E fa questo non solo deplorando le mancanze passate ma, soprattutto, impegnandosi a compiere con maggior zelo la volontà di Dio. La radicalizzazione dell’obbedienza a Dio è conseguenza dell’imminente attesa del suo regno.
Che Dio regni, la causa di Gesù
Diversamente dal Battista che continua insistentemente ad affermare che l’imminenza del regno di Dio mette in pericolo la salvezza personale, se non si producono frutti di giustizia, Gesù annuncia la presenza del regno di Dio nella sua persona e col suo operato. Mentre nel Battista predomina l’annuncio di un giudizio in cui Dio si pronuncerà secondo le opere di penitenza compiute, Gesù sottolinea l’universalità di una salvezza che, per pura iniziativa di Dio, è offerta a chiunque l’accetti. A volte sembra che ci siano nella chiesa più seguaci del Battista che discepoli di Gesù…
Di qui l’importanza che riveste che la sua predicazione del regno di Dio vada accompagnata da segni efficaci della sua presenza. Se la salvezza arriva al malato e all’indemoniato, all’emarginato o al disprezzato, al lontano o al peccatore, non si potrà dubitare della sua presenza, né della sua gratuità, né del suo universalismo. Non sarà l’obbedienza alla legge ma l’amore all’uomo bisognoso, il modo di fare regnare Dio.
Tutto l’agire di Gesù, scandaloso perché inatteso, si spiega con la sua comprensione del regno di Dio: nessun privilegio, ereditato dalle promesse o ottenuto con le opere dell’obbedienza, prevale davanti a un Dio che fa giustizia solo a chi non si considera già a posto. Tutto il resto, sabato, legge, offerta, preghiera, tradizioni, famiglia, possedimenti, patria… è il meno. Solo Dio conta…, quando regna.
Un avvenire che è già cominciato
Il regno di Dio non è solo promessa di futuro, è già possibilità attuale, perché deve realizzarsi secondo ciò che si attende. Le primizie del regno di Dio sono così piccole che possono passare inosservate. Oppure possono essere ignorate di proposito. Ma se le loro dimensioni possono essere modeste, non sono tali le esigenze. Le parabole della crescita nascosta ma efficace (Mt 13,4-9.18-23.31-32) riflettono questa convinzione di Gesù: quel che oggi è impercettibile, quel che lotta ancora per nascere, ha il vita e futuro assicurati. Solo quel che non è stato seminato non potrà fiorire in seguito. Per quanto sembri invisibile, Dio sta già operando, ed è già il suo stesso avvenire. Per questo la predicazione del regno di Dio, già attivo anche se ancora invisibile, esige fede e provoca speranza. Gesù insegnerà ai suoi discepoli a chiedere la venuta di un regno che è già cominciato (Mt 6,10). La attesa si fa più ardente perché i semi sono stati ormai piantati: chi attende il Dio re, non dispera.
Gesù preferisce un Dio a cui si accede all’interno della propria storia, nella propria terra. Ma, precisamente perché proclama la sovranità assoluta di Dio, non si lancia a riformare la società del suo tempo. Non gli importa tanto il dominio dei romani sul suo popolo quanto il fatto che non domini solamente Dio. Gesù non tralascia di mettere in discussione nessuno degli ambiti in cui si realizza la vita dell’uomo: la famiglia, la proprietà, il culto, i rapporti interpersonali, la politica. Perché su tutti gli ambiti in cui vive l’uomo, Dio mantiene una pretesa di servizio esclusivo. Ma il Dio di Gesù si fa presente solo a chi lo serve.
Dono gratificante e immeritato
Dato che il regno di Dio è la realizzazione di un progetto divino, non deve essere confuso e tanto meno ridotto alla soddisfazione dell’ansia di felicità dell’uomo. Un Dio che ci stesse tutto quanto nel cuore dell’uomo o che fosse a immagine delle necessità umane e compendio dei desideri umani, non è il Dio di Gesù. Ma è convinzione di Gesù che Dio, regnando, darà piena soddisfazione ai bisogni del cuore umano. Il regno di Dio non è salario dovuto. Nella predicazione di Gesù non c’è posto per il ‘merito’, anche se l’obbedienza a Dio richiede sforzo. Per quanto atteso, e necessario, Dio è sempre gratuito e sorprendente.
La malvagità imperante può alimentare l’attesa di Dio, ma quando Egli giunge non si limita a risanarla. Trattandosi di un progetto divino, il Regno di Dio supera qualsiasi realizzazione umana, anche quelle che i buoni cristiani, ubbidendo a Dio, cercano di realizzare nella storia. La chiesa non è ancora il regno, anche se attraverso il suo ministero dovrebbero già apparire chiari indizi della presenza di Dio nel mondo. Il regno di Dio è il modo di Dio di essere Dio per noi: interessato alla nostra felicità e impegnato a rendercela possibile. Per avere il regno di Dio come compito bisogna avere Dio come unico Signore nel proprio cuore. Non è la speranza di essere accolto quel che spinge Dio ad avvicinarsi. Viene perché così vuole, viene da chi vuole. Ma per venire dev’essere voluto e atteso.
Dio vuole regnare, questa è la buona notizia
L’annuncio del suo arrivo alimenta, quindi, l’attesa e il desiderio. Ma mette pure in rilievo, allo stesso tempo, la sua assenza. Non si annuncia uno che è presente. Non si attende una persona che è già arrivata. Il messaggio di Gesù è una buona notizia per chi è dispiaciuto dell’assenza di Dio in cui vive. Il vuoto di Dio, lì dove si avverte e dispiace, indica mancanza di obbedienza dei sudditi, svela indisposizione ad accoglierlo come Dio. Non è, quindi, che Dio si sia ritirato da dove si nota la sua assenza. E’ che non gli si è permesso ancora di arrivare fin lì. Per ventura di colui che ne sente la mancanza, Egli viene solo là dove non si trova ancora.
Per questo anche i più sprovvisti tra gli uomini, i peccatori e gli emarginati, possono vivere con gioia in mezzo alla loro disgrazia. Non è che la loro situazione sia buona, ma, proprio per questo, Dio è in cammino verso di loro. E questo sì è buona notizia. L’annuncio di Gesù causa, allora, gioia in chi lo ascolta. Convertirsi al regno di Dio comporta necessariamente la gioia di vivere, mentre lo si attende. La gioia è la forma di vita dell’evangelizzato, e la tristezza, il segno evidente di uno stato di ‘dis-evangelizzazione’.
Arrendersi a questo Dio, è questa la fede che salva
Annunciando Dio vicino, Gesù non si limita a causare gioia, chiede accettazione, fede. La fede – “fondamento di ciò che si spera” (Eb 11,1) – diventa insopportabile senza la speranza, non avrebbe base né contenuto. Fede è consenso nei confronti di chi sta per venire, assenso a quanto sperato. Più che ossequio ragionevole, è un’avventura che si è disposti a correre, insicurezza che si assume. Dio viene prima della nostra fede, la precede e la rende possibile; non lo creiamo noi (ci mancherebbe altro!), crediamo in Lui. La fede è as-senso (credere, etimologicamente è cor-dare) verso il Dio che si aspetta, con-versione verso colui che ancora non è presente nel mio mondo, ma sta venendo ad esso.
Il credente, per questo, non dispera mai, perché sa che Dio e il suo regno, dove non ci sono, stanno per arrivare. Per chi si fida di Gesù, Dio è sempre il suo avvenire immediato. E se Dio non viene che lì dove non c’è, chi lo sa e lo attende sa di essere già amato da Colui che ancora deve venire e non è ancora con lui. La speranza è il modo di maturazione di una fede che si sperimenta come sicurezza di essere oggetto dell’amore nientemeno che di un Dio di cui ancora si sente la mancanza.
Chi attende Dio per mettersi al suo servizio, non si permette nessun’altra occupazione che non sia l’attesa febbrile del suo Signore. Per mettersi a desiderare il suo Signore, non c’è bisogno che il credente sia già completamente buono. Basterà che lo addolori la sua assenza e che viva bramandone la venuta. I buoni hanno già perso una volta Dio perché erano tropposoddisfatti di essere tali (Mt 9,11-13; Lc 15,1.25-32) Vale la pena credere di non aver bisogno di Dio? Non è forse il modo, efficace e sottile, in cui lo stiamo perdendo?
Il regno di Dio, culla del discepolato
Un ultimo, e breve rilievo. La tradizione sinottica è unanime nel collocare l’inizio del discepolato (Mc 1,16-20; Mt 4,18-22; Lc 5,1-11) immediatamente dopo aver presentato Gesù che predica il regno (Mc 1,14-15; Mt 4,17). Non è semplice casualità: il regno di Dio, cuore di quanto Gesù deve dire, precede l’invito a seguirlo.
Come prima istituzione che nasce dalla predicazione del regno, il discepolato di Gesù ha la sua origine e causa nella missione personale di Gesù. La sua coscienza di apostolo del Dio vicino gli impone la vicinanza agli uomini; ad essi si dirigerà se sono lontani; con essi vivrà, se sono suoi eletti. Pertanto, non è discepolo chi vuole e si propone di essere tale, ma chi è voluto da Gesù e ne riceve l’invito. Il seguace di Gesù, così come il suo signore e attraverso di lui, è al servizio del regno di Dio. Che Dio che sia in cammino, è il motivo dell’esistenza del discepolato, così come sono il motivo dell’esistenza personale di Gesù (Mt 9,9-13). La persona chiamata condivide con Colui che l’ha scelta non solo la vita ma anche il sua causa.
[Ricordare il lavoro spirituale già accennato, cfr. Primo giorno. Presentazione, pag. 2].
I quattro vangeli appena parlano di Maria durante la narrazione del ministero pubblico di Gesù. Ma lei divenne madre perché accolse come figlio Gesù, il progetto salvifico di Dio. Preghiamo si dica come accogliere Dio e la sua causa e ci aiuti a che siano quello che erano per Gesù, suo figlio, nostro Padre e nostro regno.
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Testimoni della radicalità evangelica
Con Gesù come modello
“Il rinnovamento profondo della vita consacrata parte dalla centralità della Parola di Dio,
e più concretamente del Vangelo, regola suprema per tutti voi…
. È il Vangelo vissuto quotidianamente l’elemento che dà fascino e bellezza alla vita consacrata
e vi presenta davanti al mondo come un’alternativa affidabile.
Di questo ha bisogno la società attuale, questo attende da voi la Chiesa: essere Vangelo vivente”.[1]
Il tema del CG27, «Testimoni della radicalità evangelica », “vuole aiutarci ad approfondire la nostra identità carismatica, rendendoci consapevoli della nostra chiamata a vivere in fedeltà il progetto apostolico di Don Bosco… La radicalità di vita rappresenta infatti la nervatura interiore di Don Bosco; essa ha sostenuto la sua instancabile operosità per la salvezza dei giovani e ha consentito il fiorire della Congregazione.”[2]
L’uso del termine radicale, e dei sostantivi derivati, radicalismo e radicalità, è relativamente recente nell’esegesi del Nuovo Testamento. Proveniente dal latino radix, radice, è passato dal lessico scientifico (medicina, filologia..) a quello politico (p. es., partito radicale) prima di introdursi nel linguaggio biblico, già iniziato il secolo XX. [3] Tanto in ambito sociopolitico come nell’ambito della teologia biblica, radicale si riferisce a quei comportamenti o atteggiamenti che, a causa dell’estrema durezza delle scelte che li guidano, il disaccordo sociale che denotano o le inusitate esigenze che impongono, si allontanano da ciò che si considera normale o ragionevole.
Anche se nella Bibbia, tanto nell’AT come nel NT, si presentano esempi notori di radicalismo, in parole ed in opere, non si usa mai questo termine. Esempio notevole di radicalità è il Gesù dei vangeli; in particolare nella tradizione sinottica, la sua predicazione e il suo comportamento personale abbondano di esigenze di un radicalismo inusitato, che richiedono comportamenti estremi (Mt 5,27-30), persino stravaganti (Mt 5,23-26; 18,1-5), impossibili da assumere (Mc 9,43-47; Mt 19,10-12.25-26), caso mai si considerassero praticabili (Mt 5,46-48).
Nel segno della radicalità evangelica si rilevano, in concreto, quelle frasi di Gesù ed alcuni elementi della sua prassi che, formulati spesso con una incredibile, a tratti persino scandalosa, intransigenza (p. es., Mt 5,29-30; Mc 10.23-25), propongono, o meglio impongono, in certe circostanze, decisioni (Mt 5,44.46-47; 10,34-37) e rotture così poco ordinarie (Mt 8,19-22) che diventano impossibili da accogliere (Mt 5,48; Lc 6,36). L’assoluta priorità di Gesù e della sua causa, che devono essere preferiti a qualsiasi altro bene (Mt 6,33), si tratti di ricchezze (Mc 10,17-33; Mt 6,19-34; Lc 14,33), di famiglia (Mt 8,21-22; 10,34-35) e persino della propria vita (Mc 9,34-37; 13,9.11-13; 24,9); l’eccezionalità dell’amore dovuto al fratello e l’impossibilità di fare del male a chicchessia, compresi i nemici (Mt 5,21-48)
L’estrema durezza di queste esigenze, che Gesù richiede a coloro che lo seguono (Mc 1,16-20; 2,13-14; 6,7-13; 9,35; 10,3-4; Mt 8,19-20), provano che “non è venuto a portare la pace, ma la spada” (Mt 10,34-36) e che il regno dei cieli, la cui porta è stretta (Lc 13,2324) è una conquista adatta solo a “violenti” (cfr. Mt 11,12). L’eccezionalità di alcune delle sue esigenze è tale che Gesù stesso riconosce che sono molti gli invitati ma pochi gli eletti (Mt 22,14); che sarebbe migliore se tutti calcolassero le proprie forze prima di dichiararsi disposti ad accettarle (Lc 14,28-32).
Bisogna aggiungere – e ciò le rende ancora più incomprensibili – che Gesù non rivolge queste richieste ad alcuni pochi, bensì a tutti i discepoli: il radicalismo non è una opzione facoltativa nella sequela di Gesù, alla portata di alcuni pochi coraggiosi, ma è norma di vita per chiunque voglia seguirlo. La sequela può essere opzionale, ma se si accetta, dev’essere sempre radicale (Mt 16,24-26; Mc 9,34-38; Lc 9,23-26).
Quindi, il concetto di radicalità evangelica dev’essere collocato e compreso nell’insieme di tutte le esigenze assolute e, quasi sempre, paradossali, che nel NT reggono l’esistenza del credente.[4] Nell’attualità esso è visto, e favorito, come una descrizione appropriata della vita consacrata.[5] Il fatto è che, per quanto si riconosca che il cristiano dev’essere disposto, se la situazione concreta lo esige, a testimoniare tale radicalità evangelica, [6] la vita religiosa vuole rendere abituale l’eccezionale e sceglie di vivere l’esistenza cristiana con la radicalità come norma istituzionalizzata in una regola di vita.[7] “E’ un fatto che tutte le grandi famiglie religiose nacquero in un clima di radicalismo evangelico… Non cercavano […] se non una sola cosa: abbracciare fino alle ultime conseguenze il vangelo di Gesù”.[8]
Per noi salesiani, afferma il Rettor Maggiore, “la testimonianza personale e comunitaria della radicalità evangelica non è un aspetto che si affianchi agli altri, quanto piuttosto una dimensione fondamentale della nostra vita”. “Non si può limitare alla pratica dei consigli evangelici. Essa coinvolge tutto il nostro essere, concernendo le sue componenti vitali: la sequela di Cristo e la ricerca di Dio, la vita fraterna in comunità, la missione”.[9] In concreto, “per fronteggiare le sfide attuali e future della vita consacrata salesiana e della missione in tutta la Congregazione, emerge la necessità di tratteggiare il profilo del nuovo salesiano”,[10] che è chiamato ad essere: mistico, riconoscendo il primato assoluto di Dio; profeta, vivendo della fraternità evangelica e per essa; servo, consacrandosi all’accompagnamento e alla cura dei più bisognosi.
In questi esercizi spirituali ci concentreremo su Gesù Cristo, “il Salvatore annunciato nel vangelo, nostra regola vivente” (Cost. 196), la “norma fondamentale e suprema”[11] della vita consacrata. Contemplandolo comprenderemo meglio questi tre lineamenti del “profilo del nuovo salesiano” e li fisseremo nella sua persona, con le sue esigenze. Gesù è il testimone “fedele e verace” (Ap 3,14) perché vive con radicalità ciò che esige con pedagogia a quelli che condividono la sua vita. La radicalità evangelica di Gesù, intesa come un insieme di esigenze estreme nel loro rigore ed eccezionali nella loro applicazione, sono dirette esclusivamente a coloro che hanno il coraggio di vivere al di là della normalità.
Senza trascurare questa comprensione – la più ovvia – del termine, la nostra riflessione comprenderà anche un altro elemento, forse meno appariscente ma più fondamentale ancora: quello della motivazione che porta a prendere tali decisioni. Una opzione è radicale non solo per il fatto di essere estrema ma anche perché chi la realizza ne conosce la radice, il motivo soggiacente che lo porta a compierla, ad accoglierla con tutte le conseguenze che ne derivano. Una condotta, un comportamento, è radicale se, oltre a manifestare una audacia ed una generosità inusuali, proviene dal cuore della persona,[12] là dove nascono le decisioni più rischiose perché è lì dove “si coglie la profondità di un amore eterno ed infinito che tocca le radici dell'essere.”[13] Solo quando una persona si sente amata da Gesù ha il coraggio diessere radicale nella sua sequela. Non può essere radicale chi non ha incontrato Cristo come il bene della propria vita (Gal 2,15.16-20). Perché, in definitiva, solo chi ha incontrato un bene maggiore trova il coraggio di alienare tutti i propri beni, se con ciò riesce a possederlo (Mt 13,44-46).[14]
Radicale è quel discepolo che si lascia sedurre da Cristo e, di conseguenza, può abbandonare tutto (cfr. Mt 19,21-22) per identificarsi con Lui, “assumendo i suoi sentimenti e la sua forma di vita”. Radicale è quell’apostolo che, come Paolo, “ha lasciato perdere tutte queste cose e le considera spazzatura, per guadagnare Cristo” (Fil 3,8). In effetti, solo una conversione in Cristo,[15] cioè una totale identificazione con la persona e la missione di Gesù, garantisce “il modo più radicale di vivere il vangelo su questa terra”.[16] E questo, a sua volta, provoca la novità nell’evangelizzazione: chi, come Gesù, ha solo Dio, e il suo regno, come causa, lo rappresenta (‘ri-presenta’) in modo affidabile.[17]
“Il vostro primo Rettore è morto. Ma il nostro vero Superiore Cristo Gesù, non morrà.
Egli sarà sempre nostro Maestro, nostra guida, nostro modello;
ma ritenete che a suo tempo egli stesso sarà nostro giudice e rimuneratore
[1] Benedicto XVI, Discorso ai partecipanti all’Assemblea Generale dell’Unione dei Superiori Generali (USG) e dell’Unione Internazionale delle Superiore Generali (UISG) (Roma, 20 noviembre 2010). Cfr. http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/speeches/2010/november/documents/hf_ben-xvi_spe_20101126_superiori-generali_it.html.
[2] P. Chávez, «Testimoni della radicalità evangelica». Chiamati a vivere in fedeltà il progetto apostólico di Don Bosco. «Lavoro e Temperanza», ACG 413 (2012) 5. Il corsivo è mio.
[3] ‘E stato, sembra, R. Bultmann (1884-1976), il più rinomato esegeta luterano del secolo scorso, chi per primo utilizzò il termine radicale negli studi biblici un secolo fa (1921). Intendeva caratterizzare così un elemento, da lui considerato centrale, dell’insegnamento di Gesù di Nazaret, cioè, l’obbedienza che il credente deve prestare al suo Dio (R. Bultmann, Jesus, J. C. B. Mohr, Tübingen 1926, 80). Una monografia, scritta 30 anni dopo da uno dei suoi discepoli, H. Braun, Spätjüdisch-häretischer und frühchristlicher Radikalismus, 2 vols., J. C. B. Mohr, Tübingen 1969, confermò l’uso del termine radicalismo come caratteristica fondamentale del messaggio di Gesù, dopo un minuzioso paragone con le posizioni che di fronte alla Legge mantenevano il giudaismo contemporaneo, Gesù e il cristianesimo primitivo.
[4] Cfr. B. Rigaux, “Le radicalisme du Règne”, in Aa. Vv., La pauvreté évangélique, Cerf, Paris 1971, 135-173.
[5] Dal 1969 la formula appare utilizzata nella teologia della vita consacrata, e con successo evidente. Cfr. J. M. Tillard, “Le fondement évangélique de la vie religieuse”, NRT 91 (1969), 916-955; J. M. van Cangh, “Fondement évangélique de la vie religieuse”, NRT 91 (1973), 633-647.
[6] “Per tutti i cristiani, nessuno escluso, il radicalismo evangelico è un'esigenza fondamentale e irrinunciabile, che scaturisce dall'appello di Cristo a seguirlo e ad imitarlo, in forza dell'intima comunione di vita con lui operata dallo Spirito (cfr. Mt 8,18ss; 10, 37ss; Mc 8,34-38; 10,17-21; Lc 9, 57ss)” (Giovanni Paolo II, Pastores dabo vobis. Esortazione apostolica postsinodale (25 marzo 1992), 27). Cfr. Th. Matura, Le radicalisme évangélique. Aux sources de la vie chrétienne, Cerf, Paris 1980.
[7] La vita consacrata “nasce dall’ascolto della Parola di Dio ed accoglie il Vangelo come sua norma di vita…[]Lo Spirito Santo, in forza del quale è stata scritta la Bibbia, è il medesimo che illumina di luce nuova la Parola di Dio ai fondatori e alle fondatrici. Da essa è sgorgato ogni carisma e di essa ogni regola vuole essere espressione[]dando origine ad itinerari di vita cristiana segnati dalla radicalità evangelica. (Benedetto XVI, Verbum Domini. Esortazione apostolica postsinodale (30 settembre 2010), 83). La corsiva è mia.
[8] Th. Matura, «Radicalismo», en A. Aparicio – J. Mª Canals (eds.) Diccionario Teológico de la Vida Consagrada, Publicaciones Claretianas, Madrid 19922, 1509.
[9] Chávez, «Testimoni», 8.22.
[10] Chávez, «Testimoni», 19.
[11] Cfr. Concilio Vaticano II, Perfectae Caritatis. Decreto sul rinnovamento della vita religiosa (28 ottobre 1965), 2a.
[12] “La chiamata alla via dei consigli evangelici nasce dall'incontro interiore con l'amore di Cristo, che è amore redentivo… Nella struttura della vocazione l'incontro con questo amore diventa qualcosa di specificamente personale… Tale amore abbraccia la persona intera, anima e corpo, sia uomo o sia donna, nel suo unico e irripetibile «io» personale. In conseguenza di ciò, vi siete resi conto come non appartenete più a voi stessi, ma a lui” (Giovanni Paolo II, Redemptionis donum. Esortazione apostolica [25 marzo 1984], 3).
[13]Giovanni Paolo II, Vita Consecrata. Esortazione apostolica postsinodale (25 marzo 1996), 18. Cfr. A. Cencini, “Fragili e incerti per decidere”, Consacrazione e Servizio 62 (2013), 48.
[14] “Significa dunque el primer amor, ritrovare il primo amore, la scintilla ispiratrice da cui è iniziata la sequela. È suo il primato dell’amore. La sequela è soltanto risposta all’amore di Dio. Se «noi amiamo» è «perché egli ci ha amato per primo» (1 Jn 4, 10.19).” (Civcsva, Ripartire da Cristo. Un rinnovato impegno della vita consacrata nel terzo millennio. Istruzione [10 maggio 2002] 22).
[15] “Solo attraverso la conversione si arriva ad essere cristiano; ciò è valido tanto per tutta l’esistenza dell’individuo quanto per la vita della Chiesa” (Benedetto XVI, “Warum ich noch in der Kirche bin”, en Id., Grundsatzreden aus fünf Jahrzehten, Regensburg 2005, 105-107).
[16] Juan Pablo II, Vita Consecrata, 18.
[17] “Nel nostro tempo in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento, la priorità che sta al di sopra di tutte è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio. Non ad un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore spinto sino alla fine (cfr Gv 13, 1) – in Gesù Cristo crocifisso e risorto. Il vero problema in questo nostro momento della storia è che Dio sparisce dall’orizzonte degli uomini e che con lo spegnersi della luce proveniente da Dio l’umanità viene colta dalla mancanza di orientamento, i cui effetti distruttivi ci si manifestano sempre di più.” (Benedetto XVI, Lettera ai vescovi della Chiesa Cattolica sulla remissione della scomunica dei quattro vescovi consacrati dall’arcivescovo Lefebvre, Vaticano, 20 marzo 2009. Cfr. http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/letters/2009/documents/hf_ben-xvi_let_20090310_remissione-scomunica_it.html
Figlio di Dio per decisione del Padre[e] (Mt 3,13-17)
“Se è vero infatti che la radicalità evangelica riguarda ogni discepolo di Gesù,
é altretanto vero che noi siamo chiamati a viverla concretamente nella vita consacrata.
La radicalità per noi è innanzitutto una chiamata, una vocazione
La vocazione non si sceglie, ma ci è data…;
così anche la radicalità evangelica, prima che impegno e compito, è dono e grazia”. [a1]
Figlio è chi, oltre ad essere stato generato, è stato desiderato in precedenza ed accettato poi dal suo progenitore. Padre è colui che procrea, riconosce il nato come proprio e ne assume la responsabilità per tutta la vita. L’esistenza del figlio esige e corrobora l’esistenza precedente del padre.
Nel vangelo di Marco la filiazione divina di Gesù è una affermazione ricorrente.[a2] Ma solo due volte, collocate entrambe durante il ministero pubblico, è Dio in persona che afferma di essere Padre compiaciuto di Gesù di Nazaret (Mt 3,17; 17,5). Agli inizi, quando Gesù esce dall’anonimato e si colloca tra coloro che saranno battezzati nel Giordano da Giovanni (Mt 3,17): prima di essere missionario del Padre, predicatore del suo regno (Mt 4,12-17), Gesù è presentato da Dio come suo Figlio amato (Mt 3,17). Trascorsa metà del tempo, quando Gesù, dopo aver svolto la sua missione in Galilea, ha preso la decisione di salire a Gerusalemme per soffrirvi e morire (Mt 17,5; cfr.16,21): prima di giungere a Gerusalemme ed essere consegnato ai gentili (Mt 20,17-19), Dio proclama Gesù Figlio suo e Signore dei suoi (Mt 17,5). In entrambi i casi, l’intervento di Dio è repentino e inatteso.
Sorprende, inoltre, che questa affermazione così personale, e decisiva per Gesù, abbia in entrambi i casi uno scarso uditorio. Nella sua prima manifestazione Dio non si dirige a nessuno in concreto; nella seconda, solo a tre discepoli. Nessuno, pare che nemmeno Gesù stesso, facesse assegnamento su una simile dichiarazione pubblica. Si potrebbe sospettare che a Dio importa più di manifestarsi come Padre di uno che di essere ascoltato da molti.
Il battesimo sarà ricordato dalla comunità cristiana come un momento decisivo nella vita di Gesù, inizio di un cambio radicale di vita, principio storico del suo orientamento ministeriale: prima che Gesù si presenti in pubblico, presentando il proprio messaggio (Mt 4,17), Dio presenta ufficialmente Gesù come Figlio (Mt 3,17). Gesù è prima figlio che evangelizzatore; prima famigliare di Dio, quindi predicatore del suo regno. La filiazione precede la missione: come Dio lo ama viene prima di ciò che Gesù dovrà fare. La vocazione radicale dell’evangelizzatore del regno è essere Figlio per il suo Dio.
Dopo aver narrato la nascita e l’infanzia di Gesù (Mt 1-2), Matteo introduce il ministero pubblico di Gesù con un lungo prologo (Mt 3,1-4,16) che mira, in realtà, a presentare Gesù come missionario del regno: annunciato dal Battista (Mt 3,11-12), proclamato da Dio (Mt 3,13-17) e confermato nella prova (Mt 4,1-11), può ora essere presentato come luce della Galilea pagana (Mt 4,11-16).
La scena del battesimo è, all’interno del macro-racconto matteano, programmatica.[a3] Quello che comincia come racconto di una conversione personale, mediante il rito del battesimo di Giovanni, finisce poi come intronizzazione divina di Gesù, divenendo Dio suo Padre. Nella scena la parola ha il predominio sull’azione. Cioè, parlando, Dio in persona si incarica di svelare il senso ultimo dell’evento. Alla volontà di Gesù di adempiere ogni giustizia segue la dichiarazione di Dio che lo ama in qualità di Figlio. E’ questo – e non è indifferente – l’ordine narrativo.
La struttura del racconto è chiara. Fondamentalmente presenta due parti:
a) Un quadro/scenario narrativo introduttivo, in cui si parla di Gesù, della sua provenienza e del motivo della sua venuta (Mt 3,13), e il dialogo tra Giovanni e Gesù, che manifesta il suo intento (Mt 3,14-15). Ambedue gli elementi servono per presentare al lettore Gesù e le sue intenzioni.
b) Il racconto del battesimo descrive rapidamente l’avvenimento (Mt 3,16a), per focalizzare quanto succede in seguito: la visione dello Spirito (Mt 3,16b) e l’ascolto di Dio (Mt 3,17), ambedue introdotte in modo simile (Mt 3,16b.17a: “Ecco”). Matteo ha convertito quello che potrebbe benissimo essere stato un atto penitenziale in auto-rivelazione divina; il suo interesse, pertanto, non risiede nel mettere in risalto la ricerca di Dio da parte di Gesù ma l’inattesa manifestazione del Padre.[a4]
L’episodio presenta Gesù che compie la profezia che è stata appena pronunciata dal Battista (Mt 3,11: colui che viene dopo di me è più forte di me…, egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco”): la profezia non ha tardato a verificarsi, incontrandosi l’annunciatore con l’annunciato (Mt 3,13). Bisogna notare, però, che colui che appare non è il temuto giudice escatologico (Mt 3,12: “Tiene in mano la pala e pulirà la sua aia e raccoglierà il suo frumento nel granaio, ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile”) bensì un umile candidato al battesimo di Giovanni: Gesù arriva non tanto per compiere quanto detto da Giovanni quanto piuttosto per essere battezzato da lui (Mt 3,13).
Gesù non viene, pertanto, a soddisfare le esigenze del ‘migliore’ degli uomini (Mt 11,11); viene – come affermerà – per compiere ogni giustizia, per far sue le attese di Dio. Per questo, e per superare la sorpresa dei suoi lettori, il narratore deve interpolare un breve dialogo tra Giovanni e Gesù (Mt 3,14-15), in cui Gesù dichiara il perché del suo battesimo: non cerca conversione o la confessione dei propri peccati (cfr. Mt 3,2.6); realizzare pienamente la giustizia (Mt 3,15): è questo il progetto di Gesù.
13 Allora Gesù dalla Galilea venne al Giordano da Giovanni, per farsi battezzare da lui.
14 Giovanni, però, voleva impedirglielo, dicendo:
“Sono io che ho bisogno di essere battezzato da te, e tu vieni da me?”.
15 Ma Gesù gli rispose:
“Lascia fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia”.
Allora egli lo lasciò fare.
16 Appena battezzato, Gesù uscì dall’acqua: ed ecco si aprirono per lui i cieli
Ed egli vide lo Spirito di Dio discendere come una colomba e venire sopra di lui.
17 Ed ecco una voce dal cielo che diceva:
Il racconto presenta Gesù come principale protagonista. La sua redazione, al presente storico, sottolinea l’attualità dell’evento. Galilea, terra delle genti (Mt 4,25), è suo luogo di origine e sarà la sua meta (Mt 4,12);[a5] il fiume Giordano, il termine immediato del suo camminare; compiere la giustizia, l’unico programma.
Il punto di partenza
Gesù appare in pubblico come uno dei tanti, uno fra molti (Lc 3,21) per compiere un atto di pentimento (Mt 3,6) ed accogliere il messaggio del Battista (cfr. Mt 3,2; 4,17). Comincia, quindi, la sua vita pubblica collocandosi in mezzo a chi hanno bisogno di Dio, a fianco di quanti ne preparano la venuta, accanto a coloro che si dispongono ad accoglierlo nella loro vita. E’ questa la sua prima scelta storica, la prima – per lo meno – che racconta il cronista: solidarizzare con coloro che cercano Dio, perché riconoscono che manca loro. Tra essi lo identificherà Dio come figlio suo. Non bisognerebbe dimenticare dove Dio va a cercare i suoi figli…
Il Battista riconosce immediatamente Gesù e le sue intenzioni. Lo ha appena annunciato come “colui che viene dopo di me” (Mt 3,11). E lo identifica mentre gli si avvicina per essere battezzato. Tale riconoscimento è profetico: Matteo non ha fatto menzione in precedenza che Giovanni e Gesù si conoscessero (cfr. Gv 1,26-27.32-34). Il Battista parla a Gesù così come si dirige a chiunque gli si avvicina (Mt 3,7), ma ora le sue parole sono di subordinazione: riconosce la superiorità di Gesù e del suo battesimo. Sa di trovarsi davanti a colui che è più forte e confessa la sua necessità di un battesimo nello Spirito (Mt 3,11): una simile reazione è comprensibile solo per il lettore cristiano: il minore riconosce il più grande, il precursore colui che lo sostituirà.
Se si può pensare a un Giovanni che interroga i battezzandi, risulta verosimile quanto afferma per giustificare la propria resistenza a battezzare Gesù. Chi sa di non essere degno di portare i sandali del Messia, colui il cui battesimo è solo un’ombra del battesimo di Spirito e fuoco (Mt 3,11-12) non è meritevole di versargli l’acqua del battesimo. Ma subordinando la sua missione a quella del nuovo arrivato, il Battista parla già da cristiano; il suo atteggiamento, più che modello di umiltà personale, mette in evidenza una confessione di fede comunitaria.[a6]
Il programma di Gesù: “adempiere ogni giustizia” (Mt 3,15)
Le prime parole di Gesù nel vangelo, anche se si tratta di una risposta all’obbiezione del Battista, sono programmatiche: trascendono il fatto concreto e definiscono la missione di Gesù. Gesù considera ragionevole la resistenza del Battista, ma adduce, per convincerlo, una ragione migliore: considera il battesimo come adempimento della giustizia (Mt 3,17; cfr. Sal 2,7; Is 42,1).[a7]
Poiché la profezia manifesta la volontà di Dio, realizzarla significa adempiere ogni giustizia: col battesimo Giovanni, che battezza, e Gesù, che viene battezzato, accettano il piano di Dio; agiscono come vuole Dio, indipendentemente da quel che gli altri, ed essi stessi, possono pensare e senza badare a quanto ciò esigerà da loro. Gesù sa di essere sotto un progetto divino, “ordinato” da Dio. E cerca di convincere il Battista ad accettare egli pure l’ordine divino. E sì che in questo caso, se guardiamo bene, “adempiere ogni giustizia” significa apparire come ingiusto agli occhi altrui! [a8]
Fare giustizia è il programma di Gesù,[a9] per questo è venuto. E non permette che gli si obbietti qualcosa, né che si ritardi il suo compimento. Non gli importa come gli uomini possano interpretare la sua decisione, gli importa ciò che importa a Dio. E ora gli tocca, solidale col popolo peccatore, arrendersi al volere divino. La superiorità di Gesù risulta evidente proprio quando si sottomette al Battista per vivere sottomesso a Dio.
La reazione del Battista, qui prototipo del discepolo, non può essere altra che l’obbedienza: cessa la sua resistenza…, dopo aver ascoltato Gesù. L’opposizione a Dio si supera obbedendo a Gesù. Il Battista aveva dei buoni motivi per resistere a Gesù; se ricevere il battesimo voleva dire confessare il proprio peccato (Mt 3,6), doveva risultargli impensabile che l’atteso Messia, che si considerava libero dal peccato, avesse bisogno del suo battesimo. La comunità matteana ha in lui un modello da seguire: per quanto possa essere incomprensibile quel che chiede Gesù, non si deve obiettare a quanto propone né ritardarne la realizzazione. La giustizia – quel che Dio vuole – si compie senza indugiare.
La opzione di Dio: dichiararsi Padre (Mt 3,17).
Matteo non si sofferma a descrivere propriamente il battesimo di Gesù (cfr. Mt 1,9). Quel che dice al riguardo gli serve da semplice prologo a quanto narrerà in seguito. Più che il fatto in sé, gli interessa evidenziarne le conseguenze. Non lo preoccupa tanto il protagonismo di Gesù, quanto piuttosto quello che, inaspettatamente, sta per assumere Dio.
Dopo l’immersione nell’acqua, Gesù esce da essa immediatamente. E’ probabile che quelli battezzati da Giovanni rimanessero in essa più tempo confessando i loro peccati (Mt 3,6; cfr. At 8,39). Il fatto è che, uscendo dall’acqua appena battezzato, avviene la teofania, che non è, quindi, legata all’azione del Battista ma all’operato di Gesù. Si racconta quanto accaduto come qualcosa di sensibile: si può vedere e sentire. Emergere dall’acqua ricorda la creazione (Gn 1,3; Is 43,16-20) e l’adozione divina di Israele: uscendo Gesù dall’acqua, nasce una nuova creatura, sorge il nuovo Israele (cfr. Sal 114,3.5).
L’affermazione dell’apertura del cielo corrisponde alla cosmo visione antica:[a10] il firmamento separa il mondo dell’uomo dalla dimora di Dio; la sua apertura rende possibile l’accesso di Dio al mondo dell’uomo, la sua comunicazione. Nel nostro caso, in concreto, l’apertura del cielo, narrata come un fatto normale, permette la discesa dello Spirito di Dio su Gesù, che, a sua volta, precede la sua Parola. La sequenza è significativa: battesimo di acqua, possesso dello Spirito, dichiarazione del Padre.
La visione dello Spirito è un’esperienza individuale di Gesù.[a11] Matteo qualifica lo Spirito come divino (Mt 10,20; 12,18.28).[a12] E lo rappresenta discendendo come colomba sopra Gesù. La formula come colomba ha funzione avverbiale;[a13] allude al modo di discendere, non alla forma fisica dello Spirito: discende aleggiando come colomba; non è colomba che discende (Mc 1,10; Lc 3,21). Come lo Spirito si muoveva all’inizio aleggiando sulle acque (Gn 1,2), così aleggiò su Gesù, come colomba,[a14] soave, vicina, libera…
La visione dello Spirito che discende come colomba (Gv 1,32) ha come obiettivo Gesù, sul quale viene (At 1,8; 12,18; cfr. Is 42,1). Concepito grazie all’intervento dello Spirito (Mt 1,18.20), Gesù è portatore dello Spirito prima di dedicarsi al ministero (Mt 12,28).: la forza divina ispira l’operato di una vita che è sorta da tale forza. Vita e missione sono precedute, quindi, e rese possibili da particolari interventi dello Spirito: sono entrambi effetto di nuova creazione. Quel che Gesù è e quanto farà pubblicamente, sarà e lo farà come portatore dello Spirito di Dio. Colui che darà lo Spirito, lo ha ricevuto precedentemente: in questo modo è stato reso idoneo alla missione.[a15]
Un secondo testimone, la voce celeste, aggiunge la sua testimonianza alla presenza, efficace ma muta, dello Spirito. La voce, introdotta con certa solennità (Mt 17,5; cfr. 1 Re 19,13; Ap 4,1), segna il culmine dell’episodio. La Parola dà significato alla visione: svela la portata dell’agire dello Spirito (Mc 1,11; Lc 3,22).[a16] La relazione di Dio con Gesù, manifestata nella discesa dello Spirito, è ora resa pubblica da una Parola che viene dal cielo: Dio manifesta all’uomo la propria intimità (cfr. Am 4,13), rivelando l’intimità che lo unisce a Gesù.
Mt 3,16-17 è uno dei testi battesimali del NT.[a17] «Figlio di Dio» è un titolo cristologico centrale per l’evangelista.[a18] Tutti gli altri («messia», «figlio di Davide», «figlio dell’uomo», «signore», «servo») gli dànno un contenuto concreto. “L’amato”, probabilmente aggettivo (anche se in Mt 12,18 è un titolo), potrebbe equivalere a «unigenito», unico;[a19] ma qui è imparentato con la formula in cui mi sono “compiaciuto”, e vincolato a figlio, come in Is 42,1, che ha potuto influire sul nostro testo. La relazione di Dio con Gesù, unica, è di soddisfazione e di gradimento (cfr. Mt 12,18); l’aoristo di “compiacersi” è il modo di affermare con vivacità che ci si trova veramente a proprio agio con qualcuno, contento.
Come farà nella trasfigurazione, Dio proclama figlio Gesù (Mt 17,5) non lo consacra (Mc 1,11; Lc 3,22). Dio non parla con Gesù, ma su di lui: presenta in società – atto proprio di un padre – colui che aveva generato (Mt 1,22-23; 2,15).[a20] Non è semplicemente un suo inviato, è il suo figlio. Dio rivela pubblicamente, nel Giordano, quanto ha fatto nell’intimità, a Nazaret (Mt 1,20-21).
Matteo presta voce a Dio che afferma la propria paternità su Gesù e la sua condizione di servo/figlio portatore del suo Spirito. [a21] Risulta significativo che sia Dio, precisamente, colui che per la prima volta proclama Gesù come Figlio suo (cfr. Mt 16,16-17), soprattutto se si tiene presente che Matteo non ha iniziato la sua presentazione con questo titolo.[a22] Solo Dio può dichiarare chi è suo Figlio, perché solo Lui è disposto ad essere Padre di chi ama. Confessare Gesù come Figlio di Dio non è soggetto al giudizio del credente; questi sa che confessandolo sta accogliendo la decisione divina. Il cristiano non crede in un Gesù secondo le proprie convenienze o come se lo immagina. Accetta la decisione di Dio: vede Gesù come lo vede Dio.
Di nessun altro uomo, che noi sappiamo, Dio si è dichiarato padre compiaciuto, soddisfatto. E questa dichiarazione, bisogna notarlo, è previa all’agire storico di Gesù: quel che farà o dirà è già oggetto, previamente, della benevolenza divina. Gesù non è un figlio in più di Dio, e il figlio che, ancor prima di agire, è già oggetto del suo compiacimento. Gesù non ha ancora fatto nulla – non si raccontato nulla su di lui nel vangelo – per meritare tale riconoscimento: non è figlio per quel che ha realizzato, né per quanto si accinge a realizzare. E’ figlio prima di farlo e per farlo.
La filiazione precede il ministero; anzi, è il suo naturale presupposto. E non è opzionale, perché non è stata ottenuta mediante sforzo personale. Per questo doveva essere battezzato, per essere dichiarato figlio amato prima di manifestarsi, con la sua parola e col suo operato, in quanto tale: è così che compie il volere di Dio, ogni giustizia.
Per Matteo è decisivo che Gesù, che comincia il suo ministero mettendosi a fianco di quanti ne hanno bisogno, al loro livello, compie in questo modo il progetto che Dio ha su di lui. Non a caso Dio non si lascia sfuggire l’occasione per presentarlo come suo figlio prediletto. Il predicatore del regno è unto Messia e dichiarato Figlio, prima di essere conosciuto come missionario. Inviati del Padre saranno i figli; prima figli, poi inviati. La filiazione divina è la culla e la ragione dell’apostolato.
2. Applicarlo alla vita
Nell’affermata filiazione divina di Gesù vi è, quindi, una doppia definizione: Dio si identifica come Padre, si autodefinisce tale; per il fatto stesso di dichiarare Gesù figlio suo, lo definisce come tale. Che Gesù sia Figlio è opzione di Dio che vuole essere Padre suo. Origine e causa del Figlio è sempre, e solo, il Padre.
Gesù viene per essere battezzato da Giovanni, non per fare quanto detto da lui né per superarlo. E’ questa l’intenzione che lo fa uscire dall’anonimato e dalla sua famiglia. Non viene per soddisfare le migliori attese degli uomini, realizzando le promesse del profeta (Mt 3,11). Viene per adempiere ogni giustizia, facendo proprio il progetto di Dio. Non viene, quindi, per realizzare i desideri degli altri né con progetti personali. Esce dal suo mondo e dalla sua famiglia per mettersi sotto la sovranità di Dio Padre, cercando il battesimo: comincia la sua vita pubblica collocandosi tra coloro che sanno di aver bisogno di Dio, a fianco di quanti preparano la sua venuta, accanto a coloro che si dispongono ad accoglierlo nella loro vita.
Solidale con quanti hanno bisogno di Dio
E’ questa la prima opzione ‘storica’ che prende Gesù, quella che lo fa entrare nella storia e tra gli uomini. Con essa comincia la sua missione: solidarizza con coloro che cercano Dio, riconoscendo pubblicamente il deficit di Dio in cui vivono. Fa riflettere questa prima ‘collocazione’ del Gesù evangelizzatore: il punto di partenza è Nazaret, il suo focolare; la sua meta sono quelli che davanti al Battista si manifestano disposti a convertirsi e ne accettano le regole. Colui che parlerà della volontà di ravvicinamento da parte di Dio, si colloca tra coloro che più hanno bisogno di questo Dio perché più lontani da lui e ne provano pena. Colui che sarà dichiarato figlio da Dio si è collocato tra coloro che più ne sentono la mancanza, tanto da mettersi pubblicamente ad attenderlo.
Abbiamo bisogno di qualcuno che ci cerchi per poter incontrare Dio
Il Battista continua ad essere modello ineguagliabile per gli inviati di Dio: dal suo modo di esercitare il ministero abbiamo molto da imparare.
Il minore, il Battista, sicuro com’è della sua missione, non esita a riconoscere il maggiore, Gesù, anche se questi si sottopone al suo ministero e alla sua autorità. E’ questo il modo con cui trattiamo coloro che vengono a noi? Tra quelli che ci si avvicinano, c’è gente maggiore/migliore di noi? Perché non siamo soliti/possiamo trovare tra i peccatori dei ‘figli di Dio’?
Avere un ministero da compiere non ci rende padroni, ma servitori. Non disponiamo di quelli che Dio ci invia, piuttosto ne abbiamo bisogno per adempiere il nostro impegno con Dio: essi sono il ‘luogo’ del nostro ministero, la garanzia della nostra obbedienza. Dimentichiamo il dono che ci ha fatto, quando esercitiamo la funzione profetica, con cui rappresentiamo Dio, come se fosse nostra proprietà: viviamo ingrati verso Dio, quando non serviamo chi viene a noi cercando Dio.
Adempiere come figlio, adempiere la giustizia
Disposto a seguirlo dovunque lo porti, Gesù segue un progetto di vita, anche se si presenta come qualcosa di ben diverso, come l’essere peccatore. Adempiremmo come figli ogni giustizia, se attuassimo come Dio vuole, indipendentemente da quello che possono pensare gli altri e senza badare a ciò che esigeranno da noi. Non deve importarci, né importunarci, quel che possono credere gli altri, ma solo quel che Dio vuole da noi. E’ questo avere un progetto che adempie il progetto di Dio: è qui che il credente consegue la giustizia (cfr. Mt 1,19).
Giustizia per il fedele non significa distribuire con equità o trattare tutti ugualmente. Né vuol dire fare più o meno quel che è giusto, ma solamente ciò che è giusto, cioè, vivere secondo Dio, seguendo il suo volere e non sacrosante leggi o norme ancestrali. A chi vuol essere giusto non gli importa come possono interpretare gli uomini la sua decisione, gli importa quel che ne pensa Dio. Anche se ciò lo porta ad arrendersi, solidale col popolo peccatore, al volere divino.
La superiorità di Gesù si manifesta precisamente quando si sottomette al Battista per vivere sottomesso a Dio: davanti a Dio, davanti al profeta di Dio, la supremazia si raggiunge attraverso la sottomissione a Dio. E quando bisogna sottomettersi al maggiore, al più esigente, non costa la sottomissione al minore, a colui che chiede di meno. Non per niente Dio riconoscerà come figlio colui che si è sottomesso ad un uomo, cercando di adempiere la giustizia. Dio trova i suoi figli dove si compie la sua volontà, adempiendo ogni giustizia, anche se, in pratica, tale luogo si dovesse trovare tra peccatori pentiti.
Alla volontà di Gesù di adempiere ogni giustizia segue la manifestazione di Dio di amarlo come Figlio
Dio si riserva la presentazione del suo missionario. Irrompe nel racconto, ‘rompe’ il suo silenzio e la sua voce ‘spalanca’ il cielo per presentarsi come Padre del suo eletto. Il firmamento separa Dio dall’uomo; la sua apertura rende possibile l’accesso di Dio al mondo dell’uomo, la sua comunicazione. L’apertura del cielo, narrata come un fatto normale, permette inoltre la discesa dello Spirito di Dio sopra Gesù, che, a sua volta, precede la sua Parola.
La sequenza narrativa (battesimo di acqua, possesso dello Spirito, invocazione paterna) ripete la successione degli avvenimenti di cui Dio è protagonista nel battesimo cristiano, quando si dichiara Padre amoroso del battezzato. Per qualsiasi battezzato, Gesù compreso, il battesimo è un momento della propria vita, il prologo del proprio ministero. Ma la filiazione che lì si è resa pubblica per decisione paterna è una condizione di tutta la vita.
Dove appare Gesù, anche tra peccatori, starà per parlare Dio. Non importeranno le apparenze, importa quel che dice la Parola. Dio cita se stesso quando deve spiegarsi e parlare di sé. Per comprendere Gesù come Dio lo vuole, occorre ascoltare la Parola di Dio. Non è attraverso il nostro cuore, i suoi desideri o le sue immaginazioni, come si raggiunge il Gesù reale, ma per mezzo del cuore di Dio, che si manifesta nella sua Parola. Conoscere la Scrittura è conoscere Cristo.
Il rapporto di Dio con Gesù, unico, è di soddisfazione e di gradimento (cfr. Mt 12,18). Non si è raccontato nulla di Gesù che renda logica la predilezione divina, salvo il suo progetto di adempiere ogni giustizia. Ma quel che è sicuro si è che faccia quel che faccia o dica quel che dica, Gesù può già contare sulla benevolenza divina. Gesù non ha ancora ‘fatto’ nulla per meritare tale riconoscimento: non è figlio per quel che ha già fatto; è figlio prima di essere evangelizzatore e per essere tale. La filiazione precede il ministero; anzi, ne è il presupposto naturale, la sua origine.
Noi che ci sentiamo inviati da Dio per svolgere, nel suo nome e col suo potere, un compito, dovremmo sapere dove questo ha la sua origine: rappresentano credibilmente Dio solo i suoi figli amati. E sono tali perché vogliono compiere la volontà divina. Tre compiti si presentano a chi se ritiene chiamato, come Gesù, ad essere evangelista di Dio:
1. Ritornare al Padre, come a sua origine. Se essere figlio è decisione gratuita del Padre, bisogna ritornare al Padre stupiti per una simile scelta, che lo definisce per sempre come ‘padre nostro’. Ritornare al Padre implica saper essere grati e riconoscerci graziati. Meraviglia e gratitudine sono i sentimenti da approfondire.
2. Riconoscersi figlio compiacente. Gesù si dà alla missione, dopo di essere stato dichiarato figlio amato da Dio. Prima di essere apostolo, è riconosciuto figlio. Ha il regno nel cuore chi sa di essere nel cuore di Dio. Dio sostiene i suoi rappresentanti. Come potrei sentirmi suo inviato se non ho consapevolezza di essere suo figlio?
3. Andare dove Dio non è ancora presente, ma dove lo si desidera. Gesù cerca il battesimo per adempiere ogni giustizia, anche correndo il rischio di non presentarsi come giusto. Si unisce a quanto sanno che stanno vivendo con un deficit di Dio e vogliono iniziare un cammino di ritorno a Lui. E di lì lo toglierà Dio, dall’anonimato della folla peccatrice. Dio Padre non guarda le compagnie che frequentiamo, ma se adempiamo il suo progetto su di noi.
“Quante proposte mondane sentiamo attorno a noi,
ma lasciamoci afferrare dalla proposta di Dio, la sua è una carezza di amore.
Per Dio noi non siamo numeri, siamo importanti, anzi siamo quanto di più importante Egli abbia; anche se peccatori, siamo ciò che gli sta più a cuore”[a23]
[a2] Gesù viene riconosciuto come figlio di Dio da un angelo (Mt 1,21-23), dalla Scrittura (Mt 2,15) e da Pietro (Mt 16,16-17). Questionato dal tentatore (Mt 4,3.6), è confessato da demoni (Mt 8,29) e discepoli (Mt 14,33). Ignorato dal sommo sacerdote (Mt 26,63-63; 27,40), è proclamato dal pagano (Mt 27,54).
[a3] Matteo, che segue da vicino la sua fonte, la modifica (Mc 1,9-11; cfr. Lc 3,21-22; Jn 1,29-34). L’ evangelista introduce una conversazione tra il Battista e Gesù, in cui esplicita il senso del battesimo (Mt 3,14-15). E cambia il destinatario della rivelazione divina: non è più Gesù (Mt 3,17; cfr. Mc 1,11; Lc 3,22), ma un pubblico non ben identificato.
[a4] La scena viene intesa come una visione interpretata (Mc 1,9-11) o, meglio forse, come la cronaca di una vocazione, tema tipico della letteratura apocalittica: 1 Enoch 65,4-5; TgLevi 18,6; LAB 53,3-11; ApEzra 6,3 ; 7,13.
[a5] E non Nazaret, come dice Mc 1,9.
[a6] La dichiarazione, così come il vocabolario usato, è una chiara testimonianza di fede cristiana, che non va bene con i dubbi che il Battista alimenterà più tardi su Gesù Mt 11,2-6/Lc 7,18-23).
[a7] La formulazione «compiere tutta la giustizia», tipicamente matteana, appartiene al cuore del pensiero dell’evangelista: Compiere: Mt,16x; Mc, 2x; Lc, 9x; giustizia: Mt, 7x [5,6.10.20; 6,1.33; 21,32]; Mc, 0x; Lc,1x [1,75].
[a8] Lasciandosi battezzare, Gesù compie quanto Dio vuole, anche se deve sottomettersi sotto qualcuno che è meno importante e – ancora più paradossale – benché si assomigli così ai peccatori. In questo si manifesta l’umiltà di Gesù, un motivo caro all’evangelista (Mt 2,23; 11,29): umiltà che non consiste nell’assumere quello che uno non è, ma piuttosto nell’accettare quanto Dio vuole.
[a9] La giustizia di Dio non consiste nel retribuire con il bene o il male buone o cattive azioni. Radica, piuttosto, nel dare quanto se ne abbia bisogno, concedere il necessario. Dio rivela la sua giustizia manifestando il suo volere, in cui consiste la salvezza dell’uomo (Is 51,5; Sal 22,32; 40,10). Il credente realizza questa giustizia, aderendosi alla volontà di Dio con docilità (Is 56,1). Anche per il fedele giustizia non è distribuire con equità né trattare tutti di ugual modo, ma fare quello che è giusto, cioè vivere secondo il Giusto, volere la sua volontà, e non semplicemente seguire leggi sacre o le tradizioni dei padri.
[a10] L’immagine, associata al giudizio, era attesa nell’escatologia (Mt 24,29. Cfr. Sal 102,26; Is 63,19; 4,1; 2 Pe 3,10; Ap 6,14).
[a11] Come in Mc 1,10. In Jn 1,29-34, però, è il Battista chi lo vede.
[a12] Più normale è chiamarlo santo: Mt 1,18.20; 3,11; 12,32; 28,19.
[a13] La particola «come» è abituale nella letteratura apocalittica, dove allude al carattere simbolico della realtà espressa, la sua incapacità di essere descritta in modo realista.
[a14] Cfr. b.Hag 15a, TgCant 2,12, dove lo Spirito, la sua presenza attiva, è identificato con l’aleggiare della colomba.
[a15] Come con altri capi di Israele, la discesa dello Spirito segnala l’inizio della sua missione messianica (At 10,38): Gedeone (Gd 6,34), Sansone (Gd 15,14), Saulo (1 Sam 10,6).
[a16] Voci dal cielo che parlano a modo umano è un motivo ricorrente nella letteratura biblica (Gn 21,17; 22,11.15; Es 19,19; Dt 4,10-12; 1 Re 19,13 ; Dn 4,31; 1 Enoch 65,4; Gv 12,28; At 9, 4; 10,13-15; 11,7-9; 2 Pt 1,18; Ap 1,10; 4,10; 10,4; 11,12; 14,13), giudaica, rabbinica (bat qol : b. Sota 13,3-4; 21a; 48b; b. San 11a; 94a; 104b) o meno (Giuseppe, Ant. 13,283; Bell. 6,300; 2 Bar 13,1; 22,1) e cristiana primitiva (Apotegmata Patrum: PG 65). A differenza della bat qol rabbinica, che sostituisce lo Spirito ma resta a lui subordinata (b. Sota 13,2; b. Yoma 9b), qui la voce accompagna lo Spirito, è parola di Dio, non una sua risonanza, diretta al suo Figlio.
[a17] Mt 28,16-20; Gv 1,33-34; 1 Cor 6,11; Tit 3,4-6; 1 Pt 1,2.
[a18] Mt 3,17; 11,27; 16,16; 17,5; 22,42-44; 26,63; 28,19.
[a19] yahid: Gn 22,2.12; Gd 11,34; Gr 6,26.
[a20] Quello che dice la voce è, significativamente, parola di Dio: Dio cita se stesso, parlando di se e su Gesù. Non ha discorso migliore che la sua Parola..
[a21] La citazione vincola Sal 2,7, una proclamazione messianica, con Is 42,1, una presentazione del Servo: il servo di Dio, su cui scende lo Spirito, si converte in suo figlio. É probabile che Sal 2,7, il quale nel cristianesimo primitivo si applicava alla risurrezione di Gesù (cfr. Lc 3,22; At 13,33; Eb 1,5; 5,5), sia stata una aggiunta posteriore.
[a22] Compara Mt 1,1: «Gesù, figlio di Abramo e di Davide» con Mc 1,1: «Gesù, Messia, figlio di Dio.»
[a23] Papa Francisco, Omelia per l’insediamento del vescovo di Roma sulla cathedra romana, 7 abril 2013. Cfr. http://www.vatican.va/holy_father/francesco/homilies/2013/documents/papa-francesco_20130407_omelia-possesso-cattedra-laterano_it.html.
Mistico.
Difensore e annunciatore del primato assoluto di Dio
“Nel nostro mondo, dove sembrano spesso smarrite le tracce di Dio,
si rende urgente una forte testimonianza profetica da parte delle persone consacrate.
Essa verterà innanzitutto sull'affermazione del primato di Dio e dei beni futuri,
quale traspare dalla sequela e dall'imitazione di Cristo casto, povero e obbediente”. [b1]
Oggi incentreremo la nostra preghiera sul primo tratto del “profilo del nuovo salesiano”: essere mistico lo porta a vivere la sua vocazione con una dedizione totale e in permanente conversione, sotto la supremazia incondizionata di Dio. E fissiamo la nostra attenzione, e il cuore, sulla persona di Gesù, testimone e modello di fedeltà al Dio che lo aveva dichiarato figlio e la cui causa, il regno, assunse come occupazione esclusiva.
