LA LETTURA DELLA VITA DEI SANTI COME FORMAZIONE
Enrico dal Covolo, S.D.B.
Il titolo di questo contributo può prestarsi a varie interpretazioni e a diversi svolgimenti. Questo dipende dal significato che si vuole dare ai due “termini-chiave” del nostro titolo: “lettura” e “formazione”.
Da parte mia, li assumo nel senso più ampio, e tratterò del confronto con la santità come via indispensabile e privilegiata di formazione teologica e spirituale.
L’esposizione si articola in tre parti.
La prima parte è una sorta di introduzione generale al tema. E’ un’introduzione in qualche modo “obbligatoria”, che cerca di rintracciare nel magistero dei Padri – e dunque nelle “profonde radici” della storia della Chiesa – la lezione autentica sulla santità, a cui tutti sono chiamati (si veda il capitolo quinto della Costituzione dogmatica Lumen Gentium: ne risulta che l’itinerario di formazione alla santità è un impegno ineludibile per tutti i credenti).
La seconda parte entra nel cuore del nostro tema percorrendo un cammino originale, stimolato dalla recente pubblicazione della editio typica altera del Martyrologium Romanum (29 giugno 2004). Autorevolmente guidati dai Praenotanda del Martirologio, vedremo come la lettura della vita dei santi è luogo privilegiato di formazione, non soltanto in rapporto alla “scienza teologica” accademicamente intesa, ma anche e soprattutto in rapporto alla “scienza dell’amore”. E’ anzitutto con questa seconda “scienza”, assai più complessiva della prima, che formatori e formandi devono misurarsi: è in essa che devono raggiungere la lode!
La terza parte è un tentativo. Ho provato a rileggere la vita di una santa (o meglio di una beata), cercando di coglierne la “scienza dell’amore”: in effetti Alessandrina Maria da Costa, grande mistica del ventesimo secolo, rappresenta bene l’immagine del discepolo, che nella Passione, dopo aver poggiato il suo capo sul cuore di Gesù (ecco il “luogo” della scientia amoris!), accompagna il Maestro fino alla croce. [1]
1. Santità e Padri della Chiesa [2]
Nell’età patristica vere e proprie Vite di santi cominciano ad essere scritte solo nel terzo-quarto secolo. Prima c’erano gli Atti e le Passioni dei martiri. Quando al martirio cruento successe la testimonianza della vita consacrata, allora si scrissero Vite di santi monaci (la più antica è la Vita Antonii di Atanasio) e di santi vescovi (dopo la Vita di Cipriano, scritta dal diacono Ponzio, le più famose sono le Vite di Ambrogio e di Agostino).
Un “anello di passaggio” tra le une e le altre può essere considerata la Vita di san Martino, monaco e vescovo, scritta da Sulpicio Severo alla fine del quarto secolo.
Ma a noi qui interessa soprattutto cercare di capire quale “teologia della santità” è sottesa alla redazione e alla lettura delle Vite dei santi nell’età patristica.
Dobbiamo limitarci di necessità a qualche cenno. Partiamo da un’affermazione risaputa. Nell’orizzonte biblico e patristico la santità è l’attributo proprio, e di per sé esclusivo, di Dio. In verità, solo Dio è santo. «Tu solo il Santo», proclamiamo nel Gloria della Messa, e ripetiamo ancora nel Sanctus e nelle varie preghiere eucaristiche. Ma la santità di Dio – anziché ripiegarsi su se stessa – si diffonde su tutti quelli che credono in lui. Come recita l'inno della Lettera agli Efesini, Egli ci ha scelti «per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità» (Efesini 1,4). Così la santità di Dio è l'origine, la mèta e il sostegno perennemente efficace e vittorioso di ogni cammino individuale di santità. Umanamente parlando, nessuno di noi potrebbe sperare di attingere alla vita di Dio. C'è una chiara sproporzione “ontologica” – direbbero i filosofi – tra la creatura e il Creatore. Ma l'incarnazione del Verbo, la sua morte e resurrezione hanno creato un ponte sicuro tra il figlio dell'uomo e il Figlio di Dio, e hanno colmato, in qualche modo, la sproporzione. «Per ogni uomo», recita un'anonima Omelia pasquale del IV secolo, «per ciascuno di noi, il principio della vita è questo: il fatto che Cristo è stato immolato per noi. Ma Cristo», aggiunge subito l’anonimo omileta, «è immolato per noi nel momento in cui noi stessi ci rendiamo coscienti della vita procurataci da quell'immolazione». Se la libertà dell’uomo non decide di corrispondere ai doni della grazia, l’immolazione del Verbo resta inoperante per noi.
Ecco il “segreto della santità”, secondo i nostri Padri. Si tratta di ri-«conoscere» l'amore di Cristo, e di vivere poi nella consapevolezza di «essere» figli di Dio. E' come se io dicessi: «Guardami, Padre! Io sono tuo figlio. Sono io il tuo Cristo: egli vive in me, io vivo in lui...». Sono figlio di Dio: la santità di Dio mi ha raggiunto, e continua a vivere in me. Allo stesso modo potremmo dire ad ogni cristiano: «In te abita il Figlio di Dio: vivi dunque da figlio di Dio! Libera il progetto di santità che Dio stesso ha inscritto nel tuo cuore!». Ecco la ragione profonda per cui nelle antiche comunità cristiane l'attributo di “santo” non era riservato a pochi eletti, ma era l'appellativo comune di tutti i battezzati. Chiaramente, l'indicativo della santità («Voi siete santi...») non esclude l'imperativo corrispondente («...dunque, camminate nella santità!»): al contrario, lo potenzia in massimo grado, mentre ne promette la vittoria. A questo riguardo si leggano per esempio l'indirizzo e il saluto di Paolo ai cristiani di Corinto: essi sono già stati «santificati in Cristo Gesù», eppure sono ancora «chiamati alla santità» (1Corinti 1,2).
Possiamo vedere tutto questo negli scritti di due Padri, che considero in qualche modo paradigmatici: mi riferirò brevemente a Origene in Oriente e a Bernardo di Chiaravalle in Occidente, il primo ancora agli inizi della storia della Chiesa, il secondo al termine ormai dell’età patristica.
Complessivamente la via che Origene prospetta per la santità dipende dal relativo “codice di accesso”, e dalla corrispondente raccomandazione a trascorrere dalla lettera allo spirito delle Scritture per progredire nella conoscenza di Dio: una conoscenza che porta all’unione e, anzi, è l’unione. Così l’Alessandrino propone un itinerario di santità in cui conoscenza delle Scritture, contemplazione ed esperienza mistica di Dio, lungi dal divaricarsi, si compenetrano tra loro e vengono proposte continuamente a ogni cristiano, perché cammini sulla via della perfezione.
Il più alto livello della conoscenza di Dio, secondo Origene, è l’amore. Per dimostrare questo egli si fonda su un significato ebraico del verbo conoscere, utilizzato per esprimere l’atto dell’amore umano: «Adamo conobbe Eva, sua sposa, la quale concepì». Tale è la definizione ultima del conoscere, confuso con l’amore nell’unione. Come l’uomo e la donna sono «due in una sola carne», così Dio e il credente diventano «due in uno stesso spirito».
Questa dottrina della conoscenza di Dio e della santità (poiché esse sono come le due facce di una stessa medaglia) è senz’altro di natura mistica.
Ebbene, quando si parla di Origene “mistico” è obbligatorio il riferimento alle sue Omelie sul Cantico dei Cantici. Al riguardo si cita in particolare un passaggio della prima Omelia, dove Origene confessa: «Spesso – Dio me ne è testimone – ho sentito che lo Sposo si accostava a me in massimo grado; dopo egli se ne andava all’improvviso, e io non potei trovare quello che cercavo. Nuovamente mi prende il desiderio della sua venuta, e talvolta egli torna, e quando mi è apparso, quando lo tengo tra le mani, ecco che ancora mi sfugge, e una volta che è svanito mi metto ancora a cercarlo...» (Omelia sul Cantico dei Cantici 1,7).