Vogliamo ricalcare la passione di Gesù per Dio e per i suoi interessi come chiave per la comprensione della sua persona e della sua opera. La totale identificazione con Dio e con la sua causa lo confermò come il figlio prediletto e lo rese il suo migliore evangelizzatore. Non si tratta di compiti diversi, ma Gesù dovette differenziarne l’esecuzione: prima di dedicarsi a predicare Dio e il suo regno, Gesù dovette provare a se stesso che si accettava come Dio lo voleva, figlio suo.
1. Figlio prediletto, figlio tentato
Non aveva ancora cominciato il ministero pubblico, che avrebbe avuto il regno di Dio come compito (Mtb 4,17; Mc 1,15), quando Gesù ricevette lo Spirito e Dio gli si dichiarò suo Padre amoroso (Mt 3,17; Mc 1,11; Lc 3,22): non aveva ancora operato come apostolo e già era stato proclamato figlio. Ma prima di mettersi a lavorare come predicatore del Regno, dovrà superare la tentazione: il figlio amato di Dio deve voler vivere come figlio.
Il fatto che la tentazione faccia seguito alla filiazione divina, e si incentri su di essa, non è meno illustrativo del modo in cui avvenne l’insidia. Il tentatore non oserà negare quel che Dio ha dichiarato; esprime un dubbio, che comunica al figlio di Dio. Cercando che questi faccia suo il dubbio, lo motiva con attese logiche. Gesù dovrà optare per Dio, senza altro appoggio e certezza che la Parola di Dio. Di essa si alimentano i figli di Dio.
Il tentatore – occorre rendersene conto – ha concentrato il suo attacco non sulla missione di Gesù ma sulla sua filiazione divina; non su quel che veniva a fare ma su quel che gli avevano detto che era. In realtà, tentando Gesù, Satana attenta a Dio. Solo quando il figlio di Dio si afferra alla volontà di Dio potrà inaugurare la propria vittoria sul Maligno predicando il Regno.
2. Essendo portavoce di Dio, deve identificarsi con la sua causa
Gesù supera la tentazione perché preferisce identificarsi con Dio, essere come Egli lo vuole (Mt 4,3-11). In seguito può apparire in pubblico abbracciando ora la causa di Dio, il suo regno sulla terra. L’annunciatore di Dio ha saputo opporsi personalmente a Satana e ne è uscito vincitore. C’è da meravigliarsi se Gesù farà il suo primo annuncio del regno espellendo demoni e liberando dal male (Mt 4,24; cfr. Mc 1,21-28)?
Essendosi identificato con Dio, può diventarne il portavoce. Consapevole di esserne figlio, è al corrente dei suoi progetti (cfr. Gv 3,45; 5,19; 7,29). Li annuncia, perché li conosce (cfr. Gv 8,28.55). Dirà agli altri quel che conosce per vissuto personale: il vangelo predicato è espressione pubblica della sua fede, la confessione della sua fedeltà a tutta prova ( cfr. Gv 5,17.19). E’ stato presentato da Dio come il suo figlio amato (Mt 3,17); ora presenta se stesso come suo predicatore. Il vangelo del regno è la sua carta d’identità. Nella tentazione si è identificato come figlio di Dio, nella missione si identifica con quanto desidera suo Padre: regnare su Israele (Mt 4,17). E’ un fatto che bisogna riconoscersi come figli di Dio per parlare di Dio Padre.
Non deve, poi, passare sotto silenzio che, dopo aver annunciato per la prima volta il regno (Mt 4,17), Gesù per prima cosa ordina a due coppie di fratelli di seguirlo (Mt 4,18-22). Aveva una sola causa, Dio e il suo regno, ma non volle perseguirla da solo. Colui che annuncia un Dio vicino, non solo deve avvicinare i suoi uditori, dev’essere accompagnato da seguaci. Il discepolato è il primo frutto di una vera evangelizzazione.
“Primo oggetto della nostra Società è la santificazione de’ suoi membri.
Perciò ognuno nella sua entrata si spogli di ogni altro pensiero, di ogni altra sollecitudine…
Dio solo ne deve essere il capo, il padrone assolutamente necessario.
Perciò i membri di essa devono rivolgersi al loro capo, al loro vero padrone, al rimuneratore, a Dio,
e per amore di lui ognuno deve farsi inscrivere nella Società;
per amore di lui lavorare, ubbidire, abbandonare quanto si possedeva nel mondo per poter dire in fine della vita al Salvatore che abbiamo scelto come modello:
‘Ecce nos reliquimus omnia et secuti sumus te.’ (cfr. Mt 19,27).”[b2]
Figlio amato, figlio provato
(Mt 4,1-11)
“C’è una Persona che ti guarda, ti ama e ti chiama,
e tu puoi accettare o rifiutare la proposta.
A un appello personale si può rispondere dicendo «sì» o «no».
Tutto ciò avviene nella più grande libertà.”[b3]
Matteo racconta in due momenti, collocati strategicamente nel suo vangelo, la lotta di Gesù per mantenersi figlio del suo Dio, prima contro il tentatore (Mt 4,1-11) e più tardi contro se stesso, in agonia solitaria (Mt 26,36-46).[b4] La grazia della filiazione, appena concessa, diventa per lui immediatamente un compito da accettare liberamente.., a costo della propria vita.
All’inizio del suo ministero, Gesù deve difendere tre volte la sua condizione filiale, solo nel deserto, solo con la propria necessità, di fronte all’assalto tenace del tentatore. Alla fine della sua vita Gesù si dedica, nella preghiera, a difendersi dal Padre e a liberarsi dal suo volere come ultimo tentativo di salvare la vita. Sentì la tentazione di disertare da suo Padre, abiurando dalla proclamata filiazione, quando poté scegliere, nel deserto, cammini che non gli indicava la Parola e quando dovette scegliere, nel Getsemani, tra continuare a vivere o perdere tutto, meno il suo essere figlio di Dio.
Non è forse sintomatico il fatto che Gesù abbia vinto la prima prova ricorrendo alla Parola (Mt 4,4.7.10) e la seconda, e definitiva, non abbandonando la preghiera (Mt 26,36.39.42.44)?
1. Capire il testo
Siamo informati delle tentazioni di Gesù solo dalla tradizione sinottica (Mt 4,1-11; Mc 1,12-13; Lc 4,1-13), dove sono collocate immediatamente dopo la scena del battesimo (Mt 3,13-17; Mc 1,9-11; Lc 3,21-22).
L’episodio è chiaramente definito. Comincia con Gesù condotto fino al diavolo (Mt 4,1-3) e termina quando il diavolo lascia il posto agli angeli che vengono a servire (Mt 4,11). Tutta la scena presenta Gesù che affronta il tentatore: nessun altro assiste alla tentazione…, né al tentato! La solitudine del tentato è assoluta
La tentazione avviene in tre assalti, che vengono narrati in modo conciso e simmetrico:
a) Il tentatore prende sempre l’iniziativa (Mt 4,3.5.8). La tentazione non sorge in nessun momento come frutto della situazione di Gesù: non è effetto della sua fame, né conseguenza delle sue carenze. È indotta da fuori, ma lo sorprende in un momento di evidente debolezza. Senza esserne la causa, la sua impotenza è il ‘brodo di coltura’ della tentazione, che diventa in questo modo reale e pericolosa.
b) Gesù reagisce invariabilmente citando Dio, appoggiandosi sulla Parola scritta Mt 4,4.6.10). Essa gli serve da discernimento per aver successo nella prova e come guida della sua opzione personale. Rifugiandosi nella voce nota – scritta – di Dio, riesce a intravedere il volere nascosto del Padre. Prestare ascolto alla Parola lo salva dall’ascoltare altre voci: per quanto promettenti esse possano essere, non gli daranno mai quanto ha già ottenuto da Dio.
c) Il tentatore cambia continuamente la proposta. Ripete il tentativo, ma cambia i motivi: offrirà beni sempre più grandi, più appetibili (Mt 4,3.4.9). Bisogna osservare una certa progressione nei motivi su cui si basa la proposta diabolica: dal mettere in discussione la propria vita, data la fame prolungata, si passa a discutere l’assistenza divina in un momento di urgenza, per finire poi proponendo di rinunciare a Dio. Patire fame alimenta il dubbio circa la provvidenza di Dio che culmina nella ricerca di altri dei, più sicuri, meno rigorosi, da adorare. Superata una tentazione, ne arriva un’altra peggiore, da superare. Aggrapparsi alla volontà espressa di Dio rende invincibili i suoi figli.
1 Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo.
2 Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame.
3 Il tentatore gli si avvicinò e gli disse:
«Se tu sei figlio di Dio, dì che queste pietre diventino pane.»
4 Ma egli rispose:
«Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio.» (cfr. Dt 8,3).
5 Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio, 6 e gli disse:
«Se tu sei figlio di Dio, gettati giù;
sta scritto infatti: ‘Ai suoi angeli darà ordini al tuo riguardo ed essi ti porteranno nelle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra’.»(cfr. Sal 91,11-12).
7 Gesù gli rispose:
«Sta scritto anche: ‘Non metterai alla prova il Signore Dio tuo’.»(cfr. Dt 6,16).
8 Di nuovo, il diavolo lo portò su un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria, 9 e gli disse:
«Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai.»
10 Allora Gesù gli rispose:
«Vattene, Satana!.
Sta scritto infatti: ‘Il Signore, tuo Dio, adorerai. A lui solo renderai culto’.» (cfr. Dt 6,13).
11 Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco, degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano. ”
Già consacrato dallo Spirito, il figlio di Dio conosce la tentazione nel deserto. Risulta in questo modo chiaro che come non c’è stata missione senza dichiarazione previa di filiazione, così anche la prima cosa che dovette fare Gesù come figlio di Dio fu confermare la propria filiazione, sottomettendosi alla prova. La prova fa seguito immediatamente alla grazia: ne è la ratificazione. Come preparazione idonea alla sua missione evangelizzatrice, Gesù deve fare propria la grazia data, lottando per conservarla.
La tentazione, prova dello Spirito!
Gesù, già figlio di Dio ma non ancora predicatore del Regno, si trova solo e debole, dopo il digiuno prolungato. La sua fame e la solitudine non sono il punto di partenza della tentazione. La solitudine di Gesù di fronte al diavolo sarebbe una situazione esecrabile se non fosse stata provocata dallo Spirito. Se il tentatore gli si può avvicinare, nel deserto, è perché lo Spirito lo aveva condotto là: è lo Spirito che lascia nelle mani del diavolo il figlio di Dio (Mt 4,1)! E’ forse logico che il Figlio venga guidato dallo Spirito là dove si metterà in dubbio la decisione del Padre? Non si può qualificare, in un primo momento, come ‘cattiva’ un’esperienza da cui si può uscire scegliendo liberamente il Bene!
Tra la guida dello Spirito e l’intervento del diavolo vi è un lungo periodo di digiuno,[b5] attività tipica di ogni ebreo devoto. Il testo giustifica così lo stato di profonda necessità che Gesù sperimenta prima della tentazione: il prolungato digiuno lo aveva indebolito per l’incontro col suo tentatore. La prova sopravviene a Gesù dopo aver fatto il bene, quando ha meno forze, senza che ci sia al suo fianco qualcuno che lo aiuti. Solo, di fronte al tentatore, in chi troverà appoggio? E’ un fatto che i figli di Dio si trovano in grave necessità, perché non abbiano altro bisogno se non quello del loro Dio.[b6] E’ questa la pedagogia divina (Eb 12,5-8).
Anche se ripetuta, la tentazione è fondamentalmente una, come unico è il tentatore. Il diavolo pretende che Gesù abiuri dalla sua condizione filiale, proclamata pubblicamente nel battesimo. Basandosi su motivi diversi, ma che coincidono sempre nell’obiettivo, la tentazione consiste nel negare la decisione di Dio: “Questi è il mio figlio amato” (Mt 3,17). La possibilità di esautorare Dio Padre si presenta a Gesù come ‘tentatrice” (Mt 4,3.6: “se sei figlio di Dio…”). Gesù dovrà preferire di essere figlio, essere quel che Dio gli ha detto che è, ad altre opportunità e a progetti diversi (cfr. Mt 27,40-43).
La tentazione per il cristiano, indipendentemente dalle circostanze che la concretizzano o dai motivi che la possano giustificare, mette sempre in discussione il legame personale con Dio. Considerandolo bene, si tratta di un attacco a Dio Padre nel suo figlio. Possono variare i motivi di tentazione, ciò che non cambia è, alla fin fine, quel che rimane sempre ipotecato: la filiazione divina.
La Parola come scudo e alimento
Il primo assalto diabolico (Mt 4,3-4) presuppone una situazione di penuria e fa leva su questo. Un figlio di Dio che si rispetti, dice il tentatore, potrebbe benissimo trarre alimento dalle pietre pur di non trovarsi nel bisogno. Se è veramente figlio, perché non ci prova?
In fondo la tentazione poggia su un concetto del divino a cui siamo molto abituati: Dio, e chi gli appartiene, non deve soffrire mancanze né avere delle necessità. A cosa serve avere Dio, se ci manca il necessario? Cosa può significare un Dio che non vale per liberare dalla fame? Non è qualcosa di suicida confidare in un Dio che sembra indifferente alla nostra sopravvivenza?
Gesù, citando un testo in cui si ricordava a Israele che la fame sofferta nel deserto era stata prova di una pedagogia paterna (Dt 8,2-6), risponde che per vivere non ha bisogno del pane, sempre necessario e buono in tempo di fame, ma di tutto quel che Dio vuole dire. Figlio di Dio non è chi non patisce necessità, bensì chi si alimenta della parola di Dio. Gesù sa che il fatto di essere figlio amato (Mt 3,17) non lo ha salvato dalla fame, quando digiuna. Saziare la fame non costituisce una priorità da figli di Dio, che vivono sicuri di essere tali e hanno fame della sua Parola.
La vicinanza del Padre, messa in discussione
Il secondo assalto (Mt 4,5-6) è situato nel tempio di Gerusalemme, luogo privilegiato della presenza di Dio tra il suo popolo. Questa collocazione , e la convinzione di fede che presuppone, rendono più verosimile la tentazione. Lì, anche se solo, Gesù può sentirsi più protetto da Dio. Ma, proprio per questo, rende più logico il dubbio: a cosa serve la vicinanza di Dio se i suoi figli non riescono ad alimentarsi? A cosa serve un Dio che non può garantire ai suoi una vita senza miseria ?
La strategia del tentatore è sottile, e terrificante. Respinto dalla forza della Parola (Mt 4,4), si serve della parola di Dio per tentare il figlio di Dio (Mt 4,6): quel che Dio ha detto si può usare come motivo di tentazione! Si può tergiversare la Parola per andare contro Dio: la Scrittura si può addurre come motivo di resistenza a fare la sua volontà. Malizia suprema: il maligno si fa scudo di Dio per tentare il figlio.
Curiosamente, Gesù risponde citando un testo che impone il servizio esclusivo di Dio (Dt 6,16) come se non fosse lui ad essere tentato… Nella prova del figlio si vede messo in discussione anche il Padre. Il fedele che supera la tentazione non rende forse vittorioso il suo Dio? Difendere i diritti di Dio è il cammino che hanno i figli per sopravvivere alla tentazione. Si libera da essa non colui che si libera da Dio, ma chi sceglie, come Gesù, solo Dio.
Per un figlio è adorabile solo suo Padre
Il terzo assalto è quello definitivo (Mt 4,8-10). Il tentatore, lungi dal darsi per vinto, diventa più arrogante davanti al ripetuto fallimento. E’ un dato non trascurabile. Ritorna alla carica, ma ora senza tergiversazioni, brutalmente. Mostra a Gesù il mondo e la sua gloria e glielo offre… se gli rende culto. Solo il diavolo, nella sua sfrontatezza, può arrivare a tanto: si maschera da Dio, si presenta divino, seduttore, di fronte al figlio di Dio. Viene così smascherato. Non potendo mascherare la scelta contraria a Dio con la Parola di Dio, svela la sua intenzione più intima: pretende di essere servito come solo Dio merita. Questa volta si basa solo sulla propria parola, non su quella di Dio
Per la prima volta, e con autorità inusitata, Gesù comanda al tentatore di ritirarsi, prima di basarsi nuovamente sulla parola di Dio. La lotta è corpo a corpo, senza intermediari. Si oppongono due volontà, quella del Padre (Mt 3,17: “Questi è il mio Figlio”), quella dell’anti-Padre (Mt 4,10: “se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai”); ambedue reclamano obbedienza al figlio. Ma – a ben vedere – mentre il volere del Padre afferma Gesù come figlio amato, quel che si propone il diavolo è di trasformarlo in servo. Dio ama suo figlio perché sì; il nemico, per sé. Sempre. Resta così svelata la radice – la malizia – di ogni tentazione.
Il testo citato in seguito da Gesù (Dt 5,9; cfr. 6,13), parte integrante del decalogo (cfr. Dt 5,6-21), risolve alla radice la questione e rende inutili successive tentazioni. Non c’è prova che non possa superare colui che ritiene degno di adorazione solo Dio: prestare culto all’unico Dio che affascina, libera dal coltivare piccoli dei, per quanto divertenti possano essere. Solo chi sente una passione unica ed esclusiva per Dio è libero da grandi passioni e da piccole diversioni. Solo lui assomiglierà al Figlio di Dio.
2. Applicarlo alla vita
Appena proclamato figlio da Dio, Gesù deve affrontare, solo e indebolito, la prova. Qui non è Dio che lo tenta, come potrebbe anche darsi (cfr. Gc 1,13-14)! Ma è il suo Spirito che lo conduce fino al tentatore. Entra, pertanto, nel disegno pedagogico del Padre il mettere a prova i propri figli amati (Eb 12,7-10): solo il figlio amato fu tentato.
Tentare il figlio, funzione da Padre
Gesù dovette fare proprio l’amore che Dio gli aveva manifestato. L’unica tentazione di Cristo - le autentiche tentazioni del cristiano - si incentra sul fatto di mettere in discussione l’amore che Dio sente per i suoi. Le circostanze cambiano ma non la sostanza. Più che prove della propria debolezza, le tentazioni sono per il cristiano dimostrazioni delle predilezioni del suo Dio. Momento decisivo, la tentazione non può diventare motivo di angoscia né si tratta di perdita di tempo.
Sono così le tentazioni che ho o che temo? Cosa chiamo tentazione e prova: quel che prova la mia debolezza, le mie carenze sperimentate, il male che non riesco ad evitare o quel che mette a prova l’amore che Dio ha per me? Misuro le tentazioni secondo le mie debolezze, le confondo con le mie brame e desideri o le vedo come occasioni per sperimentare l’amore paterno di Dio, come prove che ratificano già, per il fatto di sperimentarle, le preferenze del Padre?
Lo Spirito conduce alla prova coloro che sanno di essere già stati oggetto di grazia. La tentazione non è un cammino per guadagnarsi la approvazione divina; né si tratta di una gara per lottatori o di passatempo per azzardati. È una tappa necessaria per figli docili, privilegio per gli amati da Dio. La solitudine, effetto della guida dello Spirito, e la fame, prodotta da un digiuno religioso, furono le circostanze che precedettero le tentazioni di Gesù; non ne furono il motivo. Esso invece non fu altro che il porre in questione quanto Dio gli aveva detto: “Tu sei il mio figlio amato” (Mt 1,13).
Qualunque tentazione io soffra, cercata o incontrata, la vedo come un deserto in cui sapere di esservi stato condotto dallo Spirito, come uno spazio di solitudine dove posso sentirmi sotto lo sguardo del Padre (Mt 6,4.6.8), come un tempo di fame e debolezze in cui la forza risiede solo in quel che Dio sente per me, e non in quanto io sento senza di Lui?
Gesù risponde a ogni insinuazione del tentatore ricorrendo alla Parola di Dio. Per difendere quel che Dio gli ha detto non trova arma migliore di quel che dice Dio. Quale uso faccio della Parola nella mia vita? Ricorro a essa quando mi tocca parlare di Dio agli altri o la coltivo affinché Egli continui a parlarmi? Quando c’è tanto (e tanti) attorno a me e magari qualcosa nel mio cuore, che mette in discussione Dio, o forse lo attaccano o lo fanno stare zitto, perché non trovo tempo, e voglia, di ascoltare Dio? Non è forse vero che non stando all’ascolto di Dio divento più sensibile alla voce del tentatore? Non è forse comprensibile che ignorando la Parola di Dio, finisco per non potermi riconoscere come figlio da Lui amato?
Una unica tentazione, anche se ripetuta: smettere di essere suo figlio
Gesù comincia a vedere che si mette in discussione la sua filiazione (Mt 4,13: “se sei figlio di Dio..) dopo essersi trovato nella penuria. In realtà, la sua fame è qualcosa di normale, frutto di digiuno volontario; il suo stato di bisogno è conseguenza di un agire devoto. Ma il tentatore getta su di esso l’ombra del dubbio. Quel che sente Gesù pare contraddire quel che vuole Dio: se fosse suo figlio non dovrebbe patire questa carenza, dato che troverebbe alimento anche nelle pietre. L’insinuazione è sottile: quanta più fame sente il figlio di Dio tanto più tentatrici risultano le pietre. Il figlio, dice Gesù ricorrendo alla memoria del popolo (Dt 8,3) non si affanna ad alimentare gente e a soddisfare bisogni, vive di quanto dice Dio: la parola di Dio è il pane per i suoi figli.
La nostra fame, comprese quelle migliori che possiamo sentire, quella che alimentiamo facendo il bene o astenendoci dal male, ci portano a scoprire che solo Dio colma la nostra ansia di vivere, che solo il suo volere soddisfa le nostre voglie di gioire? Di che cosa ci sentiamo oggi digiuni e ci duole? Cos’è ciò la cui privazione ci fa soffrire di più adesso? Perché non ci basta l’ascolto di Dio per calmare la nostra necessità e ridurre le nostre debolezze? Non sarà magari perché, non sentendoci figli di Dio, non sentiamo più fame se non di pane e di amore?
La seconda volta che Gesù vede messa in discussione la sua coscienza filiale si trovava nel tempio, residenza terrena di Dio; lì poteva veramente dare per scontata la presenza divina. La tentazione si basa proprio su questa convinzione: chi sa di essere oggetto di attenzioni da parte del Padre, può rischiare senza conseguenze; Dio non permetterà ai suoi di perdersi. Il lato diabolico della tentazione risiede nel basarsi ora su quel che costituì la chiave della resistenza precedente: la parola di Dio, la sua promessa di assistenza permanente. L’impegno di Dio verso i suoi figli può alimentare in essi sogni di grandezza. Dare Dio per scontato lo rende superfluo. Pensarlo sempre a nostra disposizione rende a buon mercato la sua vicinanza.
Non voler tentare Dio implica non esigere da lui prove palpabili della sua benevolenza; il figlio, per sapere di essere sotto la cura del Padre, non ha bisogno di metterlo alla prova. Sapere di essere figli di Dio ci basta o dobbiamo percepire la sua protezione? Ci dà fiducia Dio solo se usciamo indenni dal male? Cosa mi aspetto io da Dio, quali condizioni gli pongo per affidarmi alle sue paterne cure? Lo amo per quel che mi dà, se mi aiuta, o gli voglio bene perché Lui mi vuole bene, e basta?
Il terzo tentativo è il più sfacciato. Il tentatore si toglie la maschera; non si preoccupa più di Gesù, delle sue necessità né delle sue convinzioni; non mette più in discussione quel che è Gesù per Dio, pretende di arrivare ad essere dio per Gesù. Il potere – cosa vi è di più allettante? – è l’unico motivo della prova, che ora non si presenta come suggerimento ma come promessa incondizionata: viene promesso a Gesù il potere su tutto quel che riesca a vedere. Bisognerebbe considerare seriamente che l’ultimo assalto al Figlio di Dio ha avuto il potere e la gloria come motivo. Gesù sceglie Dio solo, perché solo un Dio che lo ama come Figlio suo è un Dio adorabile.
Mi separano forse da Dio poteri più insignificanti, déi meno adorabili di quelli che Gesù considerò irrilevanti? Quali sono, in concreto? Finché non identifico ciò che, per quanto insignificante in sé, è così potente da impedirmi il culto di Dio, non saprò da cosa devo distaccarmi perché Dio ritorni per me nuovamente adorabile. Perché mi risulta così facile dare culto ad altri déi che non sono poi così potenti né così paterni?
Il diavolo non può fare nulla contro i figli che preferiscono adorare il loro Padre. Il tentatore abbandona sempre chi è stato conquistato dal suo adorato Dio. Il culto al Dio vero è il miglior antidoto per liberarci dal maligno e dalle sue astuzie. Per me è un Dio degno di adorazione, oggetto unico di culto? E’ Lui la mia unica passione o continua ad essere uno dei tanti ‘passatempi piacevoli’? Gli angeli di Dio servono i suoi servitori; se mi sento qualche volta trascurato da Dio, ignorato da Lui, non è superfluo chiedermi di che cosa sono preoccupato, cos’è ciò che, coltivandolo, mi porta a disinteressarmi di Dio.
3. Pregare la Parola
Non riesco a capire, Signore. Come è possibile che, dopo avermi fatto, come un giorno Gesù, figlio tuo, il tuo Spirito mi conduca alla solitudine e mi faccia affrontare il mio tentatore? Quale motivo ti porta a mettere in pericolo la tua paternità e mettere a prova la mia debolezza? Che strano modo di ‘educare’ i tuoi figli! Vieni, Signore, con me nel mio deserto. E affronta tu con me la tentazione. Che la tua presenza mi ridoni la parola di Dio e il suo Spirito! Abita tu la mia desolazione, riempi il mio vuoto e rendimi forte con la tua Parola! Ti starò aspettando. Non importa vivere solo e nella penuria; la mia fame di beni mi parlerà di Te, Bene della mia vita.
E’ decisiva la tua presenza a me e che mi porti lo Spirito di Dio. Avrà valso la pena aver vissuto vuoto di Dio e ritirato dai miei fratelli, se Tu vieni a me. Devo imparare, Signore, a sentirmi condotto dal tuo Spirito quando mi sento tentato di abbandonarti. Voglio imparare a considerare spirituale ogni prova a cui vorrai sottomettermi. Ma solo quelle…
Non ci avevo pensato, Signore. Ossia, che dal mio battesimo, in cui ti sei dichiarato Padre mio, tutta la mia vita è una unica tentazione, occasione unica per mostrarti che accetto il tuo volere, che desidero sostenermi col tuo amore, che voglio quel che tu vorrai, che voglio essere solo come tu mi hai voluto: figlio tuo prediletto. Vedo un poco più chiare le cose: le mie debolezze non sono la tentazione, forse la alimentano e la concretano, la rafforzano e la realizzano. La tentazione autentica, quella originale (Gn 3,5) è di ignorare il tuo volere e ripudiarti come padre mio.
Ti sarò eternamente riconoscente, mio Dio, per avermi dato tutta una vita per dimostrarti che ti amo come tu mi ami; figlio tuo ti accetto come sei, Padre mio. Ti ringrazio perché non mi giudichi per quel che faccio un giorno né per quanto spesso ometto; sei stato molto comprensivo con me. Non so cosa dirti; nulla esprime bene quel che sento. Ti dirò semplicemente che ti amo come Padre e che voglio essere figlio tuo. Oggi e sempre.
Devo riconoscerlo, Signore Gesù: non sempre ti vedo, come ti vede il tuo Padre Dio. Spesso non ti scopro così divino come sei in realtà, perché continuo a contemplarti coi miei occhi e non con il cuore del mio Dio. E’ una pena; ti amerei di più, ti amerei meglio, se ti vedessi come ti contempla il Padre. Perdo il meglio di te quando ti immagino come mi fanno capire le mie poche luci o la misura delle mie molte necessità. Non mi affascini perché continuo ad essere affascinato dalla mia convenienza e dalla moda del momento. Vederti come Dio ti vede, amarti come Egli ti ama, sarebbe, invece, il modo più efficace per trovarti veramente affascinante. Oggi oso desiderare, vorrei chiederti, che mi permetta di vederti così divino come sei; che veda in te, Signore, quel che vede il Padre: dammi gli occhi, e il cuore, di Dio, per contemplarti così come sei.
Non puoi negarmi, Signore, che risulta un po’ strano il comportamento di tuo Padre con te; dice di amarti e ti prova; dichiara che lo compiaci e ti conduce nel deserto, ti chiama suo figlio e ti mette di fronte a Satana, il suo peggior nemico: se è questo il prezzo delle preferenze di un Dio che si proclama Padre, non sarebbe meglio essere per lui un estraneo o, per lo meno, passare inosservato?; se espone così tanto colui che è oggetto del suo amore, non è forse temibile essere tale? Mi fa un po’ paura avere come Padre un Dio così; non posso negarlo. Dovrei rendermi conto che prima di essere tentato fosti eletto; Dio non ti ha mandato ad affrontare Satana prima di renderti consapevole di saperti amato e suo. Ti ha dato, in questo modo, l’occasione per dimostrargli che volevi essere come Lui ti voleva, che ti impegnavi ad essere come Lui ti voleva: prima di essere esposto al nemico sei stato amato dal tuo Padre e Dio. Solo i figli di Dio affrontano i suoi nemici; perché solo i figli, Signore, non possono considerare amici loro quelli che sono nemici del loro Padre. Chi sono per me, oggi, i miei nemici? Chi vuole Dio, mio Padre, che affronti oggi?
Se tu, il Figlio amato, sei stato tentato, perché non sopporto le prove che Dio ha pensato come idonee per me? Sarà che, in fondo, non voglio vedermi degno di te, perché non sono disposto a provartelo? Il male non è la tentazione, ma l’affrontarla immerso nel dubbio sul tuo amore per me, ignorando quanto mi ami. Non dovrei preoccuparmi per l’esito della prova come pure circa il tuo amore per me, se è sufficiente o no; nella tentazione del figlio non sono le sue forze ad essere in gioco, bensì la volontà del Padre. Signore, fammi capire che quando mi provi, mi provi il tuo amore; che sei Tu a essere messo in discussione tutte le volte che lo sono io; che i tuoi nemici sono i miei, dato che sono tuo figlio. Affronterei meglio le prove se mi assicurassi che in esse mi si sta provando la mia fedeltà: non desideri che mi vinca il male, vuoi convincermi col tuo amore; più che pretendere che comprovi la mia debolezza, cerchi di dimostrarmi la tua fedeltà.
Sia benedetta la tentazione, se con essa posso provarti chi sei tu per me, se vuoi dimostrarmi in questo modo quanto mi vuoi bene! Riuscendo a rinunciare per Te, potrai apprezzare cosa significhi per me. Non sono così buono che il male non mi tenti, Signore; ma Tu sarai il meglio per me se considero insignificante per me qualsiasi bene possa avere o desiderare che non sia Tu. Se Tu fai impallidire le mie luci, se brilli nelle mie oscurità, se rendi buono quel che ho e meno desiderabile quel che mi manca ancora, sarai il mio Bene. Sei Tu, mio Dio, il Bene che rimpicciolisce la mia bontà, l’Amore che ingrandisce la mia volontà, l’Amore che rende possibile la mia fedeltà. Dove non ci sei sarà sempre per me un deserto; voglio che Tu mi conduca a provare che il tuo amore è efficace in me; ti chiedo di tentarmi, come figlio tuo, poiché voglio continuare ad essere tale.
[b2] G. Bosco, Circolare ai salesiani, 9 giugno 1868,inF. Motto, Epistolario. Introduzione, testi critici e note. Vol. II (LAS, Roma 1996) 386.
[b3] P. Chávez, «Testimoni della radicalità evangelica». Chiamati a vivere in fedeltà il progetto apostólico di Don Bosco. «Lavoro e Temperanza», ACG 413 (2012) 23.
[b4] Il racconto di ambedue le prove, la azzeccata collocazione di esse nel vangelo e la evidente intenzione parenetica, sono opera del redattore. In ambedue le scene si nasconde un ricordo storico; ma non è la fedeltà a quanto è successo quello che interessa all’evangelista, ma non è la l’essere fedele a quanto è successo quello che interessa al narratore ma l’affermare che, durante il suo ministero, Gesù conobbe la prova, quella che passano i figli di Dio (cfr. Eb 12,5-10; Prv 3,11-12)
[b5] Il tempo trascorso, quaranta giorni, alluderebbe al periodo di prove che Israele, ‘primo’ figlio di Dio (Es 3,7-10; 11,4-10; 12,29-37), visse durante il suo camino verso l’Alleanza (Sal 94,10-11; Eb 3,17-19).
[b6] Es 16.17.32; 34,28.
Con Dio e il regno come unica causa (Mt 4,12-17)
“La consacrazione ci fa diventare persone consegnate incondizionatamente a Dio,
e, più concretamente, ci rende «memoria vivente del modo di essere e di agire di Gesù»…
Questo è, infatti, il primo contributo che da religiosi possiamo e dobbiamo offrire”.[c1]
Gesù ha superato la tentazione, preservando in se stesso quell’identità che Dio ha voluto per lui (Mt 4,3-11). Era stato presentato da Dio come suo Figlio amato (Mt 3,17). Ora si presenterà come suo portavoce. Poiché ne conosce i progetti e li annuncia, Gesù può cominciare ad operare come evangelista del regno di Dio, perché ne è già figlio e rappresentante.
La prima cosa che fa Gesù, o meglio, quel che deve fare in primo luogo, è dare una buona notizia: Dio e il suo volere stanno per venire. La causa di Dio, il vangelo del regno, è la sua carta di presentazione; si identifica con ciò che desidera suo Padre: regnare sul suo popolo (Mt 4,17). Per proclamarlo esce dall’anonimato e si introduce tra gli uomini in cerca di ascoltatori per il suo vangelo. Non può predicare un Dio che cerca la vicinanza stando lontano dai suoi ascoltatori: si avvicina al suo uditorio, perché Dio vuol farsi presente in mezzo ad esso. E’ il vangelo al cui servizio si è dedicato che lo obbliga a ‘collocarsi’ tra i suoi ascoltatori.
1. Capire il testo
Matteo racconta l’inizio del ministero pubblico di Gesù con notevole sobrietà. Evidentemente, al narratore non interessa tracciare una biografia del suo personaggio, bensì di identificarlo con una causa, essendo stato già identificato con Dio.
Dopo aver menzionato la genealogia (Mt 1,1-7), la nascita a Betlemme (Mt 1,18-2,12) e l’infanzia in Egitto (Mt 2,13-22), Matteo ne registra l’anagrafe in Galilea e lo dichiara nazareno (Mt 2,23). Così come Luca (Lc 3,1-20), concede un maggior protagonismo a Giovanni Battista (Mt 3,1-12), da cui andrà Gesù per farsi battezzare nel Giordano (Mt 3,13; Lc 3,21). Solo quando il Battista è gettato in carcere, ritorna Gesù in Galilea e comincia il suo ministero facendo dell’annuncio del vangelo di Dio la sua unica occupazione.. Colpisce il fatto che non specifichi a chi si dirige la sua proclamazione. Le sue prime parole sembrano non avere ascoltatori definiti: quel che importa al cronista non è il pubblico ma il messaggio.
Matteo annota solamente che Gesù ritorna in Galilea, da dove procedeva (Mt 4,12). La Galilea è il luogo dove deve sempre cominciare la evangelizzazione e, di conseguenza, dove deve andare colui che evangelizza. L’evangelizzatore si deve al luogo dove lo attende il vangelo. Non importa da dove viene; quel che conta è dove deve andare, perché lì gli è stato dato appuntamento (cfr. Mt 28,16-20). Non rimane nel deserto, come Giovanni (Mt 3,1). Lascia Nazaret, sua patria di adozione, per stabilirsi in un villaggio che gode di migliori comunicazioni, Cafarnao (Mt 4,13). Questo cambio di residenza non è una semplice decisione tattica o di comodo, bensì la realizzazione del progetto divino. Si compie così la profezia: una grande luce brilla in una regione di ombre, per un popolo che vive nelle tenebre (cfr. Is 9,1). Dove appare un evangelizzatore, la luce vince le tenebre.
12 Quando Gesù seppe che Giovanni era stato arrestato, si ritirò nella Galilea, 13 lasciò Nàzaret e andò ad abitare a Cafarnao, sulla riva del mare, nel territorio di Zàbulon e di Nèftali, 14 perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaia:
15 « Terra di Zabulon e terra di Neftali, sulla via del mare, oltre il Giordano, Galilea delle genti!. 16Il popolo che abitava nelle tenebre vide una grande luce, per quelli che abitavano in regione e ombra di morte una luce è sorta
17 Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire:
« Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino .
Il Dio che annuncia vuol essere vicino agli uomini. Il suo araldo non può rimanere staccato da loro. Senza attardarsi cercherà i suoi ascoltatori dove essi sogliono trovarsi, tra occupazioni e infermità (Mt 4,23-24; 9,35), sui monti (Mt 5,1; 8,1) o vicino al mare (Mt 4,18, a casa (Mt 8,14), in campagna (Mt 12,1) o, al sabato, nella sinagoga (Mt 12,9-10). Non può parlare di presenza di Dio, proprio perché non è così evidente, senza annunciarla avvicinandosi. Non vorrà proclamare il volere di Dio, se non da una posizione di comprensione (Mt 9,2) e di misericordia (Mt 8,2-3; 14,14) verso chi lo ascolta. In quanto Dio è impegnato a venire, non vi è tempo da perdere né motivo che giustifichi ritardi. Vive pressato da un Dio che ha fretta di regnare. Non c’è tempo per ritardi o diversioni, quando Dio è imminente.
Il regno di Dio, motivo del discepolato
La tradizione sinottica è unanime nel collocare l’inizio del discepolato (Mc 1,16-20; Mt 4,18-22; Lc 5,1-11) immediatamente dopo aver presentato Gesù che predica il vangelo (Mc 1,14-15; Mt 4,17): il regno di Dio, cuore di quanto Gesù deve dire, precede l’invito a seguirlo.
Non è una semplice casualità che Gesù inizi il suo ministero con la predicazione del regno e con l’invito a seguirlo. Durante tutta la vita pubblica, Gesù non si occupò di altro che di annunciare vicino il regno di Dio (Mc 1,21-22; Lc 4,31-32) che le sue opere annunciavano già incipiente (Mc 1,32-34; Mt 4,23-25). E sempre, tranne contate eccezioni (Mc 6,14-29; Mt 14,1-12; Lc 9,6-10), fu attorniato da persone per le quali, seguendolo da vicino, il Dio di Gesù divenne il Signore della loro vita (Mc 3,31-35; Mt 12,46-50; Lc 8,19-21).
Come prima istituzione che nasce dalla predicazione del regno, il discepolato di Gesù ha la sua origine e causa nella missione personale di Gesù. La sua coscienza di apostolo del Dio vicino gli impone la vicinanza agli uomini; ad essi si dirigerà se sono lontani; con essi vivrà, se sono suoi eletti. Pertanto, non è discepolo chi vuole e si propone di essere tale, ma chi è voluto da Gesù e ne riceve l’invito. Ma la scelta del predicatore e la sua chiamata sono una conseguenza logica della sua stessa vocazione: il discepolo, così come il suo signore e attraverso di lui, è al servizio del regno di Dio. Dio che sta per venire, la sua sovranità che sta per instaurarsi, sono il motivo dell’esistenza del discepolato, così come sono il motivo dell’esistenza personale di Gesù (Mt 9,9-13). La persona chiamata condivide con Colui che la chiama non solo la vita ma anche il motivo di essa.
Il regno di Dio, la causa di Gesù
Tutti i gruppi religiosi contemporanei di Gesù, al di là del loro divergenze, condividevano la fede in una manifestazione finale del regno di Dio: il Signore, un giorno, si sarebbe imposto come sovrano del mondo e della storia. La salvezza attesa si identificava con l’intronizzazione regale di Dio. I fedeli ne anelavano la venuta. Non la possono accelerare né riusciranno a ritardarla. Se sperano in un avvenire migliore è perché sono convinti di stare vivendo una situazione catastrofica, a cui si è giunti per inadempienza della volontà di Dio: per questo ad un maggiore anelito per la sua venuta corrisponde un maggior impegno per adempiere la legge divina.
L’attesa del regno di Dio coincide, quindi, con la sicurezza che Dio sta per intervenire, facendo giustizia a quanti hanno cercato di vivere secondo il suo volere. Chi sa che il giudizio sovrano sta per arrivare si occupa di predisporre la conversione dal proprio peccato. E fa questo non solo deplorando le mancanze passate ma, soprattutto, impegnandosi a compiere con maggior zelo la volontà di Dio. La radicalizzazione dell’obbedienza a Dio è conseguenza dell’imminente attesa del suo regno.
All’interno di queste coordinate appare il Battista, un carismatico marginale che, insistendo sull’imminenza del giudizio divino propone la conversione come modo di attendere Dio ed il battesimo come segno di conversione. Gesù di Nazaret ha conosciuto questa predicazione ed in un primo momento si è associato ad essa. Ma finirà per rompere col suo maestro, e a ragione. Diversamente dal Battista che continua insistentemente ad affermare che l’imminenza del regno di Dio mette in pericolo la salvezza personale, se non si producono frutti di giustizia, Gesù annuncia la presenza del regno di Dio nella sua persona e col suo operato. Il Battista è più preoccupato di convincere i suoi ascoltatori della pericolosità del giudizio; l’urgenza della conversione è in diretto rapporto con l’arrivo del Giudice. Gesù, pur non tacendo sull’imminenza e la pericolosità del giorno del Signore, sottolinea di più le possibilità salvifiche che offre il suo ministero. Mentre nel Battista predomina l’annuncio di un giudizio in cui Dio si pronuncerà secondo le opere di penitenza compiute, Gesù sottolinea l’universalità di una salvezza che, per pura iniziativa di Dio, è offerta a chi l’accetta. A volte sembra che ci siano nella chiesa più seguaci del Battista che discepoli di Gesù.
Di qui l’importanza che riveste che la sua predicazione del regno di Dio vada accompagnata da segni efficaci della sua presenza. La salvezza deve concretarsi, deve giungere all’uomo proprio là, dove se ne vede la mancanza. Se arriva al malato e all’indemoniato, all’emarginato o al disprezzato, al lontano o al peccatore, non si potrà dubitare della sua presenza, né della sua gratuità, né del suo universalismo. Non sarà l’obbedienza alla legge ma l’amore all’uomo bisognoso, il modo di fare regnare Dio. Tutto l’agire di Gesù, scandaloso perché inatteso, si spiega con la sua comprensione del regno di Dio: nessun privilegio, ereditato dalle promesse o ottenuto con le opere dell’obbedienza, prevale davanti a un Dio che fa giustizia solo a chi non si considera già a posto. Tutto il resto, sabato, legge, offerta, preghiera, tradizioni, famiglia, possedimenti, patria… è il meno.
Un avvenire che è già cominciato
Il regno di Dio non è solo promessa di futuro, è già possibilità attuale, perché deve realizzarsi secondo ciò che si attende. Certamente, e Gesù non perde il senso della realtà, anche se ha da venire, è già cominciato. E le primizie del regno di Dio sono così piccole che possono passare inosservate. Oppure possono essere ignorate di proposito: perché se le loro dimensioni possono essere modeste, non sono tali le esigenze. Le parabole della crescita nascosta ma efficace (Mt 13,4-9.18-23.31-32) riflettono questa convinzione di Gesù: quel che oggi è impercettibile, quel che lotta ancora per nascere, ha il futuro assicurato. Solo quel che non è stato seminato non potrà fiorire in seguito. Per quanto sembri invisibile, Dio sta già operando, ed è già il suo stesso avvenire. Per questo la predicazione del regno di Dio, presente ma nascosto, già attivo anche se ancora invisibile, esige fede e provoca speranza; richiede tranquilla certezza e ferma speranza: Gesù insegnerà ai suoi discepoli a chiedere la venuta di un regno che è già cominciato (Mt 6,10).
Gesù opta per un Dio a cui si accede all’interno della propria storia, nella propria terra. Ma, precisamente perché proclama la sovranità assoluta di Dio, non si lancia a riformare la società del suo tempo. Non gli importa tanto il dominio dei romani sul suo popolo quanto il fatto che non domini solamente Dio. Gesù non tralascia di mettere in discussione nessuno degli ambiti in cui si realizza la vita dell’uomo: la famiglia, la proprietà, il culto, i rapporti interpersonali, la politica. Perché su tutti gli ambiti in cui vive l’uomo, Dio mantiene una pretesa di servizio esclusivo. Il Dio di Gesù si fa presente solo a chi lo serve.
Dono gratificante e immeritato
Dato che il regno di Dio è la realizzazione di un progetto divino, non deve essere confuso e tanto meno ridotto alla soddisfazione dell’ansia di felicità dell’uomo. Un Dio che ci stesse tutto quanto nel cuore dell’uomo o che fosse a immagine delle necessità umane e compendio dei desideri umani, non è il Dio di Gesù. Ma è convinzione di Gesù che Dio, regnando, darà piena soddisfazione ai bisogni del cuore umano. Per questo coloro che ora vivono più insoddisfatti sono quelli meglio preparati a riconoscerne la venuta. Il regno di Dio non è salario dovuto. Nella predicazione di Gesù non c’è posto per il ‘merito’, anche se l’obbedienza a Dio richiede sforzo. Per quanto atteso, e necessario, Dio è sempre gratuito e sorprendente.
Il regno di Dio non lo si può concepire, né desiderare, partendo semplicemente da ciò di cui l’uomo sente la mancanza; non è una controfigura del mondo in cui viviamo. La malvagità imperante può alimentare l’attesa di Dio, ma quando Egli giunge non si limita a risanarla. Così pure, trattandosi di un progetto divino, il Regno di Dio supera qualsiasi realizzazione umana, anche quelle che i cristiani, ubbidendo a Dio, cercano di realizzare nella storia: la chiesa non è ancora il regno, anche se attraverso il suo ministero dovrebbero già apparire chiari indizi della presenza di Dio nel mondo. Così come con Gesù. Il Regno di Dio è il modo di Dio di essere Dio per noi: interessato alla nostra felicità e impegnato a rendercela possibile. Per avere il Regno di Dio come compito bisogna avere Dio come unico Signore nel proprio cuore.
Chiunque si metta all’ascolto di questo Gesù, la prima cosa che ascolta è sempre la stessa notizia: Dio è vicino a chi gli permette di essere suo Signore, perché si avvicina solo a chi lo riceve come sovrano. Dio regna sovranamente solo su coloro che gli obbediscono. Egli verrà tra coloro che lo accettano come tale, cioè, come il loro ‘av-venire’, il migliore dei futuri… Il Dio annunciato si fa creatura dei suoi servi (Lc 1,38); non è che il fatto di promettergli accoglienza lo obblighi a venire; non è la speranza di essere accolto quel che lo spinge ad avvicinarsi. Viene perché così vuole, viene da chi vuole. Ma per venire dev’essere voluto e atteso.
Dio vuole regnare, questa è la buona notizia
L’annuncio del suo arrivo alimenta, quindi, l’attesa e il desiderio. E mette in rilievo, allo stesso tempo, la sua assenza. Non si annuncia uno che è presente; non si attende una persona che è già arrivata. Il messaggio di Gesù è una buona notizia per chi è dispiaciuto dell’assenza di Dio in cui vive. Il vuoto di Dio, lì dove si avverte e dispiace, indica mancanza di obbedienza dei sudditi, svela indisposizione ad accoglierlo come Dio. Non è, quindi, che Dio si sia ritirato da dove si nota la sua assenza. E’ che non gli si è permesso ancora di arrivare fin lì. Il Dio di Gesù non abbandona mai, se manca è perché non gli si è fatto spazio. Per ventura di colui che ne sente la mancanza, Egli viene solo là dove non si trova ancora. Per questo anche i più sprovvisti tra gli uomini, i peccatori e gli emarginati, possono vivere con gioia anche in mezzo alla loro disdetta. Non è che la loro situazione sia buona, ma, proprio per questo, Dio è in cammino verso di loro. E questo sì è positivo.
L’annuncio di Gesù causa, allora, gioia in chi lo ascolta. Convertirsi al regno di Dio comporta necessariamente la gioia di vivere, mentre lo si attende; la gioia è la forma di vita dell’evangelizzato, e la tristezza, il segno evidente di uno stato di ‘dis-evangelizzazione’.
Arrendersi a questo Dio, è questa la fede che salva
Annunciando Dio vicino, Gesù non si limita a causare gioia nei suoi ascoltatori, chiede accettazione, fede. Il fatto che Dio stia per venire chiede, provocandola, l’attesa attiva. La fede – “fondamento di ciò che si spera” (Eb 11,1) – diventa insopportabile senza la speranza, non avrebbe base né contenuto. Fede è consenso nei confronti di chi sta per venire, assenso a quanto sperato; più che ossequio ragionevole, è un’avventura che si è disposti a correre e insicurezza che si assume. Dio viene prima della nostra fede, la precede e la rende possibile; non lo creiamo noi (ci mancherebbe altro!), crediamo in Lui. La fede è as-senso (credere, etimologicamente è cor-dare) verso il Dio che si aspetta, con-versione verso colui che ancora non è presente nel mio mondo, ma sta venendo ad esso. Il credente, per questo, non dispera mai, perché sa che Dio e il suo regno, dove non ci sono, stanno per arrivare. Per chi si fida di Gesù, Dio è sempre il suo avvenire immediato. E se Dio non viene che lì dove non c’è, chi lo sa e lo attende sa di essere già amato da Colui che ancora deve venire e non è ancora con lui. La speranza è il modo di maturazione di una fede che si sperimenta come sicurezza di essere oggetto dell’amore nientemeno che di un Dio di cui ancora si sente la mancanza.
La vicinanza di Dio, per chi ne ha il presentimento e la desidera, riempie il suo tempo e colma l’attesa di gioia. Trova poco allettamento in tutto, nessuno lo attrae davvero, nulla distoglie dall’attesa colui che vive sapendo che il tempo è compiuto e Dio è imminente. Chi attende Dio per mettersi al suo servizio, lascia le servitù e non si permette nessun’altra occupazione che non sia l’attesa, tanto più febbrile quanto più sicura è la venuta del suo Signore. Per mettersi a desiderare il suo Signore, non c’è bisogno che il credente sia già completamente buono; basterà che lo addolori la sua assenza e che viva bramandone la venuta. I buoni hanno già perso una volta Dio perché erano tropposoddisfatti di essere tali (Mt 9,11-13; Lc 15,1.25-32) Vale la pena credere di non aver bisogno di Dio? Non è forse il modo, efficace e sottile, in cui lo stiamo perdendo?
2. Applicarlo alla vita
Gesù lascia il deserto per ritornare in Galilea (Mt 4,1.12) e là prendere la parola. Disse tutto quel che voleva Dio (Mt 4,17). Ma dovette lottare per provarlo (Mt 4,3-6). Figlio di Dio, amato e provato, ora può divenire evangelizzatore credibile: per poter parlare della vicinanza di Dio, bisogna prendere consapevolezza di essere suo famigliare. Solo chi ha scelto di non allontanarsi da Dio può proclamarlo vicino. Il testimone della vicinanza di Dio deve essere in rapporti intimi con Lui. Solo figli che hanno dimostrato di essere tali parleranno di un Dio Padre e ne conosceranno le intenzioni (cfr. Gv 5,19-20; 8,19).
Gesù comincia a parlare dopo che è stato arrestato Giovanni (cfr. Mt 4,12). Esordisce come predicatore prendendo il posto lasciato dal messaggero di Dio. Non è tempo di tacere, per quanto sia pericoloso parlare: Dio non si merita che vengano taciute le sue intenzioni o i suoi diritti, solo perché proclamarli potrebbe mettere nei guai i suoi propagandisti. Non sarebbe sufficientemente sovrano un Dio che non fa parlare i suoi profeti, anche se questo significa mettere in pericolo la loro vita. Non vale la pena un Dio che non meriti la vita; sarebbe poco adorabile un Dio per cui qualcosa o qualcuno non sia sacrificabile. Se non vale più che tutto ciò che abbiamo o desideriamo, non avrebbe un valore sufficiente per essere nostro Dio. E’ credibile solo un Dio che vuole tutto, solo Lui merita la nostra obbedienza.
La prima occupazione di Gesù, figlio di Dio, fu l’annuncio del vangelo di Dio. Dio fu il tema della sua vita, sua unica causa. Per proclamare Dio come buona notizia uscì dall’anonimato; si identificava in pubblico con la causa di Dio. E, quel che è più, la considerava così buona, che parlare di essa era buona notizia. Tutto quel che fece o disse Gesù durante il suo ministero pubblico, non ebbe altro motivo né altra spiegazione; aver fatta propria la causa del suo Dio, lo sottrasse a divagazioni e diversioni. Se non avesse avuto Dio come buona notizia da dare, Gesù non avrebbe lasciato la sua famiglia di sempre e le sue occupazioni quotidiane. Gesù non ha nulla di buono da dirci se non gli permettiamo che ci parli del regno di Dio; annunciare la volontà di Dio di regnare è quel che ha reso rilevante Gesù. Ci dimostriamo suoi discepoli anche noi per lo stesso motivo? Sono Dio e il suo regno la mia causa, la mia passione? Per che cosa mi do da fare, per chi voglio vivere? Vale la pena la mia vita per qualcosa che non sia Dio e la sua passione per salvare gli uomini?
Il vangelo di Dio che Gesù annuncia è categorico: “Il tempo è compiuto; il regno di Dio è vicino”. Se Dio deve venire agli uomini, vuol dire che non si trova ancora tra di loro; si giunge solo là dove si è assente. Dietro l’annuncio gioioso di Gesù è latente, allora, un giudizio di valore negativo per l’umanità. Il mondo che riceve come buona notizia l’arrivo di Dio è un mondo che vive senza di Lui, che sa di non averlo. Ora, perché Egli venga non è necessario che se ne sia notata la mancanza, e meno ancora che se ne sia sentito il bisogno. E’ l’annuncio che sta per arrivare ciò che ne fa percepire la mancanza. Proprio per questo è buona la notizia del suo arrivo: che si sappia o no - si voglia o no! – Dio è già in cammino verso gli uomini. Viene, anche se non si aspetta; giunge senza la certezza di essere ricevuto bene.
Dio sta per venire, certo, ma come sovrano assoluto. Viene per regnare. Arriva esigendo obbedienza, in cerca di sudditi. Si avvicinerà a quanti accettano il suo volere. Là dove Dio domina sovrano, dove si compie il suo volere senza incontrare resistenze né scuse, lì viene Dio; il suo regno si instaura dove si adempie la sua volontà, senza restrizioni né dilazioni. E’ l’obbediente che fa venire Dio, chi lo rende presente e vicino. Senza sudditi Dio non viene, perché viene solo per regnare: non si lascia avvicinare da Dio chi non lascia che Egli ordini la sua vita; per avere Dio vicino bisogna permettergli di essere nostro padrone e signore.
La prossimità di Dio, il suo annuncio ancor prima del suo inizio, provoca crisi. Il vangelo esige conversione e fede. Dio non arriva all’uomo senza che questi giunga a Lui. Sapere che sta per venire mette il credente sulla strada del ritorno verso Dio. La conversione (andare verso il Dio che viene) nasce non tanto dalla volontà di essere migliore, nemmeno dal riconoscersi non del tutto a posto, quanto dalla persuasione che Dio, il Bene per antonomasia, è vicino. E’ la sua imminenza che sprona a una trasformazione radicale: nessuno può attenderlo come se non dovesse succedere nulla, quando sarà nientemeno che Lui, Dio, che sta per venire. Chi non cambia adesso, vuol dire che non lo sta aspettando. La conversione fiorisce nel tempo dell’attesa, è frutto di speranza. Non devono convertirsi solamente i cattivi; solo si convertiranno tutti quelli che attendono Dio, perché sanno che può sopraggiungere in qualsiasi momento. Per convertirsi al Dio di Gesù bisogna vivere speranzosi.
Conversione di vita e gioia di vivere non sono incompatibili: ‘noi facciamo consistere la santità nello stare allegri’ (Don Bosco lo mise in bocca a Domenico Savio!). Perché, per essere felici, non basterebbe l’avere come causa il regno di Dio? Quali altre cause migliori può meritare la mia vita? Meriterebbe un culto un Dio che non faccia felici i suoi servi? Come mai questo motivo non ci fa vibrare con Dio per essere felici? Perché non ci basta Dio per essere felici?
Di conseguenza, credere al vangelo implica non solo accettare che Dio sta venendo verso di noi ma anche – soprattutto! – abbandonare i nostri sentieri e prendere quello che porta al Dio che viene a noi. Servirebbe a ben poco che Dio volesse venire da noi, se non gli permettiamo che regni su di noi. Perché il Dio di Gesù non viene come per passatempo: o viene per regnare sopra i suoi sudditi o non si degna nemmeno di apparire. Prestare fede al vangelo comporta, quindi, arrendersi davanti al volere sovrano di Dio, lasciarlo disporre di noi. Credergli vuol dire mettersi al suo servizio, senza condizioni né scuse, come fece Maria (Lc 1,35).
3. Pregare la Parola
Signore, mi entusiasma e allo stesso tempo mi fa arrossire, contemplarti così identificato con Dio, così al corrente dei suoi piani, così impegnato nel presentarceli. Lui voleva venire, ti ha fatto venire da noi; Lui voleva regnare su di noi, ha fatto di te l’araldo della sua volontà. Hai abbandonato tutto ciò che poteva trattenerti, famiglia e occupazioni, per parlarci di Dio e del suo regno; avendo Dio come compito, tutto il resto non ti ha trattenuto; ti sei dato a conoscere affinché conoscessimo il progetto che aveva Dio; non sei vissuto per te stesso, perché vivessimo per Dio. Potessimo imitarti! Invece, nel mio caso, sono molte le cose/persone/idee che non mi lasciano identificare col volere di Dio; è ancora molto quel che mi chiude in me stesso, chiuso nel mio mondo, mediocre nell’anonimato. Perché non mi liberi da tutto quello cui sono attaccato, anche dai miei, per farmi diventare per essi un annunciatore della notizia, realmente buona: Dio sta per venire? Quando sarò veramente convinto che, come te, sono al servizio di Dio?
Mi colpisce questa tua decisione di uscire dall’anonimato proprio quando hanno gettato in carcere il Battista. Ai tuoi giorni era rischioso parlare di Dio e del suo voler regnare sul tuo popolo. Ti importò di più quel che vuole Dio che quel che erano disposti a sopportare gli uomini. Perché sapere tante cose sul mio Dio non mi fa diventare suo profeta e portavoce, ora che tanti tacciono o fanno a meno di Lui? Cosa mi manca di quel che hai avuto? Perché non metto la mia vita al servizio di Dio, solo di Lui? Quando vivrò badando unicamente al volere di Dio, senza curarmi di quel che pensano o vogliono i potenti? Riconosco che non ho fatto del mio Dio la causa della mia vita, né la sua volontà di regnare è il mio programma. Perché non mi dici come ci sei riuscito, come hai fatto? Aiutami a farcela!