Un altro illustre commentatore del Cantico dei Cantici, Bernardo di Chiaravalle, invita a varcare i secoli, e a considerare la conclusione dell’età patristica in Occidente. Nel suo commento al Cantico dei Cantici l'abate di Chiaravalle non si stanca di ripetere che uno solo è il nome che conta, quello di Gesù Nazareno. «Arido è ogni cibo dell'anima, se non è condito con questo olio; insipido, se non è condito con questo sale. Quello che scrivi non ha sapore per me, se non vi avrò letto Gesù. Quando discuti o parli, nulla ha sapore per me, se non vi avrò sentito risuonare il nome di Gesù: miele nella bocca, canto nell'orecchio, giubilo nel cuore (mel in ore, in aure melos, in corde iubilus)» (Sermone sul Cantico dei Cantici 15,6).
Come si giustifica questo inno appassionato del santo abate? La verità è che Bernardo resta affascinato da una profonda certezza di fede. Grazie al sacrificio di Cristo, egli si sente raggiunto dalla santità di Dio: «Quello che io non posso ottenere da me stesso», cioè la santità, scrive in un altro Sermone sul Cantico dei Cantici, «io me lo approprio (usurpo!) con fiducia dal costato trafitto del Signore» (Sermone sul Cantico dei Cantici 61,4-5). Ecco il «colpo di mano» della santità! Secondo i nostri Padri, Maria e i santi sono quelli che hanno fatto in modo esemplare questo «colpo di mano», rendendosi «coscienti della vita procurataci da quell'immolazione» (Omelia pasquale del IV secolo, sopra citata).
In questa stessa prospettiva possiamo leggere un celebre passo di Nicola Cabasilas, il grande mistico del XIV secolo: rispetto a Bernardo, egli ci fa respirare con «l'altro polmone», quello orientale, della Chiesa cattolica. Ma la sua dottrina sulla santità coincide in modo sorprendente con quella di Bernardo. «Dal momento in cui Gesù salì sulla croce, morì e risorse», si legge infatti nel secondo libro della sua Vita in Cristo, «la libertà degli uomini fu reintegrata, fu ricomposta la forma e la bellezza, furono formate le nuove membra. Ora si deve solo venire avanti e accedere ai doni... Il prezzo del riscatto è già stato pagato, ora si tratta soltanto di essere liberati; il profumo è già stato versato, e la sua fragranza ha riempito l'universo: non ci resta che respirarlo; anzi, nemmeno questo, poiché anche il potere di respirare ci è stato dato dal Salvatore, come quello di essere liberati e illuminati... Dopo aver compiuto lui tutto ciò per cui sono liberato, ha lasciato che anche noi portassimo qualche contributo alla nostra liberazione: quello di credere che nel battesimo è la santità, e di volervi accedere» (Vita in Cristo 2,4).
Davvero, osserva con arguzia quel grande studioso dei Padri che è Raniero Cantalamessa, «non si pensa mai alla cosa più semplice»! Ebbene, «la cosa più semplice» che i nostri Padri continuano a ripetere lungo i secoli è questa: per ogni battezzato, per ciascuno di noi, la santità è «a portata di mano». Ma perché essa ci raggiunga davvero, deve maturare in noi una profonda persuasione di fede: la santità è la vita stessa di Dio, e in Gesù Cristo la vita di Dio, cioè la sua santità, arriva a ciascuno di noi. Occorre rendersi consapevoli di questo, e corrispondere con la vita ai doni della grazia.
Pertanto, scrive il Papa nella Novo Millennio Ineunte, il programma della santità è quello di sempre, «raccolto dal Vangelo e dalla viva Tradizione»: è «Cristo stesso, da conoscere, amare, imitare» (n. 29).
Gesù Cristo è andato a morire sulla croce perché noi diventassimo santi: «Onoriamo dunque», esclama il Crisostomo nella sua Omelia sul cimitero e sulla croce, «il suo trofeo, che è la croce... Facciamo nostre quelle ferite e quella morte!».
2. La vita dei santi come “luogo” di formazione: dalla “scienza teologica” alla “scienza della carità” [3]
Quando si pensa alla formazione, spesso la prima immagine che si affaccia alla nostra mente è quella dei libri di teologia. Si rischia così di dimenticare una nota di realismo, che invece è caratteristica della fede cristiana. «L’atto di fede», scriveva già san Tommaso, «non ha come punto di riferimento ciò che può essere enunciato, ma la res, la Cosa in se stessa». Proprio il realismo della fede deve guidare ogni itinerario di formazione, rendendo ben avvertiti formatori e formandi (che spesso sono anche teologi) che la Cosa a cui puntare è in definitiva la partecipazione di grazia alla conoscenza d’amore (nel senso inteso dai nostri Padri) che il Figlio incarnato, crocifisso e risorto, ha del Padre suo, nella comunione dello Spirito Santo. Ogni autentica formazione non può che essere una progressiva conformazione a Lui, il Figlio di Dio, l’unico che conosce il Padre. «Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra», prorompe Gesù stesso nel suo Magnificat, «perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te. Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio, e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare» (Matteo 11,25-27).
Nella Tradizione della Chiesa, la teologia, quale fides quaerens intellectum, pur nella pluralità delle sue espressioni storiche, si configura come quell’esercizio dell’intelligenza che nasce dall’esperienza della fede, di essa si nutre e all’accrescimento di essa è destinato. «Ho desiderato di vedere con l’intelligenza ciò che ho creduto per fede», afferma sant’Agostino a proposito del mistero centrale della Rivelazione, la santissima Trinità (La Trinità 15,28,51). La visione, cui anela il desiderio che mette in moto l’intelligenza del mistero rivelato, è una penetrazione sempre più piena e una partecipazione sempre più viva a quella verità/vita che è Cristo stesso, cui la fede intimamente aderisce, nella certa speranza del compimento eccedente e inesauribile di essa nel Regno dei cieli: «Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto» (1Corinti 13,12).
Da questa intima natura della teologia deriva la forma peculiare della sua scientificità. La teologia, infatti, è scientia precisamente nel senso che è misurata rigorosamente, nella sua intenzionalità e nel suo esercizio, dall’Oggetto che le è offerto dalla Rivelazione: Dio in Cristo. Con geniale intuizione, san Tommaso d’Aquino giunge perciò ad affermare che la teologia è scientia «in quanto procede da principi noti con il lume di una scienza superiore, che è la scienza di Dio e dei beati» (Summa Th. 1,1,2). In tal modo, egli collega organicamente il procedimento argomentativo della teologia scolastica, in quanto scientia, con la prospettiva neotestamentaria e patristica che vede nella fede e nella conoscenza, che da essa procede, la partecipazione di grazia alla conoscenza del Padre di cui gode, per natura, il Verbo incarnato, e che si compie per gli uomini nella visio beatifica dei santi.
Commenta il card. Joseph Ratzinger: «La teologia non vede né prova la sua ragione ultima. È come sospesa alla “scienza dei santi”, alla loro visione, che è il punto di riferimento del pensiero teologico e ne garantisce la legittimità (…). Senza il realismo dei santi, senza il loro contatto con la realtà in questione, la teologia diventa un gioco intellettuale vuoto e perde pure il suo carattere scientifico». [4]
Così la vita e la testimonianza dei santi illuminano non soltanto gli itinerari di formazione spirituale, ma anche ogni autentico cammino di ricerca teologica.
Lo conferma fin dai primi secoli cristiani la definizione stessa di “Padre della Chiesa”. “Padre” non può essere colui che si è distinto solo per l’eccellenza e l’ortodossia della dottrina. Il “Padre della Chiesa” deve anche brillare per la santità della vita. Se non è santo, non è Padre della Chiesa.