Stento a capire che Dio ci tiene così tanto a venire, da aver affidato a te, il suo figlio prediletto, il compito di annunciarlo. Non avresti qualcosa di meglio da fare? Tu sai che non sempre mi risulta gradevole sapere che sta per venire; mi sento minacciato dalla sua vicinanza, il suo arrivo imminente mi inquieta. Temo il Dio che è il mio avvenire! Fammi capire che non mi rimane se non preparare la sua venuta, perché Egli non cambierà certo di parere. Mi turba, Gesù – non te lo posso nascondere – un Dio così impegnato con me, così insistente; non posso liberarmi da Lui così facilmente come vorrei. Vorrei, piuttosto, poterlo incontrare quando ne ho bisogno, conoscere dove dimora, se ritardasse, giungere fino a Lui se lo cerco; preferirei che non si disturbasse per me, se la sua assenza non mi turba, se non mi affligge la sua lontananza. Come fuggire da un Dio che pensa di raggiungermi, in qualunque posto mi trovi, dovunque io vada?
Vorrei farti spazio nella mia vita, darti il posto che cerchi e che so che ti tocca. Ma ho paura di te, Signore. Temo di perdermi se ti incontro; presento che il tuo dominio mi libererebbe da tante cose a cui sono attaccato e da tanti affetti per cui ho lottato. Credo di essere arrivato ad un momento in cui detesto la tensione interiore; per non patire a causa delle mie passioni, passo il mio tempo coltivando gusti diversi. Non è che non ti voglia bene, il problema è che ho paura di doverti subire, se mi consegno al tuo volere. Non è che non ti desideri, è che bramo vivere tranquillo; riconosco che il prezzo che pago è alto, ma preferisco non sentire troppe emozioni, in modo tale da vivere agitato e confuso. Non so se mi capirai; sento che non sei d’accordo. Ma sono così ed eccomi qua: ho paura di amarti, perché temo più ancora di patire per te.
Dammi, Signore, quel che vuoi vedere in me, quando verrai da me. So bene che, per quanto ti aspetti, non riuscirò ad attenderti come dovrei. Per quanto sia grande il bisogno che ho di te, anche se è insaziabile la nostalgia che sento di Te, non basterà per farti la accoglienza che ti meriti. Dammi la fede che mi chiedi, perché mi converta alla tua volontà; non ritardare la tua venuta, perché solo Tu, che solleciti la mia conversione, puoi farla divenire realtà.
«Quando mi sono dato a questa parte di sacro ministero [la direzione dell’Oratorio]
intesi di consacrare ogni mia fática alla maggiore gloria di Dio e a vantaggio delle anime…
Dio mi ajuti di poter così continuare fino all’ultimo respiro di mia vita ».[c2]
[c1] P. Chávez, «Testimoni della radicalità evangelica». Chiamati a vivere in fedeltà il progetto apostolico di Don Bosco. «Lavoro e Temperanza», ACG 413 (2012) 26.
[c2] G. Bosco, «Introduzione al Piano di regolamento per l’Oratorio maschile di San Francesco di Sales», en P. Braido (ed.), Don Bosco Educatore. Scritti e testimonianze(LAS, Roma 21992) 110.
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Profeta.
Lodi Costruttore e restautore della vita fraterna
Il tema della nostra giornata é la profezia della vita fraterna, secondo tratto tipico del “profilo del nuovo salesiano”. La vita fraterna, infatti, “è profezia in atto nel contesto di una società che, talvolta senza rendersene conto, ha un profondo anelito ad una fraternità senza frontiere” (VC 85). Prima di essere un obbligo da adempire, la fraternità è una grazia per cui restare grati e da cui vivere.
Vogliamo contemplarla ed accoglierla come l’ha voluta Dio, anzi, come Egli la vive intimamente e ce la offre come dono. Essendo la vita fraterna “spazio umano abitato per dalla Trinità”, contribuisce “efficacemente a tener viva nella Chiesa l'esigenza della fraternità come confessione della Trinità” (VC 4). Ma perché la nostra vita in comune sia profezia, deve essere evangelizzata, vissuta cioè in conformità con le esigenze di Gesù.
Gesù chiese ai suoi discepoli di abbandonare famiglia e casa, rinunciare al lavoro e ai beni. Camminare nella vita senza l’unico appoggio sociale che la propria famiglia garantiva era un’esigenza insolita. Chi l’avrebbe accolta non sarebbe rimasto però orfano. Gesù pensò per lui una nuova vita famigliare, dove “stare con lui” fosse l’unico vero focolare.
In questa mattinata si centreremo nel racconto del primo incontro di Gesù con la sua famiglia, appena cominciato il ministero pubblico. Famigliari (Mc 3,20-21) e nemici (Mc 3,22-30; cfr. Mt 12,22-32; Lc 11,14-23) si uniscono nel rigetto di Gesù e della sua missione. Gli uni, la famiglia, con indubbio interesse per la persona di Gesù; gli altri, i letterati di Gerusalemme, con la freddezza di un ragionamento teologico.
A coloro che chiamò perché stessero con lui (Mc 3,14) offrì la possibilità di essere uno dei suoi (Mc 3,21). Il compagno di Gesù può diventare suo fratello. Con una condizione ben precisa: che si dedichi a dargli ascolto. La familiarità con Gesù nasce dall’ascoltarlo. La fraternità tra gli ascoltatori, dallo stare con lui e lasciargli parlarci.
2. Due compiti per curare la vita fraterna
Nata la vita comune dall’ascolto di Gesù con cui si convive, la si deve curare seguendo norme ben concrete del Signore: indebitato di amore verso i suoi fratelli (cfr. Rm 13,8), il discepolo deve vivere interessato per il fratello e, se ha sbagliato, gli deve correzione e perdono.
La vita cristiana conosce le offese tra fratelli. Negare la fraternità a chi ci ha offeso (ignorare l’offensore) o fingere di non sentirci addolorati per l’offesa (ignorare l’offesa) sono le nostre reazioni più frequenti. Gesù vuole un altro modo di fare: prima di essere perdonato senza limiti (Mt 18,21-22), l’offensore dev’essere corretto opportunamente (Mt 18,15-18). Prima di accettare il fratello così com’è, bisogna fare l’impossibile perché sia migliore. Solo la correzione valorizza dovutamente l’offesa e colui che la reca. Il fratello corretto è il fratello più stimato, poiché lo si ama più di quanto si merita.
In una comunità dove il male commesso trova ripetuto perdono, il male non ha mai l’ultima parola. Che Gesù si aspetti dai suoi un perdono fraterno senza limiti non significa che condoni o passi sotto silenzio il male nella comunità. E infatti il da lui desiderato perdono illimitato (Mt 18,21-22) arriva dopo l’imposizione di un procedimento per ottenere la correzione del peccato (Mt 18,15-20). Perdonare non significa sottovalutare il male. Anzi, perdonare è un modo di affermare il male come realtà contestandogli però il suo potere, la malizia: un male non riconosciuto non può essere perdonato. Il perdono concesso fa del bene, prima che all’offensore, a chi è stato maltrattato.
3. Obiettivi del giorno
Per diventare profezia la nostra vita comunitaria deve riuscire ad essere fraternamente evangelica. Non solo fraterna! Scopo di questo giorno sarebbe riflettere sul modo quotidiano come viviamo in comunità e verificare se risponde alla volontà di Gesù. Scoprire le cause – istituzionali prima che personali – dell’evidente incapacità per stare insieme ascoltando Gesù (la radice del dis-ordine) ci aiuterà a prendere le decisioni più adeguate a risanare la vita fraterna (organizzare la vita secondo il vangelo).
Durante la mattina, ci domanderemo se ascoltare Dio è la nostra prima occupazione, la più sentita preoccupazione, se l’organizzazione del nostro lavoro apostolico e della vita in comune lascia spazi, e voglia, per trovarci “da soli con Lui e riposare insieme” (cfr. Mc 6,31). Ci dovremmo pure chiedere se fondiamo la nostra vita comune sul comune ascolto della Parola e cosa potremmo fare ancora perché così rimanga. Se stare con lui ci permette di ascoltarlo di più; e se ascoltarlo ci porta a costruire comunità fraterne.
Nel pomeriggio, ascoltando Gesù che ci insegna come correggere chi ci offenda e che non possiamo negare mai il perdono, dovremmo illuminare la nostra forma di vivere in comune la comune missione. Nelle nostre comunità si esercita ancora la correzione fraterna? Di solito, cosa più rispettiamo il fratello che ha sbagliato o la volontà del nostro Signore? Como mostrare che amiamo il fratello se non ci interessa che sia migliore? Anche se primo, correggere non è l’unico, né il più decisivo, compito cristiano: se vogliamo conservare il perdono già datoci da Dio, non potremmo smettere mai di perdonare chi ci ha offeso.
L’ultima menzione di Maria nel NT ci la mostra condividendo vita e preghiera con gli apostoli, prima ancora della discesa dello Spirito (At 1,13). Maria è a casa di tutti quanti si sanno inviati al mondo (At 1,11), ma si danno da fare per ristabilire la vita comune (At 1,21-22). Sia Lei ad accompagnare la nostra vita di preghiera e ci aiuti a sanare di radice la vita fraterna.
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Costruire comunità, ascoltando Gesù
(Mc 3,20-21.31-35)
Dove e come nasce la famigliarità tra cristiani? La tradizione evangelica è parca nella trasmissione di notizie circa la famiglia di Gesù secondo la carne. Mc 3,31-35 è indubbiamente il testo più esplicito (cfr. Mt 12,46-50; Lc 8,19-21; Gv 2,1.12; 7,3-5). Ma contrappone polemicamente i parenti di Gesù alla sua nuova famiglia, i discepoli.
1. Il racconto evangelico
Dopo aver eletto i Dodici sul monte (Mc 3,13-14), Gesù ritorna alla sua casa di Cafarnao (Mc 3,20). Tanti erano coloro che lo attorniavano che non riusciva nemmeno a mangiare… Presumibilmente, non era il numero di persone, ma il cumulo delle loro necessità da accudire ciò che non lasciava libero Gesù (Mc 3,20b): dovendo occuparsi dalla gente, Gesù non si curava di se stesso. La necessità che ha di lui la gente gli impedisce di soddisfare il proprio bisogno (Mc 3,20). E non sarà l’ultima volta (cfr. Mc 6,31).
Questa attività così disordinata preoccupa – logicamente – i suoi parenti. Un successo così clamoroso scandalizza i nemici. La prima critica spunta sulla bocca dei suoi (Mc 3,21). Gli avversari, venuti da lontano, non faranno altro che approfondirla dotandola di argomenti teologici, meno pii nei suoi riguardi, più efficaci davanti alla gente (Mc 3,22). La controversia con gli scribi (Mc 3,22-34), il confronto più serio tra quelli fin qui narrati da Marco, è inquadrata nel distacco tra Gesù e i suoi: in un primo momento, i familiari dichiarano il loro stupore (Mc 3,20-21); alla fine, sarà Gesù che stabilisce nettamente la separazione (Mc 3,31-35).
La scena si svolge in tre atti. Il primo (Mc 3,20-21) serve per collocare l’azione e insinuare il tema del rigetto di Gesù. Nel secondo, più elaborato (Mc 3,22-30), Gesù si difende dall’accusa di connivenza con Belzebù (Mc 3,22.30) con un discorso parabolico (Mc 3,23-27) che si chiude con una solenne presa di posizione (Mc 3,28-29): non ha perdono chi non lo riceve. Il terzo atto (Mc 3,31-35) tratta dell’autentica famiglia di Gesù. L’attacco degli scribi, nella sua posizione attuale, separa le due scene in cui si narra l’incredulità dei famigliari di Gesù e la loro esautorazione pubblica. Invece di attenuare il conflitto con la famiglia, tutto il racconto lo sottolinea: l’incomprensione dei suoi introduce e dà il tono a tutta la scena.
2. Alcuni rilievi
Dedito totalmente agli altri, Gesù non prende cura di se stesso. Il fatto giunge agli orecchi dei suoi, che non possono capire le ragioni che spingono Gesù a condurre una simile vita (Mc 3,21). E partono da Nazaret, dove probabilmente risiedono, per recarsi a Cafarnao, dove lui si ospitava. Con una chiara intenzione: portarselo via con loro. Il proposito dei suoi non è tanto amichevole: volevano riportarlo a casa e allontanarlo con la forza da quel che stava facendo.
La cattiva opinione dei suoi parenti (Mc 3,20-21)
In realtà, il giudizio che si sono fatti su Gesù è grave. Pensano che sia fuori di sé. L’opinione dei suoi famigliari può nascondere la loro convinzione che Gesù sia sotto dominio diabolico, giacché tra i giudei la alienazione era considerata frutto di possesso demoniaco (cfr. Gv 7,20; 8,45.52; 10,20-21). Anche se così non fosse, l’affermazione lascia intravedere l’incomprensione che Gesù, fin dagli inizi della sua missione, ha incontrato nella sua stessa famiglia (cfr. Gv 7,5: “Neppure i suoi fratelli infatti credevano in lui”).
La notizia, troppo penosa per essere stata inventata dalla comunità cristiana, riflette bene la situazione prepasquale in cui pochi, famiglia compresa, credettero nella missione personale di Gesù. Certamente non la condivisero. La tradizione evangelica è unanime nell’annotare la presa di distanza di Gesù nei confronti della sua famiglia durante il ministero pubblico. Tale distacco è assai verosimile. Dedito così pienamente alle cose del Regno, Gesù poté dare ai suoi congiunti l’impressione di essere fuori di testa: pieno di Dio, fuori di sé. Occupato con il regno, va avanti senza il tempo di occuparsi di se stesso. Nella sua anima vi è posto solo per Dio…, e ciò sorprende quelli che meglio lo conoscono! Una maggiore famigliarità, la conoscenza più esauriente, non sempre risulta vantaggiosa per la fede.
Una grave accusa dei suoi nemici (Mc 3,22-30)
Mentre i parenti si mettono in cammino (Mc 3,21.35), giungono scribi da Gerusalemme con intenzioni non certo migliori. Non fanno giri di parole, passano subito ad accusarlo, nientemeno, di possessione diabolica (Mc 3,22).
[Anche se nell’intenzione di Marco lo scontro di Gesù con gli scribi è decisivo per capire la sua rottura con la propria famiglia, tralasciamo l’episodio, il cui commento si trova nei foglietti, per centrare la riflessione sul nostro tema: quale è la vera famiglia di Gesù.]
Famigliare di Gesù, solo chi obbedisce a Dio (Mc 3,31-35)
La famiglia di Gesù riappare, appena terminata la polemica sulla presunta possessione di Gesù. I suoi arrivano da fuori e scelgono di rimanere fuori dalla casa dove risiede Gesù. Lo mandano a chiamare (Mc 3,31). Il loro modo di comportarsi, anche se è comprensibile (Mc 3,21), li rivela distanti, estranei a quanto sta realizzando Gesù. Non lo cercano, lo richiedono. Non lo seguono, vogliono che sia lui a seguirli. Non entrano nella sua casa, vogliono che ritorni con loro. Sono rimasti fuori della dimora di Gesù…, e rimarranno fuori del suo cuore.
La notizia dell’arrivo della sua famiglia, che pare numerosa, trova Gesù attorniato da una moltitudine di discepoli, seduti attorno a lui (Mc 3,32). Si accenna, così, alla differenza di atteggiamenti dei famigliari e dei discepoli di fronte a Gesù: i famigliari devono cercarlo per vederlo, i suoi ascoltatori vivono attorno a lui. Chi lo cerca, vuol dire che non lo ha. Chi lo ascolta si mantiene alla sua presenza.
Al corrente della presenza della sua famiglia e delle loro intenzioni, Gesù si dirige alla folla, non ai suoi (!), con una domanda che prepara la sua presa – sorprendente, scandalosa – di posizione. Sembra non degnare nemmeno di uno sguardo i suoi. Il semplice domandarsi in pubblico implica un affronto notorio (Mc 3,33): indica un non riconoscere gli arrivati; non accetta le loro pretese su di lui. essa non è riuscita a capire quel che stava facendo e si è sbagliata a giudicarlo (Mc 3,21).
Gesù ha dei buoni motivi. Riconosce come sua famiglia solamente quelli che in quel momento siedono attorno a lui. Adesso veramente, lo sguardo di Gesù, un tratto tipico di Marco (Mc 3,5.34; 5,32; 9,8; 10,23; 11,11), precede le sue parole (Mc 3,34): ha voluto che li scopra il suo cuore, prima ancora che li proclamino le sue parole. Rende in questo modo pubblici, e di fronte alla sua famiglia carnale, i suoi sentimenti. La rottura di Gesù con i suoi non viene taciuta, né potrebbe essere più netta.
Il motivo che ne adduce rende ancora più patente la distanza che li separa. La questione non è che egli non voglia occuparsi di loro, ma il caso è che essi non prestano ascolto a Dio. Non è che egli non voglia loro bene, è che essi non cercano la parola di Dio. Cercano Gesù, ma non sono tra coloro che cercano la volontà di Dio. Gesù non si lascia prendere, quindi, da affetti personali, né da vincoli di consanguineità. Dio è colui che regge le sue parole…, e i suoi sentimenti! Egli ama coloro che fanno la volontà di Dio. E’ l’obbedienza a Dio, e non i sentimenti anche più sacri, il fattore decisivo per diventare suo famigliare. Il fatto di optare per il Regno lo ha reso orfano. Optare per Dio gli darà una nuova famiglia. Così si comporta l’evangelizzatore del regno.
E’ vero che Gesù non presenta, senz’altro, i suoi discepoli come la sua vera famiglia. Nemmeno rinnega la propria, solo perché non gli è stata vicina. Insegna, piuttosto, a chiunque voglia ascoltarlo, qual è il cammino per diventare suo familiare e formare con lui una nuova famiglia. Chi fa la volontà di Dio è oggetto del suo amore. I servi di Dio sono i fratelli di Gesù e sua madre. Quando più tardi Gesù obbligherà i suoi discepoli a rinunciare alla propria famiglia (cfr. Mc 10,28-30), la sua esigenza, per quanto dolorosa, era per lui un fatto abituale ed era nota ai suoi. Sarà chiaro ai suoi discepoli che prima di esigere da loro simile sacrificio, lo aveva fatto lui, e in pubblico.
Con la sua ultima affermazione Gesù riduce un po’ il conflitto familiare (Mc 3,35: “Chi fa la volontà di Dio, costui è per me fratello, sorella e madre”), dato che non mette direttamente a confronto famiglia e discepoli. Questi non sono nemmeno apparsi in tutta la scena. Gesù non opta per un gruppo, ma per tutti coloro che lo prendono sul serio, lo attorniano ascoltandolo seduti e sono in accordo con Dio. Non vi è dunque che un solo modo di ottenere l’affetto di Gesù, fare la volontà del suo Dio. Egli considera come familiare chiunque ha familiarità con la volontà di Dio.
Chi oggi ascolta l’affermazione di Gesù non ha motivo di invidiare i primi discepoli, né di sentire compassione per la famiglia naturale di Gesù. Per essi, infatti, e per noi oggi, rimane aperta una possibilità di essere sua madre, suo fratello o sua sorella. Fare la volontà di Dio farebbe di noi la famiglia del Maestro. Vivere intorno a Gesù, che fa di tutto per farsi ascoltare, significa entrare nel circolo dei suoi intimi: Gesù ama veramente coloro che veramente amano Dio. Quel che è stato precluso ai famigliari storici è alla portata dei discepoli obbedienti. Oggi come ieri. Vivere prestando ascolto a Gesù, Parola di Dio, è la culla della vita fraterna.
[Ricordare il lavoro spirituale già accennato, cfr. Secondo giorno. Presentazione, pag. 2].
Per Maria il rifiuto pubblico di Gesù dovette essere più doloroso, perché non le era stato rivolto in esclusiva, ma raggiungeva tutta la sua famiglia. Però Maria (Mc 1,38) e Giuseppe pure (Mt 1,24) sapevano bene quanto costa essere madre e padre di Gesù: un privilegio che avevano pagato con una assoluta obbedienza. Chiediamo a Maria si insegne ad vivere ascoltando, nel cuore, con il cuore, Gesù, e poter così diventare sua famiglia: avremo la gioia di trovare la madre di Gesù, se ci ritroviamo in famiglia con Lui.
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Costruttore e restauratore della vita fraterna
“La vita di comunione rappresenta il primo annunzio della vita consacrata,
poiché è segno efficace e forza persuasiva che conduce a credere in Cristo.
La comunione, allora, si fa essa stessa missione”.[d1]
Oggi prendiamo come tema di contemplazione e motivo di preghiera la profezia della vita fraterna, secondo tratto tipico del “profilo del nuovo salesiano”. La vita fraterna, infatti, “è profezia in atto nel contesto di una società che, talvolta senza rendersene conto, ha un profondo anelito ad una fraternità senza frontiere”.[d2] Esperti in comunione, siamo chiamati ad essere “nella Chiesa, comunità ecclesiale e, nel mondo, testimoni e artefici di quel «progetto di comunione» che sta al vertice della storia dell’uomo secondo Dio” per divenire in questo modo, cioè comunitariamente, en “segno profetico dell'intima comunione con Dio sommamente amato”.[d3]
Vogliamo vederla ed accoglierla come l’ha voluta Dio, anzi, come Egli la vive intimamente e ce la offre come dono. Essendo la vita fraterna “spazio umano abitato por dalla Trinità”, contribuisce “efficacemente a tener viva nella Chiesa l'esigenza della fraternità come confessione della Trinità”.[d4] Prima di essere un dovere da compiere, la fraternità è una grazia di cui essere grati e di cui vivere. Esaminando bene i vari elementi, vogliamo evangelizzare la nostra vita fraterna, cioè conformare la nostra vita in comune alle esigenze di Gesù e cessare di continuare a misurarla secondo le nostre voglie, i nostri progetti o le nostre necessità.
Gesù chiese ai suoi discepoli di abbandonare famiglia e focolare, rinunciare al lavoro e ai beni, vivere senza vincolo alcuno. Camminare nella vita senza l’unico appoggio sociale che garantiva la propria famiglia risultava un’esigenza radicale, insolita. Ma chi l’avrebbe seguita non sarebbe rimasto orfano. Gesù pensò per lui una nuova vita famigliare, dove “stare con lui” fosse un focolare unico e ancora migliore. Questa nuova comunità doveva nascere dall’ascolto del Padre e dal seguire precise istruzioni del Figlio.
Il primo incontro di Gesù con la sua famiglia, appena cominciato il ministero pubblico, non potrebbe essere più impressionante. E’ raccontato in modo da sottolineare una netta rottura tra Gesù e i suoi. Famigliari (Mc 3,20-21) e nemici (Mc 3,22-30; cfr. Mt 12,22-32; Lc 11,14-23) si uniscono nel rigetto, fin dall’inizio, di Gesù e della sua missione. Gli uni, la famiglia, con indubbio interesse per la persona di Gesù; gli altri, i letterati di Gerusalemme, con la freddezza di un ragionamento teologico. Rimangono a Gesù solo i suoi discepoli, con cui condivide insegnamento e sentimenti. Essi costituiscono ora la sua famiglia.
A coloro che chiamò perché stessero con lui (Mc 3,14) offre allora la possibilità di essere essi uno dei suoi (Mc 3,21): il compagno di Gesù può diventare suo fratello. Con una condizione ben precisa: che si dedichi ad ascoltarlo. E posto che la vita di fraternità nasce dall’ascoltare tutti insieme Gesù, sorgerà là dove ci si occupi di sentirlo parlare di Dio e del suo regno. Chi vive dove lo vuole Gesù, non può vivere come gli pare e piace (cfr. Gv 15,14-16).
2. Due compiti per restaurare la vita fraterna
Vivere in comunità obbliga il discepolo di Cristo a vivere permanentemente indebitato di amore verso i suoi fratelli (cfr. Rm 13,8): dovrà sempre loro attenzione e vicinanza e, se hanno sbagliato, correzione e perdono.
La vita cristiana conosce le offese tra fratelli. E’ un fatto ricorrente, così normale che noi che viviamo in comune ci siamo abituati a ciò. Negare la fraternità a chi ci ha offeso (ignorare l’offensore) o fingere di non sentirci addolorati per l’offesa (ignorare l’offesa) sono le nostre reazioni più frequenti. Gesù vuole un altro modo di fare: prima di essere perdonato senza limiti (Mt 18,21-22), l’offensore dev’essere corretto opportunamente (Mt 18,15-18). Prima di accettare il fratello così com’è, bisogna fare l’impossibile perché sia migliore.
Un peccato che fosse perdonato senza prima aver tentato di correggerlo sarebbe una offesa poco valorizzata. Una mancanza non rilevata non è, solo per questo, impercettibile. Il fratello corretto è il fratello più stimato, posto che lo si ama più di quanto si merita, migliore di quello che è . A chi costa fatica la correzione fraterna o gli dà fastidio ammonire, e per questo evita di farlo, si vede che non gli importa troppo del suo offensore, per quanto lo addolori l’offesa. Solo la correzione valorizza dovutamente l’offesa e colui che la reca.
In una comunità dove il male commesso trova ripetuto perdono, il male non dice mai l’ultima parola. Il male è vinto non perché cessa per sempre, ma perché non rimane mai senza risposta. Orbene, il fatto che Gesù si aspetti dai suoi un perdono fraterno senza limiti non significa che condoni o passi sotto silenzio il male nella comunità. Il desiderato perdono illimitato (Mt 18,21-22) arriva dopo l’imposizione di un procedimento per ottenere la correzione del peccato (Mt 18,15-20). Perdonare non significa sottovalutare il male. Anzi, perdonare è un modo di affermare il male come realtà negandogli il potere, la malizia: un male non riconosciuto non può essere perdonato. Chi perdona non si lascia vincere dal male che gli si arreca, ma non tralascia di riconoscere che gli si sta facendo del male. Il perdono concesso fa del bene, prima che all’offensore, a colui che è stato maltrattato.
“Quando in una Comunità regna questo amore fraterno,
e tutti i soci si amano vincendevolmente, e ognun gode del bene dell’altro, come se fosse un bene proprio, allora queela casa diventa un Paradiso…
Molto si compiace il Signore di vedere abitare nella sua casa i fratelli in unum, cioè in una sola volontà di servire a Dio e di aiutarsi con carità gli uni agli”.[d5]
Costruire comunità, ascoltando Gesù
(Mc 3,20-21.31-35)
La vita consacrata “nasce dell’ascolto della Parola di Dio
e accoglie il Vangelo come sua norma de vita”.[d6]
Dove e come nasce la famigliarità tra cristiani? La tradizione evangelica è parca nella trasmissione di notizie circa la famiglia di Gesù secondo la carne. Mc 3,31-35 (cfr. Mt 12,46-50; Lc 8,19-21; Gv 2,1.12; 7,3-5), che è indubbiamente il testo più esplicito, contrappone polemicamente i parenti di Gesù alla sua nuova famiglia, i discepoli.
Appena cominciato il suo racconto, Marco è riuscito ad aumentare la tensione intorno a Gesù narrando l‘incapacità di comprenderlo e la facilità a condannarlo di due gruppi così disparati come possono essere le persone che gli sono più vicine, i suoi famigliari, e alcuni maestri della legge, venuti da Gerusalemme. Non gli è rimasto che un gruppo ridotto di discepoli, che continuano ad ascoltarlo… E’ significativo che tutto ciò succeda in casa (Mc 3,20): è in gioco l’appartenenza di Gesù a Dio (Mc 3,24-27) e l’appartenenza a Gesù di quanti ne condividono la vita e il progetto (Mc 3,34-35).
1. Capire il testo
Dalla solitudine del monte (Mc 3,13) Gesù ritorna a Cafarnao. Ha appena eletto i Dodici e ritorna alla casa che si è scelto (Mc 3,20). Si suppone che lo accompagnano i discepoli, anche se al redattore interessa solamente segnalare la presenza massiccia della folla (cfr. Mc 3,32). Tanti erano coloro che lo attorniavano che non riusciva nemmeno a mangiare… Presumibilmente, non era il numero di persone, ma il cumulo delle loro necessità da accudire ciò che non lasciava libero Gesù (Mc 3,20b): dovendo accudire la gente, Gesù non si curava di se stesso. La necessità che ha di lui la gente gli impedisce di soddisfare il proprio bisogno: non trova tempo nemmeno per mangiare (Mc 3,20). E non sarà l’ultima volta (cfr. Mc 6,31).
Questa attività così disordinata preoccupa – logicamente – i suoi parenti. Un successo così clamoroso scandalizza i nemici. La prima critica spunta sulla bocca dei suoi (Mc 3,21). Gli avversari, venuti da lontano, non faranno altro che approfondirla dotandola di argomenti teologici, meno pii nei suoi riguardi, più efficaci davanti alla gente (Mc 3,22). La controversia con gli scribi (Mc 3,22-34), un confronto più serio di quelli fin qui narrati da Marco, è inquadrata nel distacco tra Gesù e i suoi: in un primo momento, sono essi che dichiarano il loro stupore (Mc 3,20-21); alla fine, sarà Gesù che stabilisce nettamente la separazione (Mc 3,31-35).
La scena si svolge in tre atti. Il primo (Mc 3,20-21) serve per collocare l’azione e insinuare il tema del rigetto di Gesù. Nel secondo, più elaborato (Mc 3,22-30), Gesù si difende dall’accusa di connivenza con Beelzebùl (Mc 3,22.30) con un discorso parabolico (Mc 3,23-27) che si chiude con una solenne presa di posizione (Mc 3,28-29): non ha perdono chi non lo riceve. Il terzo atto (Mc 3,31-35) tratta dell’autentica famiglia di Gesù. L’attacco degli scribi, nella sua collocazione attuale, separa le due scene in cui si narra l’incredulità dei famigliari di Gesù e la loro esautorazione pubblica. Invece di attenuare il conflitto con la famiglia, tutto il racconto lo sottolinea: l’incomprensione dei suoi introduce e dà il tono a tutta la scena.[d7]
20 Entrò in una casa e di nuovo si radunò una folla, tanto che non potevano neppure mangiare.
21Allora i suoi, sentito questo, uscirono per andare a prenderlo; dicevano infatti: «E’ fuori di sé».
22 Gli scribi, che erano discesi da Gerusalemme, dicevano:
“Costui è posseduto da Beelzebùl e scaccia i demòni per mezzo del capo dei demòni.”.
23 Ma egli li chiamò e con parabole diceva loro:
«Come può Satana scacciare Satana? 24 Se un regno è diviso in se stesso, quel regno non può restare in piedi; 25 se una casa è divisa in se stessa, quella casa non potrà restare in piedi. 26 Anche Satana, se si ribella contro se stesso ed è diviso, non può restare in piedi ma è finito. 27Nessuno può entrare nella casa di un uomo forte e rapire i suoi beni, se prima non lo lega. Soltanto allora potrà saccheggiargli la casa. 28In verità io vi dico: tutto sarà perdonato ai figli degli uomini, i peccati e anche tutte le bestemmie che diranno; 29 ma chi avrà bestemmiato contro lo Spirito Santo non sarà perdonato in eterno: è reo di colpa eterna.»
[30 Poiché dicevano: «E’ posseduto da uno spirito impuro»].
31 Giunsero sua madre e i suoi fratelli e, stando fuori, mandarono a chiamarlo. 32 Attorno a lui era seduta una folla, e gli dissero:
“ Ecco, tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle stanno fuori e ti cercano”.
33 Ma egli rispose loro:
“Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?”
34 Girando lo sguardo su quelli che erano seduti attorno a lui, disse:
“Ecco mia madre e i miei fratelli!
35 Perché chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre”.
La cattiva opinione dei suoi parenti (Mc 3,20-21)
Dedito totalmente agli altri, Gesù non prende cura di se stesso. Il fatto giunge agli orecchi dei suoi. Non possono capire le ragioni che spingono Gesù a condurre una simile vita (Mc 3,21). Al narratore non interessa annotare come l’hanno saputo. Preparando l’incontro di Mc 3,31, fa pensare che siano partiti dalla casa paterna a cercarlo, ora che sapevano che risiedeva in un’altra casa. Avevano l’intenzione di portarselo via con loro. Le intenzioni dei suoi non si presentano come molto amichevoli: volevano riportarlo a casa e allontanarlo con la forza da quel che stava facendo.[d8]
In realtà, il giudizio che si sono fatti di Gesù è grave. Pensano che sia fuori di sé. L’opinione dei suoi famigliari può nascondere la loro convinzione che Gesù sia sotto dominio diabolico, giacché tra i giudei la alienazione era considerata frutto di possesso demoniaco (cfr. Gv 7,20; 8,45.52; 10,20-21). Anche se così non fosse, l’affermazione lascia intravedere l’incomprensione che Gesù, fin dagli inizi della sua missione, ha incontrato nella sua stessa famiglia (cfr. Gv 7,5: “Neppure i suoi fratelli infatti credevano in lui”).
La notizia, troppo penosa per essere stata inventata dalla comunità cristiana,[d9] riflette bene la situazione prepasquale in cui pochi, famiglia compresa, credettero nella missione personale di Gesù. Certamente non la condivisero. La tradizione evangelica è unanime nell’annotare la presa di distanza di Gesù nei confronti della sua famiglia durante il ministero pubblico. Tale distacco è verosimile. Dedito così pienamente alle cose del Regno, Gesù poté dare ai suoi congiunti l’impressione di essere fuori di testa: pieno di Dio, fuori di sé. Occupato con il regno, va avanti senza il tempo di occuparsi di se stesso. Nella sua anima vi è posto solo per Dio…, e ciò sorprende quelli che meglio lo conoscono![d10] Una maggiore famigliarità, la conoscenza più esauriente, non sempre risulta vantaggiosa per la fede.
Una grave accusa dei suoi nemici (Mc 3,22-30)
Mentre i parenti si mettono in cammino (Mc 3,21.35), giungono scribi da Gerusalemme con intenzioni non certo migliori. Non fanno giri di parole, passano subito ad accusarlo, nientemeno, di possessione diabolica (Mc 3,22).
Si apre una nuova situazione e si va approfondendo il rifiuto. Quelli di Gerusalemme, nemici dichiarati di Gesù (Mc 7,1), adducono una spiegazione, adesso ‘teologica’, del potere taumaturgico di Gesù. Non negano l’evidenza, il suo operato miracoloso. L’accusa, la più grave di tutto il vangelo, è tanto più dura in quanto imprevista nel contesto immediato, dove non è stato raccontato nessun esorcismo.[d11] Suppone, quindi, una esautorazione pubblica di Gesù tanto gratuita quanto efficace.
Gli rinfacciano di essere posseduto da Beelzebùl, principe dei demoni (Mc 3,22.30). Per Marco e i suoi lettori, la accusa copre un’ignoranza totale della vera identità di Gesù (Mc,1.11); ripete, in ogni caso, un attacco noto alla tradizione evangelica.[d12] Gli si rinfaccia, inoltre, connivenza col demonio, vale a dire, di agire al suo servizio e sotto la sua autorità (Mc 3,22). Non potendo negarne l’attività taumaturgica, lo si accusa di magia demoniaca. Significativamente, è questa la prima accusa diretta che Gesù riceve, nel vangelo. La sua nuova dottrina e i suoi nuovi poteri lo rendono sospetto; non provengono da Dio ma dal suo peggiore antagonista (cfr. Mc 1,12-13).
Come ha già fatto prima (Mc 2,19-22), Gesù risponde ai suoi detrattori con una doppia ‘parabola’, il modo di esprimersi che riserva a chi non deve capirlo (Mc 4,11-12.34; 12,1). Favorendone in questo modo l’incomprensione, li condanna senza speranza, giacché non dà loro possibilità di ammenda. Solo a chi sta con lui è dato di conoscere i misteri del Regno e di essere riconosciuto da lui come famigliare (Mc 3,34).
La doppia immagine, quella del regno diviso (Mc 3,22-26) e quella della casa divisa (Mc 3,27-29), rendono assurdo l’argomento dei suoi critici. Si impone l’ovvietà: la divisione è la rovina di un regno come di una famiglia. Con efficacia Gesù argomenta partendo dal punto di vista dei suoi obiettori: se le cose stessero come essi dicono, vorrebbe dire che il regno di Satana è arrivato alla fine. Non avendo potuto mettere in discussione il suo potere taumaturgico, gli si questiona l’autorità con cui lo esercita. Gesù replica che sta combattendo contro Satana, non a nome suo. Non essendo diviso il regno di Beelzebùl, non sta lavorando per esso, Satana viene vinto.
Senza molto nesso, basandosi solo sul termine casa, Marco aggiunge una seconda parabola (cfr. Lc 11,21-22). Chi si dispone ad assaltare una casa ben custodita, deve prendere le sue precauzioni. Finché non ha immobilizzato il padrone, non riuscirà nel suo proposito: una volta legate le mani al padrone, l’assaltante può prendere il bottino. Gli indemoniati appartenevano a Satana, ma ora è giunto chi, essendo più forte, può sottometterlo e riscattarli (cfr. Mc 1,21-34; 2,1-12). La malattia nell’uomo è vista qui come carenza di Dio e non come castigo. Per questo, la scomparsa del male, grazie all’azione taumaturgica di Gesù, annuncia in modo credibile la presenza del Regno di Dio. Dove Dio si avvicina risana l’uomo: la totale guarigione dell’uomo è l’impronta che lascia un Dio che gli si è avvicinato.
Gesù prosegue la sua difesa, ora attaccando con severità. Solennemente, con la validità quasi di un giuramento, Gesù assicura l’universalità del perdono (cfr. Mt 12,31-32), ma introduce una eccezione: la bestemmia contro lo Spirito è un peccato imperdonabile; una mancanza che porta alla condanna eterna (Mc 3,28-29).
Il testo si incarica di chiarire in cosa consiste questo tipo di peccato. Affermare che Gesù ha uno spirito immondo significa negargli lo Spirito. L’affronta ha Cristo, l’unto (Mc 1,10) come motivo, poiché a lui si riferisce; ma è lo Spirito di Dio che viene offeso, non riconoscendo la sua azione nell’operato di Gesù. E questo non ha perdono. Con la sua attività di esorcista Gesù si era manifestato come figlio di Dio (Mc 1,11), possessore del suo Spirito; affrontare Gesù rifiutandosi di accettarlo così come si presenta (Mc 2,5), come dimostra di essere (Mc 2,16), è bestemmia contro lo Spirito che lo guida (Mc 1,12).
Famigliare di Gesù, solo chi obbedisce a Dio (Mc 3,31-35)
La famiglia di Gesù riappare, appena terminata la polemica sulla possessione (Spirito vs. Satana) di Gesù. Arrivano da fuori i suoi e scelgono di rimanere fuori dalla casa dove risiede Gesù. Lo mandano a chiamare (Mc 3,31). Il loro modo di comportarsi, anche se è comprensibile (Mc 3,21), li rivela distanti, estranei a quanto sta realizzando Gesù. Non lo cercano, lo richiedono. Non lo seguono, vogliono che sia lui a seguirli. Non entrano nella sua casa, vogliono che ritorni con loro. Sono rimasti fuori della dimora di Gesù…, e rimarranno fuori del suo cuore.
La notizia dell’arrivo della sua famiglia, che pare numerosa, trova Gesù attorniato da una moltitudine di discepoli, seduti attorno a lui (Mc 3,32). Come farà più avanti, il cronista cita Maria, ma senza nominarla (“sua madre”;cfr.Mc 6,3: “il figlio di Maria”). Si allude, così, alla differenza di atteggiamenti dei famigliari e dei discepoli di fronte a Gesù: i famigliari devono cercarlo per vederlo, i suoi ascoltatori vivono attorno a lui. Chi lo cerca, vuol dire che non lo ha. Chi lo ascolta si mantiene alla sua presenza.
Al corrente della presenza della sua famiglia e delle loro intenzioni, Gesù si dirige alla folla, non ai suoi (!), con una domanda che prepara la sua presa di posizione. Sembra non degnare nemmeno di uno sguardo i suoi.. Pur trattandosi di un noto procedimento pedagogico, il semplice domandarsi in pubblico implica un affronto notorio (Mc 3,33): indica un non riconoscere gli arrivati; non accetta le loro pretese su di lui. Avendo presente quanto narrato precedentemente (Mc 3,20-21), emerge qui il motivo che spiegherebbe il comportamento di Gesù come pure quello della sua famiglia: essa non è riuscita a capire quel che stava facendo e si è sbagliata a giudicarlo (Mc 3,21). Sia o no questa la ragione, il fatto è che la mancanza di riconoscimento pubblico della propria famiglia suppone una grave trascuratezza.
Gesù ha dei buoni motivi. Riconosce come sua famiglia solamente quelli che in quel momento siedono attorno a lui. Adesso veramente, lo sguardo di Gesù, un tratto tipico di Marco (Mc 3,5.34; 5,32; 9,8; 10,23; 11,11), precede le sue parole (Mc 3,34): ha voluto che li scopra il suo cuore, prima ancora che li proclamino le sue parole. Fissa la sua attenzione su di loro prima ancora che il pubblico li identifichi; rende in questo modo pubblici, e di fronte alla sua famiglia carnale, i suoi sentimenti. La rottura di Gesù con i suoi non viene taciuta, né potrebbe essere più netta. Non si tratta di non badare subito ad essi, ma di averli esautorati pubblicamente.
Il motivo che ne adduce rende ancora più patente la distanza che li separa. La questione non è che egli non voglia occuparsi di loro, ma il caso è che essi non prestano ascolto a Dio. Non è che egli non voglia loro bene, è che essi non cercano la volontà di Dio. Lo stanno cercando, ma non sono tra coloro che cercano la volontà di Dio. Gesù non si lascia prendere, quindi, da affetti personali, né da vincoli di consanguineità. Dio è colui che regge le sue parole…, e i suoi sentimenti! Egli ama coloro che fanno la volontà di Dio. E’ l’obbedienza a Dio, e non i sentimenti anche più sacri, il fattore decisivo per diventare suo famigliare. Il fatto di optare per il Regno lo ha reso orfano. Optare per Dio gli darà una nuova famiglia. Così si comporta l’evangelizzatore del regno.
E’ vero che Gesù non presenta, senz’altro, i suoi discepoli come la sua vera famiglia. Nemmeno rinnega la propria, solo perché non gli è stata vicina. Insegna, piuttosto, a chiunque voglia ascoltarlo, qual è il cammino per familiarizzare con lui. Chi fa la volontà di Dio è oggetto del suo amore. I servi di Dio sono i fratelli di Gesù e sua madre : Maria (Lc 1,38) e Giuseppe (Mt 1,24)! lo sapevano bene. Quando più tardi Gesù obbligherà i suoi discepoli a rinunciare alla propria famiglia (cfr. Mc 10,28-30), la sua esigenza, per quanto dolorosa, era per lui un fatto abituale ed era nota ai suoi. Sarà chiaro ai suoi discepoli che prima di esigere da loro simile sacrificio, lo aveva fatto lui, e in pubblico.
Con la sua ultima affermazione Gesù riduce un po’ il conflitto familiare (Mc 3,35), dato che non mette direttamente a confronto famiglia e discepoli. Questi non sono nemmeno apparsi in tutta la scena. Gesù non opta per un gruppo, ma per tutti coloro che lo prendono sul serio, lo attorniano ascoltandolo seduti e sono in accordo con Dio. Ma è evidente che prende le distanze dai suoi famigliari e dai suoi avversari: dagli uni perché credono di vantare dei diritti su di lui, magari i diritti del cuore, e dagli altri perché credono che serve a Satana, dando per scontato quel che sanno su Dio. In entrambi i casi sono i suoi avversari ad opporsi al progetto di Dio. Non vi è dunque che un solo modo di ottenere l’affetto di Gesù, fare la volontà del suo Dio. Avere il volere di Dio come il compito della vita ottiene la benevolenza di Gesù. Egli considera come familiare chiunque ha familiarità con la volontà di Dio.
Chi oggi ascolta l’affermazione di Gesù non ha motivo di invidiare i primi discepoli, né di sentire compassione per la famiglia naturale di Gesù. Per essi, infatti, e per noi oggi, rimane aperta una possibilità di essere sua madre, suo fratello o sua sorella. [d13] Fare la volontà di Dio farebbe di noi la famiglia del Maestro. Vivere intorno a Gesù, che fa di tutto per farsi ascoltare, significa entrare nel circolo dei suoi intimi: Gesù ama veramente coloro che veramente amano Dio. Quel che è stato precluso ai famigliari storici è alla portata dei discepoli obbedienti. Oggi come ieri. Vivere prestando ascolto a Gesù, Parola di Dio, è la culla della vita fraterna.
2. Applicarlo alla vita
L’insolito episodio di Gesù con la famiglia registra il crescente distacco che avvenne tra di loro, almeno durante un periodo, l’ultimo, della sua vita. Per Gesù l’ascolto di Dio era l’unica preoccupazione che vale la pena per tutta una vita; tanto da far diventare amico e familiare chi ha la Parola come causa della vita e il suo adempimento come compito di tutta la vita. Occorrerebbe chiederci in che cosa facciamo consistere la nostra intimità con Cristo: che prezzo siamo disposti a pagare per essere sua famiglia? Essere amati da Gesù, significa obbedirgli o che lui ci obbedisca?
Dovrebbe sorprenderci, e magari scandalizzarci, che la famiglia di Gesù avesse una opinione così povera su di lui, mentre andava predicando la prossimità di Dio. Non potevano comprendere che chi non ha altro alimento che fare la volontà di Dio (Gv 4,34) non trovi tempo per alimentarsi (Mc 3,20). Gesù risultò singolare ai suoi famigliari e finì per estraniarsi da loro. Fare propria la causa di Dio vuol dire perdere tutte le altre, per quanto nobili possano essere. Vivere per il Regno, come Gesù e con lui, esige di convivere in famiglia. Esiste veramente qualcosa di più sacrosanto che la famiglia? C’è qualcosa per cui vale la pena metterla in discussione?
Quelli che hanno rifiutato più fortemente Gesù sono stati coloro che, in teoria, avrebbero dovuto essere i più preparati ad accoglierlo, i maestri di Israele. Anche se non conoscevano Gesù, come lo conoscevano i suoi famigliari, conoscevano bene le leggi di Dio. E su di esse si basarono per metterne in discussione l’operato. Furono peggiori di quelli che non credettero in Gesù, poiché lo considerarono posseduto dal nemico di Dio. Non sempre la legge di Dio è una strada per incontrasi con Lui. Non è detto che sapere molte cose su Dio ci porti a sapere di essere suoi. E’ forse il nostro caso? Come gli scribi, non continuiamo a fraintendere Dio, solo perché non riusciamo a comprendere i suoi piani? Non ci azzardiamo magari a dire dove non c’è Dio, ogni volta che non possiamo incontrarlo nelle cose, nelle persone, negli avvenimenti?
Essere oggetto dell’affetto di Gesù, diventare uno dei suoi, non dovrebbe essere così difficile. Basterebbe fare la volontà di Dio e convertirci al suo volere. Maria divenne madre di Dio quando lo accudì; e visse dedicandosi, più che a suo figlio Gesù, a quel che Dio voleva da lei. Smettiamola di rivolgerci a Maria per non dover affrontare le nostre proprie responsabilità davanti a Dio. Possiamo stare alimentando una devozione a Maria che ci sta allontanando da Dio; cercare l’affetto della madre può dare luogo a un modo di vivere che non è da figli di Dio.
Se non seguiamo il suo percorso, se non diamo ascolto a Dio, tanto quando ci entusiasma con le sue promesse come quando ci delude il suo ritardo nell’adempirle, quando lo sentiamo famigliare o quando ci pare lontano, quando ci si fa presente con la sua grazia o con le sue esigenze, allora non saremo mai figli, fratelli di Gesù e familiari di Maria. E’ straordinario il prezzo da pagare? E non lo sono forse i risultati? La vergine di Nazaret vi riuscì facendosi serva del suo Dio (Lc 1,38). Perché dubitare che la sua fortuna non sia alla nostra portata, se viviamo all’ascolto di Dio e ci diamo da fare per obbedire a quanto dice? Non è impossibile essere fratello, sorella o madre di Cristo! Perché non provarci almeno? Che cosa o chi ce lo impedisce? Certamente non Gesù, che si è impegnato a volerci tali, se obbediamo al suo Dio.
3. Pregare la Parola
Signore Gesù, ti ringrazio di avermi voluto ricordare come ti è stata estranea tua madre, mentre ti dedicavi ad avvicinare il regno di tuo Padre agli uomini. Non lo avrei mai immaginato. Eri così pieno di Dio che nulla – nemmeno ciò che è più sacro – entrava nella tua mente; nulla di meglio occupava le tue mani. Mi sento sollevato. Se nemmeno la tua stessa famiglia ti accompagnò, non ti coglierà di sorpresa che spesso non l’abbia fatto nemmeno io.
Non capisco ancora bene come hai potuto esautorare pubblicamente quelli che più amavi, solo perché non amavano come te Dio, tuo Padre. Il fatto che la tua famiglia si trovi solo dove si è attenti a Dio e si compie il suo volere, mi rende più difficile ottenere il tuo affetto. Ma devo ringraziarti, per lo meno, di avermene fatto prendere consapevolezza; se hai trattato senza tanti riguardi i tuoi, non saprei perché dovrebbe essere diverso nei miei confronti, io che non sono della tua famiglia né ho ancora preso famigliarità con la volontà di tuo Padre.
Non posso credere che tu voglia trattarmi come tua madre o tuo fratello. Forse non sono disposto a pagare il prezzo che hai messo alla tua intimità. Ma permettimi di sognarla, permettimi di non dubitarne. Così potrò trovare il coraggio di mettermi all’ascolto di Dio e metterò il mio impegno nel tradurre in vita il tuo volere. Come vuoi tu. Come fece Maria.
[d1] Civcsva, Ripartire da Cristo: un rinnovato impegno della vita consacrata nel terzo millennio. Instruzione (19 maggio 2002), n. 33. “Senza essere il «tutto» della missione della comunità religiosa, la vita fraterna ne è un elemento essenziale. La vita fraterna è altrettanto importante quanto l’azione apostolica” (Civcsva, La vita fraterna in comunità. «Congregavit nos in unum Christi amor». Instrucción (2 febbraio 1994), n. 55.
[d2] Juan Pablo II, Vita consecrata. Esortazione apostolica post-sinodale (25 marzo 1996), n. 85.
[d3] Scris, Religiosi e Promozione umana. Instruzione (12 agosto 1978), n. 24.
[d4] Juan Pablo II, Vita consecrata, n. 41.
[d5] G. Bosco, Ai Soci Salesiani, Costituzioni e Regolamenti (Editrice S.D.B., Roma, 2003) 227-228. de abril de 1874, en Juan Canals – Antonio Martínez (eds.), San Juan Bosco. Obras fundamentales, BAC, Madrid 19792,657.
[d6] Benedetto XVI, Verbum Domini. Esortazione apostolica post-sinodal (30 settembre 2010), n. 83.
[d7] Questo modo di costruire il racconto, detto ‘sandwich’, è tipica di Marco; pretende creare tensione narrativa (cfr. Mc 5,21-43; 11,12-26; 14,10-21). Qui il malessere che la sua sfrenata attività suscita, tocca in pieno la sua famiglia.
[d8] Afferrare, prender con le mani. L’ evangelista userà il verbo più avanti per caratterizzare il comportamento degli avversari (cfr. Mc 6,17; 12,12; 14,1.44.46.49.51).
[d9] Matteo e Luca, infatti, che non la trasmettono, posibilmente l’hanno censurata.
[d10] Non dovette sorprendere troppo al lettore di Marco il giudizio sui familiari, poiché ormai sapeva che Gesù non aveva rispettato il sabato (Mc 1,21-28.29-31; 2,23-28; 3,1-6), né la tradizione rituale sulla purezza (Mc 1,41) né la pratica del digiuno (Mc 2,18-22), oltre ad aver ‘osato’ di perdonare i peccati (Mc 2,5).
[d11] Vedere, però, Mt 12,22-32; Lc 11,14-23, dove è il motivo principale.
[d12] Gv 7,20; 8,48.52; 10,20; cfr. Mt 9,32-34; 12,22-24; Lc 11,14-15, in relazione con una sanazione. Simile accusa era conosciuta pure dalla tradizione rabinica, cfr. b.San 43a.
[d13] L’esplicita menzione di sorella in bocca di Gesù, è verosimile, suona come costatazione della presenza di donne tra i discepoli storici di (Mc 15,40-41; Lc 8,1-3).
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Rifare la fraternità,
mediante la correzione e il perdono
(Mc 18,15-20.21-35)
In Mt 18 Gesù appare preoccupato per la vita fraterna della sua comunità. Ammette il peccato come fatto innegabile nella convivenza fraterna ma non ne scusa una dissimulazione complice né sopporta che lo si tolleri per connivenza. Un dato che in Congregazione va ricordato.
Questo pomeriggio vogliamo capire e assimilare la cura della vita comune che Gesù richiede dai suoi. La comunità cristiana, che sa di non essere esentata dal peccato, deve sapere come agire col fratello che pecca. Il fatto di non poter evitare il peccato al suo interno, non la esime dal dover affrontare il peccatore con la correzione (Mt 18,15-20) e il perdono (Mt 18,18,21-35). Significativo, l’ordine delle norme data da Gesù: è il fratello corretto colui a cui si deve il perdono. Si deve offrire la misericordia al fratello dopo che se ne è tentata la sua conversione.
1. Il testo evangelico sulla correzione fraterna
In Mt 18,15-20 Gesù esige la correzione fraterna a chi vive in comune e indica, inoltre, una precisa metodologia per metterla in pratica. Risulta così importante per lui questa pratica comunitaria della correzione, che non esita a sostenere la sua richiesta con promesse stupende.
Il nostro testo raggruppa otto sentenze, divise in due blocchi. Fratello è la parola chiave di un paragrafo che stabilisce la normativa da seguire nel trattamento dell’offesa all’interno della comunità (Mt 18,15-17).
Il fatto di stabilire un procedimento disciplinare presuppone tensioni intracomunitarie. Gesù ammette la realtà del peccato, proprio perciò da norme precise per cercare la correzione del peccatore. Dettagliando l’iter della correzione, questa diventa ineludibile: sapere cosa si deve fare fa sì che diventi imperdonabile non correggere l’offensore.
2. Alcuni rilievi
Cercare la correzione dell’offensore (Mt 18,15-17a)
Gesù desidera che nella comunità dei suoi discepoli si eserciti la correzione fraterna. E ben notato, la normativa che stabilisce non è diretta a chi esercita autorità nella chiesa, ma a chi è stato vittima del suo fratello. La correzione non è, specificamente, compito di governo, è un obbligo fondamentale tra fratelli: “Non è l’offensore, ma l’offeso, che deve cercare la riconciliazione” (Giovanni Crisostomo).
Nella vita comune non bisogna abbandonare alla sua sorte il fratello, anche se mi ha maltrattato. In realtà, la prima reazione che ci si attende dall’offeso non è quella di offrire il perdono a chi ha peccato (Mt 18,15: contro di te!), ma che ne cerchi la correzione. Proibire la vendetta non significa ignorare l’offesa. Rifugiarsi nell’indifferenza non diminuisce la mancanza. Gesù, proprio perché tiene presente il peccato tra fratelli e perché lo prende sul serio, indica il modo di correggerlo, istituendo con precisione i passi da seguire. Dicendoci come bisogna correggere e chi deve farlo, ci fa vedere quanto gli importa che ci preoccupiamo del bene di chi ci fa del male.
Bisogna rifuggire, in primo luogo, dalla pubblicità: l’offensore deve essere affrontato in privato (Mt 18,15b; cfr. Lev 19,17). Il richiamo è più una rettificazione che una reprimenda; vuole convincere e non umiliare; cerca il consenso e non di far vergognare. Il discepolo offeso deve, pertanto, persuadere il suo offensore del suo peccato in privato, perché non tanto la mancanza quanto la correzione rimanga nascosta e protetto l’onore dell’offensore. La correzione, infatti, cerca di ricuperare il fratello, facendo che l’offensore diventi prossimo e restituendolo come fratello alla comunità. Il cristiano offeso non si accontenta di esercitare la giustizia o di ristabilire l’onore, cerca di restaurare la vita comunitaria.
Con realismo, Gesù prende in considerazione, in secondo luogo, il fallimento del primo tentativo. Se il richiamo privato non ottiene la conversione, allora occorrerà rendere pubblica l’offesa e ricorrere ai testimoni. I testimoni non sono tali per confermare l’imputazione. Né appoggiano le ragioni di colui che chiede pubblicamente una rettificazione. La loro semplice presenza rende comunitaria, e pertanto più attendibile, la correzione fraterna. Ora non è solo l’offeso che si attende un cambio di condotta. L’invito a rettificare diventa in questo modo più urgente, meno scusabile.
Se non accetta la correzione, l’offensore dev’essere portato davanti alla comunità, la terza e suprema istanza. Il credente offeso non ha un’autorità maggiore cui appellare. Il ruolo della comunità non è quello di condannare. Appoggia, piuttosto, l’offeso nel suo tentativo di persuasione. L’epilogo possibile, la rottura della comunione, conferisce una gravità inusuale al terzo tentativo. Dopo di esso non vi è altra occasione di ricupero del fratello. Perché considerare gentile o pagano un credente, comporterebbe negargli comunità di vita, certificando che non vi è più nulla che lo accomuni. Ci si attende dall’offeso che non consideri fratello il suo offensore impenitente. Gli si impone la scomunica se non dalla chiesa, almeno dal fratello offeso (Mt 18,17: “sia per te”). Non è mio fratello chi mi offende e non si corregge… se io mi sono impegnato per ottenere ciò. Non è per vendetta che devo estraniarlo dalla mia vita, ma per obbedienza al mio Signore!
Il limite della vita comunitaria (Mt 18,17b)
Il peccato non corretto colloca il suo esecutore fuori dell’ambito della fraternità. Chi ha offeso il fratello, rifiutando la correzione persiste nel maltrattarlo. La misura, imposta dopo il fallimento del tentativo di riconciliazione, rivela la malizia di ogni offesa al fratello: peccare contro di lui non può restare senza conseguenze.
E’ l’offeso - non dimentichiamolo – che deve cercare la salvezza del suo offensore. Invece di lamentarsi dell’ingiuria, ingrandendo il male, deve prendersi cura del suo offensore. Indubbiamente si chiede di più a chi è stato offeso che al suo offensore. E Gesù non chiede se il fratello offeso lo vuole o no, e nemmeno se potrà farlo; gli ordina la correzione dettagliandone le tappe.
E inoltre, ciò che è più grave ancora, così come l’offeso deve cercare la correzione del suo offensore, così anche non potrà evitare la rottura con colui che non l’accetti. Il peccatore che si rinserra nel trasgredire la fraternità, esilia se stesso dalla vita comunitaria. Non merita di vivere come fratello – tra fratelli – chi non accetta la correzione nella comunità.
L’impegno di Gesù
L’esclusione di chi rifiuta la correzione è inevitabile, ma non deve essere permanente (cfr. Mt 13,37-38.41). Ciò che è definitivo è la promessa di Gesù che garantisce il successo delle decisioni e delle richieste di una comunità che si è interessata al fratello tanto da volerlo meglio di quanto è, cioè, si affanna per correggerlo. Tanto gli sta a cuore la correzione fraterna che Gesù si impegna con la comunità con tre stupende promesse.