Lo conferma, ancora ai nostri giorni, il capitolo settimo della Lumen Gentium, intitolato De indole eschatologica Ecclesiae peregrinantis eiusque unione cum Ecclesia cæleste. La vita dei santi vi è presentata come quella di coloro che sono più perfettamente trasformati a immagine di Cristo, come scrive san Paolo in 2 Corinti 3,18: «E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore». A motivo di tale intima conformazione a Cristo, nella vita dei santi Dio manifesta in modo vivo e luminoso la sua presenza e il suo volto agli uomini; in loro, anzi, «è egli stesso che ci parla, e che ci mostra il contrassegno del suo Regno» (Lumen Gentium, n. 50).
Così il testo conciliare invita la teologia a scrutare, con gratitudine e fiducia, la santità come quel “luogo” in cui splende nel mondo il carattere realistico e profetico della fede cristiana. L’esistenza in Cristo condotta dai santi è infatti testimonianza della verità e dell’efficacia della Rivelazione come redenzione e compimento dell’umano e come continuata presenza di Dio, in Cristo risorto che effonde il suo Spirito tra gli uomini. Per questa ragione, la vita dei santi viene in soccorso al compito proprio della teologia, chiamata a «rispondere a chiunque domandi ragione della speranza» che vive nei credenti (1Pietro 3,15).
Al tempo stesso la teologia è invitata ad approfondire l’intrinseco nesso cristologico tra la verità della Rivelazione e la testimonianza di essa nella vita dei fedeli. «Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo – attesta Gesù –: per rendere testimonianza alla verità» (Giovanni 18,37). Gesù è «via, verità e vita» (cf. Giovanni 14,6), in quanto testimonia nella sua vita la verità del Padre, aprendo così agli uomini la via verso di Lui. Nella vita dei santi è riproposta, dunque, la testimonianza alla verità di Cristo stesso quale verità fatta vita e che alla vita conduce. Né va lasciata cadere la suggestione di Lumen Gentium 50, secondo cui, attraverso i santi, Dio stesso «ci parla». «Le parole che hai dato a me», dice Gesù al Padre nei discorsi dell’ultima cena, «io le ho date a loro» (Giovanni 17,8). Ogni santo, si può dire, si offre alla Chiesa, in unione con Cristo, Verbo incarnato, come l’incarnazione nel soffio dello Spirito di una parola che Gesù ha ricevuto dal Padre e che ha comunicato ai discepoli: «Avevo fame…; ero malato…; beati i poveri…; amatevi gli uni gli altri…». Così la teologia può contemplare nei santi - veluti stella a stella differens in claritate (cf. 1Corinti 15,40-41) - quella parola o quell’espressione della vita e della missione di Cristo che, come un seme fecondo, è germinata per impulso dello Spirito Santo, lungo i secoli, nel giardino della Chiesa, e ha portato molto frutto (cf. Giovanni 12,24).
Scrive ancora J. Ratzinger: «Quello della connessione tra teologia e santità non è un discorso sentimentale o pietistico, ma ha il suo fondamento nella logica delle cose, e ha dalla sua parte la testimonianza di tutta la storia. Non è pensabile Atanasio senza la nuova esperienza di Cristo fatta da Antonio abate; Agostino senza la passione del suo cammino verso la radicalità cristiana; Bonaventura e la teologia francescana del secolo XIII senza la nuova gigantesca realizzazione di Cristo nella figura di san Francesco d’Assisi, Tommaso d’Aquino senza la passione di Domenico per il vangelo e l’evangelizzazione». [5]
La “svolta” conclusiva della nostra riflessione è guidata ora da un pensiero di Balthasar, che sviluppa in maniera feconda la citazione di Ratzinger: «Grandi carismi come quelli di Agostino, Francesco, Ignazio», osserva il teologo svizzero, «possono ricevere, donati dallo Spirito, sguardi nel centro della Rivelazione, sguardi che arricchiscono la Chiesa in modo quanto mai inaspettato, e tuttavia perenne. Sono ogni volta carismi in cui intelligenza, amore e imitazione sono inseparabili. Si riconosce di qui che lo Spirito spiegatore è a un tempo divina sapienza e divino amore, e in nessun caso pura teoria, ma sempre anche prassi vivente (…). Egli diffonde la divina pienezza nell’infinito, ma solo sempre in modo da unificarla di nuovo e di più». [6]
Siamo giunti così “al cuore” del nostro tema: la vita dei santi è veramente “scuola” insostituibile di formazione teologico-spirituale, in quanto la “lettura” di queste vite consente di approdare non solo (e non sempre) alla scientia theologica accademicamente intesa, quanto piuttosto (e questo in ogni caso) alla scientia divini amoris, di cui i santi sono per definizione gli specialisti.