Cielo e terra all’unisono (Mt 18,18)
Gesù qui ratifica che la decisione presa in comunità è valida anche in cielo, là sarà ratificata. Legare e sciogliere, formula tecnica biblica, esprime capacità di decidere, proibendo o permettendo. Questo potere, che è già stato concesso a Pietro (Mt 16,19: il primato!), viene ora riconosciuto alla comunità locale (Mt 18,3.10.12.13).
Prima ancora che la comunità prenda la decisione di escludere chi, rompendo la fraternità, resta impenitente, Gesù le ha assicurato che Dio appoggerà una decisione così grave. Si può essere sicuri – lo conferma Gesù – che Dio accetterà la decisione presa dalla comunità obbediente, se rimane unita e in preghiera. Perché, non dimentichiamolo, dover considerare peccatore e pubblicano un fratello è per la comunità frutto di obbedienza al suo Signore. Separarsi da chi non si corregge è una imposizione di Cristo, non un capriccio del cristiano.
La preghiera onnipotente (Mt 18,19)
Gli interventi disciplinari nella comunità non sono, quindi, semplici atti di amministrazione umana, per quanto giusti o adeguati ai fatti. Avvengono in contesto di preghiera comune: sono atti di pietà verso Dio e non gesti di vendetta nei confronti dell’offensore. Possono contare sull’approvazione divina, se sono stati eseguiti in obbedienza a Dio, alla sua presenza. La sollecitudine per il peccatore, l’impegno per la sua conversione, rimane, perciò, ancorata alla preghiera fraterna… e onnipotente! Ma, attenti: una comunità rifatta, o che almeno ha cercato di essere tale, è il requisito per la preghiera ascoltata.
Il potere della comunità orante presuppone l’armonia interna che comporta necessariamente la pratica del perdono (cfr. Mt 18,21-35). Cercare di guadagnarsi il favore di Dio senza essersi guadagnato l’animo almeno di un fratello con cui pregare è un’impresa fallimentare. La comunità raggiunge l’onnipotenza quando prega unita, anche se ha come motivo di preghiera le proprie tensioni: soltanto a esse si allude in questo contesto.
La presenza del Signore (Mt 18,20)
L’ultima motivazione include la promessa della presenza del Signore Risorto in mezzo ai suoi (cfr. Mt 28,20). La comunione di vita tra cristiani assicura la presenza di Cristo tra di essi: nel mondo, fino a che Lui ritorni, la comunità cristiana, per quanto insignificante possa essere, è la dimora del Signore, il luogo dove risiede. Ciò che rende significativa la presenza cristiana nel mondo è la presenza di Cristo nella sua comunità, non il potere né il numero dei cristiani (due o tre, cfr. At 4,32). Non è il numero, scarso, dei congregati, ma il motivo della loro riunione, il Signore, ciò che conferisce potenza alla vita comunitaria di preghiera.
Perché lo dimentichiamo, la nostra vita comune perde forza e senso… pure per noi! Cristo si fa presente in mezzo ai suoi, che devono essere credenti in pieno accordo o perché hanno ricuperato il fratello che ha peccato o perché hanno escluso l’impenitente: la comunità cristiana è il luogo dove Egli abita, se essa vive riconciliata. Non è da scordare che tale presenza è assicurata a una comunità che giudica l’impenitente e gli nega la comunione, perché è questa la norma del suo Signore.
Quelli che vogliono avere il Signore in mezzo a loro non devono essere indulgenti col peccatore in mezzo ad essi e devono pregare e vivere in comunione. Contare sul Signore tra di noi e poter contare sulla preghiera con l’onnipotenza del nostro Dio è alla portata di coloro che fanno tutto il possibile per ricuperare il fratello, correggendolo se è caduto, e per mantenere l’unità della vita comunitaria, rifiutandosi di riconoscere come fratello chi persiste nel suo peccato. Non è un’attuazione a nostro arbitrio, è una ingiunzione del nostro Signor.
3. Il testo evangelico sul perdono senza limiti
Una domanda di Pietro interrompe il discorso di Gesù (Mt 18,21) e introduce una nuova problematica: dalla correzione all’aggressore si passa al perdono fraterno; da quel che bisogna fare a quel che non si può rifiutare.
La risposta di Gesù, che si articola in due momenti, va – come il solito – più in là della domanda iniziale del discepolo: prima Gesù stabilisce un perdono senza limiti (Mt 18,21-22); poi, lo motiva con la parabola del debitore che aveva, a sua volta, dei debitori (Mt 18,23-25). Il cristiano si trova sempre in debito raddoppiato di perdono: quello di cui ha bisogno da parte di Dio e quello che egli deve al suo prossimo.
4. Alcuni rilievi
All’inizio sono stati i discepoli a domandare (Mt 18,1), ora è solo Pietro (Mc 8,29; 9,5; 10,28; 11,21). Portavoce dei discepoli, si colloca, come ha già fatto Gesù (Mt 18,15), dal punto di vista dell’offeso. La domanda non presuppone che l’offensore abbia cercato il perdono, e nemmeno che lo desideri. Il pentimento non sarà una condizione previa per il perdono.
Pietro dà per scontato che deve perdonare. Quel che gli interessa è sapere se il perdono dovuto può essere misurato o quantificato (cfr. Mt 5,21-48). Nella domanda di Pietro resta, pertanto, implicito che il perdonare, che è una cosa molto seria, deve avere una fine: sette sarebbe il limite estremo che non si deve oltrepassare. La sua disposizione era estremamente generosa.
Gesù risponde negando il modo di pensare di Pietro e chiedendo una disposizione illimitata al perdono. Non si tratta di contare per cessare di perdonare, ma di perdonare senza contare
La comunità cristiana non può assomigliare alla famiglia di Adamo, dove si conosceva la vendetta, anche se limitata (Gen 4,24). Tra credenti è il perdono a essere illimitato: solo, dove il perdono ha l’ultima parola, vince definitivamente il bene. Infatti, solo il perdono può salvare dalla rovina la comunità cristiana. E’ la sua capacità di perdonare dove risiede la novità della sua vita.
Un perdono reso possibile (Mt 18,23-35)
Mt 18,23-35, una parabola propria di Matteo, chiude il discorso. Anche se tratta del perdono, non la si deve considerare una semplice illustrazione. Di fatto, non considera il perdono illimitato al fratello ma l’obbligo di perdonare che ha chi è stato perdonato da Dio: chi non perdona non imita chi l’ha perdonato. E in questo modo scopre la ragione profonda del perdono che è dovuto, senza limiti, al fratello offensore: per perdonare bisogna avere consapevolezza di essere stati perdonati.
La parabola dipinge una situazione ben poco probabile, ammesso che sia possibile. Il debito del servo col suo signore (10.000 talenti) sarebbe difficilmente saldabile; il servo non potrebbe pagarlo in vita sua, né tutta la sua famiglia, se fosse venduta, potrebbe coprire tale valore. Più ancora, è poco verosimile che una persona ricevesse un prestito così grande o che si indebitasse così smisuratamente. L’evangelista ha voluto sottolineare la grandezza della misericordia divina: quel che deve il funzionario al suo re è, all’incirca, 100 milioni di volte quel che è dovuto a lui.
La parabola vuole illustrare non già la quantità, ma la qualità del perdono cristiano, che è senza misura. Ma Più che motivare al perdono senza limiti, svela il motivo del perdono illimitato. Colui che è chiamato a perdonare, non è padrone del suo perdono. Non potendosi liberare da questo obbligo, nemmeno può mettergli dei limiti. Nella enfatica domanda finale (Mt 18,33), la parabola svela la sua chiave: il perdonato deve perdonare. La grazia è un dono da trafficare, non una situazione da godere in solitudine. Non ci sarà una seconda opportunità per chi non perdona: gli sarà ritirata la grazia che gli era stata concessa e condannato a penare per sempre. Di fatto, sarà castigato fino a che paghi un debito…impagabile!
Gesù annuncia un Dio che è sovrano nel perdono e nell’esigenza, condona e condanna senza limiti. Chi non perdona una volta, non sarà perdonato definitivamente, per quanto sia stato perdonato tante volte. Con la parabola Gesù non ha risposto direttamente alla domanda di Pietro (Mt 18,21). Nessuno potrà pensare di aver già perdonato abbastanza, se continua ad abbisognare lui stesso di perdono. Il cristiano sarebbe libero dall’obbligo di perdonare, se non avesse bisogno del perdono di Dio.
Nessuno si condanna per il peccato di un altro, ma per essersi rifiutato di perdonare i debiti degli altri, essendo stato lui stesso previamente perdonato: chi non perdona di cuore, si condanna per sempre. Avere un Dio che perdona converte i suoi servi in perdonatori. Un Padre misericordioso richiede la misericordia ai propri figli (Mt 5,48/Lc 6,36). Dio, che alla fine condanna il suo debitore, non lo fa perché questi non ha soddisfatto il debito, ma perché non ha dato per soddisfatto il debito del fratello: la grazia ottenuta si perde, quando non si vive con gratuità, quando non si dà gratuitamente.
Con la parabola Gesù mette in guardia, in primo luogo, dalla durezza di cuore che può far perdere quel che si era già ottenuto: una grazia data che non produce compassione diventa disgrazia eterna. D’altra parte bisogna accettare che il perdono di Dio ha un limite, si può perdere una volta concesso e non perché Dio non sia disposto a darlo ma perché può ritirarlo. Una comunità che può perdere il perdono di Dio dev’essere più generosa concedendolo. Proprio perché il perdono divino ha un limite, non deve averlo il perdono fraterno.
[Ricordare il lavoro spirituale già accennato, cfr. Secondo giorno. Presentazione, pag. 2].
Non c’è nei vangeli un solo episodio in cui si metta in relazione Maria con la correzione e con il perdono tra fratelli. La Maria ‘cristiana’ degli Atti viveva in comunità, insieme agli apostoli, “perseverante e concorde nella preghiera” (At 1,13: preghiera e unanimità comunitaria vanno insieme!). La Maria ‘evangelica’ è stata ‘corretta’ da Gesù per ben due volte (Lc 8,21; 11,28) e esortata a “ascoltare la Parola di Dio e metterla in pratica”. Lei che divenne madre di Dio perché accolse le parole dell’angelo (Lc 1,38) e rimase madre di Dio perché ritenne nel cuore quanto le accadeva e non capiva (Lc 2,19.33.51), ci insegni ad avere il coraggio di obbedire Gesù e diventare zelanti custodi dei nostri fratelli (cfr. Gen 4,9).
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Rifare la fraternità
mediante la correzione e il perdono
(Mt 18,15-20.21-35)
“La santità e la missione passano per la comunità,
poiché il Signore risorto si fa presente in essa e attraverso di essa…
Il fratello e la sorella diventano in tal modo sacramento di Cristo e dell'incontro con Dio,
possibilità concreta di poter vivere il comandamento dell'amore reciproco.
Il cammino di santità diventa così percorso che tutta la comunità compie insieme...; nell'accoglienza reciproca; nella condivisione dei doni, soprattutto del dono dell'amore, del perdono e della correzione fraterna; nella comune ricerca della volontà del Signore, ricco di grazia e di misericordia; nella disponibilità a farsi carico ognuno del cammino dell'altro” [e1]
Matteo, pastore realista, si dimostra preoccupato per la vita fraterna della sua comunità. Ammette il peccato come fatto innegabile nella convivenza fraterna ma non ne scusa una dissimulazione complice né sopporta che lo si tolleri per connivenza. La comunità cristiana, che sa di non essere esente dal peccato, deve sapere come agire col fratello che pecca. Il fatto di non poter evitare il peccato al suo interno, non la esime dal dover affrontare il peccatore con la correzione e il perdono. Richiama la nostra attenzione questo Gesù che si occupa della correzione (Mt 18,15-20) prima del perdono (Mt 18,21-35): si deve offrire la misericordia al fratello dopo che se ne è tentata la conversione. E’ il fratello corretto colui a cui si deve il perdono.
I. La correzione che si deve offrire sempre
In Mt 18,15-20 Gesù esige la correzione fraterna a chi vive in comune e indica, inoltre, una precisa metodologia per metterla in pratica. Risulta così importante per lui questa pratica comunitaria della correzione, che non esita a sostenere la sua richiesta con promesse stupende.
1. Capire il testo
Il nostro testo raggruppa otto sentenze, divise in due blocchi. Fratello è la parola chiave di un paragrafo che stabilisce la normativa da seguire nel trattamento dell’offesa all’interno della comunità (Mt 18,15-17).
Il fatto di stabilire un procedimento disciplinare presuppone tensioni intracomunitarie: non solo si ammette la realtà del peccato, si dànno anche norme precise affinché il peccatore si allontani dalla sua mancanza. Dettagliando l’iter della correzione, questa diventa ineludibile: sapere cosa si deve fare fa sì che diventi imperdonabile non correggere l’offensore.
15 «Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo;
se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello;
16 se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni.
17 Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano.
18 In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo.
Cercare la correzione dell’offensore (Mt 18,15-17a)
Gesù desidera che nella comunità dei suoi discepoli si eserciti la correzione fraterna. Di fatto, stabilisce una normativa che non si dirige a chi esercita autorità nella chiesa, ma a chi è stato vittima del suo fratello. La correzione non è, specificamente, compito del governo, è un compito fondamentale di fratelli. Perché bisogna notare che “non è l’offensore, ma l’offeso, che deve cercare la riconciliazione” (Giovanni Crisostomo).
Nella vita comune non bisogna abbandonare alla sua sorte il fratello, anche se mi ha maltrattato. In realtà, la prima reazione che ci si attende dall’offeso non è quella di offrire il perdono a chi ha peccato (Mt 18,15: contro di te!), ma che ne cerchi la correzione. Proibire la vendetta non significa ignorare l’offesa. Rifugiarsi nell’indifferenza non diminuisce la mancanza. Gesù, proprio perché tiene presente il peccato tra fratelli e perché lo prende sul serio, indica il modo di correggerlo, indicando con cura i passi da seguire. Il suo interesse che si corregga l’offensore è già un indice della preoccupazione perché non si ripeta l’offesa. Dicendoci come bisogna correggere e chi deve farlo, ci fa vedere quanto gli importa che ci preoccupiamo del bene di chi ci fa del male.
Bisogna rifuggire, in primo luogo, dalla pubblicità: l’offensore deve essere affrontato in privato (Mt 18,15b; cfr. Lev 19,17). Il richiamo è più una rettificazione che una reprimenda; vuole convincere e non umiliare; cerca il consenso e non di far vergognare. Il discepolo offeso deve, pertanto, persuadere il suo offensore del suo peccato in privato, perché non tanto la mancanza quanto la correzione rimanga nascosta e rimanga protetto l’onore dell’offensore. Certo, la correzione cerca la riconciliazione individuale ma è molto più di quello, giacché implica la reintegrazione dell’offensore nella fraternità comune. La correzione, infatti, cerca di ricuperare il fratello, facendo che l’offensore diventi prossimo e restituendolo come fratello alla comunità. Il cristiano offeso non si accontenta di esercitare la giustizia o di ristabilire l’onore, cerca di restaurare la vita comunitaria.
Con realismo, Gesù prende in considerazione, in secondo luogo, il fallimento del primo tentativo. Se il richiamo privato non ottiene la conversione, allora occorrerà rendere pubblica l’offesa e ricorrere ai testimoni. I testimoni non sono tali per imputare, come se si dovesse fare carico dell’offesa per legittimare la correzione. Non appoggiano le ragioni di colui che chiede pubblicamente una rettificazione. La loro semplice presenza rende pubblica, e pertanto più attendibile la correzione fraterna. Ora non è solo l’offeso che si attende un cambio di condotta. E’ al corrente dell’offesa qualcun altro, oltre all’offeso e all’offensore. L’invito a rettificare diventa in questo modo più urgente, meno scusabile.
Se non accetta la correzione, l’offensore dev’essere portato davanti alla comunità, la terza e suprema istanza. Il credente offeso non ha un’autorità maggiore cui appellare. Il ruolo della comunità non è quello di condannare; appoggia, piuttosto, l’offeso nel suo tentativo di persuasione. L’epilogo possibile, la rottura della comunione, conferisce una gravità inusuale al terzo tentativo. Dopo di esso non vi è altra occasione di ricupero del fratello. Perché considerare gentile o pagano un credente, comporterebbe negargli comunità di vita, certificando che non vi è più nulla che lo accomuni. Ci si attende dall’offeso che non consideri fratello il suo offensore impenitente. Gli si impone la scomunica se non dalla chiesa, almeno dal fratello offeso (Mt 18,17: “sia per te”). Non è mio fratello chi mi offende e non si corregge… se io mi sono impegnato per ottenere ciò. Non è per vendetta che devo estraniarlo dalla mia vita, ma per obbedienza al mio Signore!
Il limite della vita comunitaria (Mt 18,17b)
Il peccato non corretto colloca il suo esecutore fuori dell’ambito della fraternità. Chi ha offeso il fratello, rifiutando la correzione persiste nel maltrattarlo. Il suo operato, prima la mancanza e poi il rifiuto della correzione, lo collocano fuori della vita comunitaria. La misura, imposta dopo il fallimento del tentativo di riconciliazione, rivela la malizia di ogni offesa al fratello: peccare contro di lui non può restare senza conseguenze.
E’ l’offeso - non dimentichiamolo – che deve cercare la salvezza del suo offensore, mediante un iter preciso. Invece di lamentarsi dell’ingiuria, ingrandendo il male, deve prendersi cura del suo offensore. Indubbiamente si chiede di più a chi è stato offeso che al suo offensore. Non ci si chiede se il fratello offeso lo vuole o no, e nemmeno se potrà farlo, gli si ordina la correzione dettagliandone le tappe.
E inoltre, ciò che è più grave ancora, così come l’offeso deve cercare la correzione del suo offensore, così anche non potrà evitare la rottura con colui che non l’accetti. Il peccatore che si rinserra nel trasgredire la fraternità, esilia se stesso dalla vita comunitaria: non merita di vivere come fratello – tra fratelli – chi non accetta la correzione nella comunità.
L’impegno di Gesù
Il rifiuto della comunione è una misura estrema, ma questo non significa che debba essere definitiva (cfr. Mt 13,37-38.41): finché rimane incorreggibile, l’offensore non può essere considerato fratello dall’offeso. L’esclusione di chi rifiuta la correzione è inevitabile, ma non deve essere permanente. Ciò che è definitivo è la promessa di Gesù che garantisce il successo delle decisioni e delle richieste di una comunità che si è interessata al fratello.
Cielo e terra all’unisono (Mt 18,18)
Legare e sciogliere, formula tecnica biblica, esprime capacità di decidere, proibendo o permettendo, assoggettando o liberando. Questo potere, che è già stato concesso a Pietro (Mt 16,19), viene ora riconosciuto alla comunità locale (Mt 18,3.10.12.13). Prima l’attribuzione era personale, pur essendo di portata universale. Ora l’attribuzione è data a un gruppo e la sua portata si riduce ai suoi membri. In entrambi i casi è il Signore la fonte di tale autorità e la sua legittimazione. Gesù qui ratifica che la decisione comunitaria è valida anche in cielo, là sarà ratificata.
Prima ancora che la comunità prenda la decisione di escludere chi, rompendo la fraternità, resta impenitente, Gesù le ha assicurato che Dio appoggerà una decisione così grave. Si può essere sicuri – lo conferma Gesù – che Dio accetterà la decisione presa dalla comunità obbediente, se rimane unita e in preghiera. Perché, non dimentichiamolo, dover considerare peccatore e pubblicano un fratello è per la comunità frutto di obbedienza al suo Signore. Separarsi da chi non si corregge è una imposizione di Cristo, non un capriccio del cristiano
La preghiera onnipotente (Mt 18,19)[e2]
Gli interventi disciplinari nella comunità non sono, quindi, semplici atti di amministrazione umana, per quanto giusti o adeguati ai fatti. Avvengono in contesto di preghiera comune: sono atti di pietà verso Dio e non gesti di vendetta nei confronti dell’offensore. Possono contare sull’approvazione divina, se sono stati eseguiti in obbedienza a Dio, alla sua presenza. La sollecitudine per il peccatore, l’impegno per la sua conversione, rimane, perciò, ancorata alla preghiera fraterna.
La preghiera di domanda è un tema ricorrente in Matteo (Mt 6,8; 7,7-11; 21,22). Qui si insiste che non sia solitaria e le si promette – nientemeno – onnipotenza. Una terra unita dalla preghiera di alcuni è oggetto di attenzione da parte di Dio: la comunità rifatta, o che almeno ha cercato di essere tale, è il requisito per la preghiera ascoltata.
Il potere della comunità orante presuppone l’armonia, una pace che comporta necessariamente la pratica del perdono (cfr. Mt 18,21-35). Per contare su Dio, ha dovuto contare sul fratello. Cercare di guadagnarsi il favore di Dio senza essersi guadagnato l’animo almeno di un fratello con cui pregare è un’impresa fallimentare. La comunità raggiunge l’onnipotenza quando prega unita, anche se ha come motivo di preghiera le proprie tensioni; perché a esse si allude in questo contesto in cui si chiede il perdono e si concede il potere di legare e di sciogliere.
La presenza del Signore (Mt 18,20)
L’ultima motivazione include la promessa della presenza del Signore Risorto in mezzo ai suoi (cfr. Mt 28,20).[e3] La comunione di vita tra cristiani assicura la presenza di Cristo: nel mondo, fino a che Lui ritorni, la comunità cristiana, per quanto insignificante possa essere, è la dimora del Signore, il luogo dove risiede. Ciò che rende significativa la presenza cristiana nel mondo è la presenza di Cristo nella sua comunità, non il potere né il numero dei cristiani (due o tre, cfr. At 4,32).[e4] Non è il numero, scarso, dei congregati, ma il motivo della loro riunione, il Signore, ciò che conferisce potenza alla vita comunitaria di preghiera. Se Cristo è la ragione del loro vivere in comune, Cristo è tra di loro.[e5]
Gesù Risorto, gloria del Padre (Eb 1,3; Gv 1,14), immagine del Dio invisibile (Col 1,15) è il luogo della presenza divina (Mt 1,23). Il sacro, l’ambito di Dio, non è legato a luoghi né attività, ma ad una persona, Cristo, che si fa presente in mezzo ai suoi, che devono essere credenti in pieno accordo o perché hanno ricuperato il fratello che ha peccato o perché hanno escluso l’impenitente: la comunità cristiana è il luogo dove Egli abita, se essa vive riconciliata.
Ma non bisogna dimenticare che tale presenza è assicurata a una comunità che giudica l’impenitente e gli nega la comunione, perché è questa la norma del suo Signore. Quelli che vogliono avere il Signore in mezzo a loro non devono essere indulgenti col peccatore in mezzo ad essi e devono pregare e vivere in comunione. Contare sul Signore tra di noi e poter contare sulla preghiera con l’onnipotenza del nostro Dio è alla portata di coloro che fanno tutto il possibile per ricuperare il fratello, correggendolo se è caduto, e per mantenere l’unità della vita comunitaria, rifiutandosi di riconoscere come fratello chi persiste nel suo peccato. Non è un elemento affidato al nostro arbitrio, è una ingiunzione del nostro Signor.
1.2 Applicarlo alla vita
Che posizione prendo di fronte alle offese che ricevo dai fratelli/confratelli? Mi sento addolorato e offeso o preferisco discolpare e dimenticare l’affronto? Soppeso di più quel che mi turba, l’offesa, o piuttosto colui che me l’ha arrecata, il fratello? Come vedo il fratello che mi ha offeso, come un nemico da cui difendersi, un estraneo da dimenticare, o un fratello da ricuperare? Mi rendo conto che Gesù ha imposto all’offeso la correzione del proprio offensore? Perché non ho il coraggio di correggere chi mi offende? Perché, al più, mi accontento di non sentirmi afflitto, senza preoccuparmi di chi mi ha fatto del male?
Quando ho corretto qualcuno, come l’ho fatto: con intemperanza e cattive maniere o con delicatezza e riservatamente? Cosa mi ha spinto alla correzione: lo sfogo personale e il ristabilimento del mio diritto o la correzione dell’offensore e il suo ricupero come fratello? Mi importa di più il bene di chi mi ha offeso o il male che mi ha procurato? Ricorro alla correzione, anche se non sono io l’offeso?
Ricorro ad altri, quando sono falliti i miei tentativi di correggere colui che mi ha offeso? Se faccio così, cosa cerco con questo: appoggio alla mia pretesa e consolazione al mio dolore o maggior forza per convincere del suo male chi mi ha offeso? Che cosa cerco: la sua conversione o la sua umiliazione? E quando incontro resistenza, affido alla mia comunità la faccenda, sottomettendomi anch’io al suo parere?
Oso considerare come un estraneo chi si dimostra incorreggibile? Non è vero che preferisco mostrarmi indifferente, vivere come se il mio offensore non esistesse per me, piuttosto che ritenerlo come un estraneo e straniero? Per quanto mi abbia afflitto la sua offesa, non è forse vero che non oso negargli la comunione che non si merita, se non accetta la correzione fraterna? Cosa mi prefiggo quando non disconosco come fratello l’incorreggibile? La mia vita comunitaria ne guadagna se non mi separo dall’offensore che non riconosce il suo peccato? In tal caso, a chi dovrei obbedire: ai miei (buoni) sentimenti o al mandato di Cristo?
Mi rendo conto di cosa significa che Gesù abbia promesso di convalidare la decisione presa da una comunità che, dopo aver cercato di correggere un peccatore, finisce per escluderlo vedendone la contumacia? Come l’offeso deve cercare il ricupero del fratello offensore mediante la correzione fraterna, così la comunità non può considerare suo membro chi non si pente della propria trasgressione; voglio che la mia comunità sia come la vuole Cristo?
Considero seriamente che è a questa comunità che Cristo promette onnipotenza nella preghiera, anche se sono pochi gli oranti, e assicura la sua presenza in mezzo ad essi, se rimangono uniti? Che cosa implica per la mia vita di pietà dover correggere il mio offensore? Mi preparo così alla preghiera? Dio accoglie la decisione della comunità e i suoi desideri, se è stato fatto tutto il possibile per ricuperare il fratello e anche se dovesse perderlo come fratello. Chi segue Cristo, al posto delle proprie convenienze e senza dare importanza ai propri sentimenti, si rende meritevole della compagnia del suo Signore e che siano attese le proprie necessità.
1.3 Pregare la Parola
Mi sorprende, Signore, che, prima di esigere da me un perdono senza limiti, tu mi imponga la correzione di chi mi ha offeso. Non mi aspettavo da te che dessi tanta importanza alla conversione del mio offensore; io, certamente, non lo pensavo. Mi scomoda correggere, devo ammetterlo. Preferisco, lo sai bene, non mostrare interesse davanti al male che commette il fratello; e se lo fa a me, al massimo cerco che non mi arrechi molto danno. Per questo non riesco ancora ad immaginarmi che tu affidi proprio all’offeso la correzione del suo offensore. Non mi lasci il tempo di sentirmi addolorato per l’offesa e di malanimo contro chi me la arreca. Bella maniera, la tua, di curare ferite e di ristabilire giustizia! Ti metti dal lato di chi offende – almeno così pare - quando ti preoccupi tanto di chi fa il male da cercare, in primo luogo, il suo miglioramento.
Non ti nascondo la mia perplessità; se sei rispettoso, persino delicato, col mio offensore, imponendomi che cerchi di ricuperarlo come fratello in privato, mi sembra intolleranza da parte tua che io debba considerarlo come estraneo e che gli neghi la convivenza, se rifiuta di correggersi. Il problema è che se mi risulta penoso dover correggere qualcuno, mi sembra estremamente duro doverlo allontanare dalla mia vita. E chi ti può capire, Signore? Perché mi chiedi cose così penose, così disparate? Perché mi sottometti a direttive così scomode e dure? Potresti aver tenuto più conto di me, essendo io l’offeso!
Dev’essere qualcosa di molto importante per te la fraternità, se la difendi in questo modo, non tollerando che la si conculchi indefinitamente. Certo, Signore, che se facessi mio il tuo modo di vedere la vita comunitaria, sarei più attento ai miei fratelli e al loro bene, cominciando da quelli che mi hanno offeso. Fa’ che contempli la mia comunità come Tu la contempli, che la difenda come Tu vuoi.
E perché non finisca di meravigliarmi, ci prometti di confermare quel che facciamo (legare quel che leghiamo) se facciamo quel che ci dici. Solo la nostra obbedienza ottiene la tua approvazione! Anzi, ti impegni a rendere onnipotente la nostra preghiera e onnipresente la tua presenza, se facciamo la tua volontà. Sei grande! Non pensi di chiedere troppo? O piuttosto non sarà troppo poco chiedere che correggiamo il fratello perché possiamo rendere efficace la preghiera e assicurarci la tua prossimità? Non finirai mai di sorprendermi, Signore!
II. Il perdono che non si può negare
Una domanda di Pietro interrompe il discorso di Gesù (Mt 18,21) e introduce una nuova problematica. Perdonare e fratello aprono e chiudono il periodo (Mt 18,21.35); questa inclusione verbale evidenzia il nuovo tema: dalla correzione all’aggressore si passa al perdono fraterno; da quel che bisogna fare a quel che non si può rifiutare.
La risposta di Gesù, che si articola in due momenti, va – come il solito – più in là della domanda iniziale del discepolo: prima Gesù stabilisce un perdono senza limiti (Mt 18,21-22);[e6] poi lo motiva con la parabola del debitore che aveva, a sua volta, dei debitori (Mt 18,23-25). Il cristiano si trova sempre in debito raddoppiato di perdono: quello di cui ha bisogno da parte di Dio e quello che egli deve al suo prossimo.
1. Capire il testo
Mt 18,21-22 impone il dovere di perdonare il fratello senza limiti. A prima vista l’episodio sembra non inquadrarsi bene nel contesto precedente, in cui si prescriveva un procedimento disciplinare che contemplava la scomunica dell’offensore. A ben guardare, non è così: la correzione fraterna, che è quel che cerca il fratello offeso, è guidata dall’amore per l’offensore (cfr. Lv 19,17-18). Chi pratica la disciplina deve saper perdonare…, quando non hanno successo i suoi sforzi. Ad ogni modo, il perdono del fratello – avverte Gesù – non deve accompagnarsi a una mancanza di sensibilità verso il peccato nella comunità. Essa, che è il luogo della presenza del Risorto, deve vivere secondo la volontà del suo Signore e non secondo il proprio giudizio.
21 Allora Pietro gli si avvicinò e gli disse:
« Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me,
quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte? »
22 E Gesù gli rispose:
«Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.»
Un perdono senza misura (Mt 18,21-22)
All’inizio sono stati i discepoli a domandare (Mt 18,1), ora è solo Pietro (Mc 8,29; 9,5; 10,28; 11,21). Portavoce dei discepoli, si colloca, come ha già fatto Gesù (Mt 18,15), dal punto di vista dell’offeso. La domanda non presuppone che l’offensore abbia cercato il perdono, e nemmeno che lo desideri. Il pentimento non sarà una condizione previa per il perdono.[e7]
Pietro dà per scontato che deve perdonare. Quel che gli interessa è sapere se il perdono dovuto ha un limite, se può essere misurato o quantificato (cfr. Mt 5,21-48). Nella domanda di Pietro resta, pertanto, implicito che il perdonare, che è una cosa molto seria, deve avere una fine: sette sarebbe il limite estremo che non si deve oltrepassare.[e8] Si coglie così la generosità iniziale di Pietro. La sua disposizione era estremamente generosa.
Gesù risponde negando il modo di pensare di Pietro e chiedendo una disposizione illimitata al perdono. Non è chiaro il significato dell’espressione «settanta volte sette.»[e9] In ogni caso, nel nostro contesto è ovvio che non si tratta di contare per cessare di perdonare, ma di perdonare senza contare; con quel numero, Gesù proibisce di enumerare le offese ricevute.[e10] L’espressione appare in Gn 4,24, dove si tratta di una vendetta senza misericordia e senza limiti («Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamec settantasette»). E’ probabile che si alluda, per contrasto, a questo: se, agli inizi della umanità, la vendetta poteva non aver fine moltiplicandosi, ora, tra fratelli, è il perdono che non conosce limiti.[e11]
La comunità cristiana non può assomigliare alla famiglia di Adamo, dove si conosceva la vendetta, anche se limitata. Tra credenti è il perdono a essere illimitato: solo, dove il perdono ha l’ultima parola, vince definitivamente il bene. Infatti, solo il perdono può salvare dalla rovina la comunità cristiana. E’ la sua capacità di perdonare dove risiede la novità della sua vita.
Un perdono reso possibile (Mt 18,23-35)
Mt 18,23-35, una parabola propria di Matteo, chiude il discorso. Anche se tratta del perdono, non la si deve considerare una semplice illustrazione dell’esigenza precedente. Di fatto, non considera il perdono illimitato al fratello ma l’obbligo di perdonare che ha chi è stato perdonato: chi non perdona non imita chi lo perdonò. La parabola, anche se introdotta con motivo dell’esigenza di un perdono senza limiti, rileva una dimensione non esplicitata nelle precedenti parole di Gesù. E in questo modo scopre la ragione profonda del perdono che è dovuto, senza limiti, al fratello offensore: per perdonare bisogna avere consapevolezza di essere stati perdonati.
Senza tener conto dell’introduzione (Mt 18,23a) e della conclusione (Mt 18,35), la parabola consta di tre scene, costruite in modo simile: situazione (Mt 18,23b-25.28-30.31-34), discorso (di supplica: Mt 18,26-29; di castigo: Mt 18,32-33) e decisione (Mt 18,27.30.34). Debitore, debito (Mt 18,28.30.32.34), saldare, pagare (Mt 18,25.26.28.29.30.34) e perdonare (Mt 18,27.32.35) sono i motivi ricorrenti. La parabola matteana riflette bene il contenuto teologico del vangelo predicato da Gesù.
23 « Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi.
24 Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. 25 Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. 26 Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo:
“Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa.”
27 Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito.
28 Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo:
“Restituisci quello che devi!”
29 Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo:
“Abbi pazienza con me e ti restituirò”
30 Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito.
31 Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. 32 Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse:
“Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. 33 Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”
34 Sdegnato, il padrone lo mise in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto.
Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello.»
La parabola dipinge una situazione ben poco probabile, ammesso che sia possibile. Il debito del servo col suo signore (10.000 talenti) sarebbe difficilmente saldabile; il servo non potrebbe pagarlo in vita sua, né tutta la sua famiglia, se fosse venduta, potrebbe coprire tale valore.[e12] Più ancora, è poco verosimile che una persona ricevesse un prestito così grande o che si indebitasse così smisuratamente. L’evangelista ha voluto sottolineare la grandezza della misericordia divina: quel che deve il funzionario al suo re è, all’incirca, 100 milioni di volte quel che è dovuto a lui. Questo dato, che avrà colpito fortemente l’ascoltatore, corrisponde bene alla natura atipica dei racconti parabolici.[e13] Tanto il comportamento del signore che perdona mosso da una supplica, come quello di colui che afferra per il collo il proprio debitore per una somma piccolissima, sono poco credibili o, per lo meno, insoliti. L’improbabilità del mondo ricreato nella parabola, oltre a concentrare l’attenzione dell’ascoltatore eccitandolo con la sua stranezza, lo accosta meglio al mondo del divino e alle sue norme.
La parabola vuole illustrare non già la quantità, ma la qualità del perdono cristiano, che si basa sulla sua assenza di misura. Più che motivare al perdono senza limiti, svela il motivo del perdono illimitato. Colui che è chiamato a perdonare, non è padrone del suo perdono; non potendosi liberare da questo obbligo, nemmeno può mettergli dei limiti.
Si presenta un uomo, un re (cfr. Mt 17,15; 22,2.7.11.13; 25,34.40) come termine di comparazione col regno dei cieli. Non è però la persona, ma il suo agire ciò che descrive la natura del regno: il re si comporta come agisce chi vive sotto la sovranità di Dio. Questo re è deciso a mettere in chiaro i conti coi suoi sudditi. Solo a lui corrisponde giudicare. Tale è il punto di partenza. Si sta descrivendo una situazione umana che abbozza una legge del regno celeste.
E’ pensabile che i maggiori debitori siano stati convocati per primi. Il verbo usato suggerisce che la convocazione non fu volontaria. Di fatto , il debito era immenso: un talento corrispondeva a seimila dracme; le due grandezze, diecimila (Lc 12,1; 1 Cor 1,15; 14,19) e talenti, sono le maggiori in uso nel loro genere.[e14] Ciò fa pensare che il servo debitore non possa essere considerato come un servo qualunque, doveva trattarsi di un funzionario importante. Nulla si dice di come poté accumulare un debito simile. Per quanto possa apparire incredibile, si tratta di un dettaglio che non ha importanza per il narratore, né deve disturbare l’ascoltatore.
Il concetto di debito, equivalente religioso a ‘peccato’, favorisce la trasposizione: il mondo delle relazioni umane riflette il mondo delle relazioni con Dio. L’impossibilità di pagare, uno dei termini chiave del racconto (Mt 18,25.26.28.30.34), era da aspettarsi trattandosi di una somma così enorme. La reazione del signore è immediata e anch’essa da attendersi: un debito non saldato dava diritto a disporre della vita del debitore. La vendita del debitore e della sua famiglia era abituale nel mondo greco-romano e anche tra gli ebrei.[e15] Non conviene speculare sul motivo del comportamento del signore. E’ decisivo che non fosse disposto a mostrare compassione verso il debitore, il quale era irrimediabilmente perso. La misura presa non cerca di saldare il debito, cosa impossibile, ma intende castigare esemplarmente il debitore.
La reazione del servo è di estrema riverenza. La prostrazione era un atteggiamento dovuto davanti ai re o agli dèi. Le sue parole riconoscono il debito, senza mettere in discussione la dura reazione del suo signore. Chiede pazienza, anzi magnanimità; e si impegna a saldarlo per intero, cosa che nemmeno lui stesso poteva credere e che gli ascoltatori di Gesù dovevano supporre impossibile. Pur di eludere la giustizia, si impegna a fare quel che non avrebbe mai potuto fare. In realtà, promette ciò che non può compiere. Non riconosce la sua incapacità personale, perché pensa di poter saldare tutto il debito. Ma non eccepisce nemmeno la decisione del suo re. Non chiede la remissione del debito ma una mora nel pagamento: accetta il debito, ma non ne accetta l’insolvenza.
Vuole così guadagnar tempo e accattivarsi il favore del suo signore. E trova quel che non aveva nemmeno desiderato, molto più di quanto richiesto: misericordia e condono.[e16] La compassione è inaspettata, e inesplicabile. Il signore, profondamente commosso, libera dal debito il servo (cfr. Mt 18,21); preferisce concedere la grazia che esercitare il proprio diritto. La parola scelta dal redattore, prestito, usata solo qui nel NT, aggiunge una sfumatura: è debitore perché è stato graziato di un credito e non ha risposto. E’ già un segno del perdono il considerare il proprio debito non pagato come semplice prestito.
La scena si ripete. I personaggi, no (cfr. Mt 18,24-27). E’ merito del redattore di raccontare quel che succederà come ha raccontato quanto già successo. Le differenze vengono in questo modo meglio sottolineate: il debitore del suo re ha un collega come debitore. Appena uscito, col debito appena condonato, il debitore diventa creditore di un compagno. Il debito non è eccessivo: il ‘denaro’ (cfr. Mt 20,2.9.10.13; 22,19), moneta romana d’argento, come la dracma greca, equivaleva al salario di un giornaliero.[e17] Non solo la quantità è esigua, ma si tratta di un debito tra uguali. Di lì che sia meno comprensibile una reazione così violenta.
Il debitore reagisce come ha fatto prima il suo creditore e con le stesse parole, chiede magnanimità al suo creditore. Si tratta di servi dello stesso rango. Inoltre il debito non è così grande da rendere incredibile la sua promessa di pagarlo. Qui l’assenza del ‘tutto’ (cfr. Mt 18,26) è significativa: il secondo debitore non si compromette tanto quanto il primo.
La reazione del servo creditore non è tanto sorprendente e inattesa, come lo fu il perdono del signore. Non era certamente illegale né ingiusta, ma nemmeno accettabile. E’ incomprensibile: lui che aveva chiesto pazienza e aveva ottenuto il perdono non fu capace di avere minore pazienza e meno ancora di perdonare. Trattò il suo collega come non aveva voluto essere trattato dal suo signore (cfr. Mt 7,6).
I compagni di entrambi non si fanno complici di una situazione che, per quanto legale, non cessa di essere lamentevole. Il dispiacere è profondo, l’indignazione li rattrista (cfr. Mt 17,23; 26,22) e li porta davanti al loro signore. La reazione del re risulta logica. Qualsiasi ascoltatore si sarebbe comportato in questo modo. Con un interrogativo retorico (Mt 18,33), il signore scopre le sue ragioni e la parabola la sua chiave: il perdonato deve perdonare; la grazia è un dono da trafficare, non una situazione da godere in solitudine.
Bisogna notare che, di per sé, il perdono del debito non implica necessariamente il condono dei debiti altrui ..., a meno che colui che perdona voglia essere imitato (cfr. Mt 5,48) e desideri che con il suo atto di generosità si instauri un regime permanente di grazia. E’ proprio questo che sottintende il re: il suo operato avrebbe dovuto avere un seguito in quello del servo: il come è comparativo e causale (cfr. Mt 6,14-15). Non avrebbe dovuto agire in base alla giustizia chi era stato trattato con misericordia. Quel che si riceve gratuitamente, dev’essere dato con gratuità (Mt 10,8): avere sperimentato misericordia obbliga ad essere misericordioso; il debito condonato deve portare a condonare debiti.
La decisione del signore ora è senza pietà e non trova resistenza. Non c’è una seconda opportunità: gli sarà ritirata la grazia che gli era stata concessa e condannato a penare per sempre; di fatto, sarà castigato fino a che paghi un debito…impagabile!
Gesù annuncia un Dio che è sovrano nel perdono e nell’esigenza, condona e condanna senza limiti. Colui che ha messo in carcere il suo debitore insolvente, ora, per il proprio debito di compassione non saldato, non per quanto doveva, è consegnato alla tortura. Il fatto che il debito impagabile sia nuovamente richiesto dal signore lascia intravedere un orizzonte escatologico: sopravvivrà il suo debito a colui che non perdona i debiti altrui. Il debito davanti a Dio risuscita quando non muore in noi il debito del fratello. Chi non perdona una volta, non sarà perdonato definitivamente, per quanto sia stato perdonato tante volte.
L’applicazione, un severo avvertimento, è opera dell’evangelista (cfr. Mt 5,16; 6,15; 18,14). Il motivo è noto nella tradizione apostolica (Gc 2,13). Lungo il racconto era chiara l’identificazione del re-signore col Padre di Gesù (cfr. Mt 22,2-14): «solo Lui può perdonare un debito così colossale, solo Lui può pronunciare una sentenza così terribile.»[e18] Matteo la rende esplicita, collocandone l’attuazione nel futuro. Per evitare una simile condizione nel futuro occorre perdonare oggi. Il comportamento di Dio nell’avvenire è oggi norma del comportamento dei suoi fedeli e misura del giudizio futuro.
Con la parabola Gesù non ha risposto direttamente alla domanda di Pietro (Mt 18,21). Nessuno potrà pensare di aver già perdonato abbastanza, se continua ad abbisognare lui stesso di perdono. Il cristiano sarebbe libero dall’obbligo di perdonare, se non avesse bisogno del perdono di Dio. Perdonare di cuore esige sincerità e tenerezza, implica assenza di doppiezza e affetto; è il contrario dell’odio cordiale (Lev 19,17; Prov 26,24). Cuore per Matteo è il nucleo dell’agire umano (Mt 5,8.28; 6,21; 9,4; 11,29; 12,34; 13,19; 15,8.18), è il luogo dove deve nascere il perdono; si salva dall’ira divina chi libera il cuore dal debito del suo fratello. Nessuno si condanna per il peccato di un altro, ma per essersi rifiutato di perdonare i debiti degli altri, essendo stato lui stesso previamente perdonato: chi non perdona di cuore, si condanna per sempre. Avere un Dio che perdona converte i suoi servi in perdonatori. Un Padre misericordioso richiede la misericordia ai propri figli (Mt 5,48/Lc 6,36). Dio, che alla fine condanna il suo debitore, non lo fa perché questi non ha soddisfatto il debito, ma perché non ha dato per soddisfatto il debito del fratello: la grazia ottenuta si perde, quando non si vive con gratuità, quando non si dà gratuitamente.
La comunità per il Gesù matteano è una comunità dove il perdono altrui predomina sul diritto proprio, dove tutti i suoi membri, perdonati dal loro Signore, vivono nel debito del perdono fraterno. In essa la misericordia non è uno stato di eccezione né un caso isolato, se vuole godere del perdono ricevuto. Con la parabola Gesù mette in guardia, in primo luogo, dalla durezza di cuore che può far perdere quel che si era già ottenuto: una grazia data che non produce compassione diventa disgrazia eterna. D’altra parte bisogna accettare che il perdono di Dio ha un limite, si può perdere una volta concesso e non perché Dio non sia disposto a darlo ma perché può ritirarlo. Una comunità che può perdere il perdono di Dio dev’essere più generosa concedendolo. Proprio perché il perdono divino ha un limite, non deve averlo il perdono fraterno.
2.2 Applicarlo alla vita
Mi preoccupa, come un giorno a Pietro, il perdono fraterno? Mi rende inquieto il dover perdonare, mi turba doverlo fare? E’ qualcosa che mi porta a Gesù, perché da solo non trovo la soluzione né saprei soddisfare questo dovere? Voglio veramente imparare da Lui, o frappongo ostacoli al suo insegnamento, se è contrario alla mia logica e ai miei gusti? Potrei dire che perdonare al fratello è una questione ancora aperta, senza risposta, nella mia vita cristiana o si tratta, piuttosto, di un problema risolto, che per me non è un problema? Ho desistito ormai dal perdonare e per questo non mi dirigo a Gesù per sapere quanto devo perdonare?
Chi si chiede ‘quanto’ deve perdonare, fa conto solo dell’offesa e discute solo sul limite del perdono, non dell’offesa. Mi sorprende che mi offendano i miei con/fratelli? Non è forse vero che comprendo meglio l’incomprensione dello sconosciuto o l’offesa del nemico che il disprezzo o l’oltraggio di chi mi è più vicino? Come reagisco quando è un fratello che mi offende? Penso che il perdono deve avere un limite, per non trovarmi inerme davanti all’offensore? Metto limiti alla fraternità?
Che tipo di perdono esige Gesù dal discepolo offeso, quando gli vieta la vendetta o il risarcimento? Mi pare giusto che debba perdonare senza tregua né condizionamenti a chi mi maltratta? Non è dare carta bianca a chi mi offende? non mi mette forse nelle sue mani, soggetto alla sua malizia, rinunciando in partenza a ristabilire i miei diritti conculcati? Non rende più forte il male, quando chi lo commette sa che può contare sul mio perdono? Posso, in quanto discepolo di Cristo, esigere giustizia contro un fratello o piuttosto devo perdonarlo sempre?
Ho fatto qualche volta l’esperienza di perdonare senza limite? Mi sembra almeno possibile tentare di farlo? Sono convinto che sia, semplicemente, qualcosa che mi si può esigere? In tal caso, che senso può avere che Gesù me lo comandi? Perché non posso perdonare non solo molte volte, ma sempre? Cosa mi manca ora perché io non manchi al mio dovere di perdonare?
Mi rendo conto che per dover perdonare non deve necessariamente essermi richiesto in anticipo, e nemmeno desiderato, il perdono; che non dipende dall’essere riconosciuta l’offesa il fatto di dovere perdonarla, che bisogna perdonare solo per il fatto di essere stato offeso? Una simile esigenza è sopportabile? È, semplicemente, immaginabile? Che tipo di vita comunitaria nascerebbe dove il perdono fosse illimitato?
Mi pare che Gesù risponda ai miei interrogativi con la parabola del servo che, perdonato dal suo signore, non volle perdonare a un suo collega? Ha veramente qualcosa da vedere il perdono ricevuto col perdono da concedere, il perdono che chiedo e di cui ho bisogno con quello che mi è richiesto? Solo perché ho offeso Dio, non dovrò sentirmi offeso dal fratello? Se vi è differenza nell’offesa, perché non devono esserci differenze nel perdono? Mi si richiede forse una capacità di perdonare degna, e pensabile, solo in Dio?
Mi rendo conto che mi gioco il perdono già ricevuto, quando non riesco a perdonare chi mi ha offeso? Sono consapevole che posso perdere il dono ottenuto quando non riesco a renderlo efficace? Posso perdere Dio Padre, se non considero come fratello il mio offensore!
3. Pregare la Parola
Signore, non riesco a capire come mai ti aspetti tanto da me: perdonare senza limiti chi mi offende supera la mia capacità e la mia ragione; non ho il coraggio di provarci, né logica per capirci qualcosa. Ti rendi conto cosa sarebbe di me, se perdonassi chi mi offende ripetute volte? Come vuoi che perdoni senza esitare, sempre? Mi pare che questa volta esageri: io non posso farlo e tu non puoi chiedermelo. Sopravvivrei al male che non sopporto e che non ricambio? Non vedi che perdonare senza fine mi lascerebbe indifeso, esposto, davanti a colui che mi tratta male! Perché, allora, sei così esigente con me? Perché non mi chiedi di meno?
Con la tua parabola, Gesù, non mi rendi le cose più facili. Capisco bene la reazione del signore di fronte al suo servo, quando gli esige di soddisfare il suo debito, pur non ignorando che, trattandosi di qualcosa di incommensurabile, era praticamente impossibile. Per questo mi pare poco verosimile il condono del debito, una volta richiesto. E se capisco che il signore si sia arrabbiato così tanto, quando il servo non è stato generoso, mi sembra eccessiva la sua reazione. Non mancò alla parola data, quando ritrattò il perdono già concesso? E’ autentico un perdono che si può ritrattare, dopo essere stato concesso? Cosa ha da vedere la mia causa nei tuoi riguardi con i litigi che mantengo con coloro che mi offendono? Non puoi paragonare le offese che ti arreco con quelle che mi fanno; anche se le mie sono peggiori, quelle dei miei offensori si potrebbero evitare meglio. Per quanto sia grave l’offesa che ti faccio, non vedi che mi dolgono di più quelle che procurano a me? Inoltre, non puoi paragonare la mia capacità di perdono e di oblio con la tua! Ti sembra legittimo che io sia così eccessivo nel perdonare, mentre sono ancora così sensibile all’offesa, reale o presunta, dei miei fratelli? Non è giusto che tu ti attenda da me quel che tutti ci attendiamo da Te! Non puoi esigere da me quel che Tu concedi così generosamente!
Forse non mi sento ancora perdonato, almeno tanto da provarmi a perdonare gli altri. E’ questo il mio peccato. Chi mi libererà dalla mia incapacità di perdonare, se perdonato da Te non riesco a perdonare chi mi ha offeso? Corro il rischio di perderti, quando sono disposto a perdere chi mi ha offeso; mi manca il tuo perdono, non perché Tu non sia disposto a concedermelo ogni volta, ma perché io non sono capace di darlo al mio offensore nemmeno una volta sola. Probabilmente non mi importa molto ricevere il tuo perdono, dato che obbliga a perdonare senza misura.
Perché osi chiedermi che mi assomigli a Te nella tua capacità di perdono? Se non crei in me ciò che chiedi, sono perso; non riuscirò a mantenere il perdono che mi hai dato, se non lo concedo così gratuitamente come l’ho ricevuto; e non ti avrò come Padre, se non vedo un fratello nel mio offensore. Signore, mi fai paura, e molto. Potrò vivere all’altezza del tuo volere? Potrò conservare l’amore che hai per me, il perdono che mi dai? Me lo hai fatto diventare veramente difficile. Insegnami a perdonare come Tu perdoni.
[e2] La sentenza originale resulta strana nel contesto immediato: non ha molto a che fare con quello detto precedentemente. Parla di una preghiera ordinaria, non di una norma comunitaria. A livello redazionale però (cfr. Mt 18,3.13.18), è legata alle decisioni prese prima (Mt 5,18.33; 13,45.47; 22,1) e le illumina.
[e3] Il Gesù che parla non è il maestro che vive accanto ai suoi discepoli, ma il Signore esaltato alla destra di Dio. Nel suo nome sono stati convocati i credenti (Mt 28,19) e nel suo nome si radunano, benché non siano più di tre.
[e4] Quanto il giudeo attendava dallo studio della legge (Ab 3,2b), Matteo glielo promette al cristiano che se esercita nella preghiera condivisa: Dio è in mezzo di quelli che lo ricordano e benedicono.
[e5] Essere in mezzo al popolo è promessa divina (Ez 43,7; Gl 2,27; Zc 2,10-11): l’impegno di Dio con suo popolo viene realizzato da Gesù presente nella sua comunità.
[e6] Proviene dalla fonte Q: Lc 17,3-4.
[e7] Cfr., però, Lc 17,4: «E se pecca sette volte al giorno contro di te e sette volte ti dice: ‘Mi pento’, tu gli perdonerai.»
[e8] Nella tradizione biblica, e nella giudea antica, si è dato, a quanto sembra, un legame tra vendetta, espiazione, perdono e il numero sette (cfr. Gn 4,15; Lv 26,18; Prv 24,16). I testi rabbinici conoscevano la necessità di perdonare alcune volte (Bill I 795-797), ma non troppe (b.Yoma 86b-87a: «fino a tre volte.»). Questa misura nel perdono è spiegabile per la voglia di rispettare la giustizia; si cercava che le richieste di giustizia moderassero il desiderio – o il dovere – di perdonare. Un perdono assicurato, ripetuto senza limiti, è un perdono banale, senza contenuto.
[e9] Unica nel NT, le più antiche versioni hanno tradotto «settanta volte sette.» È il significato corrente. Altri, però, tenendo in conto la sua probabile origine ebraica, propongono «settanta sette.»
[e10] «Il Signore non ha chiuso il perdono in una quantità fissa.» (Giovanni Crisóstomo, Obras Completas. Vol. II: ‘Homilías de san Mateo 56-61’[BAC, Madrid 1956] 269).
[e11] Caino fu tutelato da Dio, che promise, nel caso fosse ammazzato, una vendetta sette volte maggiore (Gn 4,15). Lamec giura una vendetta infinitamente più grande. Mt 18,21-22 è contrario a Gn 4,23-24; quello non significa però che revochi la legge. Istaurando la legge del taglione, il Pentateuco invalidò, già prima di Gesù, la vendetta senza limiti, manifesta nel cantico di Lamec, ma non stabilì il perdono senza limiti.
[e13]La somma della imposta annuale in Galilea o Perea ascendeva, nel tempo di Gesù, a 200 talenti. Quanto Erode incassava personalmente arrivava a 900 talenti annui (Josefo, Ant XVII 11,4).
[e14]10.000 talenti sarebbe una quantità di denaro appena immaginabile, allora, quasi 10.000.000 dollari (W. Trilling, Evangelio según san Mateo. Vol II [Herder, Barcelona 1970] 153). Per farsi una idea più realista, basta ricordare che, secondo Josefo (Ant XVII 320), l’ imposta annuale della Giudea era di 600 talenti.
[e15] I figli, non la moglie; 1 Sam 22,2; 2 Re 4,1; Is 50,1; Am 2,6; 8,6. Cfr. Bill I 798; IV 698-716.
[e16] «Guardate di nuovo l’eccesso di benignità. Il servo non aveva chiesto più che un tempo e ritardare il pagamento; e il re gli concesse più di quanto desiderò: il perdono e la remissione di tutto il debito.» (Giovanni Crisóstomo, Obras, 278).
[e17]17,5 dollari (Trilling, Evangelio II, 154), 80 franchi circa (Bonnard, Evangelio, 415), «50.000 volte in meno del debito a lui condonato.» (M. S. Ausburger, Matthew [Waco 1982] 224).
[e18] Trilling, Evangelio II, 154.
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Servo.
Compassionevole con i bisognosi e loro guardiano
Il terzo elemento del “profilo del nuovo salesiano” è la missione, cioè la realizzazione del progetto originale di don Bosco nel momento presente, definito come «essere nella Chiesa segni e portatori dell’amore di Dio ai giovani» (Cost. 2). In essa «troviamo la via della nostra santificazione” (Cost. 2).
La missione, infatti, «prima di caratterizzarsi per le opere esteriori, si manifesta nel rendere presente al mondo Cristo stesso mediante la testimonianza personale. E questa la sfida, questo il compito primario della vita consacrata!» (VC 72). Una missione che oggi è tanto più urgente quanto più crescono le nuove povertà nel mondo dei giovani, dichiarati da papa Francesco “materiale di scarto”. Per poter rappresentare l’amore salvifico di Dio bisognerà riprodurne non solo il motivo, la predilezione per i più deboli, ma anche il modo di amarli, senza indugi e senza misura, o, detto in altro modo, con la propria vita come garanzia e come limite.
1. Convertiti alla compassione di Gesù e suoi ministri
La mattinata la passeremo contemplando Gesù, compassionevole verso la folla, che insegna ai suoi discepoli a condividere la povertà e a obbedire al suo mandato di accogliere e prendersi cura dei più piccoli, ci aiuterà a realizzare quella «conversione pastorale» che ha «nel cuore di Cristo, apostolo del Padre, il suo modello e la sua sorgente» (Cost 11).
Nell racconto della moltiplicazione dei pani e dei pesci non è il miracolo in se quel che interessa al narratore, ma quello che avviene nei discepoli. Attraverso la conversazione, Gesù li converte alla misericordia: prima di condividere con Gesù quel che hanno, condivideranno con lui la sua compassione verso la folla. Il miracolo non avverrà senza che i discepoli mettano le loro poche cose a disposizione di Gesù. Per saziare la folla Gesù ha dovuto conquistarsi il cuore dei discepoli e ottenere da loro quel poco di cui disponevano…, e tutta la loro fiducia.
2. Diventare piccoli per prendersi cura dei piccoli
Il motivo della preghiera nel pomeriggio è la conversione pastorale che Gesù attende da noi. Un giorno in cui i discepoli volevano che Dio li considerasse “i più grandi”, Gesù fece loro contemplare un bambino e comandò loro che diventassero come lui. Il bambino, pensava Gesù, dev’essere la misura dell’importanza nel regno di Dio. Voleva cioè una comunità in cui chi è importante non vale più di chi è insignificante e il potente accetti di essere fiacco. Gesù vuole una comunità di eguali (cfr. Mt 23,8-12), ma non perché tutti siano diventati grandi e influenti, ma perché si sonofatti tutti come bambini. Questa conversione è condizione, sine qua non, della missione apostolica.
In più, solo un’autentica conversione, da maggiore a piccolo, rende possibile che il debole, l’indifeso, l’abbandonato sia ben accudito, meglio assistito. Nella comunità apostolica la preoccupazione per il traviato non è un passatempo temporaneo e nemmeno un impegno individuale. Una comunità cristiana non si salva se qualcuno in essa si perde. Non possiamo dare per disperso chi si è smarrito, anche se fosse stato per colpa sua o per debolezza, perché il Dio in cui crediamo non si rassegna mai, non vuol perdere nessuno dei suoi.
Comunità in cui gli insignificanti contano, dove si accolgono i piccoli e si difendono i deboli, dove si cerca chi si è smarrito, sono lo spazio per un amore gratuito, segno inequivoco dell’amore di Dio. Nella comunità cristiana più che preoccuparsi per la propria salvezza, bisogna occuparsi di vivere salvando.