Da questo punto di vista è importante il riferimento ai Praenotanda dell’editio typica altera del Martyrologium Romanum, in particolare al n. 18. Vi si trova riassunto il Magistero del Concilio Vaticano II, di Paolo VI e di Giovanni Paolo II circa il patrimonio ecclesiale costituito dalla vita dei santi e dalla verità salvifica che in essi è incarnata e che da essi si irradia, quale via privilegiata per la conformazione dei fedeli al mistero di Cristo e per la sua illustrazione alla Chiesa e al mondo.
Tale concetto è opportunamente inserito entro il contesto del significato ecclesiologico della communio Sanctorum. Così la testimonianza dei santi è connotata nella sua perenne attualità quale provvidenziale sostegno e alimento del popolo di Dio nel suo pellegrinaggio terreno verso la casa del Padre. Essa, radicata in Cristo qui Ecclesiae suae semper adest (Sacrosanctum Concilium, n. 7), si fa per noi tutti sorgente viva e certa di incremento della fede, di crescita della carità, di rinvigorimento della speranza.
Così recita il testo: «Contemplando in Cristo la vita dei santi, i fedeli ricercano la luce per investigare il mistero di Dio. Infatti nella vita dei santi, che – pure partecipi della nostra umanità, sono tuttavia trasformati più perfettamente nell’immagine di Cristo (cf. 2Corinti 3,18) – Dio manifesta vividamente agli uomini la sua presenza e il suo volto. In essi egli stesso ci parla, e ci mostra il contrassegno del suo Regno (cf. Lumen Gentium, n. 50). Questo non va considerato unicamente riguardo alla scienza teologica, ma anche riguardo a quella “scienza dell’amore”, che deriva dall’illuminazione dello Spirito Santo per l’esperienza dei misteri di Dio».
L’enunciazione finale di questo denso n. 18 dei Praenotanda rinvia alla Lettera Apostolica di Giovanni Paolo II Divini amoris scientia per la proclamazione di santa Teresa di Gesù Bambino e del Sacro Volto a Dottore della Chiesa universale (1998). Vi si richiama il fatto che la santità, quand’è arricchita di carismi di illustrazione della verità rivelata, va riconosciuta nella sua qualità di “luogo teologico” non solo (e non sempre, aggiungiamo noi) in riferimento alla scientia theologica in senso specificamente accademico, bensì in riferimento a quella scientia amoris, che deriva dall’illuminazione dello Spirito Santo per l’esperienza dei misteri di Dio.
L’affermazione è coerente con l’insegnamento conciliare, ma è anche almeno in parte nuova, pur trovando già esplicito riscontro nella Novo Millennio Ineunte di Giovanni Paolo II. Qui, infatti, ricorre il lemma scientia amoris, e si dà ragione della fecondità peculiare di essa in ordine a un’efficace penetrazione teologica ed esistenziale del mistero di Cristo, a servizio della crescita di fede del popolo di Dio (cf. nn. 27 e 42). Con la distinzione in questo passo proposta tra scientia theologica e scientia amoris, a proposito della santità come “luogo teologico”, mi pare ci venga proposta una duplice suggestione.