3. Obiettivi del giorno
L’obiettivo fondamentale di questa giornata è sottomettere al giudizio del vangelo la forma come viviamo come apostoli nel quotidiano. Pensiamo di solito che evangelizzando gli altri siano noi, e a sufficienza, già evangelizzati. E così la nostra vocazione diventa una professione. Non basta lavorare molto per gli altri, dobbiamo solo lavorare come Gesù, apostolo del Padre.
Nella mattina dovremmo identificare le ragioni ultime, le più profonde e a volte nascoste, che ci fanno sentire e attuare come inviati da Dio ai giovani. Perché ci sentiamo – ma ci sentiamo davvero? – inviati da Cristo? Due sono gli elementi da prendere sul serio: l’apostolo nasce per rappresentare la compassione di Dio. Mai un suo inviato è partito per realizzare i propri progetti, anche se eccellenti. Chi non comparte “passione per salvare” non è stato inviato da Dio, il quale non ha altra occupazione che salvare. Chi/cosa cerchiamo quando lavoriamo: bramiamo per la salvezza degli altri o per salvarci noi? E da non dimenticare!: il discepolo impara misericordia, se resta con Gesù, quando vive e riposa accanto a lui. Il secondo elemento da considerare è più confortante: Gesù compassionevole ebbe – e ne ha ancora – bisogno di discepoli, anche se vivono nella trascuratezza e menefreghismo in confronto dei destinatari in necessità, anche se vanno scarsi di beni e brevi di mire; Gesù ha bisogno di gente come noi…
Nel pomeriggio prenderemo sul serio che Gesù esige da noi una conversione ‘pastorale’, che inizia diventando più piccolo e da un gran passo in avanti attendendo ai più piccoli. Tutto si può perdere, anzi a volte si dovrà perdere, tranne il fratello in necessità. Come possibile che non ci interessi quelli che Dio ha nel suo cuore? Chi rappresentiamo, se siamo duri di cuore e pronti a condannare? Abbiamo scandalizzato i giovani, noi o nostri fratelli? Cosa siamo disposti a tagliare purché nessuno tra i piccoli venga corrotto o disprezzato? Badare al piccolo e all’invalido non è facoltativo per chi vive con Cristo; ma per riuscirci il discepolo dovrà accettare di essere debole e insignificante: perché avvenga la conversione «pastorale» deve prima esserci la conversione in «Cristo».
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Testimoni e amministratori
della misericordia di Gesù
(Mc 6,30-44)
Appena rientrati dalla prima missione, Gesù ordina i suoi apostoli dar da mangiare una folla affamata (Mc 6,37), loro che non avevano avuto tempo di mangiare (Mc 6,31)! Dovranno così capire che predicare il vangelo non copre la loro missione per intero; dovranno imparare, soprattutto, ad aver compassione di fronte ai bisognosi e dedicarsi ad altre missioni meno ‘gloriose’: prendersi cura di una folla senza pane è, anche, compito dell’apostolo di Cristo, missione ineludibile, perché imposta dal Signore stesso (Mc 6,37).
1. Il racconto evangelico
L’episodio della moltiplicazione dei pani e dei pesci si compone di due scene: il ritorno degli apostoli (Mc 6,30-32) e la moltiplicazione dei pani (Mc 6,33-44).
La prima scena, senza localizzazione concreta, è la logica conclusione del racconto del primo invio (Mc 6,6b-13) e serve come introduzione alla cronaca del miracolo (cfr. Mc 6,31.32). La missione dei dodici rimane così vincolata al miracolo della prima moltiplicazione dei pani, è la sua logica conseguenza. In effetti, è stato in seguito al successo della missione dei suoi inviati che la folla accorre a Gesù (Mc 6,33). Dato che corre dietro ai seguaci di Gesù (Mc 6,33), la gente incontra la sua compassione (Mc 6,34).
La seconda scena, la cronaca del miracolo, è più elaborata. In essa si possono individuare tre unità: Gesù scopre la folla che lo cerca (Mc 6,34), i discepoli dialogano con Gesù sulla gente e sulla sua mancanza di risorse (Mc 6,35-38), il racconto del miracolo (Mc 6,39-44).
La moltiplicazione è narrata in modo così sobrio che solamente perché si menziona la cifra dei commensali, ci si può rendere conto della grandezza dell’accaduto. Provvedendo l’alimento Gesù agisce da pastore (cfr. Sal 22,1.5) di un popolo senza pastori (Mc 6,34): dare da mangiare al popolo – attenti! – è un’attività pastorale!
2. Alcuni rilievi
Gli apostoli ritornano da Gesù. Hanno agito e insegnato al suo posto e ora gli rendono conto di quanto hanno realizzato. Ritornano a stare lì dove devono, cioè dove Gesù li vuole, accanto a Lui, per quello sono nati (cfr. Mc 3,14). La relazione che gli danno su “tutto quanto hanno fatto e detto” conferma la loro condizione di delegati di Gesù (Mc 6,30); da lui avevano ricevuto la missione e i poteri (Mc 3,15; 6,7), a Lui devono risponderne. La missione dell’apostolo non finisce quando si smette di lavorare, ma quando se ne rende conto di essa. Perché pensiamo di aver concluso una attività apostolica, se di solito non la finiamo, accanto a Lui, con un rendiconto personale?
Dopo la missione compiuta, il meritato riposo
Gesù reagisce al resoconto dei suoi missionari proponendo loro di ritirarsi, insieme e da soli, in un luogo isolato (Mc 6,31a). Alla fatica della missione segue un invito alla pausa: era la pratica personale di Gesù (cfr. Mt 1,35); la vuole anche per i suoi. Gesù ‘difende’ l’apostolo dai suoi destinatari (cfr. Mc 3,20), offrendogli un luogo deserto e solitudine…, soli ma con Lui. Colui che rende conto a chi lo ha inviato, godrà di lui nell’intimità. Rappresentare Gesù nella predicazione del regno è la forma più sicura di averlo come compagno in esclusiva. L’apostolo, alla fine della sua missione, può – e lo sa – contare sul suo Signore come riposo.
Con la gente alle calcagna
Far riposare ai suoi era l’intenzione di Gesù. Ma il trambusto di una folla impedisce loro di riposare (Mc 6,31b). Gesù insiste nel condurre i suoi discepoli a un luogo appartato (Mt 1,35.45), lontano dalla folla (Mc 4,10.34; 7,17; 8,13-14; 9,2.28; 13,2). E sceglie una barca (Mc 6,32) nel suo tentativo di sfuggire. Ma la folla non ci sta a vedersi abbandonata; segue il gruppo di Gesù camminando a terra e riesce a precederlo, arrivando prima al luogo dello sbarco (cfr. Mc 6,45).
Al corteo si unisce gente proveniente da tutte le città dei dintorni del lago (Mc 6,33). L’osservazione è esagerata. Risulta improbabile che una folla via terra raggiunga il gruppo che si è allontanato in barca. Ma quel che interessa al narratore è di evidenziare il gran numero, sempre crescente, che segue Gesù (Mc 5,21.24.27.30.31), anche contro la sua volontà. E’ la moltitudine che frustra il progetto di Gesù e il riposo degli apostoli. Non li lascerà riposare né permetterà che si disinteressino di essa.
La compassione, il modo de essere messia
Scendendo dalla barca, Gesù incontra una folla che lo stava aspettando (cfr. Mc 5,2.21; 6,54) e con delle necessità che non possono attendere (Mc 6,34). Al vedere la folla, sente compassione (cfr. Mc 1,44; 8,2; 9,33). Il suo tentativo di lasciarla, motivato dal bisogno dei suoi apostoli, non l’ha fatto diventare insensibile di fronte ad essa. Non essendo riuscito a sviarla, dovrà pensare a essa…, certo, ma con misericordia.
Di fatto, solo vedendola, sente già compassione. Non si annota altra causa, se non lo stato di abbandono in cui si trova: erano “come pecore senza pastore” (cfr. Ez 34,9-11). Il cronista non vuole risaltare i buoni sentimenti di Gesù, ma descriverne la sua missione personale. Gesù coglie l’ansia di trovarlo come segno della profonda privazione in cui vivono. Il popolo di Dio è giunto ad essere come un gregge senza guide né custodi (cfr. Nm 27,17; 1 Re 22,17; Ez 34,5-6). Quel che Gesù farà in seguito è una chiara dimostrazione della ‘leadership’ di cui ha bisogno il popolo di Dio.
La compassione di Gesù riflette la passione di Dio, supremo Pastore, per il suo popolo (cfr. Es 16; Nm 11). Per questo, la compassione lo converte in pastore e messia. Ma sorprende che, prima di provvederli di pane, dia loro la sua parola. Mosso dalla compassione, comincia a svolgere la missione di pastore, facendo l’evangelizzatore. Il popolo di Dio riceve prima la parola, poi l’alimento. Quel che la gente riceverà da lui, lunga istruzione e pochi alimenti, sarà frutto della sua misericordia.
Avvertire il bisogno, compito del discepolo
La gente, che si mette ad ascoltarlo, non si rende conto del passar delle ore, né sente il bisogno d’altro. Tanto le soddisfa la parola del loro messia! Si sente così bene che non sente fame. Sono i discepoli ad avvisarlo che si è fatto tardi e che sono tanto lontani dai luoghi abitati (Mc 6,35). Si accorgono che la folla potrebbe aver fame, ma non si sentono obbligati a intervenire: vedono la necessità, ma non ne prendono la responsabilità.Giunta l’ora del pasto principale della giornata, pregano Gesù, con la migliore delle intenzioni, di congedare gli ascoltatori affinché si provvedano del necessario sostentamento. Il suggerimento è certamente qualcosa di benintenzionato, anche se un tanto interessato (Mc 6,36).
In modo indiretto, si allude alla mancanza di provviste tra la gente. Se ora si trovano in necessità è perché prima hanno trascorso il tempo ascoltando Gesù: il loro bisogno di ascoltarlo è stato più grande che il loro bisogno di alimento. In certo qual modo, è Gesù il responsabile della loro fame. Pur non rimproverandoglielo, i discepoli fanno in modo che Gesù se ne accorga. Destino curioso, questo, tipico dei discepoli, di far cadere Gesù dalle nuvole, segnalandogli le urgenze più vitali dei suoi ascoltatori! Ci sono ancora questa razza di discepoli tra noi, che sanno scoprire i bisogni più elementari del popolo e lo fanno sapere a Gesù?
Un ordine inatteso di Gesù
Gesù sorprende i discepoli con l’ordine, insolito: devono essere loro a occuparsi di farli mangiare (Mc 6,37a). I discepoli prendono sul serio l’indicazione di Gesù e si chiedono se devono andare a comprare pane per tutti. Non sarebbero bastati nemmeno duecento denari, una quantità di cui non disponevano i discepoli (Mc 6,8) e che, per giunta, non sarebbe stata sufficiente per soddisfare nemmeno un migliaio di persone e arrivavano a “cinquemila uomini” (Mc 6,44).
La domanda dei discepoli lascia intendere l’impossibilità del compito affidato e la loro incapacità di immaginare quel che si proponeva Gesù (Mc 6,37b). Mentre essi pensano al molto che manca loro, Gesù sta già facendo assegnamento su quel poco che hanno. Per loro, che erano già sopravvissuti alla tempesta in mare, contava solo quel che mancava, non l’avere Gesù a fianco! (cfr. Mc 6,51-52). Avevano Lui … e li preoccupava solo la scarsità di quel che possedevano! Triste, ma azzeccato ritratto del discepolo di Gesù!
Gesù non risponde all’obbiezione dei discepoli, li interroga sulle loro provvigioni. Non si preoccupa di quel che non possiedono, gli interessa sapere cosa hanno. Obbligandoli a verificare la quantità irrisoria delle provviste a disposizione, Gesù non li dispensa però dall’ordine dato. Vuole, questo sì, renderli consapevoli della loro incapacità a realizzare il suo mandato. Cinque pani e due pesci, alimento abituale dei pescatori (cfr. Lc 24,42; Gv 21,9), è tutto quanto avevano (Mc 6,38). Appena sarebbe bastato per alimentare i dodici e Gesù.
La constatazione dell’esiguità delle provviste serve per sottolineare l’eccezionalità dell’operato di Gesù. Il portento sarà tanto maggiore quanto è minore la base su cui poggia (Mc 8,5; cfr. 1 Re 17,12; 2 Re 4,42): quel poco che gli danno i discepoli, se è tutto quel che hanno, è materia idonea per il miracolo. Per moltiplicare l’alimento Gesù ha necessitato qualche pane…, e tanta generosità dei suoi.
Amministratori del portento, nonostante le loro carenze
Facendo loro constatare l’impossibilità di assolvere il compito ad essi affidato, Gesù prende l’iniziativa e agisce come unico anfitrione. Trasforma l’aperta campagna in sala di banchetto per una folla, come aveva fatto Dio, in altri tempi, nel deserto (cfr. Es 16; Num 11). Gesù ripartisce le sostanze dei suoi discepoli come un padre di famiglia distribuisce il pane ai suoi: prendendolo, benedicendolo, spezzandolo e dandolo a distribuire (Mc 6,41).
E’ qui dove i suoi discepoli ricevono nuovamente una missione.E si fa aiutare dai discepoli per servire i commensali. I discepoli saranno esecutori della volontà di Gesù e, per questo, amministratori del suo miracolo. Devono fare arrivare il pane benedetto e spezzato da Gesù a una folla bisognosa di pastori. Gesù da solo non ce la farebbe; vengono così associati al ministero del loro Signore. Il servizio apostolico, la diaconia delle mense, è conseguenza della compassione di Gesù e dei bisogni del suo popolo. Coloro che non hanno potuto saziare la fame della gente, potranno almeno aiutare a distribuire il pane di Gesù, che ha utilizzato la scarsità di risorse dei suoi per alimentare una moltitudine (Mc 6,44). Avvicinare il regno agli uomini esige anche di soddisfare i loro bisogni più vitali. Ma questo nuovo compito è posteriore alla missione condivisa, ne è una sua conseguenza.
Un miracolo da riconoscere
Conosciamo solo alla fine del racconto il numero dei commensali; così si sottolinea la straordinarietà del miracolo. Per ogni pane consegnato vi furono mille persone soddisfatte (Mc 6,44) e resti abbondanti: i dodici canestri (Mc 6,34), uno per apostolo. Tanto grande è l’efficacia della benedizione di Gesù.
La folla non sembra rendersi conto della moltiplicazione (Mc 6,42). Sono i discepoli, che erano al corrente della scarsità delle vivande, quelli che possono rendersi conto della grandezza del miracolo. Ma, significativamente, non si racconta nessuna reazione loro. I discepoli, testimoni muti del miracolo, raccolsero, come avanzi, molto più di quanto avevano e avevano messo a disposizione. Tanto è stato generoso Gesù con essi.
L’operato di Gesù risulta così doppiamente gratuito: perché non è stato né chiesto pubblicamente, né riconosciuto come tale. Come, prima, l’insegnamento protratto a lungo, così il miracolo è generoso e gratuito. Tale è la misura della compassione di Gesù. Non meno toccante è il fatto che Gesù, per poter saziare la moltitudine, per mostrare la sua compassione, abbia fatto ricorso alla povertà dei suoi discepoli. Essi diedero quel poco che avevano, ma era tutto; ciascuno raccolse un canestro pieno zeppo.
Anche se Gesù è l’unico protagonista (evangelizza la folla, che poi sfama), ha bisogno dei suoi apostoli: loro, il loro successo missionario, ha fatto che Gesù sia ricercato; loro sono stati chi hanno avvertito Gesù che era arrivato il tempo di mangiare; loro hanno messo a disposizione quel che avevano, loro hanno distribuito il pane benedetto e raccolto poi gli avanzi. Senza i suoi inviati Gesù non avrebbe potuto mostrare la sua compassione.
[Ricordare il lavoro spirituale già accennato, cfr. Terzo giorno. Presentazione, pag. 2].
A Cana, nell’inizio del ministero pubblico di Gesù, Maria è riuscita a far sì che Gesù, convertendo l’acqua in buon vino, anticipasse la sua ora e i suoi seguaci cominciassero a credere in Lui. Sentiamo la presenza di Maria oggi tra noi e la nostra festa, la nostra fede, sarà al sicuro delle nostre necessità più elementari e di quelle più profonde.
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Compassionevole con i bisognosi e loro guardiano
“La missione è sempre stata riconosciuta da tutti come un elemento d’identità della vita religiosa…
Non consiste nel fare cose, ma essenzialmente nell’essere segni dell’amore di Dio nel mondo…
Non esiste identificazione dell’essere col fare;
semmai è il fare che deve essere conseguenza dell’essere e sua trasparente manifestazione…
La radicalità evangelica nella missione apostolica ha senso, si verifica e si misura
nella crescita della carità pastorale”.[f1]
Il terzo elemento del “profilo del nuovo salesiano” è la missione, cioè la realizzazione del progetto originale di don Bosco nel momento presente: «essere nella Chiesa segni e portatori dell’amore di Dio ai giovani» (Cost. 2). Questa missione «è il punto focale di tutta la nostra vocazione.» «Da essa sorge l’iniziativa e la creatività per crescere autenticamente nella fedeltà alla nostra vocazione… Qui troviamo il parametro sicuro e definitivo della nostra identità.»[f2] In essa si decide la nostra visibilità e la nostra credibilità come salesiani consacrati; in essa, infatti, «troviamo la via della nostra santificazione” (Cost. 2).
«La missione, infatti, prima di caratterizzarsi per le opere esteriori, si manifesta nel rendere presente al mondo Cristo stesso mediante la testimonianza personale. E questa la sfida, questo il compito primario della vita consacrata!:»[f3] essere viva epifania dell’amore di Dio rivelato in Cristo Gesù (Gv 3,16), che ci amò fino alla fine (Gv 13,1). Una missione che oggi è tanto più urgente quanto più crescono le nuove povertà nel mondo giovanile.
Per poter rappresentare l’amore salvifico di Dio bisognerà riprodurne non solo il motivo, la predilezione per i più deboli, ma anche il modo di amarli, senza indugi e senza misura, o, detto in altro modo, con la propria vita come garanzia e come limite. Contemplare Gesù, compassionevole verso la folla, che insegna ai suoi discepoli a condividere la povertà e a obbedire al suo mandato di accogliere e prendersi cura dei più piccoli, ci aiuterà a realizzare quella «conversione pastorale» che ha «nel cuore di Cristo, apostolo del Padre, il suo modello e la sua sorgente» (Cost 11).
Il soddisfacimento delle necessità dei suoi destinatari nasce quando l’apostolo, per stare vicino a Gesù, percepisce la misericordia con cui Egli guarda la moltitudine che lo cerca e l’istruisce. Badare al piccolo e all’invalido non è facoltativo per chi vive con Cristo; ma per riuscirci il discepolo dovrà accettare di essere debole e insignificante: perché avvenga la conversione «pastorale» deve prima esserci la conversione «cristiana», che si verifica come un permanente stare con Lu
1. Condividere la compassione di Gesù
Ritornando dalla loro prima missione, i discepoli incontrarono un Gesù che vegliava per essi, procurando loro riposo. Anche a essi, come prima a Gesù (cfr. Mc 3,20) la proclamazione del regno aveva impedito persino di mangiare (Mc 6,31). Nonostante la sua prima intenzione, poiché una folla lo stava cercando, Gesù reagì compassionevole: accolse la gente istruendola, prima; li provvide miracolosamente di alimenti, dopo. E per mostrare la loro compassione verso la folla, i discepoli rimasero senza poter godere di Gesù da soli…
Non è la moltiplicazione dei pani quel che vuol mettere in risalto il narratore. Di fatto, dà più importanza al dialogo tra Gesù e i suoi discepoli che non al portento. La qual cosa non è indifferente: la moltiplicazione è un aneddoto finale, per quanto stupendo. Il cambio che interessa al narratore non è quello del pane moltiplicato, ma quello che avviene nei discepoli. Attraverso la conversazione, Gesù li converte alla misericordia: prima di condividere con Gesù quel che hanno, condivideranno con lui la sua compassione verso la folla. Il miracolo non avverrà senza che i discepoli mettano le loro poche cose a disposizione di Gesù. Per saziare la folla Gesù ha dovuto conquistarsi i discepoli e ottenere da loro quel poco di cui disponevano.., e tutta la loro fiducia.
2. Diventare piccoli per prendersi cura dei piccoli
Un giorno in cui i discepoli volevano che Dio li considerasse “i più grandi”, Gesù fece loro contemplare un bambino e comandò loro che si facessero come lui. L’aneddoto è storicamente verosimile. Gesù poté veramente evangelizzare un giorno i suoi discepoli con un bambino concreto come tema e punto di partenza. La prima cosa che il Gesù matteano disse quel giorno ai discepoli che vivevano con lui è che il bambino dev’essere la misura della grandezza nel regno. Voleva una comunità in cui chi è importante non vale più di chi è insignificante, in cui il maggiore si faccia piccolo, il potente accetti di essere impotente. Gesù vuole una comunità di eguali (cfr. Mt 23,8-12), ma non perché tutti siano diventati grandi e influenti, ma perché si sono fatti tutti come bambini.
Solo una autentica conversione da maggiore a piccolo rende possibile che il debole, l’indifeso, l’abbandonato sia ben accudito e meglio assistito. Nella comunità come la vuole Gesù la preoccupazione per il traviato non è un passatempo temporaneo e nemmeno un impegno individuale. Una comunità cristiana non si salva se qualcuno in essa si perde; non può dare per disperso chi si è smarrito, anche se fosse per colpa sua o per debolezza, perché il Dio in cui crede non si rassegna mai, non vuol perdere nessuno. Una comunità in cui gli insignificanti contano, dove si accolgono i piccoli e si difendono i deboli, dove si cerca colui che si è smarrito è uno spazio per un amore gratuito. Nella comunità cristiana più che preoccuparsi per la propria salvezza, bisogna occuparsi di vivere salvando, perché tale è il volere del nostro Padre, quel volere che, compiuto, fa di Dio il Padre nostro.
“Ho promesso a Dio
che, fin l’ultimo mio respiro sarebbe stato per i miei poveri giovani.”[f4]
Testimoni e amministratori
della misericordia di Gesù
(Mc 6,30-44)
“Chi non esce da sé, invece di essere mediatore, diventa a poco a poco un intermediario, un gestore. Tutti conosciamo la differenza: l’intermediario e il gestore «hanno già la loro paga»
e siccome non mettono in gioco la propria pelle e il proprio cuore, non ricevono un ringraziamento affettuoso, che nasce dal cuore. Da qui deriva precisamente l’insoddisfazione di alcuni,
che finiscono per essere tristi, preti tristi, e trasformati in una sorta di collezionisti di antichità oppure di novità, invece di essere pastori con «l’odore delle pecore» - questo io vi chiedo:
siate pastori con «l’odore delle pecore», che si senta quello -;
invece di essere pastori in mezzo al proprio gregge e pescatori di uomini...
È bene che la realtà stessa ci porti ad andare là dove ciò che siamo per grazia
appare chiaramente come pura grazia”.[f5]
Gesù: dar da mangiare a una folla affamata. Avevano appena fatto l’esperienza di rappresentare il loro Signore, predicando il vangelo, curando ammalati e scacciando demoni (Mc 6,12-13.30). Ora dovranno imparare, accanto a lui, ad aver compassione di fronte ai bisognosi e dedicarsi ad altre missioni meno ‘gloriose’: prendersi cura di una folla senza pane è, anche, compito dell’apostolo di Cristo, missione ineludibile, perché chiesta dal Signore stesso (Mc 6,37).
1. Capire il testo
L’episodio si compone di due scene: il ritorno degli apostoli (Mc 6,30-32) e la moltiplicazione dei pani (Mc 6,33-44).[f6]
La prima scena, senza localizzazione concreta,[f7] fa da sommario che serve come introduzione al racconto del miracolo (cfr. Mc 6,31.32) e come logica conclusione del racconto del primo invio (Mc 6,6b-13). La missione dei dodici[f8] rimane così vincolata al miracolo della prima moltiplicazione dei pani. In effetti, è stato in seguito al successo della missione dei suoi inviati che la folla accorre a Gesù (Mc 6,33). Dato che corre dietro ai seguaci di Gesù (Mc 6,33), la gente incontra la sua compassione (Mc 6,34).
30 «Gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato. 31 Ed egli disse loro:
“Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’ ”,
Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare.
32 Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte. 33 Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero.»
La seconda scena, la cronaca del miracolo, è più elaborata. In essa si possono individuare tre unità: Gesù scopre la folla che lo cerca (Mc 6,34), i discepoli dialogano con Gesù sulla gente e sulla sua mancanza di risorse (Mc 6,35-38), il racconto del miracolo (Mc 6,39-44).
La moltiplicazione è narrata in modo così sobrio che solamente perché si menziona la cifra dei commensali, ci si può rendere conto della grandezza dell’evento. Il pasto, terzo nel racconto (Mc 1,31; 2,15-17), questa volta ha Gesù come anfitrione di una folla. Provvedendo l’alimento agisce come pastore (cfr. S 22,1.5) di un popolo senza pastori (Mc 6,34).
34 «Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose.
35 Essendosi ormai fatto tardi, gli si avvicinarono i suoi discepoli dicendo:
“Il luogo è deserto ed è ormai tardi; 36 congedali, in modo che andando per le campagne e i villaggi dei dintorni, possano comprarsi da mangiare.”
37 Ma egli rispose loro:
“Voi stessi date loro da mangiare”.
Gli dissero:
“Dobbiamo andare a comprare duecento denari di pane e dare loro da mangiare?”.
38 Ma egli disse loro:
“Quanti pani avete? Andate a vedere”.
Si informarono e dissero:
“Cinque e due pesci”.
39 E ordinò loro di farli sedere tutti, a gruppi, sull’erba verde. 40 E sedettero, a gruppi di cento e di cinquanta. 41 Prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li dava ai suoi discepoli, perché li distribuissero a loro; e divise i due pesci fra tutti. 42 Tutti mangiarono a sazietà, 43 e dei pezzi di pane portarono via dodici ceste piene e quanto restava dei pesci. 44Quelli che avevano mangiato i pani erano cinquemila uomini.»
Dopo la missione compiuta, il meritato riposo
Gli inviati ritornano da Gesù. Nulla viene detto sui luoghi, la durata o i risultati della missione compiuta. Il fatto è che Gesù riunisce attorno a sé nuovamente i suoi apostoli, che hanno esordito nell’incarico loro affidato. Hanno agito e insegnato al posto suo e ora gli rendono conto di quanto hanno realizzato. Gli apostoli ritornano a stare lì dove devono, dove Gesù li vuole, con Lui (cfr. Mc 3,14). La relazione che gli fanno su “tutto quanto hanno fatto e detto” ratifica la loro condizione di delegati di Gesù (Mc 6,30), da cui avevano ricevuto la missione e i poteri (Mc 3,15; 6,7): informare chi lo ha inviato entra nel novero dei compiti ordinari dell’inviato. La missione non finisce fin quando non si rende conto di essa.
Gesù reagisce al comunicato dei suoi missionari proponendo loro di ritirarsi, insieme e da soli, in un luogo appartato (Mc 6,31a).[f9] Accoglie i suoi missionari offrendo loro solitudine e riposo, un luogo solitario per stare da soli insieme. Pensa che dopo l’attività apostolica sia necessario il riposo. Alla fatica della missione segue un invito alla pausa: era quella la pratica personale di Gesù (cfr.Mt 1,35), il quale la vuole anche per i suoi. Gesù ‘difende’ l’apostolo dai suoi destinatari (cfr. Mc 3,20), offrendogli raccoglimento e serenità. La sua accoglienza si prolunga nell’invito a riposare.
Colui che rende conto a chi lo ha inviato, godrà di lui nell’intimità. Coloro che hanno faticato nel suo nome, portando il regno agli uomini, entrano nel circolo dei suoi intimi. Rappresentare Gesù nella predicazione del regno è la forma più sicura di averlo come compagno in esclusiva. L’apostolo, alla fine della sua missione, può – e lo sa – contare sul suo Signore come riposo.
Tale era l’intenzione di Gesù. Ma il trambusto di una folla impedisce loro di riposare (Mc 6,31b). Il particolare serve per enfatizzare l’impegno della moltitudine a incontrare Gesù e la reazione sua e del gruppo: quelli che si sono visti nell’impossibilità di mangiare, si troveranno nella necessità di alimentare una moltitudine. Gli inviati di Gesù, come prima lui stesso (Mc 3,20; 1,35), sono assediati dai destinatari, che li cercano rendendo loro impossibile persino il meritato riposo: così anche il discepolo, richiesto, solidarizza col suo Signore.
Con la gente alle calcagna
Gesù insiste nel condurre i suoi discepoli a un luogo appartato (Mt 1,35.45), lontano dalla folla (Mc 4,10.34; 7,17; 8,13-14; 9,2.28; 13,2). Per questo sceglie la barca (Mc 6,32): navigare sul lago evita l’inseguimento e rende possibile il riposo comune. Per lo meno, è quanto persegue Gesù nel suo tentativo di sfuggire. Ma la folla non ci sta a vedersi abbandonata: testimone del tentativo del gruppo, lo segue camminando a terra e riesce a precederlo, arrivando prima al luogo dello sbarco (cfr. Mc 6,45). Al corteo si unisce gente proveniente da tutte le città dei dintorni del lago, dove passano, logicamente, quelli che inseguono Gesù (Mc 6,33).[f10]
L’osservazione è esagerata. Il racconto guadagna così in effetto drammatico quel che perde in verosimiglianza storica. Riesce improbabile che una folla via terra raggiunga il gruppo che si è allontanato in barca. Ma quel che interessa al narratore è di evidenziare il gran numero, sempre crescente, che segue Gesù (Mc 5,21.24.27.30.31), anche contro la sua volontà. E’ la moltitudine che frustra il progetto di Gesù e il riposo degli apostoli. Non li lascerà riposare né permetterà che si disinteressino di essa.
La compassione, il modo de essere messia
Scendendo dalla barca, Gesù incontra una folla che lo stava aspettando (cfr. Mc 5,2.21; 6,54) e con delle necessità che non possono attendere (Mc 6,34. Al vedere la folla, sente compassione (cfr.Mc 1,44; 8,2; 9,33). Il suo tentativo di lasciarla, motivato dal bisogno dei suoi apostoli, non lo ha fatto diventare insensibile di fronte ad essa; non essendo riuscito a sviarla, dovrà badare ad essa misericordiosamente.
Di fatto, anche solo vedendola, sente compassione. Non si annota altra causa, se non lo stato di abbandono in cui si trova la gente: erano “come pecore senza pastore” (cfr. Ez 34,9-11). Il narratore non vuole risaltare i buoni sentimenti di Gesù ma descriverne la missione personale. Gesù coglie l’ansia di trovarlo come segno della profonda privazione in cui vivono. Il bisogno della folla lo commuove; la sua compassione riflette la passione di Dio per il suo popolo (cfr. Es 16; Nm 11). L’immagine del gregge senza pastore spiega la ragione della preoccupazione di Gesù. Il popolo di Dio è giunto ad essere come un gregge senza guide né custodi (cfr. Nm 27,17; 1 Re 22,17; Ez 34,5-6). Quel che Gesù farà in seguito è una chiara dimostrazione della ‘leadership’ di cui ha bisogno il suo popolo.
La preoccupazione di Gesù maestro di moltitudini è messianica: lascia trasparire la preoccupazione di Dio, supremo Pastore,[f11] per il suo popolo. Per questo, la compassione lo converte in pastore e messia. Colpisce che, prima di provvederli di pane, dia loro la sua parola. Comincia a svolgere la missione di pastore, facendo il maestro. Il primo elemento che procura è il suo insegnamento. Il popolo di Dio riceve prima istruzione, poi alimento. Mosso dalla compassione Gesù si fa evangelista: quel che la gente riceverà da lui, lunga istruzione e pochi alimenti, sarà frutto della sua misericordia.
Avvertire il bisogno, compito del discepolo
La gente che si mette ad ascoltarlo non si rende conto del passar delle ore, né sentono il bisogno d’altro. Tanto li soddisfa la parola del loro messia. Si sentono così bene che non sentono fame. Sono i discepoli ad avvisarlo che si è fatto tardi e della lontananza in cui si trovano dai luoghi abitati (Mc 6,35). Giunta l’ora del pasto principale della giornata, pregano G., con la migliore delle intenzioni, di congedare gli ascoltatori affinché essi stessi si provvedano del necessario sostentamento. Si accorgono che la folla potrebbe aver fame, ma non si sentono obbligati a intervenire. Il suggerimento dei discepoli non intende far terminare l’insegnamento di Gesù ma solo di interromperlo. E’ certamente qualcosa di benintenzionato, anche se interessato (Mc 6,36).
In modo indiretto, si allude alla mancanza di provviste tra la gente. Quando erano partiti alla ricerca di Gesù, non avevano pensato di rimanere con lui. Si dà anche per scontato che avrebbero avuto i mezzi sufficienti per procurarsi il necessario. Se ora si trovano in necessità è perché prima hanno trascorso il tempo ascoltando Gesù. La fame compare perché Gesù non ha interrotto a tempo il suo discorso: il loro bisogno di ascoltarlo è stato più grande che il loro bisogno di alimento. In certo qual modo, è Gesù il responsabile della loro fame. Pur non rimproverandoglielo, i discepoli fanno in modo che Gesù se ne accorga. Destino curioso, questo, tipico dei discepoli, di far cadere Gesù dalle nuvole, segnalandogli le urgenze più vitali dei suoi ascoltatori!
Un ordine inatteso di Gesù
Gesù sorprende i discepoli con l’ordine, insolito, di essere loro a occuparsi di dar da mangiare alla folla (Mc 6,37a). Non avevano fatto nulla per arrivare a quella situazione, eccetto di avvertirla, e ora dovevano prendere la responsabilità di trovare una soluzione! I discepoli prendono sul serio l’indicazione di Gesù e si chiedono se devono andare a comprare pane per tutti gli ascoltatori. Non sarebbero bastati nemmeno duecento denari, una quantità di cui non disponevano i discepoli (Mc 6,8)[f12] e che, per giunta, non sarebbe stata sufficiente per soddisfare nemmeno un migliaio di persone (Mc 6,44: «erano cinquemila uomini»).
La domanda dei discepoli lascia intendere l’impossibilità del compito affidato e la loro incapacità di immaginare quel che si proponeva Gesù (Mc 6,37b). Mentre essi pensano al molto che manca loro, Gesù sta già facendo assegnamento su quel poco che hanno. In questo modo il relatore vuole preparare il lettore ad apprezzare la grandezza del miracolo e, allo stesso tempo, insiste nuovamente sull’incomprensione dei discepoli. Continuavano a non tenere presente il potere di Gesù, pur avendolo già sperimentato (cfr. Mc 4,35-41). Rimanere accanto a Gesù non li liberava dalla loro penuria di risorse, ma dava loro la possibilità di ricorrere a lui: per loro contava solo quel che mancava, non l’avere Gesù a fianco! (cfr. Mc 6,51-52). Avevano Lui … e li preoccupava solo la scarsità di quel che possedevano!
Gesù non risponde all’obbiezione dei discepoli, li interroga sulle loro provvigioni. Non si preoccupa di quel che non possiedono, gli interessa sapere cosa hanno. Obbligandoli a verificare la quantità irrisoria delle provviste a disposizione, Gesù non cerca di sviarli dall’ordine impartito; vuole aiutarli a compierla. Vuole, questo sì, renderli consapevoli della loro incapacità a realizzare l’ordine dato. Cinque pani e due pesci, alimento abituale dei pescatori (cfr. Lc 24,42; Gv 21,9), è tutto quanto avevano (Mc 6,38).[f13] E quello appena sarebbe bastato per alimentare i dodici e Gesù.
La constatazione dell’esiguità delle provviste serve per sottolineare l’eccezionalità dell’operato di Gesù. Il portento sarà tanto maggiore quanto è minore la base su cui poggia (Mc 8,5; cfr. 1 Re 17,12; 2 Re 4,42): quel poco che gli danno i discepoli, se è tutto quel che hanno, è materia idonea per il miracolo.
Amministratori del portento, nonostante le loro carenze
Facendo loro constatare l’impossibilità di assolvere il compito ad essi affidato, Gesù prende l’iniziativa e agisce come unico anfitrione, padrone della situazione. Comanda alla gente lui stesso – non i suoi discepoli : Lc 9,14 – di sedere sull’ erba verde (Mc 6,39)[f14] e di riunirsi a grandi gruppi (Mc 6,40). [f15] Trasforma l’aperta campagna in sala di banchetto per una folla, come aveva fatto Dio, in altri tempi, nel deserto (cfr. Es 16; Num 11); si fa aiutare dai discepoli per servire i commensali. Attorno alla tavola di Gesù, all’aria aperta, si congrega una moltitudine che, soddisfatta la necessità della parola, si sazia di pane e si ricostituisce come popolo di Dio. E i discepoli saranno esecutori della volontà di Gesù e, per questo, amministratori del suo miracolo.
A Marco non interessa raccontarci come avvenne la moltiplicazione. Richiama l’attenzione sulle conseguenze di essa. Gesù ripartisce le sostanze dei suoi discepoli come un padre di famiglia distribuisce il pane ai suoi: prendendolo, benedicendolo, spezzandolo e dandolo a distribuire (Mc 6,41). La lode a Dio, com’è d’abitudine, introduce il pasto comune (cfr. Mc 14,22).[f16]
E’ qui dove i suoi discepoli ricevono nuovamente una missione. Devono fare arrivare il pane benedetto e spezzato da Gesù alla folla bisognosa di pastori. Gesù da solo non ce la farebbe; vengono così associati al ministero del loro Signore. Il servizio apostolico, la diaconia delle mense, è conseguenza della compassione di Gesù e del bisogno della gente. Coloro che non hanno potuto saziare la fame della gente, potranno almeno aiutare a distribuire il pane di Gesù, che ha utilizzato la scarsità di risorse dei suoi per alimentare una moltitudine di “cinquemila uomini” (Mc 6,44).
Gesù non può lasciare che rimanga affamato di pane chi soffre la fame perché è rimasto ad ascoltarlo. Avvicinare il regno agli uomini esige anche di soddisfare i loro bisogni più vitali. Ma questo nuovo compito è posteriore alla missione condivisa, ne è conseguenza.
Un miracolo da riconoscere
Conoscere adesso, alla fine del racconto, il numero dei commensali serve a sottolineare la straordinarietà del miracolo. Per ogni pane consegnato vi furono mille persone – uomini, quelli presi in considerazione dal narratore – soddisfatte (Mc 6,44) e resti abbondanti: i dodici canestri (Mc 6,34), uno per apostolo, sono prova palpabile dell’efficacia della benedizione di Gesù.
La folla non sembra rendersi conto della moltiplicazione (Mc 6,42). Avendo saziato la loro fame, hanno sperimentato la compassione di Gesù. Ma non sapranno riconoscerla, né si riconosceranno specialmente toccati da essa. Sono i discepoli, che erano al corrente della scarsità delle vivande, quelli che possono rendersi conto della grandezza del miracolo. Ma, significativamente, non si racconta nessuna reazione loro. Si ricorda, invece, che hanno raccolto quel che avanzava, come d’obbligo. I discepoli, testimoni muti del miracolo, raccolsero, come avanzi, molto più di quanto avevano e avevano messo a disposizione. Tanto è stato generoso Gesù con essi.
L’operato di Gesù risulta così doppiamente gratuito: perché non risulta né chiesto pubblicamente, né riconosciuto come tale. Come, prima, l’insegnamento protratto a lungo, così il miracolo è generoso e gratuito. E’ questa la misura della compassione di Gesù verso la sua gente. Non meno suggestivo è il fatto che Gesù, per poter saziare la moltitudine, per mostrare la sua compassione, abbia fatto ricorso alla povertà dei suoi discepoli; essi diedero quel poco che avevano, ma era tutto; ciascuno raccolse un canestro pieno zeppo.
2. Applicarlo alla vita
Non è molto comune questo Gesù in ritirata, cercando di evitare la gente che lo cerca, per stare coi suoi discepoli. Normalmente, se si ritira, è per pregare da solo. Cosa ci può suggerire questo impegno di Gesù per badare ai suoi discepoli di ritorno dalla prima missione o la sua intenzione di ritirarsi con essi a riposare? Perché ‘pagare loro’ la prima missione con un tempo di riposo? E’ così importante la convivenza con gli inviati da spingerlo a nascondersi da chi lo cerca con tanta necessità e con tanti accorgimenti? Come spiegare una simile reazione da parte di Gesù?
La compassione di Gesù è conseguenza della sua contemplazione della gente con gli occhi di Dio. Un popolo alla deriva suscita la passione di Dio nei suoi testimoni. Sempre, anche oggi? La misericordia di Gesù nei confronti delle moltitudini priva i suoi seguaci del riposo promesso, prima, e del necessario sostentamento, dopo. Anzi, testimoni della sua compassione, dovranno mettersi al suo servizio, affinché Gesù raggiunga tutta una moltitudine bisognosa. Dove sono i missionari compassionevoli che interrompono il loro allontanamento e il loro riposo, per prendersi cura di chi non gode di attenzioni da parte di nessuno e non ha chi si preoccupi di lui? Perché non si riempie di misericordia il cuore degli apostoli di Cristo?
Davanti al popolo di Dio, i suoi inviati non possono accontentarsi di essere i primi ad avvertirne lo stato di necessità. Continuano forse oggi gli apostoli a disinteressarsi dei vari tipi di fame che si verificano nella gente? Non sembra che pensino che quel poco di cui essi dispongono non è sufficiente per tante necessità, pretendendo così di rimanere con la loro povertà? Perché gli apostoli non mettono ciò che hanno a disposizione di Gesù? Sarà forse perché pensano che Egli non può, con le loro pochezze, continuare a far miracoli?
Seguire Gesù e servire la moltitudine che lo cerca è ciò che caratterizza i predicatori del Regno. La gente, che non deve ai discepoli né la fame né la soddisfazione di essa, ha bisogno di loro assieme a Gesù per essere saziata. Non sono i discepoli a prendere la iniziativa, ma sono quelli che eseguiscono gli ordini. Gesù, per essere compassionevole, e la folla, per essere saziata, hanno bisogno degli apostoli, anche se essi, durante tutto l’evento, sono semplici invitati di pietra. Furono testimoni della fame della gente e della moltiplicazione delle loro riserve; grazie a quello, la compassione di Gesù fu efficace e la gente ebbe il suo pastore.
3. Pregare la Parola
Mi fa pensare, Signore, che il bisogno di Dio che soffre il tuo popolo non ti permetta di offrirmi il riposo che desidereresti, quando ritorno dalla missione che mi hai affidato. Mi turba il non disporre di più tempo con te, godendo così di te da solo e rimettendomi accanto a te? Accetto di buon grado che tu interrompa la gioia comune, per prendersi cura di chi ha più bisogno, i nostri destinatari, i tuoi, quelli che mi hai affidato? Se non condividiamo un riposo comune, condividi per lo meno con me le persone che hanno bisogno di Dio.
Non mettermi davanti compiti impossibili. Non incaricarmi di dare risposta a tutti i bisogni che scopro nel tuo popolo. Ma disponi di me e delle mie scarse risorse.., se ci pensi tu a risolverli. Moltiplica quel che posso mettere a tua disposizione, affinché il tuo popolo non soffra più necessità, né di pane, né della tua parola. Sarà poco quel che posso fare e ridotte le mie provvigioni, ma tutto rimane a tua disposizione, purché tu lo usi come mezzo per esprimere la tua compassione.
Serviti di me per scoprire di cosa ha bisogno il tuo popolo. Anche se è poco quel che ho. Serviti delle mie cose per calmare la necessità del tuo popolo. Non mi vergognerò della mia povertà, se tu la usi per salvare. Fa di me uno strumento della tua compassione e amministratore della tua misericordia. E se per riuscirci dovessi prendere tutto quel che ho, dispònine fin d’adesso. Qualunque cosa succeda, l’unica cosa che mi importa è che ti serva e che serva al nostro popolo. Converti la mia povertà in segno della tua compassione. Moltiplica la mia scarsità per il bene del tuo popolo.
[f2] L. Ricceri, Prologo, XX Capitolo Generale Speciale Salesiano (Roma, 1972) 16.
[f3] Giovanni Paolo II, Vita consecrata. Esortazione apostolica post-sinodal (25 marzo 1996), n. 72. La corsiva è mia.
[f4] MB XVIII, 258. «Io per voi studio, per voi lavaro, per voi vivo, per voi sono disposto anche a dare la vita» (Don Ruffino, Cronaca dell’Oratorio: ASC 110, quaderno 5, 10).
[f5] Papa Francesco, Omelia della Santa Messa del Crisma, 28 marzo 2013. Cfr. http://www.vatican.va/holy_father/francesco/homilies/2013/documents/papa-francesco_20130328_messa-crismale_it.html.
[f6] L’ episodio è uno tra i meglio testimoniati nella tradizione evangelica. I quattro evangelisti lo conoscono: Marco e Matteo lo raccontano due volte (Mc 6,30-44; 8,1-10; Mt 14,13-21; 15,32-39); Luca e Giovanni, una sola (Lc 9,10-17; Gv 6,1-13). Il che fa probabile un certo nucleo storico dell’evento e, anche se non fosse questo il caso, l’importanza a esso attribuita dalla generazione apostolica per la ricostruzione del ministero pubblico di Gesù.
[f7] Lc 9,10 menziona Betsaida.
[f8] Mc 6,30 è l’unico a utilizzare il termine apostoli per riferirsi al gruppo dei dodici (Mc 6,7). Il senso più probabile è di inviato, legittimo rappresentante (cfr. Lc 11,49).
[f9] Tranne in una occasione (Mc 7,33), Marco utilizza l’espressione kat’idian (= da solo) sempre in relazione con i discepoli (Mc 4,34; 6,31.33; 9,2.28; 13,3)!.
[f10] Gesù e i suoi discepoli sono, durante il ministerio in Galilea, normalmente ricercati dalla gente: Mc 2,2; 3,7.10.20.32; 4,1; 5,21.24.27; 6,45.
[f12] Sarebbe, più o meno, il salario di una giornata di lavoro durante un’intero anno.
[f13] In Gv 6,8-9 i discepoli sono ancor più sprovvisti; è Andrea chi informa Gesù sul ragazzo che n’aveva cinque pani d’orzo e due pesci, ma «che cos’è questo per tanta gente?».
[f14] C’è da trovare qui un’allusione alla cura pastorale di Dio (cfr. Sal 22,2) o è piuttosto prova della vicinanza della Pasqua (cfr. Jn 6,4)?
[f15] L’accenno all’esodo è evidente: in luogo deserto (Mc 6,32), la comunità ha il pastore che la guida (Nm 27,17; Sal 22,1) e provvede alimento per gruppi di centocinquanta persone (Es 18,21-25; Nm 31,14). Nei gesti di Gesù (Mc 6,41) si intravvede pure la primitiva pratica eucaristica (Mc 14,22); come pure, nella sua preoccupazione perché niente vada perso (Mc 6,43).
[f16] La narrazione per se non riflette la pratica eucaristica. Però, letta nelle prime comunità cristiane, dovrebbe farle ‘risentire’ il modo come loro celebravano la mensa del Signore.
Prendersi cura del piccolo
perché Dio si prenda cura di noi
(Mt 18,1-14)
“Insomma trattiamo i giovani, come Gesù Cristo stesso tratteremmo,
se fanciullo abitasse in questo collegio.”[g1]
Una domanda dei discepoli provoca un lungo discorso di Gesù, il quarto dei cinque che presenta Matteo (Mt 18,2-35; 5,1-7.29; 10,5-11,1; 13,1-52; 24,1-25,46). E’ l’unica volta che Matteo introduce un discorso di Gesù in questo modo (Mt 18,1): non si tratta, quindi, di una istruzione voluta da Gesù, bensì di un insegnamento provocato dai discepoli.
Possiamo distinguere in esso tre unità letterarie ben differenti, che richiedono una pratica pastorale tra fratelli, motivata sempre dal volere del Padre (Mt 18,10.14.39): la cura pastorale del piccolo (Mt 18,1-14), la correzione dell’offensore (Mt 18,15-20) e il perdono al fratello (Mt 18,21-39). Limitiamo la nostra riflessione al primo blocco (Mt 18,1-14) che regola i rapporti comunitari già esistenti. Non parla, quindi, di instaurare una vita in comune, dice invece come si deve vivere.
I. Essere come bambini, una conversione necessaria
Destinatari del discorso sono i «discepoli che si avvicinano a Gesù» (Mt 18,1; cfr. 10,5; 13,36), cioè tutti i credenti, membri della comunità cristiana, e non solo coloro che esercitano un qualche ministero o autorità.[g2] Sono essi che interrogano. Nella sua risposta Gesù si allontana, sempre più, dalla preoccupazione iniziale, presa più come pretesto che come motivo del discorso. Quelle che presenta sono, pertanto, norme per la vita comunitaria, atteggiamenti che devono praticare tutti coloro che vivono in comunità, indipendentemente dalle funzioni che vi esercitano. Delinea in questo modo l’atteggiamento radicale e il comportamento concreto che devono esserci tra discepoli di Cristo che vivono quotidianamente insieme.
1. Capire il testo
Introdotto dalla questione circa il più grande nel regno, il testo ha come motivo ricorrente il bambino e il piccolo nella comunità. Al principio, il bambino è una persona concreta (Mt 18,2) che si deve imitare, accogliere e non scandalizzare (Mt 18,3-5); poi finisce per essere un’immagine equivalente al discepolo.
Nella prima scena (Mt 18,1-5) si presenta il bambino come condizione per entrare nel regno e come criterio di accoglienza di Cristo. Rispondendo alla domanda dei suoi discepoli (Mt 18,1), Gesù pronuncia tre importanti sentenze (Mt 18,3-5) che, introdotte con un enfatico in verità si incentrano sul bambino, sia come persona reale (Mt 18,2) sia come figura ideale (Mt 18,3.4.5).[g3]
1 In quel momento i discepoli si avvicinarono a Gesù dicendo:
«Chi dunque è più grande nel regno dei cieli?».
2Allora chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro 3 e disse:
« In verità io vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. 4 Perciò chiunque si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli.
5 E chi accoglierà un solo bambino come questo nel mio nome, accoglie me.»
Una domanda dei discepoli apre la scena e motiva l’insegnamento (Mt 18,1: «Chi è più grande nel regno dei cieli?»). I discepoli si avvicinano a Gesù col desiderio di venire istruiti su qualcosa che concerne il regno e Dio.
Una preoccupazione che fa onore al discepolo (Mt 18,1)
La domanda non è ingenua e nemmeno fuori luogo, come potrebbe sembrare a prima vista:[g4] giungere ad essere grande al cospetto di Dio era anelito supremo del credente. I discepoli non stanno discutendo su chi può essere il più grande di loro; vogliono sapere chi sarà considerato il maggiore da Dio nel suo regno. Quelli che domandano non stanno pensando a se stessi; la loro preoccupazione, lungi dal denotare interesse o egoismo, è nettamente spirituale: sono interessati non a onori o primati di tipo gerarchico nel seno della comunità, ma alla grandezza definitiva secondo il progetto salvifico di Dio.
La questione, allora, non riguarda i discepoli di Gesù ma l’ordinamento interno del regno di Dio: cercano solo di conoscere l’ordine che regna dove e quando Dio regna. La comunità dei discepoli non è ancora il regno di Dio, ma è chiamata a esserlo; il suo modo di vivere è – o meglio: dovrebbe essere – figura e anticipazione di come si vive nel regno. I discepoli si interrogano su questo comportamento di oggi che un giorno li renderà grandi alla presenza di Dio. Senza trovarsi ancora nel regno, i discepoli vogliono vivere fin d’adesso secondo le sue norme.
Matteo ha presentato come destinatari del discorso di Gesù dei discepoli interessati alle leggi del regno.[g5] Preoccuparsi per Dio e la sua sovranità, stando dove ancora sono in cammino, quando ancora se ne sente la mancanza, fa onore ai discepoli. Preoccuparsi per quel che deve venire, costituisce un motivo per avvicinarsi al Signore e apprendere da lui i segreti del regno. Una comunità che vive ignorando Dio e senza che le importi nulla del suo regno non permette che Cristo le insegni, smette di essere sua discepola. Per ritornare alla scuola di Cristo bisogna ritornare ad interessarsi delle cose che non passano, quelle che hanno futuro: Dio e il suo regno.
Il bambino, misura della grandezza (Mt 18,2-4)
Gesù comincia a rispondere con un’azione simbolica, quella di mettere un bambino al centro (Mt 18,2). Il gesto precede la parola e ne fissa in anticipo, plasticamente, il senso (Mt 18,3-4): il bambino, ancora troppo piccolo per poter appartenere al mondo degli adulti, è il prototipo del più grande nel regno di Dio.[g6] La scena è già in se stessa immagine eloquente del regno di Dio, annuncio reale delle sue preferenze.[g7]
A continuazione Gesù spiega con autorevolezza il suo comportamento. Le sue parole, malgrado ciò, non corrispondono bene alla domanda dei discepoli, che era stata generica; non lo è l’istruzione impartita da Gesù. Quelli che domandavano davano per scontata la loro entrata nel regno, dato che volevano sapere chi sarebbe stato il maggiore là. Gesù li corregge, rispondendo che, prima di pensare di essere grande nel regno, bisognerà diventare degno di entrare in esso. E non vi entrerà chi non si converte facendosi come un bambino.
«Entrare nel regno dei cieli»(cfr. Mt 5,20; 7,21; 19,23-24; 23,13) non fa riferimento a qualche forma di spazio. Più che arrivare a un luogo, implica rimanere soggetto al dominio di Dio, farsi suddito del suo volere, rimanere assoggettato alla sua volontà. Come condizione per arrivare ad avere Dio come re, l’espressione «convertirsi e farsi come bambini» esige un cambio radicale, non solo di condotta, ma anche di orientamento fondamentale della vita. Convertirsi significa invertire la marcia, percorrere a ritroso il cammino fatto, abbandonare, retrocedendo, il modo attuale di essere, lasciarsi dietro quel che si è arrivati a essere. Si tratta più di un processo da mettere in movimento che di una operazione da fare una volta per tutte (cfr. Gv 3,4-5). Questo ritorno viene concretizzato come farsi come bambini, che, detto ad un adulto, implica che si comporti come se non fosse tale, come se fosse un piccolo.
Il bambino, in questo caso meta di un comportamento adulto, non è, per definizione, umile, né suole rinunciare ai propri diritti consapevolmente. Ma, in quanto bambino, non può aspirare a una posizione sociale rilevante. Non viene presentato come ideale di vita, né come stimolo nostalgico verso il passato. Non è proposto come paradigma di innocenza, di semplicità, e nemmeno come assenza di peccato; è, questo sì, modello di una vita senza pretese, socialmente insignificante. Il bambino, in quanto tale, non sempre è duttile né generoso, ma vivrà sempre in dipendenza, bisognoso dell’aiuto dell’adulto. L’adulto, per diventare bambino, deve rinunciare ad essere indipendente e autosufficiente, lasciarsi accudire. Essere come un bambino suppone, inoltre, di aver bisogno di protezione da parte di tutti, sapere di essere oggetto di attenzioni per qualsiasi cosa; chi accetta di abbassarsi sarà esaltato, cioè grande nel regno (Mt 18,1).[g8]
Gesù rende concreto ancora di più la conversione richiesta per entrare nel regno: diventare come questo bambino, abbassarsi al livello del piccolo che aveva messo significativamente al centro dell’attenzione dei discepoli, richiede un profondo cambiamento: spogliarsi delle sicurezze proprie dell’adulto e accettare di rimanere indifeso e insignificante come il piccolino. Tale conversione non è un cammino ascetico di annullamento del proprio io né un esercizio di cieca sottomissione;[g9] nel cristiano indica un servizio concreto a Dio e/o al prossimo (Mt 23,12; Lc 14,11; 18,14; 2 Cor 11,7; 12,21).
Lo stato di non considerazione e di insignificanza che rappresenta il bambino agli occhi dell‘adulto, assunto dal discepolo in forma consapevole, è la garanzia del cambio realizzato e dà , pertanto, sicurezza di entrare nel Regno. Ma, ed è questo l’aspetto più sorprendente, colui che riesce a farsi come quel bambino non entrerà nel regno dei cieli come uno dei tanti, ma sarà il più grande di tutti i cittadini di esso. Il discepolo, che ha il bambino come modello e meta della conversione, rifiuta di candidarsi, rifugge dalle dignità, si vede piccolo e bisognoso, debole e magari sottovalutato, si accontenta di quel che ha ed è grato per quel che gli danno. Il discepolo che desidera di essere cittadino del regno deve sentirsi davanti a Dio come un piccolo bisognoso di cure, per quanto grande sia giunto ad essere, in continuo sviluppo e in dipendenza permanente, pur essendo già un vero adulto.
Il regno di Dio è patrimonio di coloro che si sentono ancora piccoli e immaturi per quanto siano cresciuti e maturati. Si basa su questo la stessa possibilità di entrare nel regno. Il rovesciamento dei valori non potrebbe essere maggiore, più radicale né meno evidente: chi abbisogna di tutto, poiché dipende da tutti, colui che è superato da tutti i più grandi, sarà il più grande agli occhi di tutti quando Dio regnerà. La legge che regola il comportamento di Dio re esige un cambio radicale nel comportamento di chi sogna di esserne suddito: la conversione che impone il regno di Dio è, fondamentalmente, una inversione totale dell’ordinamento umano normale (cfr. Mt 20,26-28; 23,11-12).
Il comportamento di Gesù che sceglie il bambino come rappresentante del ‘più grande’ nel regno mette in discussione valori sociali intoccabili, così come radicate consuetudini ecclesiali. E non possiamo neanche dire che sia la legge che regge oggi la nostra vita comunitaria. Giacché irrilevante per la società e non atto all’adempimento della legge, il bambino non ha importanza, vale poco, conta poco. Ebbene, diventare qualcuno che non ha importanza è la conversione che esige Gesù da chi desidera importare molto a Dio.
Il piccolo, oggetto di attenzioni (Mt 18,5)
Dopo aver invitato a farsi come bambini, Gesù esorta i suoi discepoli ad accogliere il bambino che poco prima ha posto al centro della loro attenzione (Mt 18,2). Il bambino ora non è più il soggetto da imitare, ma oggetto di accoglienza e di ospitalità, qualcosa, d’altra parte, di raccomandabile (Bill I 774-775).
Ma introducendo ora il tema dell’accoglienza del bambino, si produce una certa discontinuità con quanto precede. [g10] E’ probabile che Matteo, seguendo Mc 9,37, esorti a prendersi cura dei bambini che, nella comunità, hanno più bisogno di aiuto, sono più esposti al disprezzo; la loro debolezza e insignificanza li rende meritevoli di maggiori cure.[g11] Si tratta, allora, di accogliere quanti, nella comunità, essendosi umiliati e fatti bambini, sono diventati indifesi e possono essere facilmente oggetto di poca considerazione e di abuso.
Il discepolo che si fa «come» un bambino si emargina dal mondo degli adulti. Il piccolo è facile preda dei grandi; il maldestro, dei furbi. Nella comunità cristiana, invece, il minore deve essere oggetto di maggiore cura e di migliori attenzioni. Ora, la preoccupazione per il minore deve avere come motivo Gesù stesso, perché è «nel suo nome», a motivo di Lui, che dovranno essere accolti. Le attenzioni che merita uno che si è fatto piccolo sono, in realtà, omaggio alla persona del Signore comune: Gesù si nasconde dietro il debole (Mt 25,40). Chi ha più bisogno di assistenza è chi meglio Lo rappresenta (cfr. Lc 22,27). L’identificazione è reale, anche se misteriosa: è una scelta di Gesù – e quindi un obbligo del credente – il vedersi accolto quando viene accolto uno di questi bambini con cui si è identificato. I più insignificanti rappresentano il Signore (cfr. Gv 13,20), il bambino è il luogotenente di Dio (cfr. Mt 25,35-40).
Il discepolo che si fa inferiore e bisognoso degli altri offre alla propria comunità l’occasione di avere e prendersi cura del suo Signore. Una comunità che offra protezione e riparo non già a bambini ma a quei discepoli che non hanno un protettore, accoglie il proprio Dio. Poiché sa che nel discepolo-bambino è nascosto Cristo Gesù e sa che le sue attenzioni nei riguardi del «piccolo» misurano la sua conversione a Cristo. Finché ci sono discepoli bisognosi di stima e di cure, la comunità non può sentirsi salvata: “la legge rimane in vigore fino alla decisione definitiva nel grande giudizio finale” [g12] cfr. Mt 25,40-45). E chi lo sta sollecitando, tarderà poco a compierlo (Mt 19,13-15): l’esempio del suo Signore ne rende meno eludibile la pratica nella Chiesa. In essa chi aspira ad ‘essere di più’ si fa più piccolo e i più piccoli sono quelli che ottengono maggiori attenzioni.
2. Applicarlo alla vita
Sento qualche profonda preoccupazione che mi porti a Cristo? Oppure sono troppe le inquietudini che, rimaste aperte, mi separano da lui? I miei problemi fanno di me un discepolo di Cristo, ossia, voglio vederli come Lui li vede e trovare la soluzione dove egli la colloca? Perché non mi conducono a Cristo i miei interrogativi? A chi o a che cosa mi conducono, allora?
Sento ansia di potere, bisogno di essere considerato, paura di essere sottovalutato? Posso andare avanti senza un riconoscimento pubblico o passo un brutto momento quando mi sento dimenticato? Mi sento poco apprezzato nella comunità? Che tipo di grandezze desidero o mi stimolano di più? E’ Dio e il suo regno quel che desidero maggiormente?
Non starò dando per scontata la mia entrata nel regno? E’ proprio un tema di cui parlo o su cui pongo domande, un motivo che mi porta a Cristo? Non ho ancora proprio nulla da imparare da lui per giungere a essere suddito del suo regno? Su che cosa baso la mia sicurezza che un giorno starò con lui nel suo regno?
Vedo, come Cristo, nella piccolezza e nella debolezza un grande avvenire? Come mai rifuggo dall’essere – o anche solo dall’apparire – debole e insignificante, se questo è segno di grandezza davanti a Dio? Farmi come bambino è oggi – è stato in qualche occasione – meta del mio progetto spirituale? Non è, piuttosto, vero che dipendere dagli altri mi sconcerta profondamente? Non è forse vero che quanto più grande sono, tanto più mi sento a disagio se non colgo l’apprezzamento degli altri?
Vivo in comunità la legge evangelica per cui il piccolo, bisognoso e inutile è il maggiore? Vive la mia comunità secondo questa legge? Accolgo come se fosse il Signore stesso colui che nella mia comunità è piccolo? So – lo accetto – che il minore in essa, il più bisognoso, è colui che meglio rappresenta Cristo (cfr. Mt 25,35-40)? Sapendolo, non cambierà nulla nella mia vita?
3. Pregare la Parola
Signore Gesù, comincio confessandoti che non mi vedo ben rispecchiato nei tuoi primi discepoli: non mi preoccupa l’essere grande nel tuo regno quanto piuttosto essere considerato importante oggi sulla terra. Se nemmeno l’ansia di entrare nel tuo regno mi porta a te, cos’è che, veramente importante, potrebbe condurmi a te? Dammi ansia di grandezze nel tuo regno, perché possa incontrarti di nuovo, sovrano e Signore, nel mio cammino.
Sei sorprendente, Signore. Non è certamente l’arrivare ad essere come un bambino quel che più mi preoccupa; e se anche lo desiderassi – non ti nascondo di averlo desiderato/pensato qualche volta – non sarebbe per questi motivi. La infanzia che rimpiango è per me il tempo dell’innocenza senza sforzo. Tu, invece, mi proponi un modo di essere credente adulto e responsabile che rinunci a disporre degli altri o a farsi valere davanti a loro, che sappia riposare con quel che ha e viva contento di quel che ha. Crea in me questo cuore che non ambisce onori che superino la mia capacità; fa riposare in te, Padre, il mio cuore e i suoi aneliti, come il bambino in grembo a sua madre riposa sereno e soddisfatto (cfr. S 131, 1-2).
Sii tu, mio Signore, il mio interesse, l’occupazione delle mie mani, la preoccupazione della mia vita. Siano tutti i tuoi, i più piccoli, coloro che danno un senso alla mia vita, occupano il mio cuore e fanno lavorare le mie mani. Aiutami a essere per essi quel fratello che tu hai pensato di dare loro, il sollievo di cui abbisognano, la mano sempre tesa in loro aiuto, l’occhio attento alle loro lamentele, la parola che calma e incoraggia, gli occhi che li guardano ( e li ammirano!) con i tuoi occhi, e il cuore che ricordi loro il tuo Cuore. Fammi più piccolo, Signore, perché possa rappresentarti tra loro. A ben guardare, come mi hai reso facile essere tuo ambasciatore! Potrei forse aspirare a un miglior presente e ad un avvenire migliore? Fammi tanto piccolo come vuoi oggi, e un giorno sarò tanto grande quanto mi avrai voluto!
II. Chi può di meno, ha più bisogno di noi
Il «piccolo» passa adesso da paradigma di vita e meta di conversione (Mt 18,1-5) ad essere oggetto di cura pastorale (Mt 18,6-14). Gesù approfitta della presenza del bambino in mezzo ai suoi discepoli per indicare loro un nuovo compito: tra i suoi, chi può di meno ed ha più bisogno deve godere di maggiori attenzioni. Si tratta di una esigenza che non dovremmo dimenticare né passare sotto silenzio: tra i discepoli di Cristo quelli che contano di meno sono quelli che meritano più attenzione/impegno. Giova ben poco ambire di essere più grande se sono i deboli e i piccoli quelli che devono essere i più onorati!
1. Capire il testo
Mt 18,6-9 non è un testo omogeneo. E’ una collezione di tre sentenze di diversa provenienza,[g] messe insieme senza un collegamento vero e proprio con quel che precede. Tre sono le affermazioni, di tono proverbiale (Mt 18,6.8.9: «conviene», «è meglio») che ammoniscono contro lo scandalizzare i piccoli. Il discorso è cambiato bruscamente di tema e di tono: dal farsi come bambini si passa allo scandalo del piccolo credente, dall’esortazione all’avvertimento. Non si argomenta più con delle promesse (cfr. Mt 18,3-5) ma con una seria minaccia: si parla del castigo per chi scandalizza (Mt 18,6). Pur ammettendo che lo scandalo è inevitabile, non si salva chi lo provoca (Mt 18,7). E si misura la malizia dello scandalo in base alla perdita causata (Mt 18,8-9).[g]
6 «Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, gli conviene che gli venga appesa al collo una macina da mulino e sia gettato nel profondo del mare. 7 Guai al mondo per gli scandali! E’ inevitabile che vengano scandali, ma guai all’uomo a causa del quale viene lo scandalo!
8 Se la tua mano o il tuo piede ti è motivo di scandalo, taglialo e gettalo via da te. E’ meglio per te entrare nella vita monco o zoppo, anziché con due mani o due piedi essere gettato nel fuoco eterno. 9 E se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, cavalo e gettalo via da te. E’ meglio per te entrare nella vita con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geènna del fuoco.»
Lo scandalo è un dato di fatto nella comunità di Matteo, una realtà con cui fare i conti quotidianamente.[g] E sono i più indifesi tra i credenti a soffrirne di più. Scandalizzare significa impedire, bloccare il cammino, far incespicare. Matteo identifica il piccolo come cristiano.[g]
«Uno di questi» è un’espressione poco precisa. Matteo, che la adopera quattro volte (Mt 10,42; 18,6; 10,14), la usa riferendosi ai missionari e ai catecumeni o cristiani di recente conversione. E’ probabile che dietro l’espressione «piccolo che crede»vi siano tutti quei cristiani la cui fede/fedeltà non è ancora molto resistente alla prova. Piccolo non è, allora, qui il minore di età; è il credente adulto che, affidandosi a Cristo, si è fatto piccolo: la sua fede in Cristo non lo rende infantile o debole, ma ha fatto di lui una persona che si è messa a disposizione degli altri. Confidando in Cristo il credente confida nei suoi fratelli.
Attenti a scandalizzare! (Mt 18,6-7)
Il Gesù matteano difende ora coloro che sono facile preda dello scandalo, indifesi o deboli, nella comunità, così come prima ha benedetto coloro che non si sarebbero scandalizzati di lui (Mt 11,6; cfr. 24,10; 26,31). Qui lo ‘scandalo’ deve riferirsi ad ogni ostacolo che si pone a colui che, debole e insignificante, crede in Cristo. Si allude, quindi, a qualsiasi causa che conduca alla perdita della fede e sbocchi nella separazione da Dio. Chi si è affidato a Cristo ha in Lui il suo migliore avvocato: farsi piccoli non implica rimanere in balìa dei fratelli. Chi mette in difficoltà il fratello avrà Gesù contrario. E in che modo!
Gesù in persona ha immaginato il peggiore dei destini per chi mette in pericolo la fedeltà del fratello. Gettare in mare con un peso era un castigo crudele; e se il carico è una pietra mossa da un asino, non vi è scappatoia possibile: è più pesante di quella che può muovere un uomo. L’immagine, così come è formulata, risulta ancora più forte; suggerisce che una macina da mulino sia legata al collo di chi scandalizza; l’affogare in questo modo, anche se formulato come semplice possibilità, evoca la massima crudeltà:[g] oltre a non avere una terra in cui riposare, l’individuo sprofonderebbe inevitabilmente là dove nessuno può arrivare (cfr. Ap 18,21; Gr 51,63-64), dove non c’è salvezza.
La sentenza di Gesù acquista un tono profetico nel ripetuto «guai!». E’ più un lamento che una maledizione (cfr. Mt 23,13; 24,19; 26,24); aumenta la serietà dell’avvertimento diretto al mondo, dove avviene lo scandalo, e all’uomo che lo causa. Nasce lo scandalo dove un fratello può perdere la fede a causa dell’inciampo che gli ha messo il fratello, quando il debole cade prima o – quel che è molto peggio, ma non meno frequente – sotto il potere del fratello più potente o importante. Gesù avverte seriamente sul pericolo di scandalizzare il fratello, debole nella fede (cfr. Rm 14,13; 1 Cor 8,13) o piccolo nella valorizzazione. Anche se si tratta solo di un avvertimento, la minaccia deve essere presa sul serio: un avvenire così tremendo denota la gravità dell’offesa. Chi scandalizza non troverà una sorte peggiore, il suo destino definitivo sarebbe non potersi salvare e nemmeno trovare chi lo salvi.
E fa tremare notare come, per quanto gli dispiaccia, Gesù non può evitare che avvengano scandali: lui stesso riconosce persino che devono esserci:[g] il male è nel mondo, nella comunità, come la zizzania nel campo seminato (Mt 13,24-30.36-43), occulto ma efficace, latente e onnipresente.
La sorte del mondo è incresciosa come spazio umano in cui avvengono gli scandali. L’affermazione sorprende per ciò che suppone: il mondo è turbato, pervertito dagli scandali. Il dominio di Satana è evidente (Mt 13,28.41-42). L’esperienza comunitaria del male è innegabile. Gesù non riflette una visione pessimista del mondo, ma parla toccato personalmente, preoccupato pastoralmente per il potere innegabile del male. Anzi, continua affermando l’incomprensibile, quasi intollerabile: gli scandali non sono solo inevitabili, sono addirittura necessari![g]
Colpisce che non dia un motivo della necessità dello scandalo, semplicemente l’afferma (Mt 24,10). Forse supponeva che, finché il bene non trionfa definitivamente, il male deve continuare invitto e gli scandali inevitabili. Ma, cosa ancor meno accettabile, il fatto che gli scandali siano necessari non significa che chi li induce sia esente da colpa. Sventurato è non già il mondo, a causa degli scandali, ma la persona che li causa, suo strumento. In chiunque scandalizza il fratello vi è un Giuda, il discepolo traditore:[g] chi mette ostacoli al cristiano debole rende inutile la morte di Cristo (cfr. 1 Cor 8,9-13).
Esortando a evitare lo scandalo, Gesù invita chi è tentato a rendersi responsabile. Non sempre cade chi inciampa: la tentazione apre spazio alla libertà. La prova non costringe mai al peccato: il male deve essere voluto o non evitato. Se il credente vive in un mondo di scandali, è chiamato a provare la propria fedeltà, a scegliere il bene. Il Gesù matteano insiste, per questo, sulla necessità della prova e sulla responsabilità di chi la provoca. Dà per scontato il fatto del male e del suo potere reale sulla comunità: deve evitare lo scandalo una comunità che conosce il male e ne soffre la necessità.
Meglio amputare che lasciarsi scandalizzare (Mt 18,8-9)
Dallo scandalo indotto dall’esterno si passa ora allo scandalo prodotto dalla persona stessa. In questo caso non è più l’ambiente che è ostile o seduce il fratello, ma ora il nemico è la persona stessa, o meglio, una delle sue membra. La lotta diventa più personale, la prova divide l’uomo. Uno stesso può essere agente e vittima dello scandalo. L’area di azione del male è rimasta limitata al proprio corpo, ma la reazione dev’essere più radicale, l’immediata amputazione. Diversamente da Mt 5,29-30, qui non c’è da ridurre lo scandalo a una provocazione di carattere sessuale. E ciò risulta ancora più radicale. Qualunque azione esterna prodotta dalla mano, o impressione interna, assunta dall’occhio, che mette in difficoltà chi ne è protagonista, fa diventare eliminabile la mano o l’occhio. Liberarsi dalle cause del proprio peccato può portare a rinunciare alle proprie membra.
Anche se l’amputazione era praticata nella società e detti simili erano noti nell’antichità, la sentenza non è da intendersi letteralmente. La sua forza risiede nell’iperbole, nella brutalità dell’immagine. Non si tratta, quindi, di imporre l’automutilazione, ma si esige la rinuncia a ciò che è prezioso e, magari, irreparabile. Ma il fatto di costituire un’ esagerazione non significa che si debba interpretare metaforicamente: si citano membra importanti del proprio corpo. Gesù non esige che ci separiamo, anche traumaticamente se è il caso, da ciò che ci induce al male; cerca, piuttosto, di convincerci ad alienare ciò che in noi stessi – di noi stessi – mette in discussione la nostra fedeltà a Dio.
«E’ meglio per te entrare», un semitismo, denota confronto: è meglio perdere un giorno una parte che il tutto per sempre. La logica è evidente. Se quel che è in gioco è la vita o la morte del tutto, cioè definitiva, serve a poco la sopravvivenza della parte. La contrapposizione si colloca, inoltre, tra la condizione presente e la vita futura: tutto ciò che sia di ostacolo a ottenere la vita eterna dev’essere eliminato, senza riguardi né indugi. Nessun sacrificio è troppo costoso, se è necessario per assicurarci la vita: ciò che non dà vita, anche se vivo, non merita di essere conservato se il tentativo di mantenerlo ci arreca la morte. Senza una vita assicurata nell’avvenire, non serve a nulla conservare le propria membra, per quanto vitali: a che serve conservare degli organi che possono farci perdere la vita per sempre?
La comunità cui si esige una simile radicalità fa esperienza del male al suo interno (cfr. Mt 13,36-43.49-50). Pur vivendo già la salvezza, non è al riparo dallo scandalo, né è libera dal peccato. Rimanere esposti al male non significa arrendersi a esso, vivere minacciati dal peccato non equivale a rassegnarsi a patirlo. Ma non soccombere può esigere rinunce costose, dolorose amputazioni nella persona stessa. Siamo disposti ad affrontarle?
2. Applicarlo alla vita
Sento qualche profonda preoccupazione che mi porti a Cristo? O non sono troppe le inquietudini che, aperte, mi separano da Lui? I miei problemi fanno di me un discepolo di Cristo, cioè, voglio vederli come egli li vede e trovare la soluzione dove lui la pone?
Ho ansia di potere, bisogno di essere considerato, paura ad essere deprezzato? Mi sento sottovalutato nella comunità? Che tipo di grandezza desidero o mi stimola di più? E’ Dio e il suo regno quel che desidero maggiormente?
Sto forse dando per scontata la mia entrata nel regno? Si tratta veramente di un tema di cui parlo, un motivo che mi porta a Cristo? Non ho proprio nulla da imparare da lui per giungere ad essere suddito del suo regno? Su che cosa fondo la mia sicurezza che un giorno sarò con lui nel suo regno?
Vedo, come Cristo, nella piccolezza e nella debolezza un grande avvenire? Come mai rifuggo dall’essere – o anche solo dall’apparire – debole e insignificante, se è segno di grandezza davanti a Dio? Farmi come bambino è oggi, lo è stato qualche volta, meta del mio progetto personale? Non è, piuttosto, vero che dipendere dagli altri mi sconcerta profondamente; quanto più grande sono, tanto più infastidito mi sento?
Vivo in comunità la legge evangelica per cui il piccolo, bisognoso e inutile, è il più grande? La mia comunità vive secondo questa legge? Accolgo come se fosse il Signore in persona colui che nella mia comunità è piccolo? So – lo accetto – che il minore in essa, il più bisognoso, è colui che meglio rappresenta Cristo (cfr. 25,35-40)?
3. Pregare la Parola
Signore Gesù, comincio confessandoti che non mi vedo riflesso bene nei tuoi primi discepoli: l’essere grande nel tuo regno non mi preoccupa tanto quanto l’essere considerato importante ora qui in terra. Se nemmeno la preoccupazione di entrare nel tuo regno mi porta a te, cos’è ciò che, veramente importante, mi potrebbe portare a te? Dammi ansie di grandezza nel tuo regno, perché possa incontrarti di nuovo, sovrano e Signore, sulla mia strada.
Sei sorprendente, Signore. Certamente, non è arrivare ad essere come un bambinoquel che più mi preoccupa; e se lo desiderassi – cosa che non ti nascondo che è successa qualche volta – non sarebbe per gli stessi motivi. L’infanzia di cui ho nostalgia è per me il tempo dell’innocenza senza sforzo; Tu, invece, mi proponi un modo di essere adulto e responsabile che rinunci a disporre degli altri o a farsi valere davanti a loro, che sappia basarsi su quel che sono e vivere contento di quel che ho. Crea in me un cuore che non ambisca onori che superano la mia capacità; fa che riposino in te, Padre, il mio cuore e le sue ansie, come il bimbo in grembo a sua madre riposa sereno e soddisfatto.
Sii tu, mio Signore, l’oggetto dei miei desideri, l’occupazione delle mie mani, la preoccupazione della mia vita. E che siano tutti i tuoi, i più piccoli, quelli che danno un senso alla mia vita e lavoro alle mie mani. Aiutami ad essere per essi quel fratello che tu hai pensato di dare loro, il sollievo di cui hanno bisogno, la mano sempre tesa in aiuto, l’udito sempre attento ai loro lamenti, la parola che calma e incoraggia, gli occhi che li guardano (e ammirano!) coi tuoi occhi, e un cuore che ricordi loro il tuo Cuore. Fammi più piccolo, Signore, perché possa rappresentarti tra loro.
III. Oggetto della sollecitudine di Dio
Nuovamente, senza troppo nesso logico, si passa dall’avvertire contro lo scandalo ad ammonire contro il disprezzo del piccolo (Mt 18,10). L’ammonizione è motivata da una parabola, di indubbia autenticità (Mt 18,12-14; Lc 15,3-7).[g]
Ritrovamento ricupero
1. Capire il testo
La parabola ricorda la profezia di Ez 34 (Mt 18,12/Ez 34,10-11.12.13; Mt 18,12-13/Ez 34,16). E’ formulata con una certa cura. Le domande iniziali (Mt 18,12) e la ripetuta asseverazione «io vi dico» (Mt 18,10.13) le conferiscono un tono di argomentazione e di insegnamento. Diversamente da Luca (Lc 15,1-2), in Mt 18,12-14 la parabola non è diretta ai critici di Gesù, ma ai suoi discepoli. Non difende il comportamento di Gesù con i peccatori, chiede ai cristiani che, ricopiando il comportamento divino (cfr. il medesimo motivo in Mt 5,43-48), abbiano cure particolari verso i piccoli. Lo sfondo è nettamente intracomunitario.
10 «Guardate di non disprezzare uno solo di questi piccoli, perché io vi dico che i loro angeli nei cieli vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli. 12 Che cosa vi pare? Se un uomo ha cento pecore e una di loro si smarrisce, non lascerà le novantanove sui monti e andrà a cercare quella che si è smarrita? 13 In verità io vi dico: se riesce a trovarla, si rallegrerà per quella più che per le novantanove che non si erano smarrite. 14 Così è volontà del Padre vostro che è nei cieli, che neanche uno di questi piccoli si perda.»
La trascuratezza, una forma di disprezzo (Mt 18,10)
Il tono iniziale di “questa breve e sublime parabola” è di serio avvertimento, un mandato esplicito.[g]
Disprezzare non è un semplice sentimento interiore, è un gesto visibile, pungente (Mt 6,24/Lc 16,13), qualcosa che sentono le vittime; unisce l’ingiuria allo sgarbo. L’insignificanza sociale del piccolo facilita il disprezzo. Per Gesù il motivo per non disprezzarlo, all’interno della comunità, risiede nel fatto che i suoi angeli godono di accesso permanente al cospetto di Dio, una affermazione insolita sulle sue labbra. Gesù dà per scontato che angeli superiori si prendono cura dei membri più insignificanti della comunità.[g]
La presenza davanti a Dio di angeli che rappresentano i piccoli, esprime la sollecitudine di Dio per coloro che, per quanto insignificanti, appartengono alla comunità credente. Conteranno magari poco agli occhi degli uomini, ma i loro angeli svolgono continuamente il servizio divino, i loro guardiani assistono al trono di Dio.[g] Sono quegli stessi che contemplano il volto divino, supremo atto di culto, mentre custodiscono i più piccoli sulla terra. Se i custodi dei minimi esercitano tale funzione, con quale diritto potranno i fratelli disprezzare quelli che contano di meno, i più insignificanti? Se gli angeli dei piccoli “vedono sempre” Dio, vuol dire che essi e i loro rappresentati/protetti sono veramente importanti per Dio.
La sollecitudine pastorale di Dio (Mt 18,12-13)
Dalla cura mediante intermediari si passa alla cura personale da parte di Dio: è Lui il pastore dei fratelli che sono più minacciati. E’ il loro migliore avvocato, perché loro padrone e proprietario. La parabola descrive non solo la sollecitudine di Dio, ma il suo modo di viverla.
La domanda iniziale «Che cosa vi pare»,[g] cerca di richiamare l’attenzione dell’ascoltatore e suppone il suo assenso. Questo è il ragionamento di Gesù: come può qualcuno ritenersi soddisfatto lasciando perdere qualcosa che gli appartiene senza reagire immediatamente? La quantità delle pecore, cento, non dice nulla circa la condizione economica del proprietario. Il numero serve per risaltare, con la contrapposizione 99/1, il poco che manca, e ciò nonostante, la preoccupazione del pastore. Non si parla di un pastore ricco, bensì di un pastore che non vuole essere più povero.. Smarrirsi, una metafora usata già nell’AT (Is 53,6; S 119,176), corrisponde meglio di perdere(Lc 15,4) agli interessi di Matteo (Mt 24,4.5.11.24). Lo smarrito è qualcuno che ancora non si è perso, ma corre pericolo di diventarlo; non vi è, quindi, motivo per darlo per perduto. Di fatto, nell’applicazione Matteo, significativamente, dichiarerà che Dio non vuole la perdita dei suoi (Mt 18,14).
Matteo, familiarizzato con l’immagine del Dio Pastore (cfr. Ger 27,6; Ez 34,4.13.16), riferisce la cura straordinaria che si merita dal pastore la pecora smarrita.[g] Non è che il pastore non stimi le novantanove tanto come la smarrita, il caso è che cerca solo la smarrita. La composizione uno-novantanove è, a questo riguardo, rivelatrice: quel che è meno, interessa di più; solo ciò che si è smarrito viene cercato. Il narratore non si interessa delle novantanove perché non inducono il pastore a preoccuparsi di esse in forma straordinaria: il pastore si impunta più nel ritrovare la smarrita che nel mantenere le rimaste.[g]
Quel che è stato perso causa preoccupazione nel padrone; quel che è stato ricuperato, la sua gioia. E’ questo il motivo del racconto. La tensione tra il numero di quel che non si perde, e perciò non si cerca, e quel che si perde, lo mette ancora più in risalto, se possibile. La trasformazione di cui si parla nella similitudine avviene nel pastore, non nella pecora né nel gregge. Gesù, in Mt 18, che forse riflette meglio di Lc 15 la parabola originale, vuole ricordare che non sempre la ricerca ha un esito positivo e mette in risalto l’iniziativa del pastore che ha la fortuna di incontrare la sua pecora («se riesce a trovarla»).[g] Il debole che si perde è quello che ottiene maggiori attenzioni.
Prendersi cura del più bisognoso è funzione del Padre. Chi apprezza e custodisce il fratello piccolo riflette la sollecitudine paterna di Dio pastore, che non permette che si smarrisca qualcosa che gli appartiene. Come la pecora, il figlio traviato ha il ritorno a casa assicurato, a patto che il suo Dio lo valorizzi come sua proprietà. Il pastore cercò la pecora smarrita perché si era accorto della sua assenza, e ciò perché gli interessava. Nessuno deve perdersi in una comunità cristiana senza che lo si cerchi fino a incontrarlo;tutti i fratelli possono fare assegnamento su uno che non si dà per vinto, Dio e su chi lo rappresenta, nemmeno nel caso di un allontanamento volontario dalla comunità.
Il volere di Dio (Mt 18,14)
La conclusione è tutta redazionale.[g] Matteo identifica Dio come pastore (Sal 119,176; Ez 34,15) e ne sottolinea la volontà.[g] Dio pensa come un pastore, agisce come tale (Mt 9,36; 15,24; cfr. Ez 34,22-26). Non rimane indifferente di fronte all’allontanamento dei suoi dalla vita comunitaria; né rimane neutrale davanti al loro sviamento, né impassibile di fronte alla loro perdita. Non gli interessa tanto la conversione, il ritorno dello sviato, quanto la ricerca affinché non si perda. Non è quel che ci guadagna quando ricupera lo sviato, ma è quel che ricupera che gli importa, quando lo sviato si incontra nuovamente con Lui.[g] Non indicando la causa dello smarrimento, dandolo per ovvio, non si dà un giudizio circa la colpevolezza dello sviato. Si constata il fatto e la volontà divina di non perdere nessuno.
Se Dio non vuole che si perdano i piccoli, il discepolo non può permetterselo. Non importa quel che egli vuole, ma quel che Dio vuole: «è volontà del Padre vostro». Dovrà, imitando Dio (Mt 5,48), agire come Lui. Per il fratello nessun fratello vale così poco da rimanere trascurato. Nessun cristiano deve significare così poco che non si noti la sua mancanza, se si è allontanato; e così da non essere cercato, se se ne è andato.
Diversamente da Luca, che insiste sulla misericordia di Dio, Marco pone l’accento sul dovere della comunità cristiana di riflettere l’interesse di Dio per chi si è allontanato, per quanto piccolo e insignificante sia. I figli imitano il padre ricopiandone l’interesse per il fratello sviato. Questo significa che il Gesù matteano, da un lato, presuppone che la sua comunità abbia bisogno di percepire delle esigenze: vede i suoi noncuranti nei confronti di chi sono o valgono meno; d’altro canto, fa di Dio, della sua cura pastorale, la base dell’etica fraterna, poiché fonda una norma di vita comunitaria sul comportamento divino: dev’essere prassi pastorale perché è volontà divina.
3.2. Applicarlo alla vida
Responsabilizzarsi del fratello richiede, anche, di non mettere alla prova la sua fedeltà a Dio col mio comportamento. Sono consapevole del rischio che sto correndo quando rendo difficile o penosa la fede dei miei fratelli? Come posso io dare scandalo ai miei fratelli? Mi rendo conto che essere di inciampo al fratello mi rende uguale a colui che tradì Cristo?
Vivo in un mondo dove lo scandalo, da me causato o sofferto, è inevitabile? Come reagisco di fronte alla tentazione, alla prova, al male in me o in quelli che vivono con me? Mi libero da essi sminuendone l’importanza nella mia vita? Cerco di spiegare il malessere in cui vivo, lo scuso e lo “capisco” o lo condanno solo se permane negli altri?
A cosa sono disposto a rinunciare pur di non mettere alla prova la fedeltà dei miei fratelli? C’è qualcosa in me che mi è di scandalo, che ostacola la mia fedeltà al Signore? Quali rinunce dovrei intraprendere oggi, affinché Cristo non debba respingermi un giorno?
Trascuro quelli che sono meno importanti, possono di meno, nella mia comunità? Apprezzo i miei fratelli per quel che mi dànno o perché Dio me li ha affidati (Cost. 50)? Quando mi deciderò a vederli e apprezzarli come li vede e li apprezza Dio?
Sono sicuro che nessuno dei miei, nessuno della mia comunità si stia perdendo? Mi interesso almeno allo sviamento dei miei fratelli? Cosa faccio per ricuperarli? C’è qualcuno che, a motivo del suo disorientamento o della solitudine, ha bisogno di me? Cosa dovrò perdere di me stesso per non consentire che si perda uno dei miei fratelli?
Se Dio non vuole che si perdano i piccoli, posso permettermi che si smarriscano i miei fratelli? Con quale diritto sto rubando a Dio la gioia del ritrovamento, se non vado incontro a chi lo ( = ci) sta abbandonando? Potrò ricevere l’amore del Padre se non mi prendo cura dei suoi figli più indifesi?
3.3 Pregare la Parola
Mi colpisce, Signore, la tua presa di posizione di fronte agli scandali: mi metti davanti alla possibilità di diventare una minaccia per i miei fratelli e mi minacci col peggiore dei castighi. Prendi così sul serio l’eventualità che io possa essere motivo di caduta, causa dell’infedeltà dei miei fratelli! Dai per scontato che debbano esserci degli scandali, però maledici coloro che li provocano: diventi così serio che mi fai paura! Liberami dallo scandalizzare i miei fratelli, non permettere che i miei fratelli mi scandalizzino!
Dammi coraggio, Signore, per riconoscere quel che oggi mi sta separando da te; che non consideri degno di essere ritenuto quel che mi impedisce di averti come Signore. Tu sei il mio bene imperituro: fa’ che perda quel che ho, pur di non perdere te. Perché ci sono cose, persone e progetti nella mia vita che stimo più di te, dato che non sono disposto a sacrificarle per te? Se ogni mia rinuncia non ha in te la sua giustificazione, non mi servi come Dio.
Mi meravigli, Signore, al tenere in così alta considerazione i più piccoli tra noi; se chi mi custodisce, tu , mio angelo, ti contempla così da vicino, non mi sentirò afflitto se mi vedo disprezzato e mi guarderò bene dal disprezzare nessuno, a cominciare dai più insignificanti dei miei fratelli.
Insegnami, Signore, a prendermi cura di loro come tu vorresti; dimmi come devo badare ad essi perché percepiscano le tue attenzioni. Giacché non voglio perderti come Padre, fa’ che compia la tua volontà: dedicami tu ai miei fratelli più bisognosi. Che io non manchi a coloro che mancano a te, affinché non mi manchi tu, mio buon Padre.
[g] Quando in Matteo Gesù parla agli apostoli, si menziona esplicitamente (Mt 10,1.5; cfr. 5,1).
[g] Benché ci sono motivi diversi tra Mt 18,3-4 («farsi piccolo» = «umiliarsi; entrare nel regno» = «essere in esso grande») e Mt 18,5 («accogliere un bambino» = «accogliere Cristo»), i detti sono stati raccolti in torno al tema «bambino/i».
[g] Gesù aveva già utilizzato il tema come motivo di esortazione (cfr. Mt 5,19; 11,11). L’evangelista situerà più avanti, quando i figli dello Zebedeo presenteranno la loro richiesta (Mt 20,20-28/Mc 10,35-45), la questione della primazia all’interno del discepolato. Qui, invece, non appare segno alcuno di rivalità tra i discepoli.
[g] Per riuscire, ha dovuto correggere la sua fonte e così migliorare l’immagine dei discepoli (cfr. Mc 9,33-34; Lc 9,46-47),
[g] “Nella Palestina ai tempi di Gesù, come nel mondo antico in genere, il bambino è considerato un essere debole; non ha valore nella società e deve obbedire tutto quanto gli viene detto” (P. Bonnard, El evangelio según san Mateo, Cristiandad, Madrid 1984, 399, n3).
[g] “Si deve uno di rappresentarsi la scena in modo vivo per capire il contrasto e il significato del segno: da una parte, il gruppo d’uomini prudenti e sicuri di sé; dall’altro, perso tra di loro, e guardando forse con angoscia, la piccola creatura. Il gruppo degli eletti, ben coscienti del loro onore, e il bambino che non ha parola da dire” (W. Trilling, El evangelio según san Mateo. Vol. II, Herder, Barcelona 1970, 128.)
[g] La presa di posizione di Gesù è oggi così insolita come lo fu nei suoi tempi. Non ci sono stati scoperti testi giudei in cui il bambino sia modello da seguire. Come potrebbe diventare un bambino, non ancora sotto la Legge, modello di pietà per gli adulti, o misura di grandezza davanti a Dio (cfr. m. Abbot 3.11)?
[g] La conversione richiede, in un primo momento, la rinuncia di sé che fa l’adulto, ma questa ‘umiliazione’ non basta. Si deve adottare il modo di vita proprio del bambino, libera e coscientemente, cioè, continuando a vivere da adulto. L’umiliazione non è, dunque, una via ascetica, ma piuttosto uno stato di vita, più che percorso da transitare è la meta finale.
[g] Sembra che la frase non è sorta dalla medesima situazione storica; però i tre sinottici concordano e la collocano in questo momento (Mc 9,37; Lc 9,48; cfr. 10,40).
[g] Non allude, probabilmente, all’accoglienza degli orfani in comunità; non è questo il tema. Non lo è neppure l’ospitalità dovuta ai missionari itineranti (cfr. Mt 10,40-42; Mc 9,37.41; Lc 9,48).
[g] Trilling, Mateo II 132.
[g] Le sentenze potrebbero essere state dette da Gesù di Nazaret; nel racconto di Matteo, però, riflettono problemi e tensioni comunitarie.
[g] All’interno del paragrafo, c’è uno slittamento nella concezione dello scandalo: si va dallo scandalo ad altri al scandalo proprio. E in entrambi i casi, il castigo segue lo scandalo. Lo scandalo contro il prossimo, se si ostacola la sua fedeltà (Mt 18,6-7), è diverso da quello causato a uno stesso, quando si fa qualcosa di grave (Mt 18,8-9).
[g] Motivo familiare in Matteo (Mt 5,29-30; 11,6; 15,12; 13,21.41; 15,12; 16,23; 17,27; 24,10; 26,31-32), che Marco non adopera. In Luca appare solo Lc 17,1.
[g] «Quelli che credono» è formulazione tecnica cristiana (At 19,18; Ef 1,19; 2 Ts 1,10). «Credere in me», unica ricorrenza nei sinottici (Mt 27,42/Mc 15,32), contraddistingue il credente come cristiano.
[g] Matteo usa «anagke», la stessa necessità che obbligava Paolo a predicare! (cfr. 1 Cor 9,16).
[g] Lc 17,1, invece, dice che è impossibile che non ci siano scandali.
[g] L’esclamazione, come viene formulata, (Mt 18,7c), è diretta a chi causa lo scandalo; Matteo la riprenderà per parlare di Giuda (Mt 26,24; cfr. Mc 14,21), l’esempio per antonomasia di scandalo a danno dei credenti.
[g] La versione di Luca insiste nell’allegria del ricupero, quella di Matteo nella preoccupazione che motiva la ricerca di quanto si è perduto. Gesù poté difendersi con la parabola dalla critica di essere troppo amico di peccatori e pubblicani (Mc 2,17; Lc 15,1-2), come emerge in Lc 15,3-7.
[g] L’introduzione redazionale, che alleggerisce la transizione narrativa, non è del tutto riuscita. Benché i destinatari sono gli stessi, «uno di questi piccoli» (Mt 18,6.14), gli agenti, «voi», (Mt 18,1.4: i discepoli), e l’azione sono diversi: il «tu» viene rimpiazzato dal «voi», l «scandalo» diventa adesso «disprezzo».
[g] Era una convinzione di fede biblica che Dio aveva incaricato uno spirito per custodire ciascun uomo (Es 23,20; Sal 91,11; Tb 3,25; Dn 3,49; 2 Mac 11,6; At 12,15; Eb 1,14. Cfr. Bill I 781-783. II 707-708; III 437-440), ma non consta che si utilizzasse, come qui, per la difesa dei deboli (cfr. At 12,15).
[g] Gli angeli che sono davanti a Dio, «gli angeli del Volto» (Hen[et] 40,1-10), di un livello superiore, (1 QSab 4,45-46; 1 QH 6,13), non erano visti come custodi degli (però Tb 12,15), ma delle comunità (1 Cor 11,10: Eb 12,22; Ap 2,1-3,14; cf. 2 Mac 11,6; 15,22-23).
[g] Senza parallelo nella versione lucana, è redazionale: scopre la mano, e la mente, di Matteo (Mt 17,25; 21,28; 22,17.42; 26,66, cfr. Gv 11,56),
[g] Mentre Lc 15,4b («Chi di voi non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova?») insiste in una ricerca permanente fino al ritrovamento.
[g] La reazione del pastore è così insolita e inspiegabile che è stato spiegato come traduzioni deficienti dell’originale arameo o presupponendo delle circostanze non dette nella parabola.
[g] Luca insiste nel ritorno del peccatore alla comunità. Matteo preferisce mantenere in essa il debole. Sono due modi pastorali di rispondere a delle diverse problematiche comunitarie.
[g] Il vocabolario è tipicamente matteano, e la conclusione forma una inclusione con Mt 18,10. Lc 15,7 segue la sua fonte più da vicino.
[g] La formulazione, «il volere davanti a Dio», è una nota espressione targumica, cfr. TgIs 53,6.10; cfr. Mt 11,26.
[g] Se in Lc 15,7 la pecora ricuperata è immagine del peccatore pentito, Mt 18,14 l’identifica con «uno di quei piccoli»; la preoccupazione per l’integrità della vita comune è predominante.
[g] A differenza di Lc 15, dove Gesù difende il suo agire appellandosi all’attuazione divina (Lc 15,1-2), Matteo presenta Gesù chiedendo ai suoi un atteggiamento simile a quello di Dio Pastore.
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Prendersi cura del piccolo
perché Dio si prenda cura di noi
(Mc 18,1-14)
Una domanda dei discepoli provoca un lungo discorso di Gesù, il quarto dei cinque che presenta Matteo (Mt 18,2-35; cfr. 5,1-7,29; 10,5-11,1; 13,1-52; 24,1-25,46). E’ l’unica volta che si introduce un discorso di Gesù a istanze dei suoi (Mt 18,1): il discorso sulla vita fraterna non è, quindi, una istruzione voluta da Gesù, bensì di un insegnamento provocato dai discepoli. Il particolare non è indifferente: come vivere in comune è loro preoccupazione.
Possiamo distinguere in esso tre unità letterarie ben differenti. Tutte e tre richiedono una pratica pastorale tra fratelli, motivata sempre dal volere del Padre (Mt 18,10.14.39): la cura pastorale del piccolo (Mt 18,1-14), la correzione dell’offensore (Mt 18,15-20) e il perdono al fratello (Mt 18,21-39). Limitiamo la nostra riflessione alla prima (Mt 18,1-14) che regola i rapporti comunitari già esistenti. Non parla, quindi, come nasce la vita in comune [restando con Gesù e ascoltando la Parola di Dio!], ma come la si deve vivere.
1. Il testo biblico
Destinatari del discorso sono i «discepoli che si avvicinano a Gesù»; sono essi chi gli domandano: «Chi è più grande nel regno dei cieli?» (Mt 18,1). Nella sua risposta Gesù si allontana, sempre più, dalla preoccupazione iniziale, che è più pretesto che tema del discorso. Quello che dice Gesù sono, pertanto, norme per la vita comunitaria, atteggiamenti che devono praticare tutti coloro che vivono in comunità, indipendentemente dalle funzioni che vi esercitano. Traccia così l’atteggiamento radicale e il comportamento concreto che devono esserci tra discepoli di Cristo che vivono quotidianamente insieme.
Introdotto dalla questione circa il più grande nel regno, il testo ha come motivo ricorrente il bambino e il piccolo nella comunità. Al principio, il bambino è una persona concreta (Mt 18,2) che si deve imitare, accogliere e non scandalizzare (Mt 18,3-5); poi finisce per essere immagine ideale del discepolo.
Nella prima scena (Mt 18,1-5) si presenta il bambino come condizione per entrare nel regno e come criterio di accoglienza di Cristo. Rispondendo alla domanda dei suoi discepoli (Mt 18,1), Gesù pronuncia tre importanti sentenze (Mt 18,3-5) che, introdotte con un enfatico in verità si incentrano sul bambino, sia come persona reale (Mt 18,2) sia come figura ideale (Mt 18,3.4.5).
In Mt 18,6-9 il discorso cambia bruscamente di tema e tono: dal farsi come bambini si passa allo scandalo del piccolo credente, dall’esortazione all’avvertimento. non è un testo omogeneo. Tre sono le affermazioni, di tono proverbiale (Mt 18,6.8.9: «conviene», «è meglio») che ammoniscono contro lo scandalizzare i piccoli. Pur ammettendo che lo scandalo è inevitabile, non si salva chi lo provoca (Mt 18,7). E si misura la malizia dello scandalo in base alla perdita causata (Mt 18,8-9).
2. Alcuni rilievi
Una preoccupazione che fa onore al discepolo (Mt 18,1)
La domanda dei discepoli, che apre il discorso di Gesù, non è ingenua e nemmeno fuori luogo: essere grande al cospetto di Dio era anelito supremo del credente. I discepoli non stanno discutendo su chi può essere il più grande di loro; vogliono sapere chi sarà considerato il maggiore da Dio nel suo regno. Quelli che domandano non stanno pensando a se stessi; la loro preoccupazione, lungi dal denotare interesse o egoismo, è nettamente spirituale: sono interessati non a onori o primati di tipo gerarchico nel seno della comunità, ma alla grandezza definitiva secondo il progetto salvifico di Dio.
Il discepolo cerca solo di conoscere l’ordine che regna dove e quando Dio regna. La comunità dei discepoli non è ancora il regno di Dio, ma è chiamata a esserlo; il suo modo di vivere è – o meglio: dovrebbe essere – figura e anticipazione di come si vive nel regno. Senza trovarsi ancora nel regno, i discepoli vogliono vivere fin d’adesso secondo le sue norme.
Preoccuparsi per Dio e la sua sovranità, stando dove ancora sono in cammino, quando ancora se ne sente la mancanza, fa onore ai discepoli. Una comunità che vive ignorando Dio e senza che le importi nulla del suo regno non permette che Cristo le insegni, smette di essere sua discepola. Per ritornare alla scuola di Cristo bisogna ritornare ad interessarsi delle cose che non passano, quelle che hanno futuro: Dio e il suo regno.
Il bambino, misura della grandezza (Mt 18,2-4)
Gesù comincia a rispondere con un’azione simbolica, mette un bambino al centro (Mt 18,2). Il gesto precede la parola e ne fissa in anticipo il senso (Mt 18,3-4): il bambino, ancora troppo piccolo per poter appartenere al mondo degli adulti, è il prototipo del più grande nel regno di Dio. La scena è già in se stessa immagine eloquente del regno di Dio, annuncio reale delle sue preferenze.
A continuazione Gesù spiega con autorevolezza la sua azione. Le sue parole, malgrado ciò, non corrispondono bene alla domanda dei discepoli, che era stata generica. Non lo è l’istruzione impartita da Gesù. Quelli che domandavano davano per scontata la loro entrata nel regno, dato che volevano sapere chi sarebbe stato il maggiore là. Gesù li corregge, quando risponde che, prima di pensare di essere grande nel regno, bisognerà diventare degno di entrare in esso. E non vi entrerà chi non si converte facendosi come un bambino.
Condizione per arrivare ad avere Dio come re, l’espressione «convertirsi e farsi come bambini» esige un cambio radicale, non solo di condotta, ma anche di orientamento fondamentale della vita. Convertirsi significa invertire la marcia, percorrere a ritroso il cammino fatto, abbandonare, retrocedendo, il modo attuale di essere, lasciarsi dietro quel che si è arrivati a essere. Si tratta di un processo da mettere in movimento più che di una operazione da fare una volta per tutte (cfr. Gv 3,4-5). Questo ritorno viene concretizzato come farsi come bambini, che, detto ad un adulto, implica che si comporti come se non fosse tale, come se fosse piccolo.
Il bambino, in questo caso meta di un comportamento adulto, non è, per se, umile, né suole rinunciare ai propri diritti consapevolmente. Non viene presentato come ideale di vita, né come stimolo nostalgico verso il passato. Non è paradigma d’innocenza, di semplicità, e non si allude all’assenza di peccato; è, questo sì, modello di una vita senza pretese, socialmente insignificante. Il bambino, poiché tale, non sempre è duttile né generoso, ma vivrà sempre in dipendenza, bisognoso dell’aiuto dell’adulto. L’adulto, per diventare bambino, deve rinunciare a essere indipendente e autosufficiente, lasciarsi accudire. Essere come un bambino suppone, inoltre, di aver bisogno di protezione da parte di tutti, sapere di aver bisogno di cura per qualsiasi cosa: spogliarsi delle sicurezze proprie dell’adulto e accettare di rimanere indifeso e insignificante come il piccolino. Tale conversione non è un cammino ascetico di annullamento del proprio io né un esercizio di cieca sottomissione; per cristiano indica un servizio concreto a Dio e/o al prossimo (Mt 23,12; Lc 14,11; 18,14; 2 Cor 11,7; 12,21).
Ma, ed è questo l’aspetto più sorprendente, colui che riesce a farsi come quel bambino non entrerà nel regno dei cieli come uno dei tanti, ma sarà il più grande di tutti. Il discepolo, che ha il bambino come meta della conversione, rifiuta di candidarsi, rifugge dalle dignità, si vede piccolo e bisognoso, debole e magari sottovalutato, si accontenta di quel che ha ed è grato per quel che gli danno. Il discepolo che desidera di essere cittadino del regno deve sentirsi davanti a Dio come un piccolo bisognoso di cure, per quanto grande sia giunto ad essere, in continuo sviluppo e in dipendenza permanente, pur essendo già un vero adulto.
Il regno di Dio è patrimonio di coloro che si sentono ancora piccoli e immaturi per quanto siano cresciuti e maturati. Il rovesciamento dei valori non potrebbe essere maggiore, più radicale né meno evidente: chi abbisogna di tutto, poiché dipende da tutti, colui che è superato da tutti i più grandi, sarà il più grande agli occhi di tutti quando Dio regnerà. La legge che regola il comportamento di Dio re esige un cambio radicale nel comportamento di chi sogna di esserne suddito.
Il comportamento di Gesù che sceglie il bambino come rappresentante del ‘più grande’ nel regno mette in discussione valori sociali intoccabili, così come radicate consuetudini ecclesiali. E non possiamo neanche dire che sia la legge che regge oggi la nostra vita comunitaria. Ebbene, diventare qualcuno che non ha importanza è la conversione che esige Gesù da chi desidera importare molto a Dio.
Il piccolo, oggetto di attenzioni (Mt 18,5)
Dopo aver invitato a farsi come bambini, Gesù esorta i suoi discepoli ad accogliere il bambino (Mt 18,2). Ora il bambino non è più soggetto da imitare, ma oggetto di accoglienza e di ospitalità. Matteo, seguendo Marco (Mc 9,37), esorta a prendersi cura dei bambini che, nella comunità, hanno più bisogno di aiuto, sono più esposti al disprezzo; la loro debolezza e insignificanza li rende meritevoli di maggiori cure. Si tratta, allora, di accogliere quanti, nella comunità, essendosi umiliati e fatti bambini, sono diventati indifesi e possono essere facilmente oggetto di poca considerazione e di abuso.
Il discepolo che si fa «come» un bambino si allontana dal mondo degli adulti. Il piccolo è facile preda dei grandi; il maldestro, dei furbi. Nella comunità cristiana, invece, il minore deve essere oggetto di maggiore cura e di migliori attenzioni. Ora, la preoccupazione per il minore deve avere come motivo Gesù stesso, perché è «nel suo nome», cioè a motivo di Lui, che dovranno essere accolti. Chi ha più bisogno di assistenza è chi meglio Lo rappresenta (cfr. Lc 22,27). L’identificazione è reale, anche se misteriosa: e più decisivo, è una scelta di Gesù – e quindi un obbligo del credente. I più insignificanti rappresentano il Signore (cfr. Gv 13,20), il bambino è il luogotenente di Dio (cfr. Mt 25,35-40).
Inoltre, il discepolo che si fa inferiore e bisognoso degli altri offre alla propria comunità l’occasione di avere, e prendersi cura, del suo Signore. Una comunità che offra protezione e riparo non già a bambini ma a quei discepoli che non hanno un protettore, accoglie il proprio Dio. Poiché sa che nel discepolo-bambino è nascosto Cristo Gesù e sa che le sue attenzioni nei riguardi del «piccolo» misurano la sua conversione a Cristo. Finché ci sono discepoli bisognosi di stima e di cure, la comunità non può sentirsi salvata (cfr. Mt 25,40-45).
Attenti a scandalizzare! (Mt 18,6-7)
Gesù approfitta della presenza del bambino in mezzo ai suoi discepoli per indicare loro un nuovo compito: tra i suoi, chi può di meno ed ha più bisogno deve godere di maggiori attenzioni. In questo contesto, appare, in modo imprevisto, una gravissima avvertenza.
Lo scandalo è una realtà con cui fare i conti quotidianamente nella comunità di Matteo. E sono i più indifesi tra i credenti a soffrirne di più. Scandalizzare significa impedire, bloccare il cammino, far incespicare. Matteo identifica il piccolo come cristiano. Con la formula “uno di questi piccoli che credono” si allude a quei cristiani la cui fede/fedeltà non è ancora molto resistente alla prova.
Gesù difende ora coloro che sono facile preda dello scandalo, indifesi o deboli, nella comunità. Qui lo ‘scandalo’ deve riferirsi ad ogni ostacolo che si pone a colui che, debole e insignificante, crede in Cristo. Si allude, quindi, a qualsiasi causa che conduca alla perdita della fede e sbocchi nella separazione da Dio. Chi si è affidato a Cristo ha in Lui il suo migliore avvocato: farsi piccoli non implica rimanere in balìa dei fratelli. Chi mette in difficoltà il fratello avrà Gesù contrario. E in che modo!
Gesù in persona ha immaginato il peggiore dei destini per chi mette in pericolo la fedeltà del debole. Gettare in mare con un peso era un castigo crudele; e se il carico è una pietra mossa da un asino, più pesante di quella che può muovere un uomo, non vi era scappatoia possibile. L’immagine, così come è formulata, risulta ancora più forte; suggerisce che una macina da mulino sia legata al collo di chi scandalizza. L’affogare in questo modo, anche se formulato come semplice possibilità, evoca la massima crudeltà: oltre a non avere una terra in cui riposare, l’individuo sprofonderebbe inevitabilmente là dove nessuno può arrivare (cfr. Ap 18,21; Gr 51,63-64), dove non c’è salvezza.
La sentenza di Gesù acquista un grave tono profetico nel ripetuto «guai!». Aumenta così la serietà dell’avvertimento diretto al mondo, dove avviene lo scandalo, e all’uomo che lo causa. Nasce lo scandalo dove un fratello può perdere la fede a causa dell’inciampo che gli ha messo il fratello, quando il debole cade prima o – quel che è molto peggio, ma non meno frequente – sotto il potere del fratello più potente o importante. Anche se si tratta solo di un avvertimento, la minaccia deve essere presa sul serio: un avvenire così tremendo evidenzia la gravità dell’offesa. Chi scandalizza troverà la sorte peggiore, il suo destino definitivo sarebbe non potere salvarsi lui, e nemmeno trovare chi lo salvi.
E fa tremare il notare come, per quanto gli dispiaccia, Gesù non può evitare che avvengano scandali. Lui stesso riconosce persino che devono esserci: il male è nel mondo, nella comunità, come la zizzania nel campo seminato (Mt 13,24-30.36-43), occulto ma efficace, latente e onnipresente. L’affermazione sorprende per ciò che suppone: il mondo è turbato, pervertito dagli scandali. Il dominio di Satana è evidente (Mt 13,28.41-42). Gesù non riflette una visione pessimista del mondo, ma parla toccato personalmente, preoccupato pastoralmente per il potere innegabile del male. Anzi, continua affermando l’incomprensibile, quasi l’intollerabile: gli scandali non sono solo inevitabili, sono addirittura necessari!
Proprio perciò, colpisce che non dia un motivo della necessità dello scandalo, e semplicemente l’affermi (Mt 24,10). Forse supponeva che, finché il bene non trionfa definitivamente, il male deve continuare invitto e gli scandali inevitabili. Ma, cosa ancor meno accettabile, il fatto che gli scandali siano necessari non significa che chi li promuove sia esente da colpa. Sventurato è non già il mondo, a causa degli scandali, ma la persona che li causa, suo strumento. In chiunque scandalizza il fratello vi è un Giuda, il discepolo traditore: poiché chi mette ostacoli al cristiano debole rende inutile la morte di Cristo (cfr. 1 Cor 8,9-13).
Esortando a evitare lo scandalo, Gesù invita chi è tentato a rendersi responsabile. Non sempre cade chi inciampa: la tentazione apre spazio alla libertà. La prova non costringe mai al peccato: il male deve essere voluto o non evitato. Se il credente vive in un mondo di scandali, è chiamato a provare la propria fedeltà, a scegliere il bene. Il Gesù matteano insiste, per questo, sulla necessità della prova e sulla responsabilità di chi la provoca. Dà per scontato il fatto del male e del suo potere reale sulla comunità: deve evitare lo scandalo una comunità che conosce il male e ne soffre la necessità.
Meglio amputare che lasciarsi scandalizzare (Mt 18,8-9)
Dallo scandalo indotto dall’esterno si passa ora allo scandalo prodotto dalla persona stessa. Non è più l’ambiente che è ostile o seduce il fratello, ma ora il nemico è la persona stessa, meglio dire, una delle sue membra. La lotta diventa più personale, la prova divide l’uomo. Uno stesso può essere agente e vittima dello scandalo. L’area di azione del male è rimasta limitata al proprio corpo, ma la reazione dev’essere più radicale, l’immediata amputazione. Diversamente da Mt 5,29-30, qui non c’è da ridurre lo scandalo a una provocazione di carattere sessuale. Il che lo fa ancora più radicale. Qualunque azione esterna prodotta dalla mano, o percezione interna, assunta dall’occhio, che metta in difficoltà chi ne è protagonista, fa diventare eliminabile la mano o l’occhio. Liberarsi dalle cause del proprio peccato può portare a rinunciare alle proprie membra!
Anche se l’amputazione era praticata nella società e detti simili erano noti nell’antichità, la sentenza non è da intendersi letteralmente. La sua forza risiede nell’iperbole, nella brutalità dell’immagine. Non si tratta, quindi, di imporre l’automutilazione, ma si esige la rinuncia a ciò che è prezioso e, magari, irreparabile. Ma il fatto di costituire un’ esagerazione non significa che si debba interpretare simbolicamente: si citano membra importanti del proprio corpo. Gesù non esige che ci separiamo, anche traumaticamente se è il caso, da ciò che ci induce al male. Cerca, piuttosto, di convincerci ad alienare ciò che in noi stessi – di noi stessi – mette in discussione la nostra fedeltà a Dio.
È meglio perdere un giorno una parte che il tutto per sempre. La logica è lampante. Se quel che è in gioco è la vita o la morte del tutto, cioè definitiva, serve a poco la sopravvivenza della parte. Tutto ciò che sia di ostacolo a ottenere la vita eterna dev’essere eliminato, senza riguardi né indugi. Senza una vita assicurata nell’avvenire, non serve a nulla conservare le propria membra, per quanto vitali: a che serve conservare degli organi che possono farci perdere la vita per sempre?
La comunità cui si esige una simile radicalità ha fatto esperienza del male al suo interno (cfr. Mt 13,36-43.49-50). Pur vivendo già la salvezza, non è al riparo dallo scandalo, né è libera dal peccato. Rimanere esposti al male non significa arrendersi a esso, vivere minacciati dal peccato non equivale a rassegnarsi a patirlo. Ma non soccombere può esigere rinunce costose, dolorose amputazioni nella persona stessa. Siamo disposti ad affrontarle?
Badare ai piccoli come Dio pastore (Mt 10,10-14)
Nuovamente, senza troppo nesso logico, si passa dall’avvertire contro lo scandalo ad ammonire contro il disprezzo del piccolo (Mt 18,10). L’ammonizione è motivata da una parabola, che possiamo considerare ipsissima verba Iesu (Mt 18,12-14; Lc 15,3-7). Diversamente da Luca (Lc 15,1-2), la parabola in Mt non è diretta ai critici di Gesù, ma ai suoi discepoli.
La quantità delle pecore, cento, serve per risaltare, con la contrapposizione 99/1, il poco che manca, e ciò nonostante, la preoccupazione del pastore. Non si parla di un pastore ricco, bensì di un pastore che non vuole essere più povero. Lo smarrito è qualcuno che ancora non si è perso, ma corre pericolo; non vi è, quindi, motivo per darlo per perduto.
Matteo, familiarizzato con l’immagine del Dio Pastore (cfr. Ger 27,6; Ez 34,4.13.16), parla della premura straordinaria che la pecora smarrita si merita dal pastore. Non è che il pastore non stimi le novantanove tanto quanto la smarrita. Il caso è che cerca solo la smarrita, qualsiasi sia. Il Dio-pastore si impunta più nel ritrovare la smarrita che nel mantenere le rimaste.