Anzitutto si sottolinea che la ricchezza e fecondità teologica esibita dalla santità è da individuarsi non soltanto nel fatto che i grandi carismi ecclesiali sono donati dallo Spirito Santo alla Chiesa come illustrazione viva delle verità della fede e talvolta come illuminazione specifica di alcune di esse; ma anche nel fatto che l’experientia fidei che essi propiziano si offre all’intelligenza teologica come un campo vasto e luminoso di accesso alla verità rivelata, e quasi di verifica di essa nell’esistenza di coloro che più perfettamente l’hanno accolta e ne hanno vissuto, in essa trasfigurando a immagine di Cristo la loro stessa vita. La conformazione per amore a Cristo, infatti, illumina in modo unico e straordinario gli occhi della fede, rendendoli capaci di riflettere in sé, per quanto possibile alla creatura in statu viae, la luce della verità divina che splende sul volto di Cristo.
Ma ciò riveste un ulteriore significato per la teologia. La invita infatti a tener fisso lo sguardo sul suo obiettivo primo e ultimo, che è quello di portare alla comunione d’amore sempre più piena con Cristo via, verità, e vita e in e per Lui con la santissima Trinità e con i fratelli (cf. Giovanni 17,21). Il che non può non avere precise conseguenze sull’esercizio stesso del teologare. Il finis fidei - spiega san Tommaso - è quel bonum divinum che è proprium obiectum caritatis, così che «la carità è definita forma della fede, in quanto attraverso la carità l’atto della fede si perfeziona e trova la sua forma» (Summa Th. 2-2a,4,3, corpus). Ne consegue che anche la teologia, quale intelligentia fidei, è chiamata a trovare la sua perfezione e la sua forma interiore nel dinamismo teologico della carità. In tal modo, il procedere concettuale proprio della teologia scientifica non solo si nutre della scientia amoris dei santi, ma - come afferma ancora san Tommaso - «prorompe nell’affetto dell’amore» (Summa Th. 1,43,5, ad secundum), così che l’intelligenza - spiega Jacques Maritain - giunge per la grazia a un’attuazione di sé che è formalmente illuminata e innervata dall’amore divino, perché, «facendosi passiva di fronte all’amore e lasciando dormire i suoi concetti, fa per ciò stesso l’amore mezzo formale di conoscenza». [7]
3. Un esempio: traccia di lettura della vita della beata Alessandrina Maria da Costa [8]
Insieme alla francese Marthe Robin (1902-1981) e alla tedesca Teresa Neumann (1898-1962), Alessandrina Maria da Costa (1904-1955), portoghese, è una “perla” nella storia della santità e della mistica del ventesimo secolo per la ricchezza spirituale che ci ha lasciato attraverso le numerose pagine del suo diario, vera scuola nella “spiritualità della riparazione”: sono pagine che attingono la loro forza all’amore appassionato di Cristo per il Padre e per le anime, e che nella morte di croce raggiunge il suo apice.
Si tratta di tre donne laiche, quasi coetanee, di famiglia contadina, accomunate da una vita di dignitosa povertà e da un’esperienza mistica che si inserisce nella storia del secolo scorso, attraversata dai drammi delle due guerre mondiali, dal sorgere del sistema totalitario comunista in Russia e del nazismo in Germania, da una lotta e persecuzione alla Chiesa che ha suscitato un alto numero di martiri.
Sul piano dell’esperienza mistica ciò che accomuna queste tre donne non è solo la vocazione vittimale per la salvezza delle anime, fino a rivivere nel proprio corpo la passione di Cristo, ma il fatto che esse vissero in digiuno totale, nutrendosi di sola Eucaristia per un lunghissimo tempo: per cinquant’anni Marthe Robin, per trentasei Teresa Neumann e per tredici Alessandrina. Se ne è parlato come dei “miracoli eucaristici” del XX secolo.
Alessandrina è nata a Balasar, un piccolo paese nel nord del Portogallo, il mercoledì della settimana santa, 30 marzo 1904. La sua nascita era stata preceduta da un fatto di natura straordinaria verificatosi in paese nella festa del Corpus Domini del 21 giugno 1832, sulla strada che portava alla frazione Calvario, la frazione dove visse Alessandrina. Una croce era comparsa per terra, di colore diverso dal restante terreno, e nonostante tutti i tentativi da parte del parroco di cancellarla usando anche l’acqua, la croce si riformava. Un documento dell’epoca redatto dal parroco fa memoria di questo avvenimento, e una piccola cappella fu successivamente costruita per proteggere la croce, diventata nel frattempo meta di numerosi pellegrinaggi.