Quel che è stato perso causa preoccupazione nel padrone; quel che è stato ricuperato, la sua gioia. E’ questo il messaggio centrale del racconto. La tensione tra il numero di quel che non si perde, e perciò non si cerca, e quel che si perde, lo mette ancora più in risalto, se possibile. Il debole che si perde è quello che ottiene maggiori attenzioni. Ma la trasformazione di cui si parla nella similitudine avviene nel pastore, non nella pecora né nel gregge. Gesù da per scontato che non sempre la ricerca ha un esito positivo e mette in risalto l’iniziativa del pastore che ha la fortuna di incontrare la sua pecora («se riesce a trovarla»).
Prendersi cura del più bisognoso è mansione di Padre. Chi apprezza e custodisce il fratello piccolo vive e testimonia la sollecitudine paterna di Dio pastore, che non permette che si smarrisca qualcosa che gli appartiene. Come la pecora, il figlio traviato ha il ritorno a casa assicurato, a patto che il suo Dio lo valorizzi come sua proprietà. Il pastore cercò la pecora smarrita perché si era accorto della sua assenza, e ciò perché gli interessava. Nessuno deve perdersi in una comunità cristiana senza che lo si cerchi fino a essere ricuperato. Una comunità che perde dei fratelli deve perdere la gioia d’essere comunità.Il bello pero è che tutti i fratelli possono fare assegnamento su Uno che non si dà per vinto, Dio e su chi lo rappresenta, nemmeno nel caso di un allontanamento volontario dalla comunità.
Il volere di Dio (Mt 18,14)
Diversamente da Luca, che insiste sulla misericordia di Dio, Matteo pone l’accento sul dovere della comunità cristiana di riflettere l’interesse di Dio per chi si è allontanato, per quanto piccolo e insignificante sia. Se Dio non vuole che si perdano i piccoli, il discepolo non può permetterselo. Non importa quel che egli vuole, ma quel che Dio vuole: «è volontà del Padre vostro». Dovrà, imitando Dio (Mt 5,48), agire come Lui. Per il fratello nessun fratello vale così poco da rimanere trascurato. Nella chiesa nessuno deve significare così poco che non avverta la sua mancanza, se si è allontanato; e non sia ricercato, se ne è andato.
I figli imitano il padre ricopiandone l’interesse per il fratello sviato. Questo significa che Gesù, da un lato, presuppone che la sua comunità vede i suoi noncuranti nei confronti di chi sono o valgono meno; d’altro canto, fa di Dio, della sua cura pastorale, la base dell’etica fraterna, poiché fonda una norma di vita comunitaria sul comportamento divino: dev’essere prassi pastorale perché è volontà divina. Nella comunità cristiana nessuno viene perso, perché in essa tutti sono contano, primi fra tutti, i più piccoli. E se qualcuno si perde, tutti vanno a cercarlo. E quando l’incontrano, incontrano un fratello e la gioia. Questa è la volontà del Padre.
[Ricordare il lavoro spirituale già accennato, cfr. Terzo giorno. Presentazione, pag. 2].
Che i Giuseppe e Maria perdessero Gesù adolescente durante un pellegrinaggio in Gerusalemme non fu dovuto alla loro trascuratezza ma alla voglia di Gesù di occuparsi nelle cose di suo Padre. Anche senza capire del tutto, i genitori riportarono Gesù in famiglia e curarono di lei per venti anni circa. Chiediamo Maria che si insegni a occuparci dei giovani accompagnandoli nella loro crescita “in sapienza, etá e grazia davanti a Dio e agli uomini” (Lc 2,52).
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Prendersi cura del piccolo perché Dio si prenda cura di noi (Mt 18,1-14)
“Insomma trattiamo i giovani, come Gesù Cristo stesso tratteremmo,
se fanciullo abitasse in questo collegio.”[g1]
Una domanda dei discepoli provoca un lungo discorso di Gesù, il quarto dei cinque che presenta Matteo (Mt 18,2-35; 5,1-7.29; 10,5-11,1; 13,1-52; 24,1-25,46). E’ l’unica volta che Matteo introduce un discorso di Gesù in questo modo (Mt 18,1): non si tratta, quindi, di una istruzione voluta da Gesù, bensì di un insegnamento provocato dai discepoli.
Possiamo distinguere in esso tre unità letterarie ben differenti, che richiedono una pratica pastorale tra fratelli, motivata sempre dal volere del Padre (Mt 18,10.14.39): la cura pastorale del piccolo (Mt 18,1-14), la correzione dell’offensore (Mt 18,15-20) e il perdono al fratello (Mt 18,21-39). Limitiamo la nostra riflessione al primo blocco (Mt 18,1-14) che regola i rapporti comunitari già esistenti. Non parla, quindi, di instaurare una vita in comune, dice invece come si deve vivere.
I. Essere come bambini, una conversione necessaria
Destinatari del discorso sono i «discepoli che si avvicinano a Gesù» (Mt 18,1; cfr. 10,5; 13,36), cioè tutti i credenti, membri della comunità cristiana, e non solo coloro che esercitano un qualche ministero o autorità.[g2] Sono essi che interrogano. Nella sua risposta Gesù si allontana, sempre più, dalla preoccupazione iniziale, presa più come pretesto che come motivo del discorso. Quelle che presenta sono, pertanto, norme per la vita comunitaria, atteggiamenti che devono praticare tutti coloro che vivono in comunità, indipendentemente dalle funzioni che vi esercitano. Delinea in questo modo l’atteggiamento radicale e il comportamento concreto che devono esserci tra discepoli di Cristo che vivono quotidianamente insieme.
1. Capire il testo
Introdotto dalla questione circa il più grande nel regno, il testo ha come motivo ricorrente il bambino e il piccolo nella comunità. Al principio, il bambino è una persona concreta (Mt 18,2) che si deve imitare, accogliere e non scandalizzare (Mt 18,3-5); poi finisce per essere un’immagine equivalente al discepolo.
Nella prima scena (Mt 18,1-5) si presenta il bambino come condizione per entrare nel regno e come criterio di accoglienza di Cristo. Rispondendo alla domanda dei suoi discepoli (Mt 18,1), Gesù pronuncia tre importanti sentenze (Mt 18,3-5) che, introdotte con un enfatico in verità si incentrano sul bambino, sia come persona reale (Mt 18,2) sia come figura ideale (Mt 18,3.4.5).[g3]
1 In quel momento i discepoli si avvicinarono a Gesù dicendo:
«Chi dunque è più grande nel regno dei cieli?».
2Allora chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro 3 e disse:
« In verità io vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. 4 Perciò chiunque si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli.
5 E chi accoglierà un solo bambino come questo nel mio nome, accoglie me.»
Una domanda dei discepoli apre la scena e motiva l’insegnamento (Mt 18,1: «Chi è più grande nel regno dei cieli?»). I discepoli si avvicinano a Gesù col desiderio di venire istruiti su qualcosa che concerne il regno e Dio.
Una preoccupazione che fa onore al discepolo (Mt 18,1)
La domanda non è ingenua e nemmeno fuori luogo, come potrebbe sembrare a prima vista:[g4] giungere ad essere grande al cospetto di Dio era anelito supremo del credente. I discepoli non stanno discutendo su chi può essere il più grande di loro; vogliono sapere chi sarà considerato il maggiore da Dio nel suo regno. Quelli che domandano non stanno pensando a se stessi; la loro preoccupazione, lungi dal denotare interesse o egoismo, è nettamente spirituale: sono interessati non a onori o primati di tipo gerarchico nel seno della comunità, ma alla grandezza definitiva secondo il progetto salvifico di Dio.
La questione, allora, non riguarda i discepoli di Gesù ma l’ordinamento interno del regno di Dio: cercano solo di conoscere l’ordine che regna dove e quando Dio regna. La comunità dei discepoli non è ancora il regno di Dio, ma è chiamata a esserlo; il suo modo di vivere è – o meglio: dovrebbe essere – figura e anticipazione di come si vive nel regno. I discepoli si interrogano su questo comportamento di oggi che un giorno li renderà grandi alla presenza di Dio. Senza trovarsi ancora nel regno, i discepoli vogliono vivere fin d’adesso secondo le sue norme.
Matteo ha presentato come destinatari del discorso di Gesù dei discepoli interessati alle leggi del regno.[g5] Preoccuparsi per Dio e la sua sovranità, stando dove ancora sono in cammino, quando ancora se ne sente la mancanza, fa onore ai discepoli. Preoccuparsi per quel che deve venire, costituisce un motivo per avvicinarsi al Signore e apprendere da lui i segreti del regno. Una comunità che vive ignorando Dio e senza che le importi nulla del suo regno non permette che Cristo le insegni, smette di essere sua discepola. Per ritornare alla scuola di Cristo bisogna ritornare ad interessarsi delle cose che non passano, quelle che hanno futuro: Dio e il suo regno.
Il bambino, misura della grandezza (Mt 18,2-4)
Gesù comincia a rispondere con un’azione simbolica, quella di mettere un bambino al centro (Mt 18,2). Il gesto precede la parola e ne fissa in anticipo, plasticamente, il senso (Mt 18,3-4): il bambino, ancora troppo piccolo per poter appartenere al mondo degli adulti, è il prototipo del più grande nel regno di Dio.[g6] La scena è già in se stessa immagine eloquente del regno di Dio, annuncio reale delle sue preferenze.[g7]
A continuazione Gesù spiega con autorevolezza il suo comportamento. Le sue parole, malgrado ciò, non corrispondono bene alla domanda dei discepoli, che era stata generica; non lo è l’istruzione impartita da Gesù. Quelli che domandavano davano per scontata la loro entrata nel regno, dato che volevano sapere chi sarebbe stato il maggiore là. Gesù li corregge, rispondendo che, prima di pensare di essere grande nel regno, bisognerà diventare degno di entrare in esso. E non vi entrerà chi non si converte facendosi come un bambino.
«Entrare nel regno dei cieli»(cfr. Mt 5,20; 7,21; 19,23-24; 23,13) non fa riferimento a qualche forma di spazio. Più che arrivare a un luogo, implica rimanere soggetto al dominio di Dio, farsi suddito del suo volere, rimanere assoggettato alla sua volontà. Come condizione per arrivare ad avere Dio come re, l’espressione «convertirsi e farsi come bambini» esige un cambio radicale, non solo di condotta, ma anche di orientamento fondamentale della vita. Convertirsi significa invertire la marcia, percorrere a ritroso il cammino fatto, abbandonare, retrocedendo, il modo attuale di essere, lasciarsi dietro quel che si è arrivati a essere. Si tratta più di un processo da mettere in movimento che di una operazione da fare una volta per tutte (cfr. Gv 3,4-5). Questo ritorno viene concretizzato come farsi come bambini, che, detto ad un adulto, implica che si comporti come se non fosse tale, come se fosse un piccolo.
Il bambino, in questo caso meta di un comportamento adulto, non è, per definizione, umile, né suole rinunciare ai propri diritti consapevolmente. Ma, in quanto bambino, non può aspirare a una posizione sociale rilevante. Non viene presentato come ideale di vita, né come stimolo nostalgico verso il passato. Non è proposto come paradigma di innocenza, di semplicità, e nemmeno come assenza di peccato; è, questo sì, modello di una vita senza pretese, socialmente insignificante. Il bambino, in quanto tale, non sempre è duttile né generoso, ma vivrà sempre in dipendenza, bisognoso dell’aiuto dell’adulto. L’adulto, per diventare bambino, deve rinunciare ad essere indipendente e autosufficiente, lasciarsi accudire. Essere come un bambino suppone, inoltre, di aver bisogno di protezione da parte di tutti, sapere di essere oggetto di attenzioni per qualsiasi cosa; chi accetta di abbassarsi sarà esaltato, cioè grande nel regno (Mt 18,1).[g8]
Gesù rende concreto ancora di più la conversione richiesta per entrare nel regno: diventare come questo bambino, abbassarsi al livello del piccolo che aveva messo significativamente al centro dell’attenzione dei discepoli, richiede un profondo cambiamento: spogliarsi delle sicurezze proprie dell’adulto e accettare di rimanere indifeso e insignificante come il piccolino. Tale conversione non è un cammino ascetico di annullamento del proprio io né un esercizio di cieca sottomissione;[g9] nel cristiano indica un servizio concreto a Dio e/o al prossimo (Mt 23,12; Lc 14,11; 18,14; 2 Cor 11,7; 12,21).
Lo stato di non considerazione e di insignificanza che rappresenta il bambino agli occhi dell‘adulto, assunto dal discepolo in forma consapevole, è la garanzia del cambio realizzato e dà , pertanto, sicurezza di entrare nel Regno. Ma, ed è questo l’aspetto più sorprendente, colui che riesce a farsi come quel bambino non entrerà nel regno dei cieli come uno dei tanti, ma sarà il più grande di tutti i cittadini di esso. Il discepolo, che ha il bambino come modello e meta della conversione, rifiuta di candidarsi, rifugge dalle dignità, si vede piccolo e bisognoso, debole e magari sottovalutato, si accontenta di quel che ha ed è grato per quel che gli danno. Il discepolo che desidera di essere cittadino del regno deve sentirsi davanti a Dio come un piccolo bisognoso di cure, per quanto grande sia giunto ad essere, in continuo sviluppo e in dipendenza permanente, pur essendo già un vero adulto.
Il regno di Dio è patrimonio di coloro che si sentono ancora piccoli e immaturi per quanto siano cresciuti e maturati. Si basa su questo la stessa possibilità di entrare nel regno. Il rovesciamento dei valori non potrebbe essere maggiore, più radicale né meno evidente: chi abbisogna di tutto, poiché dipende da tutti, colui che è superato da tutti i più grandi, sarà il più grande agli occhi di tutti quando Dio regnerà. La legge che regola il comportamento di Dio re esige un cambio radicale nel comportamento di chi sogna di esserne suddito: la conversione che impone il regno di Dio è, fondamentalmente, una inversione totale dell’ordinamento umano normale (cfr. Mt 20,26-28; 23,11-12).
Il comportamento di Gesù che sceglie il bambino come rappresentante del ‘più grande’ nel regno mette in discussione valori sociali intoccabili, così come radicate consuetudini ecclesiali. E non possiamo neanche dire che sia la legge che regge oggi la nostra vita comunitaria. Giacché irrilevante per la società e non atto all’adempimento della legge, il bambino non ha importanza, vale poco, conta poco. Ebbene, diventare qualcuno che non ha importanza è la conversione che esige Gesù da chi desidera importare molto a Dio.
Il piccolo, oggetto di attenzioni (Mt 18,5)
Dopo aver invitato a farsi come bambini, Gesù esorta i suoi discepoli ad accogliere il bambino che poco prima ha posto al centro della loro attenzione (Mt 18,2). Il bambino ora non è più il soggetto da imitare, ma oggetto di accoglienza e di ospitalità, qualcosa, d’altra parte, di raccomandabile (Bill I 774-775).
Ma introducendo ora il tema dell’accoglienza del bambino, si produce una certa discontinuità con quanto precede. [g10] E’ probabile che Matteo, seguendo Mc 9,37, esorti a prendersi cura dei bambini che, nella comunità, hanno più bisogno di aiuto, sono più esposti al disprezzo; la loro debolezza e insignificanza li rende meritevoli di maggiori cure.[g11] Si tratta, allora, di accogliere quanti, nella comunità, essendosi umiliati e fatti bambini, sono diventati indifesi e possono essere facilmente oggetto di poca considerazione e di abuso.
Il discepolo che si fa «come» un bambino si emargina dal mondo degli adulti. Il piccolo è facile preda dei grandi; il maldestro, dei furbi. Nella comunità cristiana, invece, il minore deve essere oggetto di maggiore cura e di migliori attenzioni. Ora, la preoccupazione per il minore deve avere come motivo Gesù stesso, perché è «nel suo nome», a motivo di Lui, che dovranno essere accolti. Le attenzioni che merita uno che si è fatto piccolo sono, in realtà, omaggio alla persona del Signore comune: Gesù si nasconde dietro il debole (Mt 25,40). Chi ha più bisogno di assistenza è chi meglio Lo rappresenta (cfr. Lc 22,27). L’identificazione è reale, anche se misteriosa: è una scelta di Gesù – e quindi un obbligo del credente – il vedersi accolto quando viene accolto uno di questi bambini con cui si è identificato. I più insignificanti rappresentano il Signore (cfr. Gv 13,20), il bambino è il luogotenente di Dio (cfr. Mt 25,35-40).
Il discepolo che si fa inferiore e bisognoso degli altri offre alla propria comunità l’occasione di avere e prendersi cura del suo Signore. Una comunità che offra protezione e riparo non già a bambini ma a quei discepoli che non hanno un protettore, accoglie il proprio Dio. Poiché sa che nel discepolo-bambino è nascosto Cristo Gesù e sa che le sue attenzioni nei riguardi del «piccolo» misurano la sua conversione a Cristo. Finché ci sono discepoli bisognosi di stima e di cure, la comunità non può sentirsi salvata: “la legge rimane in vigore fino alla decisione definitiva nel grande giudizio finale” [g12] cfr. Mt 25,40-45). E chi lo sta sollecitando, tarderà poco a compierlo (Mt 19,13-15): l’esempio del suo Signore ne rende meno eludibile la pratica nella Chiesa. In essa chi aspira ad ‘essere di più’ si fa più piccolo e i più piccoli sono quelli che ottengono maggiori attenzioni.
2. Applicarlo alla vita
Sento qualche profonda preoccupazione che mi porti a Cristo? Oppure sono troppe le inquietudini che, rimaste aperte, mi separano da lui? I miei problemi fanno di me un discepolo di Cristo, ossia, voglio vederli come Lui li vede e trovare la soluzione dove egli la colloca? Perché non mi conducono a Cristo i miei interrogativi? A chi o a che cosa mi conducono, allora?
Sento ansia di potere, bisogno di essere considerato, paura di essere sottovalutato? Posso andare avanti senza un riconoscimento pubblico o passo un brutto momento quando mi sento dimenticato? Mi sento poco apprezzato nella comunità? Che tipo di grandezze desidero o mi stimolano di più? E’ Dio e il suo regno quel che desidero maggiormente?
Non starò dando per scontata la mia entrata nel regno? E’ proprio un tema di cui parlo o su cui pongo domande, un motivo che mi porta a Cristo? Non ho ancora proprio nulla da imparare da lui per giungere a essere suddito del suo regno? Su che cosa baso la mia sicurezza che un giorno starò con lui nel suo regno?
Vedo, come Cristo, nella piccolezza e nella debolezza un grande avvenire? Come mai rifuggo dall’essere – o anche solo dall’apparire – debole e insignificante, se questo è segno di grandezza davanti a Dio? Farmi come bambino è oggi – è stato in qualche occasione – meta del mio progetto spirituale? Non è, piuttosto, vero che dipendere dagli altri mi sconcerta profondamente? Non è forse vero che quanto più grande sono, tanto più mi sento a disagio se non colgo l’apprezzamento degli altri?
Vivo in comunità la legge evangelica per cui il piccolo, bisognoso e inutile è il maggiore? Vive la mia comunità secondo questa legge? Accolgo come se fosse il Signore stesso colui che nella mia comunità è piccolo? So – lo accetto – che il minore in essa, il più bisognoso, è colui che meglio rappresenta Cristo (cfr. Mt 25,35-40)? Sapendolo, non cambierà nulla nella mia vita?
3. Pregare la Parola
Signore Gesù, comincio confessandoti che non mi vedo ben rispecchiato nei tuoi primi discepoli: non mi preoccupa l’essere grande nel tuo regno quanto piuttosto essere considerato importante oggi sulla terra. Se nemmeno l’ansia di entrare nel tuo regno mi porta a te, cos’è che, veramente importante, potrebbe condurmi a te? Dammi ansia di grandezze nel tuo regno, perché possa incontrarti di nuovo, sovrano e Signore, nel mio cammino.
Sei sorprendente, Signore. Non è certamente l’arrivare ad essere come un bambino quel che più mi preoccupa; e se anche lo desiderassi – non ti nascondo di averlo desiderato/pensato qualche volta – non sarebbe per questi motivi. La infanzia che rimpiango è per me il tempo dell’innocenza senza sforzo. Tu, invece, mi proponi un modo di essere credente adulto e responsabile che rinunci a disporre degli altri o a farsi valere davanti a loro, che sappia riposare con quel che ha e viva contento di quel che ha. Crea in me questo cuore che non ambisce onori che superino la mia capacità; fa riposare in te, Padre, il mio cuore e i suoi aneliti, come il bambino in grembo a sua madre riposa sereno e soddisfatto (cfr. S 131, 1-2).
Sii tu, mio Signore, il mio interesse, l’occupazione delle mie mani, la preoccupazione della mia vita. Siano tutti i tuoi, i più piccoli, coloro che danno un senso alla mia vita, occupano il mio cuore e fanno lavorare le mie mani. Aiutami a essere per essi quel fratello che tu hai pensato di dare loro, il sollievo di cui abbisognano, la mano sempre tesa in loro aiuto, l’occhio attento alle loro lamentele, la parola che calma e incoraggia, gli occhi che li guardano ( e li ammirano!) con i tuoi occhi, e il cuore che ricordi loro il tuo Cuore. Fammi più piccolo, Signore, perché possa rappresentarti tra loro. A ben guardare, come mi hai reso facile essere tuo ambasciatore! Potrei forse aspirare a un miglior presente e ad un avvenire migliore? Fammi tanto piccolo come vuoi oggi, e un giorno sarò tanto grande quanto mi avrai voluto!
II. Chi può di meno, ha più bisogno di noi
Il «piccolo» passa adesso da paradigma di vita e meta di conversione (Mt 18,1-5) ad essere oggetto di cura pastorale (Mt 18,6-14). Gesù approfitta della presenza del bambino in mezzo ai suoi discepoli per indicare loro un nuovo compito: tra i suoi, chi può di meno ed ha più bisogno deve godere di maggiori attenzioni. Si tratta di una esigenza che non dovremmo dimenticare né passare sotto silenzio: tra i discepoli di Cristo quelli che contano di meno sono quelli che meritano più attenzione/impegno. Giova ben poco ambire di essere più grande se sono i deboli e i piccoli quelli che devono essere i più onorati!
1. Capire il testo
Mt 18,6-9 non è un testo omogeneo. E’ una collezione di tre sentenze di diversa provenienza,[g13] messe insieme senza un collegamento vero e proprio con quel che precede. Tre sono le affermazioni, di tono proverbiale (Mt 18,6.8.9: «conviene», «è meglio») che ammoniscono contro lo scandalizzare i piccoli. Il discorso è cambiato bruscamente di tema e di tono: dal farsi come bambini si passa allo scandalo del piccolo credente, dall’esortazione all’avvertimento. Non si argomenta più con delle promesse (cfr. Mt 18,3-5) ma con una seria minaccia: si parla del castigo per chi scandalizza (Mt 18,6). Pur ammettendo che lo scandalo è inevitabile, non si salva chi lo provoca (Mt 18,7). E si misura la malizia dello scandalo in base alla perdita causata (Mt 18,8-9).[g14]
6 «Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, gli conviene che gli venga appesa al collo una macina da mulino e sia gettato nel profondo del mare. 7 Guai al mondo per gli scandali! E’ inevitabile che vengano scandali, ma guai all’uomo a causa del quale viene lo scandalo!
8 Se la tua mano o il tuo piede ti è motivo di scandalo, taglialo e gettalo via da te. E’ meglio per te entrare nella vita monco o zoppo, anziché con due mani o due piedi essere gettato nel fuoco eterno. 9 E se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, cavalo e gettalo via da te. E’ meglio per te entrare nella vita con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geènna del fuoco.»
Lo scandalo è un dato di fatto nella comunità di Matteo, una realtà con cui fare i conti quotidianamente.[g15] E sono i più indifesi tra i credenti a soffrirne di più. Scandalizzare significa impedire, bloccare il cammino, far incespicare. Matteo identifica il piccolo come cristiano.[g16]
«Uno di questi» è un’espressione poco precisa. Matteo, che la adopera quattro volte (Mt 10,42; 18,6; 10,14), la usa riferendosi ai missionari e ai catecumeni o cristiani di recente conversione. E’ probabile che dietro l’espressione «piccolo che crede»vi siano tutti quei cristiani la cui fede/fedeltà non è ancora molto resistente alla prova. Piccolo non è, allora, qui il minore di età; è il credente adulto che, affidandosi a Cristo, si è fatto piccolo: la sua fede in Cristo non lo rende infantile o debole, ma ha fatto di lui una persona che si è messa a disposizione degli altri. Confidando in Cristo il credente confida nei suoi fratelli.
Attenti a scandalizzare! (Mt 18,6-7)
Il Gesù matteano difende ora coloro che sono facile preda dello scandalo, indifesi o deboli, nella comunità, così come prima ha benedetto coloro che non si sarebbero scandalizzati di lui (Mt 11,6; cfr. 24,10; 26,31). Qui lo ‘scandalo’ deve riferirsi ad ogni ostacolo che si pone a colui che, debole e insignificante, crede in Cristo. Si allude, quindi, a qualsiasi causa che conduca alla perdita della fede e sbocchi nella separazione da Dio. Chi si è affidato a Cristo ha in Lui il suo migliore avvocato: farsi piccoli non implica rimanere in balìa dei fratelli. Chi mette in difficoltà il fratello avrà Gesù contrario. E in che modo!
Gesù in persona ha immaginato il peggiore dei destini per chi mette in pericolo la fedeltà del fratello. Gettare in mare con un peso era un castigo crudele; e se il carico è una pietra mossa da un asino, non vi è scappatoia possibile: è più pesante di quella che può muovere un uomo. L’immagine, così come è formulata, risulta ancora più forte; suggerisce che una macina da mulino sia legata al collo di chi scandalizza; l’affogare in questo modo, anche se formulato come semplice possibilità, evoca la massima crudeltà:[g17] oltre a non avere una terra in cui riposare, l’individuo sprofonderebbe inevitabilmente là dove nessuno può arrivare (cfr. Ap 18,21; Gr 51,63-64), dove non c’è salvezza.
La sentenza di Gesù acquista un tono profetico nel ripetuto «guai!». E’ più un lamento che una maledizione (cfr. Mt 23,13; 24,19; 26,24); aumenta la serietà dell’avvertimento diretto al mondo, dove avviene lo scandalo, e all’uomo che lo causa. Nasce lo scandalo dove un fratello può perdere la fede a causa dell’inciampo che gli ha messo il fratello, quando il debole cade prima o – quel che è molto peggio, ma non meno frequente – sotto il potere del fratello più potente o importante. Gesù avverte seriamente sul pericolo di scandalizzare il fratello, debole nella fede (cfr. Rm 14,13; 1 Cor 8,13) o piccolo nella valorizzazione. Anche se si tratta solo di un avvertimento, la minaccia deve essere presa sul serio: un avvenire così tremendo denota la gravità dell’offesa. Chi scandalizza non troverà una sorte peggiore, il suo destino definitivo sarebbe non potersi salvare e nemmeno trovare chi lo salvi.
E fa tremare notare come, per quanto gli dispiaccia, Gesù non può evitare che avvengano scandali: lui stesso riconosce persino che devono esserci:[g18] il male è nel mondo, nella comunità, come la zizzania nel campo seminato (Mt 13,24-30.36-43), occulto ma efficace, latente e onnipresente.
La sorte del mondo è incresciosa come spazio umano in cui avvengono gli scandali. L’affermazione sorprende per ciò che suppone: il mondo è turbato, pervertito dagli scandali. Il dominio di Satana è evidente (Mt 13,28.41-42). L’esperienza comunitaria del male è innegabile. Gesù non riflette una visione pessimista del mondo, ma parla toccato personalmente, preoccupato pastoralmente per il potere innegabile del male. Anzi, continua affermando l’incomprensibile, quasi intollerabile: gli scandali non sono solo inevitabili, sono addirittura necessari![g19]
Colpisce che non dia un motivo della necessità dello scandalo, semplicemente l’afferma (Mt 24,10). Forse supponeva che, finché il bene non trionfa definitivamente, il male deve continuare invitto e gli scandali inevitabili. Ma, cosa ancor meno accettabile, il fatto che gli scandali siano necessari non significa che chi li induce sia esente da colpa. Sventurato è non già il mondo, a causa degli scandali, ma la persona che li causa, suo strumento. In chiunque scandalizza il fratello vi è un Giuda, il discepolo traditore:[g20] chi mette ostacoli al cristiano debole rende inutile la morte di Cristo (cfr. 1 Cor 8,9-13).
Esortando a evitare lo scandalo, Gesù invita chi è tentato a rendersi responsabile. Non sempre cade chi inciampa: la tentazione apre spazio alla libertà. La prova non costringe mai al peccato: il male deve essere voluto o non evitato. Se il credente vive in un mondo di scandali, è chiamato a provare la propria fedeltà, a scegliere il bene. Il Gesù matteano insiste, per questo, sulla necessità della prova e sulla responsabilità di chi la provoca. Dà per scontato il fatto del male e del suo potere reale sulla comunità: deve evitare lo scandalo una comunità che conosce il male e ne soffre la necessità.
Meglio amputare che lasciarsi scandalizzare (Mt 18,8-9)
Dallo scandalo indotto dall’esterno si passa ora allo scandalo prodotto dalla persona stessa. In questo caso non è più l’ambiente che è ostile o seduce il fratello, ma ora il nemico è la persona stessa, o meglio, una delle sue membra. La lotta diventa più personale, la prova divide l’uomo. Uno stesso può essere agente e vittima dello scandalo. L’area di azione del male è rimasta limitata al proprio corpo, ma la reazione dev’essere più radicale, l’immediata amputazione. Diversamente da Mt 5,29-30, qui non c’è da ridurre lo scandalo a una provocazione di carattere sessuale. E ciò risulta ancora più radicale. Qualunque azione esterna prodotta dalla mano, o impressione interna, assunta dall’occhio, che mette in difficoltà chi ne è protagonista, fa diventare eliminabile la mano o l’occhio. Liberarsi dalle cause del proprio peccato può portare a rinunciare alle proprie membra.
Anche se l’amputazione era praticata nella società e detti simili erano noti nell’antichità, la sentenza non è da intendersi letteralmente. La sua forza risiede nell’iperbole, nella brutalità dell’immagine. Non si tratta, quindi, di imporre l’automutilazione, ma si esige la rinuncia a ciò che è prezioso e, magari, irreparabile. Ma il fatto di costituire un’ esagerazione non significa che si debba interpretare metaforicamente: si citano membra importanti del proprio corpo. Gesù non esige che ci separiamo, anche traumaticamente se è il caso, da ciò che ci induce al male; cerca, piuttosto, di convincerci ad alienare ciò che in noi stessi – di noi stessi – mette in discussione la nostra fedeltà a Dio.
«E’ meglio per te entrare», un semitismo, denota confronto: è meglio perdere un giorno una parte che il tutto per sempre. La logica è evidente. Se quel che è in gioco è la vita o la morte del tutto, cioè definitiva, serve a poco la sopravvivenza della parte. La contrapposizione si colloca, inoltre, tra la condizione presente e la vita futura: tutto ciò che sia di ostacolo a ottenere la vita eterna dev’essere eliminato, senza riguardi né indugi. Nessun sacrificio è troppo costoso, se è necessario per assicurarci la vita: ciò che non dà vita, anche se vivo, non merita di essere conservato se il tentativo di mantenerlo ci arreca la morte. Senza una vita assicurata nell’avvenire, non serve a nulla conservare le propria membra, per quanto vitali: a che serve conservare degli organi che possono farci perdere la vita per sempre?
La comunità cui si esige una simile radicalità fa esperienza del male al suo interno (cfr. Mt 13,36-43.49-50). Pur vivendo già la salvezza, non è al riparo dallo scandalo, né è libera dal peccato. Rimanere esposti al male non significa arrendersi a esso, vivere minacciati dal peccato non equivale a rassegnarsi a patirlo. Ma non soccombere può esigere rinunce costose, dolorose amputazioni nella persona stessa. Siamo disposti ad affrontarle?
2. Applicarlo alla vita
Sento qualche profonda preoccupazione che mi porti a Cristo? O non sono troppe le inquietudini che, aperte, mi separano da Lui? I miei problemi fanno di me un discepolo di Cristo, cioè, voglio vederli come egli li vede e trovare la soluzione dove lui la pone?
Ho ansia di potere, bisogno di essere considerato, paura ad essere deprezzato? Mi sento sottovalutato nella comunità? Che tipo di grandezza desidero o mi stimola di più? E’ Dio e il suo regno quel che desidero maggiormente?
Sto forse dando per scontata la mia entrata nel regno? Si tratta veramente di un tema di cui parlo, un motivo che mi porta a Cristo? Non ho proprio nulla da imparare da lui per giungere ad essere suddito del suo regno? Su che cosa fondo la mia sicurezza che un giorno sarò con lui nel suo regno?
Vedo, come Cristo, nella piccolezza e nella debolezza un grande avvenire? Come mai rifuggo dall’essere – o anche solo dall’apparire – debole e insignificante, se è segno di grandezza davanti a Dio? Farmi come bambino è oggi, lo è stato qualche volta, meta del mio progetto personale? Non è, piuttosto, vero che dipendere dagli altri mi sconcerta profondamente; quanto più grande sono, tanto più infastidito mi sento?
Vivo in comunità la legge evangelica per cui il piccolo, bisognoso e inutile, è il più grande? La mia comunità vive secondo questa legge? Accolgo come se fosse il Signore in persona colui che nella mia comunità è piccolo? So – lo accetto – che il minore in essa, il più bisognoso, è colui che meglio rappresenta Cristo (cfr. 25,35-40)?
3. Pregare la Parola
Signore Gesù, comincio confessandoti che non mi vedo riflesso bene nei tuoi primi discepoli: l’essere grande nel tuo regno non mi preoccupa tanto quanto l’essere considerato importante ora qui in terra. Se nemmeno la preoccupazione di entrare nel tuo regno mi porta a te, cos’è ciò che, veramente importante, mi potrebbe portare a te? Dammi ansie di grandezza nel tuo regno, perché possa incontrarti di nuovo, sovrano e Signore, sulla mia strada.
Sei sorprendente, Signore. Certamente, non è arrivare ad essere come un bambinoquel che più mi preoccupa; e se lo desiderassi – cosa che non ti nascondo che è successa qualche volta – non sarebbe per gli stessi motivi. L’infanzia di cui ho nostalgia è per me il tempo dell’innocenza senza sforzo; Tu, invece, mi proponi un modo di essere adulto e responsabile che rinunci a disporre degli altri o a farsi valere davanti a loro, che sappia basarsi su quel che sono e vivere contento di quel che ho. Crea in me un cuore che non ambisca onori che superano la mia capacità; fa che riposino in te, Padre, il mio cuore e le sue ansie, come il bimbo in grembo a sua madre riposa sereno e soddisfatto.
Sii tu, mio Signore, l’oggetto dei miei desideri, l’occupazione delle mie mani, la preoccupazione della mia vita. E che siano tutti i tuoi, i più piccoli, quelli che danno un senso alla mia vita e lavoro alle mie mani. Aiutami ad essere per essi quel fratello che tu hai pensato di dare loro, il sollievo di cui hanno bisogno, la mano sempre tesa in aiuto, l’udito sempre attento ai loro lamenti, la parola che calma e incoraggia, gli occhi che li guardano (e ammirano!) coi tuoi occhi, e un cuore che ricordi loro il tuo Cuore. Fammi più piccolo, Signore, perché possa rappresentarti tra loro.
III. Oggetto della sollecitudine di Dio
Nuovamente, senza troppo nesso logico, si passa dall’avvertire contro lo scandalo ad ammonire contro il disprezzo del piccolo (Mt 18,10). L’ammonizione è motivata da una parabola, di indubbia autenticità (Mt 18,12-14; Lc 15,3-7).[g21]
Ritrovamento ricupero
1. Capire il testo
La parabola ricorda la profezia di Ez 34 (Mt 18,12/Ez 34,10-11.12.13; Mt 18,12-13/Ez 34,16). E’ formulata con una certa cura. Le domande iniziali (Mt 18,12) e la ripetuta asseverazione «io vi dico» (Mt 18,10.13) le conferiscono un tono di argomentazione e di insegnamento. Diversamente da Luca (Lc 15,1-2), in Mt 18,12-14 la parabola non è diretta ai critici di Gesù, ma ai suoi discepoli. Non difende il comportamento di Gesù con i peccatori, chiede ai cristiani che, ricopiando il comportamento divino (cfr. il medesimo motivo in Mt 5,43-48), abbiano cure particolari verso i piccoli. Lo sfondo è nettamente intracomunitario.
10 «Guardate di non disprezzare uno solo di questi piccoli, perché io vi dico che i loro angeli nei cieli vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli. 12 Che cosa vi pare? Se un uomo ha cento pecore e una di loro si smarrisce, non lascerà le novantanove sui monti e andrà a cercare quella che si è smarrita? 13 In verità io vi dico: se riesce a trovarla, si rallegrerà per quella più che per le novantanove che non si erano smarrite. 14 Così è volontà del Padre vostro che è nei cieli, che neanche uno di questi piccoli si perda.»
La trascuratezza, una forma di disprezzo (Mt 18,10)
Il tono iniziale di “questa breve e sublime parabola” è di serio avvertimento, un mandato esplicito.[g22]
Disprezzare non è un semplice sentimento interiore, è un gesto visibile, pungente (Mt 6,24/Lc 16,13), qualcosa che sentono le vittime; unisce l’ingiuria allo sgarbo. L’insignificanza sociale del piccolo facilita il disprezzo. Per Gesù il motivo per non disprezzarlo, all’interno della comunità, risiede nel fatto che i suoi angeli godono di accesso permanente al cospetto di Dio, una affermazione insolita sulle sue labbra. Gesù dà per scontato che angeli superiori si prendono cura dei membri più insignificanti della comunità.[g23]
La presenza davanti a Dio di angeli che rappresentano i piccoli, esprime la sollecitudine di Dio per coloro che, per quanto insignificanti, appartengono alla comunità credente. Conteranno magari poco agli occhi degli uomini, ma i loro angeli svolgono continuamente il servizio divino, i loro guardiani assistono al trono di Dio.[g24] Sono quegli stessi che contemplano il volto divino, supremo atto di culto, mentre custodiscono i più piccoli sulla terra. Se i custodi dei minimi esercitano tale funzione, con quale diritto potranno i fratelli disprezzare quelli che contano di meno, i più insignificanti? Se gli angeli dei piccoli “vedono sempre” Dio, vuol dire che essi e i loro rappresentati/protetti sono veramente importanti per Dio.
La sollecitudine pastorale di Dio (Mt 18,12-13)
Dalla cura mediante intermediari si passa alla cura personale da parte di Dio: è Lui il pastore dei fratelli che sono più minacciati. E’ il loro migliore avvocato, perché loro padrone e proprietario. La parabola descrive non solo la sollecitudine di Dio, ma il suo modo di viverla.
La domanda iniziale «Che cosa vi pare»,[g25] cerca di richiamare l’attenzione dell’ascoltatore e suppone il suo assenso. Questo è il ragionamento di Gesù: come può qualcuno ritenersi soddisfatto lasciando perdere qualcosa che gli appartiene senza reagire immediatamente? La quantità delle pecore, cento, non dice nulla circa la condizione economica del proprietario. Il numero serve per risaltare, con la contrapposizione 99/1, il poco che manca, e ciò nonostante, la preoccupazione del pastore. Non si parla di un pastore ricco, bensì di un pastore che non vuole essere più povero.. Smarrirsi, una metafora usata già nell’AT (Is 53,6; S 119,176), corrisponde meglio di perdere(Lc 15,4) agli interessi di Matteo (Mt 24,4.5.11.24). Lo smarrito è qualcuno che ancora non si è perso, ma corre pericolo di diventarlo; non vi è, quindi, motivo per darlo per perduto. Di fatto, nell’applicazione Matteo, significativamente, dichiarerà che Dio non vuole la perdita dei suoi (Mt 18,14).
Matteo, familiarizzato con l’immagine del Dio Pastore (cfr. Ger 27,6; Ez 34,4.13.16), riferisce la cura straordinaria che si merita dal pastore la pecora smarrita.[g26] Non è che il pastore non stimi le novantanove tanto come la smarrita, il caso è che cerca solo la smarrita. La composizione uno-novantanove è, a questo riguardo, rivelatrice: quel che è meno, interessa di più; solo ciò che si è smarrito viene cercato. Il narratore non si interessa delle novantanove perché non inducono il pastore a preoccuparsi di esse in forma straordinaria: il pastore si impunta più nel ritrovare la smarrita che nel mantenere le rimaste.[g27]
Quel che è stato perso causa preoccupazione nel padrone; quel che è stato ricuperato, la sua gioia. E’ questo il motivo del racconto. La tensione tra il numero di quel che non si perde, e perciò non si cerca, e quel che si perde, lo mette ancora più in risalto, se possibile. La trasformazione di cui si parla nella similitudine avviene nel pastore, non nella pecora né nel gregge. Gesù, in Mt 18, che forse riflette meglio di Lc 15 la parabola originale, vuole ricordare che non sempre la ricerca ha un esito positivo e mette in risalto l’iniziativa del pastore che ha la fortuna di incontrare la sua pecora («se riesce a trovarla»).[g28] Il debole che si perde è quello che ottiene maggiori attenzioni.
Prendersi cura del più bisognoso è funzione del Padre. Chi apprezza e custodisce il fratello piccolo riflette la sollecitudine paterna di Dio pastore, che non permette che si smarrisca qualcosa che gli appartiene. Come la pecora, il figlio traviato ha il ritorno a casa assicurato, a patto che il suo Dio lo valorizzi come sua proprietà. Il pastore cercò la pecora smarrita perché si era accorto della sua assenza, e ciò perché gli interessava. Nessuno deve perdersi in una comunità cristiana senza che lo si cerchi fino a incontrarlo;tutti i fratelli possono fare assegnamento su uno che non si dà per vinto, Dio e su chi lo rappresenta, nemmeno nel caso di un allontanamento volontario dalla comunità.
Il volere di Dio (Mt 18,14)
La conclusione è tutta redazionale.[g29] Matteo identifica Dio come pastore (Sal 119,176; Ez 34,15) e ne sottolinea la volontà.[g30] Dio pensa come un pastore, agisce come tale (Mt 9,36; 15,24; cfr. Ez 34,22-26). Non rimane indifferente di fronte all’allontanamento dei suoi dalla vita comunitaria; né rimane neutrale davanti al loro sviamento, né impassibile di fronte alla loro perdita. Non gli interessa tanto la conversione, il ritorno dello sviato, quanto la ricerca affinché non si perda. Non è quel che ci guadagna quando ricupera lo sviato, ma è quel che ricupera che gli importa, quando lo sviato si incontra nuovamente con Lui.[g31] Non indicando la causa dello smarrimento, dandolo per ovvio, non si dà un giudizio circa la colpevolezza dello sviato. Si constata il fatto e la volontà divina di non perdere nessuno.
Se Dio non vuole che si perdano i piccoli, il discepolo non può permetterselo. Non importa quel che egli vuole, ma quel che Dio vuole: «è volontà del Padre vostro». Dovrà, imitando Dio (Mt 5,48), agire come Lui. Per il fratello nessun fratello vale così poco da rimanere trascurato. Nessun cristiano deve significare così poco che non si noti la sua mancanza, se si è allontanato; e così da non essere cercato, se se ne è andato.
Diversamente da Luca, che insiste sulla misericordia di Dio, Marco pone l’accento sul dovere della comunità cristiana di riflettere l’interesse di Dio per chi si è allontanato, per quanto piccolo e insignificante sia. I figli imitano il padre ricopiandone l’interesse per il fratello sviato. Questo significa che il Gesù matteano, da un lato, presuppone che la sua comunità abbia bisogno di percepire delle esigenze: vede i suoi noncuranti nei confronti di chi sono o valgono meno; d’altro canto, fa di Dio, della sua cura pastorale, la base dell’etica fraterna, poiché fonda una norma di vita comunitaria sul comportamento divino: dev’essere prassi pastorale perché è volontà divina.
3.2. Applicarlo alla vida
Responsabilizzarsi del fratello richiede, anche, di non mettere alla prova la sua fedeltà a Dio col mio comportamento. Sono consapevole del rischio che sto correndo quando rendo difficile o penosa la fede dei miei fratelli? Come posso io dare scandalo ai miei fratelli? Mi rendo conto che essere di inciampo al fratello mi rende uguale a colui che tradì Cristo?
Vivo in un mondo dove lo scandalo, da me causato o sofferto, è inevitabile? Come reagisco di fronte alla tentazione, alla prova, al male in me o in quelli che vivono con me? Mi libero da essi sminuendone l’importanza nella mia vita? Cerco di spiegare il malessere in cui vivo, lo scuso e lo “capisco” o lo condanno solo se permane negli altri?
A cosa sono disposto a rinunciare pur di non mettere alla prova la fedeltà dei miei fratelli? C’è qualcosa in me che mi è di scandalo, che ostacola la mia fedeltà al Signore? Quali rinunce dovrei intraprendere oggi, affinché Cristo non debba respingermi un giorno?
Trascuro quelli che sono meno importanti, possono di meno, nella mia comunità? Apprezzo i miei fratelli per quel che mi dànno o perché Dio me li ha affidati (Cost. 50)? Quando mi deciderò a vederli e apprezzarli come li vede e li apprezza Dio?
Sono sicuro che nessuno dei miei, nessuno della mia comunità si stia perdendo? Mi interesso almeno allo sviamento dei miei fratelli? Cosa faccio per ricuperarli? C’è qualcuno che, a motivo del suo disorientamento o della solitudine, ha bisogno di me? Cosa dovrò perdere di me stesso per non consentire che si perda uno dei miei fratelli?
Se Dio non vuole che si perdano i piccoli, posso permettermi che si smarriscano i miei fratelli? Con quale diritto sto rubando a Dio la gioia del ritrovamento, se non vado incontro a chi lo ( = ci) sta abbandonando? Potrò ricevere l’amore del Padre se non mi prendo cura dei suoi figli più indifesi?
3.3 Pregare la Parola
Mi colpisce, Signore, la tua presa di posizione di fronte agli scandali: mi metti davanti alla possibilità di diventare una minaccia per i miei fratelli e mi minacci col peggiore dei castighi. Prendi così sul serio l’eventualità che io possa essere motivo di caduta, causa dell’infedeltà dei miei fratelli! Dai per scontato che debbano esserci degli scandali, però maledici coloro che li provocano: diventi così serio che mi fai paura! Liberami dallo scandalizzare i miei fratelli, non permettere che i miei fratelli mi scandalizzino!
Dammi coraggio, Signore, per riconoscere quel che oggi mi sta separando da te; che non consideri degno di essere ritenuto quel che mi impedisce di averti come Signore. Tu sei il mio bene imperituro: fa’ che perda quel che ho, pur di non perdere te. Perché ci sono cose, persone e progetti nella mia vita che stimo più di te, dato che non sono disposto a sacrificarle per te? Se ogni mia rinuncia non ha in te la sua giustificazione, non mi servi come Dio.
Mi meravigli, Signore, al tenere in così alta considerazione i più piccoli tra noi; se chi mi custodisce, tu , mio angelo, ti contempla così da vicino, non mi sentirò afflitto se mi vedo disprezzato e mi guarderò bene dal disprezzare nessuno, a cominciare dai più insignificanti dei miei fratelli.
Insegnami, Signore, a prendermi cura di loro come tu vorresti; dimmi come devo badare ad essi perché percepiscano le tue attenzioni. Giacché non voglio perderti come Padre, fa’ che compia la tua volontà: dedicami tu ai miei fratelli più bisognosi. Che io non manchi a coloro che mancano a te, affinché non mi manchi tu, mio buon Padre.
[g2] Quando in Matteo Gesù parla agli apostoli, si menziona esplicitamente (Mt 10,1.5; cfr. 5,1).
[g3] Benché ci sono motivi diversi tra Mt 18,3-4 («farsi piccolo» = «umiliarsi; entrare nel regno» = «essere in esso grande») e Mt 18,5 («accogliere un bambino» = «accogliere Cristo»), i detti sono stati raccolti in torno al tema «bambino/i».
[g4] Gesù aveva già utilizzato il tema come motivo di esortazione (cfr. Mt 5,19; 11,11). L’evangelista situerà più avanti, quando i figli dello Zebedeo presenteranno la loro richiesta (Mt 20,20-28/Mc 10,35-45), la questione della primazia all’interno del discepolato. Qui, invece, non appare segno alcuno di rivalità tra i discepoli.
[g5] Per riuscire, ha dovuto correggere la sua fonte e così migliorare l’immagine dei discepoli (cfr. Mc 9,33-34; Lc 9,46-47),
[g6] “Nella Palestina ai tempi di Gesù, come nel mondo antico in genere, il bambino è considerato un essere debole; non ha valore nella società e deve obbedire tutto quanto gli viene detto” (P. Bonnard, El evangelio según san Mateo, Cristiandad, Madrid 1984, 399, n3).
[g7] “Si deve uno di rappresentarsi la scena in modo vivo per capire il contrasto e il significato del segno: da una parte, il gruppo d’uomini prudenti e sicuri di sé; dall’altro, perso tra di loro, e guardando forse con angoscia, la piccola creatura. Il gruppo degli eletti, ben coscienti del loro onore, e il bambino che non ha parola da dire” (W. Trilling, El evangelio según san Mateo. Vol. II, Herder, Barcelona 1970, 128.)
[g8] La presa di posizione di Gesù è oggi così insolita come lo fu nei suoi tempi. Non ci sono stati scoperti testi giudei in cui il bambino sia modello da seguire. Come potrebbe diventare un bambino, non ancora sotto la Legge, modello di pietà per gli adulti, o misura di grandezza davanti a Dio (cfr. m. Abbot 3.11)?
[g9] La conversione richiede, in un primo momento, la rinuncia di sé che fa l’adulto, ma questa ‘umiliazione’ non basta. Si deve adottare il modo di vita proprio del bambino, libera e coscientemente, cioè, continuando a vivere da adulto. L’umiliazione non è, dunque, una via ascetica, ma piuttosto uno stato di vita, più che percorso da transitare è la meta finale.
[g10] Sembra che la frase non è sorta dalla medesima situazione storica; però i tre sinottici concordano e la collocano in questo momento (Mc 9,37; Lc 9,48; cfr. 10,40).
[g11] Non allude, probabilmente, all’accoglienza degli orfani in comunità; non è questo il tema. Non lo è neppure l’ospitalità dovuta ai missionari itineranti (cfr. Mt 10,40-42; Mc 9,37.41; Lc 9,48).
[g12] Trilling, Mateo II 132.
[g13] Le sentenze potrebbero essere state dette da Gesù di Nazaret; nel racconto di Matteo, però, riflettono problemi e tensioni comunitarie.
[g14] All’interno del paragrafo, c’è uno slittamento nella concezione dello scandalo: si va dallo scandalo ad altri al scandalo proprio. E in entrambi i casi, il castigo segue lo scandalo. Lo scandalo contro il prossimo, se si ostacola la sua fedeltà (Mt 18,6-7), è diverso da quello causato a uno stesso, quando si fa qualcosa di grave (Mt 18,8-9).
[g15] Motivo familiare in Matteo (Mt 5,29-30; 11,6; 15,12; 13,21.41; 15,12; 16,23; 17,27; 24,10; 26,31-32), che Marco non adopera. In Luca appare solo Lc 17,1.
[g16] «Quelli che credono» è formulazione tecnica cristiana (At 19,18; Ef 1,19; 2 Ts 1,10). «Credere in me», unica ricorrenza nei sinottici (Mt 27,42/Mc 15,32), contraddistingue il credente come cristiano.
[g18] Matteo usa «anagke», la stessa necessità che obbligava Paolo a predicare! (cfr. 1 Cor 9,16).
[g19] Lc 17,1, invece, dice che è impossibile che non ci siano scandali.
[g20] L’esclamazione, come viene formulata, (Mt 18,7c), è diretta a chi causa lo scandalo; Matteo la riprenderà per parlare di Giuda (Mt 26,24; cfr. Mc 14,21), l’esempio per antonomasia di scandalo a danno dei credenti.
[g21] La versione di Luca insiste nell’allegria del ricupero, quella di Matteo nella preoccupazione che motiva la ricerca di quanto si è perduto. Gesù poté difendersi con la parabola dalla critica di essere troppo amico di peccatori e pubblicani (Mc 2,17; Lc 15,1-2), come emerge in Lc 15,3-7.
[g22] L’introduzione redazionale, che alleggerisce la transizione narrativa, non è del tutto riuscita. Benché i destinatari sono gli stessi, «uno di questi piccoli» (Mt 18,6.14), gli agenti, «voi», (Mt 18,1.4: i discepoli), e l’azione sono diversi: il «tu» viene rimpiazzato dal «voi», l «scandalo» diventa adesso «disprezzo».
[g23] Era una convinzione di fede biblica che Dio aveva incaricato uno spirito per custodire ciascun uomo (Es 23,20; Sal 91,11; Tb 3,25; Dn 3,49; 2 Mac 11,6; At 12,15; Eb 1,14. Cfr. Bill I 781-783. II 707-708; III 437-440), ma non consta che si utilizzasse, come qui, per la difesa dei deboli (cfr. At 12,15).
[g24] Gli angeli che sono davanti a Dio, «gli angeli del Volto» (Hen[et] 40,1-10), di un livello superiore, (1 QSab 4,45-46; 1 QH 6,13), non erano visti come custodi degli (però Tb 12,15), ma delle comunità (1 Cor 11,10: Eb 12,22; Ap 2,1-3,14; cf. 2 Mac 11,6; 15,22-23).
[g25] Senza parallelo nella versione lucana, è redazionale: scopre la mano, e la mente, di Matteo (Mt 17,25; 21,28; 22,17.42; 26,66, cfr. Gv 11,56),
[g26] Mentre Lc 15,4b («Chi di voi non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova?») insiste in una ricerca permanente fino al ritrovamento.
[g27] La reazione del pastore è così insolita e inspiegabile che è stato spiegato come traduzioni deficienti dell’originale arameo o presupponendo delle circostanze non dette nella parabola.
[g28] Luca insiste nel ritorno del peccatore alla comunità. Matteo preferisce mantenere in essa il debole. Sono due modi pastorali di rispondere a delle diverse problematiche comunitarie.
[g29] Il vocabolario è tipicamente matteano, e la conclusione forma una inclusione con Mt 18,10. Lc 15,7 segue la sua fonte più da vicino.
[g30] La formulazione, «il volere davanti a Dio», è una nota espressione targumica, cfr. TgIs 53,6.10; cfr. Mt 11,26.
[g31] Se in Lc 15,7 la pecora ricuperata è immagine del peccatore pentito, Mt 18,14 l’identifica con «uno di quei piccoli»; la preoccupazione per l’integrità della vita comune è predominante.
[g32] A differenza di Lc 15, dove Gesù difende il suo agire appellandosi all’attuazione divina (Lc 15,1-2), Matteo presenta Gesù chiedendo ai suoi un atteggiamento simile a quello di Dio Pastore.
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La madre di Gesù
‘ausiliatrice’ e madre dei discepoli
Le notizie che il Nuovo Testamento offre su Maria sono notoriamente scarse. E, ciò che è ancora più decisivo, sono sempre subordinate alla confessione di Cristo Gesù. Di fatto, dei due evangelisti che più la nominano, uno, Luca, afferma che la sua intenzione è consolidare la fede dei suoi lettori (Lc 1,1-4) e l’altro, Giovanni, suscitarla (Gv 20,30-31).
Nel quarto vangelo Maria, che viene sempre identificata come «la madre di Gesù», ha una presenza più debole ancora che nel terzo vangelo. Malgrado ciò, e il dato è rilevante, la sua presenza è strategicamente collocata, all’inizio del ministero pubblico de Gesù (Gv 2,1-11) e al suo termine (Gv 19,26-27). Anche se Gesù si dirige a sua madre in forma insolita, poiché usa il semplice appellativo di «donna» (Gv 2,4; 19,26), in ambedue i casi, appare vincolata a due dei motivi più centrali del pensiero giovanneo: è citata, prima, in rapporto all’ora di Gesù (Gv 2,4; 19,30) e, in secondo luogo, in un momento cruciale della vita dei suoi discepoli (Gv 2,11; 19,27).
Questi due episodi non sono noti alla tradizione sinottica. Il primo racconta l’inizio dell’ora di Gesù (Gv 2,4) e della fede dei suoi discepoli (Gv 2,11); e il secondo, il suo compimento (Gv 19,30). In essi la madre non la protagonista ma Gesù. Ciò nonostante, la presenza di Maria è imprescindibile per Gesù così come per i suoi discepoli. Per Gesù che a Cana si vede nella necessità di anticipare la sua ora; e nel Calvario ha necessità di un discepolo per consegnare la madre alla sue cure. Per i discepoli, che durante il banchetto nuziale a Cana arrivano alla fede e che sul Calvario, anche se perdono il Maestro, ricevono a casa sua madre. Maria – è evidente – non è stata l’attore principale (Gesù), neppure secondario (i discepoli); ma risultò imprescindibile per tutte e due.
Non è detto che il discepolo di Cristo sia ormai credente: seguire Gesù da vicino non riesce a fare dei seguaci fedeli. I quattro vangeli ne sono testimoni. Fede e fedeltà, prima ed ultima tappa del discepolato, non sono possibile senza Maria. Ordinare nostra vita per “cercare e trovare Dio” ci obbliga ad avere Maria a casa e ad averla tra le nostre cose. Crede in Gesù chi convive con Maria nella gioia e la festa. Non perde Gesù, chi vive con sua madre a casa.
Dove c’è Maria, come a Caná di Galilea, Gesù non tarda a uscire dall’anonimato e i suoi discepoli dall’incredulità. Tuttavia, senza la presenza attiva e sollecita di sua madre, senza la sua tenacia e fiducia, la festa sarebbe stata impossibile così come la fede dei discepoli. Un motivo ci deve essere.
Quando c’è Maria, come sul Calvario, il discepolo che si sa amato da Gesù resisterà fedele qualsiasi scandalo, persino la morte del suo Signore ed avrà la gioia di ricevere la madre di Gesù a casa.
Obiettivo dell’esercizio
Dedichiamo questa mattina a ripensare il luogo che concediamo a Maria nella nostra vita di discepoli di Gesù, e ricostruiamo la nostra vita di fede, assumendo i costi da pagare (un ‘maltrattamento’ occasionale da parte di Gesù, come Maria a Cana) o godendo della ricompensa dei fedeli (ereditare la mamma di Gesù e portarla a casa). Maria ci insegna che non c’è fede senza prova, né fedeltà senza estrema obbedienza. Gesù potrà anticipare la sua rivelazione e portare alla fede a quanti lo seguono, sempre che Maria ci sia intorno: la fede, per nascere, richiede obbedienza. Gesù consegnerà sua madre ai discepoli che provino la loro fedeltà fino alla croce: erediterà la madre di Gesù il discepolo che non perda la fede anche quando perda il suo Signore.
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La madre di Gesù ‘ausiliatrice’ e madre del credente
“Crediamo che Maria è presente tra noi
e continua la sua ‘missione di Madre della Chiesa e Ausiliatrice dei cristiani.
Ci affidiamo a Lei, umile serva in cui il Signore ha fatto grandi cose
per diventare tra i giovani testimoni dell’amore inesauribile del suo Figlio.”[h1]
Le notizie concrete che il Nuovo Testamento presenta su Maria sono notoriamente scarse.[h2] E, ciò che è ancora più decisivo, sono sempre subordinate alla confessione di Cristo Gesù. Di fatto, dei due vangeli che la nominano, uno afferma che cerca di consolidare la fede dei suoi lettori (Lc 1,1-4) e l’altro, di suscitarla (Gv 20,30-31).
Nel quarto vangelo Maria, che viene sempre chiamata «madre di Gesù», ha una presenza ancora più debole che nel terzo vangelo.[h3] Malgrado ciò, e il dato è rilevante, appare vincolata a due motivi centrali del pensiero giovanneo: viene citata, prima, in rapporto all’ora di Gesù (Gv 2,4; 19,30) e, in secondo luogo, in un momento cruciale della vita dei suoi discepoli (Gv 2,11; 19,27). In entrambi i casi Gesù si dirige a sua madre in forma insolita, poiché usa il semplice appellativo di «donna» (Gv 2,4; 19,26).
I due episodi, inoltre, non sono noti alla tradizione sinottica. Il primo racconta l’inizio dell’ora di Gesù (Gv 2,4) e della fede dei suoi discepoli (Gv 2,11); e il secondo, il suo compimento (Gv 19,30). Non è Maria la protagonista ma Gesù. Ciò nonostante, la presenza di Maria è imprescindibile per Gesù così come per i suoi discepoli. La sua partecipazione attiva, accettando una precisa decisione del figlio, rende possibile il sorgere di un nuovo rapporto di Gesù col gruppo di seguaci, prima, e con uno dei suoi discepoli, dopo.
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La madre di Gesù, ‘ausiliatrice’
nell’inizio della fede dei discepoli
(Gv 2,1-11)
“Maria ci ha dato un luminoso esempio di fede…
Ci ha insegnato ad avere fiducia,
giacché sebbene avesse udito da suo figlio parole che sembravano un rifiuto…,
agì contro la speranza, fiduciosa della misericordia del figlio…
Ci insegnò ad obbedire, persuadendo i servi ad obbedire non in questo
o quello, ma in qualsiasi cosa, senza distinzione”.[h4]
Il racconto delle nozze a Cana di Galilea (Gv 2,1-11) è una narrazione breve, ben definita. Si apre con Gesù e i suoi discepoli che giungono a Cana e si chiude quando essi lasciano Cana, insieme con la madre di Gesù e i suoi (Gv 2,1-2.12). Ma non si presenta ben inquadrata nel suo immediato contesto, dove è un po’ isolata, e rimane priva di una ulteriore riflessione, tratto tipico della redazione giovannea (Gv 2,1-2.12).
1. Capire il testo
L’episodio, un fatto di vita ordinaria – andare a nozze – si chiude, nonostante ciò, con evidente solennità: è «l’inizio dei segni», dell’ora di Gesù (Gv 2,11). Dopo una sommaria introduzione, che situa l’azione e presenta i personaggi (Gv 2,1-3a), e la conclusione, che apporta il significato teologico di quanto narrato (Gv 2,11), l’episodio si divide in tre parti: il dialogo di Maria con Gesù (Gv 2,3b-5), il dialogo di Gesù con i servitori (Gv 2,7-8) e il dialogo del maestro di cerimonie con lo sposo (Gv 2,9-10)
Il racconto è, in realtà, una cronaca di successive conversazioni fino al momento in cui il redattore le interrompe con un commento personale (Gv 2,11) e una annotazione sul viaggio di Gesù (Gv 2,12).
1 Il terzo giorno vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. 2 Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. 3 Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse:
«Non hanno vino.»
4 E Gesù le rispose:
«Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora.»
5 Sua madre disse ai servitori:
6 «Qualsiasi cosa vi dica, fatela.»
7 Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri. 7 E Gesù disse loro:
«Riempite di acqua le anfore;»
e le riempirono fino all’orlo. 8 Disse loro di nuovo:
«Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto.»
Ed essi gliene portarono. 9 Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l’acqua – chiamò lo sposo 10 e gli disse:
«Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora. »
11 Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.
12Dopo questo fatto scese a Cafarnao, insieme a sua madre, ai suoi fratelli e ai suoi discepoli. Là rimasero alcuni giorni.
Il racconto s’incentra su un fatto un po’ irrilevante, narrato con quella sottile ironia che è tipica dell’evangelista: non fanno bella figura gli organizzatori della festa, quando si dice che venne a mancare il vino (Gv 2,3) o si ammette che era usuale servire il vino meno buono alla fine del banchetto (Gv 2,10). Gv 2,11 dà la chiave per capire il racconto: i discepoli riuscirono a cogliere la portata reale di questo primo segno,[h5] e cioè l’inaugurazione della manifestazione pubblica di Gesù, della sua gloria (cfr. Gv 1,14; 5,41-44; 7,18; 11,4; 12,43; 17,5.22-24). Primo segno di Gesù e fede iniziale dei discepoli avvengono, allora, il ‘settimo’ giorno del ministero di Gesù (Gv 1,19) o, come annota l’evangelista, solo «tre giorni» (Gv 2,1; 1,43) dopo che Gesù aveva promesso a Natanaele che avrebbe visto «cose più grandi» (Gv 1,50).[h6]
Il primo evento, un banchetto dove era presente la madre (Gv 2,1-2)
Per i discepoli del Battista che seguivano Gesù – e tali erano quelli che avevano deciso di accompagnarlo per un certo tempo (cfr. Gv 1,35-39) – uscire dal deserto per andare, invitati a nozze, a partecipare a un banchetto dovette risultare una eccellente decisione, anche un tanto insolita e sconcertante. Il Battista era un asceta che non mangiava né beveva (Mt 11,18). Gesù, al contrario, la prima cosa che fa con i suoi seguaci è portarli a un banchetto nuziale, che poteva durare da una (cfr. Gen29,27-28; Gdc 14,12.17; Tob 11,20) a due settimane (cfr. Tob 8,20; 10,8).[h7]
Il narratore fa notare che la madre di Gesù era già lì, partecipando alla festa, prima che Gesù e i suoi discepoli arrivassero (Gv 2,1). Non si tratta di un dettaglio insignificante: iniziandosi come maestro (Gv 1,38: «Maestro, dove dimori?») Gesù porta i suoi primi adepti non dove egli vive, ma dove c’era una festa…, e c’era sua madre!
La decisione di andare a Cana, seguito dai suoi discepoli, la prese, dunque, Gesù e non sua madre, dopo essere stato invitato personalmente (Gv 2,1). Dal racconto non si può dedurre il motivo di tale invito. Il fatto che ci fosse già là sua madre fa supporre che esistesse tra le famiglie un certo grado di parentela o di conoscenza, cosa che renderebbe più comprensibile l’operato della madre di Gesù durante la festa (Gv 2,3.5).
Dialogo tra la madre e Gesù (Gv 2,3-5)
Richiama l’attenzione il fatto che sia la madre di Gesù l’unica ad accorgersi della mancanza di vino. Si tratta di una scoperta inattesa e preoccupante. Il testo non lascia intravedere né come è arrivata a saperlo Maria, né come mai fosse venuto a mancare il vino.[h8] Fatto sta che cominciava male una famiglia che fosse stata incapace di assicurare l’allegria agli invitati.[h9] Maria si accorge di quella situazione imbarazzante.
La madre passa l’informazione al figlio. Gli fa sapere quel che ha appena costatato: non gli chiede nulla. Le sue parole, infatti, descrivono l’incresciosa situazione (cfr. Gv 11,3); non richiedono un intervento, né tanto meno chiedono un miracolo (cfr. Gv 5,7). Maria dà per scontato che la festa familiare è in pericolo e cerca presso Gesù una soluzione, confidando nella sua bontà (cfr. Gv 6,5). Senza chiederlo, la madre attende qualcosa dal figlio. Gli confida quel che ha scoperto perché ha fiducia in lui. E’ quanto si deduce, più che dalle sue parole, dal modo in cui reagirà alla risposta negativa di Gesù (Gv 2,5: «fate quello che vi dirà»).
La risposta di Gesù è la chiave per comprendere il senso più profondo di tutto l’episodio. Ora, le sue parole, enigmatiche, risultano per lo meno sorprendenti. Il termine «donna» (Gv 19,26; 4,21; 8,10; 20,13.15) con cui Gesù stesso si dirige a quella che il narratore ha appena identificato come sua madre (Gv 2,1), è inaspettato, stupisce (cfr. Gv 2,1.12). Maria viene collocata, in questo modo, a una certa distanza dal proprio figlio. Senza giungere a risultare irriverente o lesivo, l’appellativo «donna» indica un rapporto diverso da quello che si suppone mantenuto tra un figlio e la madre.[h10] Il contesto immediato aiuta a comprendere l’espressione: la madre di Gesù, in quanto donna, non gode di nessun privilegio in rapporto alla ora di Gesù e del progetto di Dio.
La domanda di Gesù «che vuoi da me?», o meglio dire, «cosa c’è tra te e me?», ha un senso ancora più negativo.[h11] Se Maria avesse espresso una richiesta vera e propria, la risposta di Gesù esprimerebbe un netto rifiuto. Se non indica una frattura reale tra Gesù e sua madre, mette almeno in evidenza una profonda diversità di vedute (cfr. Mc 1,24; 5,7). Esclude, pertanto, in questo momento, uno stretto rapporto tra la madre e il figlio: la ‘donna’ ha visto una situazione compromessa, si muove sul piano di quanto occorre nella festa di nozze, qualcosa che non interessa molto Gesù, preoccupato piuttosto per quel che deve ancora accadere, la sua «ora»,[h12] una scadenza che determina la sua esistenza e la sua missione personale (Gv 4,21.23; 5,25.28; 7,30; 8,20; 12,23.27; 13,1; 19,27).
Qui Gesù non si colloca allo stesso livello di sua madre né segue i suoi desideri. Il suo operato segue altre norme, si muove a un ritmo diverso (cfr. Gv 11,6).[h13] Detto brevemente: Gesù riafferma la propria autonomia di azione, la sua indipendenza, rispetto a sua madre. Non dipende da essa, né dai suoi migliori desideri. Gesù non si lascerà guidare dal desiderio di sua madre, ma dalla volontà del Padre.
Con la sua delicata osservazione, Maria ha dato voce a interessi molto umani: vuole salvare l’onore di una famiglia novella. Nella sua risposta Gesù colloca il suggerimento della madre nel piano di Dio: la invita a entrare nel suo disegno, senza anticipare ancora quale sarà il contenuto. Gesù prende le distanze da vincoli terreni, alimentati dagli affetti famigliari o da ragioni di benevolenza…, perché possono ostacolare la sua obbedienza a Dio. La familiarità che Gesù preferisce è quella che nasce dall’obbedienza al Padre (cfr. Mc 3,31-35; Lc 2,48-49).
Si è che, aggiunge, non è ancora giunta la «sua ora» (Gv 2,4; 7,30; 8,20; 12,23.27; 13,1; 16,32¸17,1; 19,27), il tempo della sua piena manifestazione, quello della sua “gloria”, che – lo sappiamo bene - nel quarto vangelo coincide con la sua morte, che deve ancora avvenire (Gv 7,6.8.30; 8,20; 12,33). In quella «ora»sarà presente anche sua madre (Gv 19,25.34), ma non già come qualcuno che richiede qualcosa, ma come una persona che obbedisce solamente. Proprio perché non è ancora giunta l’ora, Gesù pensa che non occorra anticipare la sua manifestazione gloriosa (Gv 2,11). Ma la sua risposta – bisogna notarlo – non è del tutto negativa. Infatti, “immediatamente dopo aver detto: «La mia ora non è ancora arrivata», farà quel che sua madre gli aveva chiesto”. [h14]
L’immediata reazione di Maria alla tagliente negativa di Gesù risulta anche inattesa. Continua a cercare una soluzione e cambia tattica. Non si abbatte, né si arrende; ma non insiste più con Gesù. Continua a fidarsi assolutamente di lui prima, e ancor di più dopo il suo rifiuto. A lei basta che suo figlio sia al corrente della situazione: conserva la sua fede e invita i servitori (domestici, non schiavi, cfr. Gv 15,14) a «fare quel che loro dirà» (Gv 2,5).
La frase di Maria è stata formulata con precisione. «Fate”, va diretta ai servi; il verbo, un imperativo aoristo, denota una continuità nell’azione. Il congiuntivo, «qualsiasi cosa vi dica», riferito a Gesù, allude, da una parte, alla sua volontà sovrana; dall’altra parte, indica eventualità e indeterminazione circa l’operato desiderato. Maria pensa che Gesù farà qualcosa. Ma non si mostra sicura su che cosa farà, né come lo farà. L’unica cosa che sa è che si dovrà fare quel che egli dirà (Gv 2,5).[h15] Maria rinuncia ad essere ascoltata, senza smettere di confidare nel figlio. Si sente disposta a non ottenere quel che desidera, affinché suo figlio faccia quel che vuole. Cessa di essere la madre di Gesù per convertirsi in donna credente.
Dialogo di Gesù con i servitori (Gv 2,6-8)
Il segno, il primo, consistette nel trasformare l’acqua in vino di eccellente qualità. L’acqua, raccolta probabilmente per servire alla purificazione dei commensali, prima, durante e dopo il banchetto (Gv 2,6; cfr. Lv 11,16; Mc 7,1-4),[h16] si trasformò in vino buono grazie all’intervento di Gesù. La fiducia totale di Maria in Gesù, per quanto intempestiva possa essere stata in rapporto al progetto di Dio, e la disponibilità totale dei servi, logica in coloro che assistono alla festa solo per servire gli invitati, fecero sì che Gesù anticipasse la gioia messianica, prefigurata nel segno inatteso.
Il miracolo non era stato chiesto, né fu necessaria, prima, la fede di coloro che ne beneficiarono. Fu un dono totalmente gratuito. La trasformazione concessa, come tutti i doni messianici, è sovrabbondante (cfr. Gn 49,11-12; Os 2,19-20; 14,8; Ger 2,2): gli invitati potranno usufruire di circa 600 litri del miglior vino (cfr. Sp 104,15; Qo 10,19; Sir 31,27-28; 40,20).[h17] Questa quantità impressionante, e l’allegria che assicura, dirigono l’attenzione su Gesù, il quale, avendo provveduto al vino, svolge il ruolo di sposo nella festa (Mt 15,1-13). E tutto ciò è successo «il terzo giorno» (Gv 2,1).
Dialogo dell’amministratore con lo sposo (Gv 2,9-10)
Il segno non è descritto, ma solo vi si allude. Non si dice come avvenne. Sappiamo che si è compiuto solo dalla conversazione tra l’incaricato della festa e lo sposo. Al narratore, evidentemente, quel che interessa non è di insistere sulla straordinarietà dell’evento, sul come, ma sul motivo, il perché: è bastato che eseguissero gli ordini di Gesù – molto strani, davvero (cfr. Gv 4,49-50)! – perché fosse anticipata la sua ora. Bastò l’obbedienza cieca, senza obiezioni né indugi di alcuni servi.
Le parole del maggiordomo riflettono sorpresa e, allo stesso tempo, attribuiscono allo sposo la responsabilità dell’insufficiente provvista di vino. Mentre il responsabile del banchetto ignora ciò che sta avvenendo, i servitori sanno da dove proviene il vino migliore (Gv 2,9).[h18] Solo essi, e Gesù, conoscono che cosa - e come – è successo. Per questo richiama l’attenzione, il fatto che non sono essi, che avevano riempito le anfore, attinto l’acqua e l’avevano offerta al responsabile, a dare testimonianza di quanto avvenuto; lo fece il responsabile, e in pubblico, lasciando intravedere che chi ha procurato il vino è il vero sposo (Gv 2,10; Mc 2,19.22). E tale sarà proclamato, più tardi, dal Battista (cfr. Gv 3,29).
La fede dei discepoli e la famiglia di Gesù (Gv 2,11-12)
Con questo segno, commenta il cronista, i discepoli videro la «gloria» di Gesù (Gv 2,11). La sua ora non è ancora giunta (Gv 2,4; cfr. 4.30; 8,20), ma i discepoli hanno potuto godere di un anticipo, di una prima rivelazione parziale. Hanno cominciato (l’aoristo è ingressivo, indica l’inizio di una manifestazione) in questo modo a vedere cose migliori perché hanno cominciato – altro aoristo ingressivo – a credere in Gesù (Gv 2,11).
Finito l’episodio, un breve sommario lo unisce a quanto seguirà e, inoltre, gli dà verosimiglianza storica. Da Cana, sulla collina, Gesù discende a Cafarnao, a livello del mare (cfr. Gv 4,47.49; Mt 8,5-9; 9,9). Ritorna, accompagnato dai suoi (Gv 7,3) e dai discepoli credenti: la fede è all’origine di questa nuova famiglia (cfr. Mc 3,31-35). Ma questa comunità familiare, appena formata, non è ancora stabile: rimarranno insieme «pochi giorni». Ai discepoli, anche se già credenti, manca qualcosa…, avere Maria, come propria madre…
2. Applicarlo alla vita
Quelli che sono stati invitati a seguire Gesù per un tempo, lo accompagnano ad un avvenimento familiare. Non ci dice nulla questo nascere della fede dei discepoli in un ambiente di nozze, in un banchetto nuziale? Può una fede che nasce in tale ambiente essere estranea, meno ancora contraria, alle gioie della vita familiare?
Maria fu, a quanto pare, tra gli invitati, l’unica persona ad accorgersi della mancanza di vino. Con Maria in casa vengono allo scoperto le carenze più evidenti, le più segrete: sarà per questo che non la invitiamo più spesso? Non dovrebbe causarci vergogna la nostra imprevidenza se è Maria a scoprirla; chiederebbe a Gesù di aiutarci , senza che noi nemmeno lo desiderassimo. Non lo avrà già fatto più di una volta? Perché, allora, nasconderle le nostre mancanze?
Nonostante la risposta, dura, persino ingiusta, di Gesù, sua madre si dirige a chi nella casa non ha altro incarico che quello di servire tutti; i servi faranno tutto quel che egli dirà loro. E quando Gesù trova dei servi, non si rifiuta di fare quel che non ha concesso a sua madre. Non è, allora, la familiarità ciò che costringe Gesù a operare anzitempo, bensì l’obbedienza del servo. Staranno forse mancando a Dio dei servitori che, semplicemente per fare quel che viene loro comandato, gli facilitano il lavoro?
Il perdurare della festa in famiglia, la moltiplicazione del vino migliore, la liberazione dal cadere nel ridicolo per gli sposi novelli e la prima fede dei discepoli sono state rese possibili dalla tenacia della madre di Dio e l’obbedienza di alcuni servi. Allora, sarà ancora una buona opzione evangelizzatrice il prescindere da Maria? Qual è l’apporto della madre di Gesù alla nascita della fede dei discepoli? Rimane sufficientemente assicurata la vita di famiglia, la gioia di vivere, la fede in Cristo, là dove è assente Maria? Perché non invitarla alla nostra casa?
1.3 Pregare la Parola
Ti ringrazio, Signore Gesù, perché, su richiesta di tua madre, hai anticipato la tua manifestazione pubblica; e ancor più ti ringrazio perché è stata Maria a indurti a iniziare la rivelazione della tua gloria nel contesto di una festa famigliare. Il fatto che i discepoli siano nati come tali là dove nasceva una famiglia e si festeggiava la gioia di vivere non può lasciarmi indifferente. Riconosco con gratitudine che la sequela di Gesù e la vita di famiglia, lungi dall’essere incompatibili, si implicano vicendevolmente; per quanto possiamo essere carenti di cose, o viviamo con gioie stentate, se ho tua madre e te, non ho nulla da temere.
Ti vorrei pregare, Signora, di volermi accompagnare sempre nella vita da discepolo. Sono disposto ad assicurarti che non mi importa se scoprirai le mie mancanze, anche quelle che mi rimangono nascoste, quelle che ignoro, purché tu ti rivolga, al mio posto e a mio favore, a Gesù perché mi aiuti. Ti ringrazio già anticipatamente, sicurissimo che tu sei disposta a farlo, perché saprai resistere allo sgarbo di tuo Figlio pur di salvare questo tuo figlio così meschino.
Mi impegno, Signore, a fare quello che mi dirai, purché tu anticipi la tua ora e mi mostri la tua gloria, salvandomi dalla mia povertà. Come a Cana. Se mi lasciassi intravedere anche solo un pochino il tuo volto e presentire la tua potenza, crederei in te. Come i tuoi primi discepoli. Non sarei peggiore di essi, se tu fossi così buono con me. Portami con te dov’è tua madre; la mia vita sia una festa perché ella mi attende là dove tu mi condurrai. Accanto a lei la mia povertà alimenterà la mia fedeltà verso di te.
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La madre di Gesù
‘ausiliatrice’ e madre del discepolo
(Gv 2,1-11; 19,25-27)
La presenza di Maria nel quarto evangelo è debole (14 dei 879 versicoli) ma assai singolare. Giovanni ci trasmette due episodi sconosciuti nella tradizione sinottica e non riporta nessuno di quelli esistenti nei sinottici. Ma la sua ingegnosa disposizione nel macro racconto (inizio e finale de ministero di Gesù), il rapporto diretto con il motivo, tipico giovanneo, dell’ora, e, soprattutto, il vincolo che l’evangelista stabilisce tra presenza di Maria e fede/fedeltà dei discepoli danno a questi due episodi un valore inestimabile per la vita di fede dei discepoli.
Mi azzardo, pure, ad aggiungere che questi due racconti rispondono meglio la spiritualità mariana propria della nostra vocazione salesiana. In essi, infatti, Maria ci viene proposta come ‘ausiliatrice’ per arrivare a credere in Gesù e come madre da accudire a casa.
1. A Cana di Galilea
Il racconto delle nozze a Cana di Galilea (Gv 2,1-11) è una narrazione breve, ben definita. Si apre con Gesù e alcuni seguaci che giungono a Cana e si chiude quando essi lasciano Cana, insieme con la madre di Gesù e i suoi (Gv 2,1-2.12).
L’episodio, un fatto di vita ordinaria – andare a nozze – si chiude, nonostante ciò, con evidente solennità: è «l’inizio dei segni», dell’ora di Gesù (Gv 2,11). Dopo una sommaria introduzione, che situa l’azione e presenta i personaggi (Gv 2,1-3a), e la conclusione, che apporta il significato teologico di quanto narrato (Gv 2,11), l’episodio si divide in tre parti: il dialogo di Maria con Gesù (Gv 2,3b-5), il dialogo di Gesù con i servitori (Gv 2,7-8) e il dialogo del maestro di cerimonie con lo sposo (Gv 2,9-10)
Il racconto è, in realtà, una cronaca di successive conversazioni fino al momento in cui il redattore le interrompe con un commento personale (Gv 2,11) e una annotazione sul viaggio di Gesù (Gv 2,12).
Primo evento del ministero di Gesù, un banchetto dove c’era sua madre (Gv 2,1-2)
Per i discepoli del Battista che seguivano Gesù – e tali erano quelli che avevano deciso di accompagnarlo per un certo tempo (cfr. Gv 1,35-39) – uscire dal deserto per andare, invitati a nozze, a partecipare a un banchetto dovette risultare una eccellente decisione, anche un tanto insolita e sconcertante. Il Battista era un asceta che non mangiava né beveva (Mt 11,18). Gesù, al contrario, la prima cosa che fa con i suoi seguaci è portarli a un banchetto nuziale, che poteva durare da una o due settimane. Bell’inizio!
Il narratore fa notare che la madre di Gesù era già lì, partecipando alla festa, prima che Gesù e i suoi discepoli arrivassero (Gv 2,1). Non si tratta di un dettaglio insignificante: iniziandosi come maestro (Gv 1,38: «Maestro, dove dimori?») Gesù porta i suoi primi adepti non dove egli vive, ma dove c’era una festa…, e c’era sua madre! La decisione di andare a Cana, seguito dai suoi discepoli, la prese, dunque, Gesù e non sua madre (Gv 2,1). In Giovanni Gesù non inizia predicando il regno di Dio, ma partecipando a una festa…, “dove c’era Maria”.
Maria, in mansione di ausiliatrice
Chiama l’attenzione il fatto che sia la madre di Gesù l’unica ad accorgersi della mancanza di vino. Si tratta di una scoperta inattesa e preoccupante. Il testo non lascia intravedere né come è arrivata a saperlo Maria, né come mai fosse venuto a mancare il vino. Fatto sta che male cominciava una vita familiare che fosse stata incapace di assicurare l’allegria agli invitati. Maria è l’unica nella festa che si accorge di quella situazione imbarazzante. Comincia così a diventare “ausiliatrice”…, prima dei giovani sposi, per finire della fede dei discepoli. Come ne riesce?
1º. La madre passa l’informazione al figlio. Gli fa sapere quel che ha appena costatato: non gli chiede nulla. Le sue parole, infatti, descrivono l’incresciosa situazione (cfr. Gv 11,3); non richiedono un intervento, né chiedono un miracolo (cfr. Gv 5,7). Maria dà per scontato che la festa familiare è in pericolo e cerca presso Gesù una soluzione, confidando nella sua bontà (cfr. Gv 6,5). Senza chiederlo, la madre attende qualcosa dal figlio. Gli confida quel che ha scoperto perché ha fiducia in lui. E’ quanto si deduce, più che dalle sue parole, dal modo in cui reagirà alla risposta negativa di Gesù (Gv 2,5: «fate quello che vi dirà»).
2º. Maria soffre il rifiuto di Gesù. La risposta del figlio è la chiave per comprendere il senso più profondo di tutto l’episodio. Ora, le sue parole, enigmatiche, risultano per lo meno sorprendenti. Il termine «donna» (Gv 19,26; 4,21; 8,10; 20,13.15) con cui Gesù stesso si dirige a quella che il narratore ha appena identificato come sua madre (Gv 2,1), è inaspettato, stupisce (cfr. Gv 2,1.12). Senza giungere a risultare irriverente o lesivo, indica un rapporto diverso da quello che si suppone mantenuto tra un figlio e la madre.
La domanda di Gesù «che vuoi da me?», o meglio dire, «cosa c’è tra te e me?», ha un senso ancora più negativo. Se Maria avesse espresso una richiesta vera e propria, la risposta di Gesù esprimerebbe un netto rifiuto. Se non indica una frattura reale tra Gesù e sua madre, mette almeno in evidenza una profonda diversità di vedute (cfr. Mc 1,24; 5,7): la ‘donna’ ha visto una situazione compromessa, si muove sul piano di quanto occorre nella festa di nozze, cosa che non interessa molto Gesù, preoccupato piuttosto per quel che deve ancora accadere, la sua «ora», una scadenza che determina la sua esistenza e la sua missione personale (Gv 4,21.23; 5,25.28; 7,30; 8,20; 12,23.27; 13,1; 19,27).
Detto brevemente: Gesù riafferma la propria autonomia di azione, la sua indipendenza, rispetto a sua madre. Non dipende da essa, né dai suoi benintenzionati desideri. Gesù non si lascerà guidare dalla voglia di sua madre, ma dalla volontà del Padre.
Con la sua delicata osservazione, Maria aveva dato voce a interessi molto umani: salvare l’onore di una famiglia novella. Nella sua risposta Gesù colloca il suggerimento della madre nel piano di Dio: la invita a entrare nel suo disegno, senza anticipare ancora quale sarà il contenuto. Gesù prende le distanze da vincoli terreni, alimentati dagli affetti famigliari o da ragioni di benevolenza…, perché possono ostacolare la sua obbedienza a Dio.
Proprio perché non è ancora giunta la sua ora, Gesù pensa che non occorra anticipare la manifestazione della sua gloria (Gv 2,11).
3º. Maria cerca servi in quella festa. L’immediata reazione di Maria alla tagliente negativa di Gesù risulta anche inattesa. Continua a cercare una soluzione e cambia tattica. Non si abbatte, né si arrende. Ma non insiste più con Gesù. Continua a fidarsi assolutamente di lui prima, e ancor di più dopo il suo rifiuto. A lei basta che suo figlio sia al corrente della situazione: conserva la sua fede e invita i servitori a «fare quel che loro dirà» (Gv 2,5).
La frase di Maria è stata formulata con precisione. «Fate”, va diretta ai servi; denota una continuità nell’azione. «Qualsiasi cosa vi dica», riferito a Gesù, allude, da una parte, alla sua volontà sovrana; dall’altra parte, indica eventualità e indeterminazione circa l’operato desiderato. Maria pensa che Gesù farà qualcosa. Ma non si mostra sicura su che cosa farà, né come lo farà. L’unica cosa che sa è che si dovrà fare quel che egli dirà (Gv 2,5). Maria rinuncia ad essere ascoltata, senza smettere di confidare nel figlio. Si sente disposta a non ottenere quel che desidera, affinché suo figlio faccia quel che vuole. Cessa di essere la madre di Gesù per convertirsi in donna credente.
La fiducia totale di Maria in Gesù, per quanto intempestiva possa essere stata in rapporto al progetto di Dio, e la disponibilità totale dei servi, logica in coloro che assistono alla festa solo per servire gli invitati, fecero sì che Gesù anticipasse la gioia messianica, prefigurata nel segno inatteso. Il miracolo non era stato chiesto, né fu necessaria, prima, la fede di coloro che ne beneficiarono. Fu un dono totalmente gratuito.
Il segno non è narrato. All’evangelista non interess insistere sulla eccezionalità dell’accaduto, sul come, ma sul motivo, il perché: è bastato che eseguissero gli ordini di Gesù – molto strani, davvero (cfr. Gv 4,49-50)! – perché fosse anticipata la sua ora. Bastò l’obbedienza cieca, senza obiezioni né indugi di alcuni servi.
La fede dei discepoli e la famiglia di Gesù
Con questo segno, commenta il cronista, i discepoli videro la «gloria» di Gesù (Gv 2,11). La sua ora non è ancora giunta (Gv 2,4; cfr. 4.30; 8,20), ma i discepoli hanno potuto godere di un anticipo, di una prima rivelazione parziale. Hanno cominciato così a vedere cose migliori perché hanno cominciato a credere in Gesù (Gv 2,11).
Da Cana Gesù discende a Cafarnao. Ritorna, accompagnato dai suoi e dai discepoli credenti: la fede è all’origine di questa nuova famiglia (cfr. Mc 3,31-35).
2. Sul Calvario
Giovanni è l’unico che colloca insieme, davanti a Gesù, moribondo sulla croce, la madre di Gesù e un solo discepolo (Gv 19,25-27). Maria non parla; accetta in silenzio l’ultima volontà del figlio moribondo. E’ l’ultimo incontro con suo figlio; ora riceverà un nuovo figlio, e un nuovo compito. Ricordando la fine cruenta di Gesù, Giovanni intende ricordare che sulla croce è nata la famiglia del discepolo, con la madre di Gesù come madre di questa nuova famiglia.
Gli unici che lo seguirono fino alla croce
Come i sinottici, Giovanni segnala la presenza di alcune donne galilee accanto alla croce, oltre alla madre di Gesù. Ma, mentre nei sinottici le donne seguivano il dramma da lontano (Mc 15,40-41; Mt 27,55; Lc 23,49), qui attorniano la croce, a fianco e ai piedi. Non è il dolore, né la desolazione, delle donne ciò che emerge dal breve resoconto bensì la loro vicinanza e il coraggio che dimostrano. La scenetta però non si incentra su di esse, ma su Gesù moribondo, che fissa il suo sguardo esclusivamente su Maria e sul discepolo amato. E’ Gesù che li vede, prima di parlare loro (Gv 19,26). I due vengono identificati in base al rapporto che mantengono con Gesù; sono definiti, pertanto, a partire dal crocifisso (Gv 19,25: «sua madre»; Gv 19,26: «il discepolo che egli amava»).
Il discepolo, in particolare, rimane anonimo. E’ caratterizzato dall’amore che Gesù ha per lui (cfr. Gv 15,16). Un amore che dimostra facendone la volontà (cfr. Gv 15,10): sentirsi amato da Gesù rende capaci di compiere il suo volere. E’ il discepolo che non lo ha tradito, suo confidente (Gv 13,23), e che darà testimonianza della sua morte (Gv 19,35) e il primo a credere, vedendo la tomba vuota, nella risurrezione (Gv 20,2.8). Sapersi amato, capacita il discepolo ad una così grande fedeltà.
Perché, non bisogna dimenticarlo, la morte in croce di Gesù seppellì tutti i sogni e le speranze che si erano fatti i discepoli mentre lo seguivano (cfr. Lc 24,21). Fu la pietra di scandalo in cui inciamparono persino i più risoluti, come Pietro (Mt 26,69-75; Mc 14,66-72; Lc 22,56-62; Gv 18,15.18.25-27); la croce fu il sepolcro della loro fedeltà. Tutti fuggirono, uno lo rinnegò, un altro lo tradì. Uno solo gli rimase fedele fino alla fine; solo lui ricevette come incarico fare da figlio alla madre del suo Signore.
Il testamento di Gesù
Tanto la madre come il discepolo assistettero in silenzio al monologo di Gesù in croce (Gv 19,26: «Ecco tuo figlio»; Gv 19,26: «Ecco tua madre»). Si tratta di un particolare che non deve essere sottaciuto. E in silenzio accolsero una decisione che essi non avevano preso. Il dettaglio, anche se non sempre preso in considerazione, è decisivo per cogliere la portata dell’evento. Gesù, morendo sulla croce, non chiese loro consiglio né permesso; non si basò su un previo consenso. Nella scena solo Gesù parla, o meglio solo lui comanda, senza lasciare spazio a obiezioni né attendere l’accordo.
Da questa sua personalissima decisione nasce una nuova relazione, imposta, tra la madre e il discepolo fedele. Bisogna notare, inoltre, che il testo menziona solo l’obbedienza del discepolo, mentre quella della madre rimane sottintesa. Tocca a lui occupare il posto di Gesù nella vita della madre, cosa che ha cominciato a fare da quello stesso momento (Gv 19,27).
La madre di Gesù, eredità del discepolo fedele (Gv 19,27b)
Colpisce che l’evangelista non abbia registrato reazione alcuna di Maria alla volontà del figlio moribondo; ma annoti con precisione quella del discepolo amato. La formula «l’accolse con sé» (trad. CEI; meglio: «la ricevette come qualcosa di proprio»), descrive l’immediata reazione al mandato di Gesù. Il discepolo prese la madre di Gesù in casa sua, tra le sue proprietà, quei beni che meglio lo identificavano (cfr. Gv 1,11; 10,4.13). Sí, ma non lo fece per volontà propria, né portato dalla compassione, bensì per imposizione del suo Signore.
Non fu Maria, vedova e senza figli, a scegliere un discepolo per occuparsi di lui e continuare così a esercitarsi come madre. Né fu il discepolo amato a incaricarsi, con la migliore delle intenzioni, della madre del suo maestro, rimasta sola. Fu Gesù l’unico che intervenne, e in modo decisivo, per assicurare un futuro comune a quei due che gli erano rimasti fedeli fino all’ultimo. Così completò Gesù la sua totale donazione, consegnando la madre prima di consegnare la vita.
E richiedendo la reciproca cura a sua madre e al discepolo, istituì una nuova famiglia, in cui madre e figlio hanno vincoli reciproci ma diverse responsabilità. In questo modo cominciò a realizzarsi la promessa, fatta da Gesù nell’ultima tappa del suo ministero, di salvare ‘riunendo’ (cfr. Gv 10,16; 11,49-52; 12,11; 19,20-24.32-33).
Una fedeltà fino al limite a Gesù, fedeltà di sua madre e del discepolo amato, è stata la culla della famiglia cristiana. Senza fedeltà estrema non nasce la famiglia in cui Maria fa di madre. Il discepolo fu affidato alla madre, e la madre del maestro fu l’eredità che ricevette il discepolo fedele. Da quel momento la madre di Gesù appartiene al discepolo fedele, entra a formar parte del suo mondo, del suo focolare. Accettando senza condizioni le due ultime parole di Gesù, madre e discepolo hanno invertito il destino della Parola, che venne ai suoi e non la accolsero (cfr. Gv 1,11).
Non dobbiamo dimenticarlo: dodici discepoli furono scelti da Gesù per continuarne l’opera ma consegnò sua madre a uno solo, quello che rimase fedele perché sapeva di essere amato.
Oggi non vi indico esercizi spirituali da fare. Vorrei però finire con un pressante invito: lasciate che Gesù vi conduca dove c’è Maria; là ci sarà sempre festa e gioia assicurata. E più decisivo ancora, vi sarà più facile credere in Gesù. Prendete a Maria e portatela a casa con voi, abbiate cura di Lei, amatela come Gesù l’ha amata. Tale è il ordine testamentario di Gesù ai suoi discepoli amati.
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La madre di Gesù,
madre del discepolo fedele fino alla fine
(Gv 19,25-27)
“Diventando nostra madre sul Calvario,
Maria non solo ottenne il titolo di ausiliatrice dei cristiani,
acquisì inoltre l’ufficio, il magistero, l’obbligo di essere tale.
Abbiamo, pertanto, il sacro diritto di ricorrere all’aiuto di Maria.
Questo diritto ci è stato concesso dalle parole di Gesù
e rimane garantito dalla tenerezza materna di Maria.”[h19]
La cronaca della morte di Gesù (Gv 19,16b-42) narra gli eventi già pregni di significato salvifico, per questo si ricorre con frequenza alla Scrittura (Gv 19,24.28.36.37). Gesù, nominato quattordici volte, è la figura dominante.
Il racconto, scarno nei dettagli, trasmette la sensazione di una serenità sovrana di fronte all’inevitabile (Gv 19,28.30: «sapendo che ormai tutto era compiuto»), allude al paradosso di una investitura regale del crocifisso (Gv 19,19-22); e precedentemente alla morte di Gesù mette in rilievo la presenza di sua madre e del discepolo prediletto (Gv 19,25-27), annotando l’ultimo grido di Gesù sulla croce (Gv 19,30) e la attestazione della sua morte, col colpo di lancia nel fianco (Gv 19,31-36). La croce domina, quindi, tutta la scena che, di fatto, si apre con l’atto della crocifissione (Gv 19,16b-18) e si chiude con la deposizione di Gesù dalla croce (Gv 19,38-42). Giovanni è l’unico che colloca insieme, davanti a Gesù, moribondo sulla croce, la madre di Gesù e un solo discepolo (Gv 19,25-27).
1. Capire il testo
La presenza di Maria presso la croce è narrata con straordinaria brevità.[h20] Non è da sola, l’accompagna un discepolo senza nome. Non parla, accetta in silenzio l’ultima volontà del figlio moribondo. E’ l’ultimo incontro con suo figlio; ora riceverà un nuovo figlio e un nuovo compito. Ricordando la fine cruenta di Gesù, Giovanni intende ricordare che sulla croce è nata la famiglia del discepolo, con la madre di Gesù come madre di questa nuova famiglia.
25Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria madre di Cleopa e Maria di Magdala. 26 Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre:
“«Donna, ecco tuo figlio! »
27 Poi disse al discepolo:
«Ecco tua madre!»
E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé.
Il testo non si dimostra per nulla interessato a sottolineare lo stato d’animo di Gesù né la terribile sofferenza della madre. In se stesso, e ammettendone un nucleo storico, l’episodio ricorderebbe un atto di pietà filiale di Gesù che, prima di morire, affida sua madre a uno di cui si fidava.[h21] In conformità al motivo giovanneo del compimento (Gv 19,28), Gesù finirebbe la sua vita con questo atto filiale, dando una famiglia a sua madre.
Gli unici che lo seguirono fino alla croce (Gv 19,25-26a)
Come i sinottici, Giovanni segnala la presenza di alcune donne galilee accanto alla croce, oltre alla madre di Gesù. Ma, mentre nei sinottici le donne seguivano il dramma da lontano (Mc 15,40-41; Mt 27,55; Lc 23,49), qui attorniano la croce, a fianco e ai piedi.[h22] Non è il dolore, né la desolazione, delle donne ciò che emerge da simile descrizione, bensì la loro vicinanza e il coraggio che dimostrano.
Ma la scena non si incentra su di esse, ma su Gesù moribondo, che fissa il suo sguardo esclusivamente su Maria e sul discepolo amato. E’ Gesù che li vede, prima di parlare loro (Gv 19,26). I due vengono identificati in base al rapporto che mantengono con Gesù; sono definiti, pertanto, a partire dal crocifisso (Gv 19,25: «sua madre»; Gv 19,26: «il discepolo che egli amava»).
Il discepolo, in particolare, rimane anonimo. E’ caratterizzato dall’amore che Gesù ha per lui (cfr. Gv 15,16). Un amore che dimostra facendone la volontà (cfr. Gv 15,10): sentirsi amato da Gesù rende capaci di compierne il volere. E’ il discepolo che non lo ha tradito, suo confidente (Gv 13,23), e che darà testimonianza della sua morte (Gv 19,35) e il primo a credere, vedendo la tomba vuota, nella risurrezione (Gv 20,2.8). Sapendosi amato, il discepolo è capace di una così grande fedeltà.
Perché, non bisogna dimenticarlo, la morte in croce di Gesù seppellì tutti i sogni e le speranze che si erano fatti i discepoli mentre lo seguivano (cfr. Lc 24,21). Fu la pietra di scandalo in cui inciamparono persino i più risoluti, come Pietro (Mt 26,69-75; Mc 14,66-72; Lc 22,56-62; Gv 18,15.18.25-27), il sepolcro della loro fedeltà. Tutti fuggirono, uno lo rinnegò, un altro lo tradì. Uno solo gli rimase fedele fino alla fine; solo lui ricevette come incarico fare da figlio alla madre del suo Signore.
Il testamento di Gesù (Gv 19,26b-27a)
Tanto la madre come il discepolo assistettero in silenzio al monologo di Gesù in croce (Gv 19,26: «Ecco tuo figlio»; Gv 19,26: «Ecco tua madre»). Si tratta di un particolare che non deve essere sottaciuto. E in silenzio accolsero una decisione che essi non avevano preso. Il dettaglio, anche se non sempre preso in considerazione, è decisivo per cogliere la portata dell’evento. Gesù, morendo sulla croce, non chiese loro consiglio né permesso; non si basò su un previo consenso. Nella scena solo Gesù parla, o meglio solo lui comanda, senza lasciare spazio a obiezioni né attendere un assenso.
Da questa sua personalissima decisione nasce una nuova relazione, imposta, tra la madre e il discepolo fedele. Bisogna notare, inoltre, che il testo menziona solo l’obbedienza del discepolo, mentre quella della madre rimane sottintesa. Tocca a lui occupare il posto di Gesù nella vita della madre, cosa che ha cominciato a fare da quello stesso momento (Gv 19,27).
La madre di Gesù, eredità del discepolo fedele (Gv 19,27b)
Colpisce che l’evangelista, che non ha registrato nessuna reazione di Maria alla volontà del figlio moribondo, annoti con precisione quella del discepolo amato. La formula «l’accolse con sé» (trad. CEI; o meglio: «la ricevette come qualcosa di proprio»[h23]), descrive l’immediata reazione al mandato di Gesù: il discepolo accolse la madre di Gesù in casa sua, tra le sue proprietà, quei beni che meglio lo identificavano (cfr. Gv 1,11; 10,4.13). Ma non lo fece per volontà propria, né portato dalla compassione, bensì per imposizione del suo Signore.
Non fu Maria, vedova e senza figli, a scegliere un discepolo per occuparsi di lui ed esercitare così l’ufficio di madre. Né fu il discepolo amato a incaricarsi, con la migliore delle intenzioni, della madre del suo maestro rimasta sola. Fu Gesù l’unico che intervenne, e in modo decisivo, per assicurare un futuro comune a quei due che gli erano rimasti fedeli fino all’ultimo. Così completò Gesù la sua totale donazione, consegnando la madre prima di consegnare la vita. E richiedendo la reciproca cura a sua madre e al discepolo, istituì una nuova famiglia, in cui madre e figlio hanno vincoli reciproci e responsabilità diverse. In questo modo cominciò a realizzarsi la promessa, fatta da Gesù nell’ultima tappa del suo ministero, di salvare ‘riunendo’ (cfr. Gv 10,16; 11,49-52; 12,11; 19,20-24.32-33).
Una fedeltà fino al limite a Gesù, fedeltà di sua madre e del discepolo amato, è stata la culla della famiglia cristiana: il discepolo fu affidato alla madre e la madre del maestro fu l’eredità che ricevette il discepolo fedele. Da quel momento la madre di Gesù appartiene al discepolo fedele, entra a formar parte del suo mondo, proprietà del suo focolare. Accettando senza condizioni le due ultime parole di Gesù, madre e discepolo hanno invertito il destino della Parola, che venne ai suoi e non la accolsero (cfr. Gv 1,11). Dodici discepoli furono scelti da Gesù per continuarne l’opera ma consegnò sua madre a uno solo, quello che rimase fedele perché sapeva di essere amato.
2. Applicarlo alla vita
Il testamento è volere definitivo, ultima volontà da rispettare. Gesù in croce consegna sua madre al suo miglior discepolo e impone a Maria l’ufficio di madre del suo discepolo amato: non si tratta di una libera scelta ma di un adempimento obbligato. Maria deve adottare il discepolo come figlio e questi deve accoglierla in casa come madre. Gesù non chiede loro il parere né chiede il loro consenso. Più che ricompensa per la fedeltà è una prova di obbedienza che continua.
Chi l’ha amato tanto come madre, deve continuare ad essere madre di coloro che egli ha amato; coloro che sanno di essere amati dal loro signore e possono sopportarne la crocifissione senza rinnegare la loro fedeltà, ricevono come compito diventare figli di sua madre. Maria e il discepolo s’incontrarono come compagni di passione e diverranno famigliari a partire dalla morte: la fedeltà estrema, dimostrata con la presenza sotto la croce, è la culla della nuova famiglia cristiana. Cosa pensare di quei cristiani che pensano di avere Maria per madre senza averla accompagnato fino alla croce? Come illudersi di essere figlio di Maria se non si è stati prima discepolo preferito? Sarebbe vana illusione presentarsi come figlio di Maria, se non si è avuto il coraggio di accompagnarla sotto la croce di suo figlio.
Tutte le volte che ci sarà un discepolo disposto a seguire il suo Signore fino alla morte, ci sarà una madre, la madre di Dio, con cui condividere il dolore della separazione, lo scandalo della croce… e una vita in comune da iniziare. La custodia di Maria è quindi alla portata di chi si sente raggiunto dall’amore di suo figlio: il discepolo che non si intimorisce di fronte alla croce avrà come incarico per tutta la vita di essere figlio di Maria e beneficiarne come madre; occuperà nel cuore della madre il posto dell’unico figlio. Non bisognerebbe dimenticarlo: Maria non è alla portata di chiunque; è patrimonio dei discepoli che si sentono così amati dal loro signore da rimanergli fedeli anche sotto una croce. Maria ha l’obbligo contratto con suo figlio di considerare come un altro Gesù chi gli è fedele fino alla fine. Perché Gesù avrebbe dovuto consegnare sua madre a chi non è fedele?
3. Pregare la Parola
Mi impressiona sempre, Signore, la scena: tu, che stai perdendo la vita, e Maria e il discepolo che amavi, perdendo te, loro vita. E mi fai pensare che solo vorresti essere accompagnato in quell’ora da coloro che più amavi. E’ forse segno dello scarso amore che senti per me il fatto che io rifuggo in modo così permanente il vederti in croce? Come posso essere sicuro del tuo amore se non mi trovo tra i tuoi amati, se non resisto allo scandalo della morte? Posso chiederti, ad ogni modo, che quando giunga la mia croce mi senta così amato da sapere che Maria ci è compagna di dolore? Se tu mi assicurassi che Maria condivide la mia passione, ti assicuro che sarò in grado di condividere la tua. Dammi tua madre come compito della mia vita, come l’occupazione di tutta la vita, anche se ci richiede la croce.
Ti prego di perdonare la mia incoscienza: tante volte ho creduto che Maria mi appartenesse, di avere dei diritti su di essa, senza avere dimostrato fedeltà fino alla morte. Ho voluto soppiantarti nel cuore di Maria, senza essere disposto ad affrontare la sua croce e le mie. Mi impegno a trattare come Madre Maria tutta la vita e a comportarmi come figlio suo, occupando il tuo posto nella sua vita, se me la lasci come impegno, a casa.
Allegato finale: Maria nel NT
All’infuori dei vangeli si possono citare solo due testi ‘mariologici’ ( non ‘mariani’): Gal 4,4, in cui Paolo confessa che Dio ha inviato suo figlio, nato da donna e Ap 12,1-18, in cui si parla di una donna vestita di sole che riesce a dare a luce un figlio mentre si vede attaccata da un drago. Il testo paolino afferma la condizione umana, fragile (cfr. Gb 14,1), del figlio di Dio. Paolo, nelle sue lettere, non parla di Maria. Nel testo dell’Apocalisse la donna è figura del resto fedele di Israele, da cui si attendeva la nascita del messia (1QH 3,7-12); l’autore dell’Apocalisse vede compiuta questa nascita nel giorno di Pasqua; la donna è simbolo della comunità, più celeste che terrena.
Fatta eccezione dei testi del terzo (Lc 1,26-38.39-45.46-56; 2,1-10.21-40.41-52; 11,2728; At 1,14) e del quarto vangelo (Gv 2,1-12; 19,25-27), Maria è appena ricordata nella tradizione evangelica. E quando appare, lo è sempre in modo marginale.
L’episodio della autentica famiglia di Gesù (Mc 3,31-35; Mt 12,46-50; Lc 8,19-21), un racconto la cui storicità è fondamentalmente indubbia (cfr. Gv 7,5), indica che vi fu un distacco reale, affettivo ed effettivo, tra Gesù e la sua famiglia, mentre egli si dedicava a predicare il regno (cfr. Mc 3,20-21). Né Maria né i fratelli, qui chiamati per nome, condividevano allora il progetto di Gesù. Per Marco e Matteo, la famiglia di Gesù era formata da coloro che ascoltavano Gesù e, come aggiunge Luca, facevano la volontà di Dio (cfr. Lc 11,27-28).
Altri riferimenti a genitori e/o fratelli (Mc 6,3; Mt 13,55; Lc 4,22; Gv 1,45;6,42) sono ancora meno espressivi. La gente che ascolta Gesù si interroga sulla sua famiglia, che si suppone nota, e ciò costituisce un ostacolo per credere in lui. Mentre Mt 13,55//Lc 4,22 presentano Gesù come il figlio dell’artigiano o figlio di Giuseppe, Mc 6,3 parla di lui, artigiano, figlio di Maria. Matteo, così come Luca, che conoscono e hanno narrato esplicitamente la concezione verginale di Gesù (Mt 1,18.20-23; Lc 1,34-37), intendono qui insistere sulla mancanza di fede dei compaesani di Gesù, Marco invece sembra alludere indirettamente alla concezione verginale.
Nel suo racconto dell’infanzia di Gesù, Matteo non dimostra interesse per Maria, che viene nominata solo due volte (Mt 1,16; 2,11). Preferisce concentrare la sua attenzione su Giuseppe, che è colui che riceve l’annunzio della nascita di Gesù e le visioni. Come Luca, afferma la maternità verginale di Maria (Mt 1,18); il termine ‘vergine’ deve intendersi, in ogni caso, nel senso di ‘giovinetta’, giovane che non ha ancora avuto rapporti sessuali. Il motivo è una variante del noto tema della nascita impossibile di un bambino la cui vita avrà una importanza particolare nella salvezza del popolo di Dio (cfr. Gen 18,1-15; 211,1-6; Lc 1,5-25.36-37): non si dice, pertanto, nulla sulla madre, si manifesta il destino del figlio; il bambino, che svolgerà una missione salvifica, è voluto solo da Dio e da Lui donato al suo popolo, facendolo nascere nel seno di una famiglia che non poteva averlo.
[h2] Vide l’allegato alla fine.
[h3] Gv utilizza quindici volte Maria come nome proprio per identificare tre donne diverse: Maria, da Betania (Gv 11,1.2.19.20.28.31.32.45), Maria, da Magdala (Gv 12,3; 19,25; 20,1.11.16.18), Maria, moglie di Cleopa (Gv 19,25). Nel quarto vangelo, invece, Maria de Nazaret è chiamata sempre, e solo, la madre di Gesù (Gv 2,1.3.5.12; 19,25). Sembra che il quarto evangelista volle identificare Maria più per il suo vincolo con Gesù che per se stessa: la maternità la definirebbe meglio di altro fatto o qualità personale. Di fatto, ancora oggi in Palestina, chiamare la donna sposata, con figli, come madre del primogenito e non tanto per il suo personale.
[h4] G. Bosco, Meraviglie della Madre di Dio invocata sotto il titolo di Maria Ausiliatrice, 35-36: OE XX, 227-228.
[h5] L’inizio, infatti, di una serie di sette, cfr. Gv 4,46-54; 5,1-9; 6,1-15.16-21; 9,1-12; 11,1-44.
[h6] Giovanni, come i sinottici (Mt 4,23-24; Mc 1,21-28; Lc 4,31-37), mette in relazione l’inizio del ministero pubblico di Gesù con la sua attuazione taumaturgica: il Gesù evangelizzatore, cioè, si è dedicato in primo luogo a fare il bene; la ‘prima’ evangelizzazione sono state le sue opere buone. Ma mentre nei sinottici i miracoli si orientano alla persona di Gesù, alla sua autorità, il segni in Giovanni cerca di suscitare la fede degli altri in Gesù (Gv 2,11; 20,31).
[h7] Il simbolo del banchetto è frequente in descrizioni dei tempi messianici (cfr. Is 25,6; 54,4-8; 62,4-5; Jr 31,12; Am 9,13-14), nel giudaismo e nel primo cristianesimo. La contrapposizione tra l’amico e lo sposo (Mc 2,18-20), o il digiuno e il banchetto (Mc 2,21-22; Mt 11,18-19), è stata utilizzata presto dalla comunità cristiana per definire la relazione tra Giovanni e Gesù e stabilire con chiarezza le differenze esistenti tra loro.
[h8] Si potrebbe pensare – leggendo in modo simbolico – che ancora non c’erano tutte le condizioni per l’arrivo dei tempi messianici: l’allegria condivisa (cfr. Ct 1,2; 5,1; 7,10; 8,2) resta minacciata. (cfr. Is 25,6; 62,5-9; Os 2,21-24). Suggerire come fece J. D. M. Derret, Water into Wine, en BZ 7(1963) 80-97, che la presenza dei discepoli, essi stessi non invitati, avrebbe provocato l’immediata mancanza di vino, non si poggia nel testo. Più verosimile sarebbe pensare che la madre di Gesù avesse qualche responsabilità nell’amministrazione della festa. Il fatto è che il narratore non è interessato ne nel perché né nel come, se non nel fatto stesso: mancò vino e nessuno, eccetto la sua madre, se ne rese conto.
[h9] “Senza vino non è possibile la gioia” (Pesh. 109a).
[h10] Infatti, nel quarto vangelo Gesù si dirige così alla samaritana (Gv 4,21), all’adultera (Gv 4,21), e alla Magdalena presso la tomba (Gv 20,15).
[h11] Cfr. Mt 8,29; Mc 1,24; Lc 8,28. “The remark of Jesus… appears to be a polite request to refrain from interference” (N. Turner, Grammatical Insights into the New Testament, Edinburgh, 1965, 47). E cioè, “what is being denied is a role, not a person” (R. E. Brown, The Gospel according to John (i-xii), Garden City, Doubleday, 1966, 102).
[h12] In questo senso si potrebbe parlare di opposizione tra l’ora della madre, quando avverte la mancanza di vino e ne fa sapere al figlio, e l’ora del figlio, la quale arriverà solo quando dovrà manifestare la sua gloria.
[h13] È un motivo tipicamente giovanneo. Il narratore alluderebbe al fatto che, di solito, Gesù suscita delle attese nei suoi interlocutori, le quali restano di sotto a quanto lui è venuto a soddisfare (cfr. Gv 3,3-4; 4,10.15.47; 5,6-7; 6,32-33.41; 11,22-24).
[h14] Giovanni Crisostomo, Sermo XXII, 460.
[h15] La risposta di Maria ricorda la reazione del popolo di Dio prima dell’istaurazione dell’Alleanza; Maria così sarebbe da identificare con il popolo fedele a Dio (cfr. Es 19,8; 24,3.7; Gv 19,25-27).
[h16] Le anfore di pietra erano più apprezzate, perché più adatte per la purezza rituale, che quelle di barro; si pulivano più facilmente e si sporcavano di meno. L’acqua veniva utilizzata prima e durante il pranzo.
[h17] Una metreta, unità di misura greca, aveva 40 litri circa; le anfore potevano ricevere da 80 a 100 litri ciascuna. Normalmente tutte le famiglie avevano un’anfora in casa, per lo meno, (K. A. Bailey, Poet and Peasant, Eerdmans,Grand Rapids, 1973, 123, n24). 600 litri d’acqua non sono, in realità, troppi per una festa in cui potevano partecipare, durante una settimana, un centinaio di persone.
[h18] Domandarsi da dove viene qualcosa/qualcuno significa, nel quarto vangelo, indagare sull’identità di Gesù (Gv 7,27.28; 8,14; 9,29.30; 19,9) e/o dei suoi doni (Gv 3,8; 4,11; 6,5): conoscere l’origine del dono porta a riconoscere la persona del donante.
[h19] G. Bosco, Meraviglie della Madre di Dio invocata sotto il titolo di Maria Ausiliatrice, 40-41: OE XX, 232-233.
[h20] In paragone con i sinottici (Mc 15,20.22.25-27; Mt 27,31.33-38; Lc 23,33-38), il racconto di Giovanni è più sobrio: omette dettagli penosi (Mc 15,19-32: gli insulti del popolo e la burla dei loro capi; Mc 15,34: il grido di Gesù nella croce), straordinari (Mc 15,33: l’oscuramento del cielo; Mc 15,38: la rottura del velo del Tempio) o molto inverosimili (Mc 15,39: la confessione del centurione).
[h21] L’interpretazione di questa breve scena ha variato molto secondo l’epoca e la mentalità degli esegeti. Non è raro che dipenda più della pietà personale che dal lavoro esegetico. La bibliografia risulta inabbordabile. Normalmente domina una lettura simbolica e spirituale, sia in senso storico-salvifico (Maria rappresenta il giudaismo credente che supera lo scandalo della croce e è accolto tra i cristiani che provengono dal paganesimo), cristologica (il discepolo amato è il prototipo del credente, rappresentante di Cristo e centro di una nuova famiglia), ecclesiologica (presso la croce nasce la chiesa, nuova famiglia cristiana) o mariologica (Maria è figura della comunità messianica, madre di credenti, rappresentati nella persona del discepolo).
[h22] Non è possibile concordare il nome, né il numero, del gruppo de donne del racconto giovanneo con quello dei sinottici: Gv 19,25: sua madre (cfr. Gv 2,1.3.5) e la sorella di sua madre, Maria di Cleopa, e Maria Magdalena (Gv 20,1.11.16.18). Mc 15,40: Maria Magdalena; Maria, madre di Giacomo il minore, di Giuseppe e Salome (cfr. Mt 27,56; Lc 23,49).
[h23] «Tra le cose che gli sono proprie», cose o persone che appartengono a qualcuno (cfr. Gv 1,11; 10,4.13), sarebbe la traduzione più letterale.