Questo segno, che “annunciava” quella che sarebbe stata la vocazione di Alessandrina come anima vittima, venne anche confermato da Gesù stesso durante l’estasi del 5 dicembre 1947: «E’ passato da poco un secolo da quando mandai, a questa privilegiata parrocchia, la croce», disse Gesù ad Alessandrina, «come annuncio della tua crocifissione. La croce era pronta e mancava la vittima, che nei piani divini era già scelta: eri tu... Da questa croce, da questa immolazione, ho avuto due vantaggi: l’amore alla mia croce e una grande riparazione. Non è soltanto la mia Alessandrina ad essere crocifissa, ma Cristo in lei e con lei».
Dall’età di vent’anni Alessandrina visse nel letto paralizzata, a causa di una mielite alla spina dorsale, conseguente a un salto fatto a quattordici anni dalla finestra di casa per sottrarsi a tre uomini male intenzionati, che con violenza erano entrati in casa. Nella solitudine della sua cameretta, Alessandrina diventò l’angelo consolatore di Gesù Eucaristia presente in tutti i Tabernacoli del mondo e contemporaneamente, ostia nell’Ostia divina, accettò di essere con Gesù immolata per la conversione dei peccatori e la salvezza delle anime. Il suo programma spirituale è racchiuso in tre parole, che sentiva risuonare nel suo cuore ogni volta che chiedeva a Gesù che cosa desiderasse da lei; la risposta era sempre la medesima: «Soffrire, amare, riparare».
A partire dal 1935 Alessandrina fu portavoce di Gesù per la richiesta della consacrazione del mondo al Cuore Immacolato di Maria, che venne effettuata da Pio XII nel 1942. Durante gli anni che intercorsero prima che il mondo fosse consacrato alla Madonna, Alessandrina rivisse misticamente la Passione di Gesù nel corpo e nell’anima ogni venerdì dalle 12 alle 15. Fu questo il segno dato dal Signore per avvalorare la sua richiesta. Quando il Papa consacrò il mondo, terminò per Alessandrina l’esperienza mistica della crocifissione visibile nel corpo, pur continuando quella interiore, l’agonia dell’anima, e iniziò il digiuno totale che si protrasse per gli ultimi tredici anni della sua vita, durante i quali visse di sola Eucaristia.
Nel 1943 per quaranta giorni e quaranta notti furono strettamente controllati da valenti medici il digiuno assoluto e l'anuria, nell'ospedale di Foz de Douros presso Oporto.
Nel 1944 il suo direttore spirituale, il salesiano don Umberto Pasquale, incoraggiò Alessandrina perché continuasse a dettare il suo diario, dopo aver constatato le altezze spirituali a cui era pervenuta: ciò che essa fece con spirito di obbedienza fino alla morte. Nello stesso anno 1944 Alessandrina si iscrisse all’Unione dei Cooperatori Salesiani. Volle collocare il suo diploma di Cooperatrice «in luogo da poterlo avere sempre sotto gli occhi», per collaborare col suo dolore e con le sue preghiere alla salvezza delle anime, soprattutto giovanili. Pregò e soffrì per la santificazione dei Cooperatori di tutto il mondo.
Nonostante le sue sofferenze, ella continuava inoltre a interessarsi e ad ingegnarsi a favore dei poveri, del bene spirituale dei parrocchiani e di molte altre persone che a lei ricorrevano. Promosse tridui, quarant'ore e quaresimali nella sua parrocchia.
Specialmente negli ultimi anni di vita, molte persone accorrevano a lei anche da lontano, attratte dalla sua fama di santità, e parecchie attribuivano ai suoi consigli la loro conversione.
Nel 1950 Alessandrina festeggia il venticinquesimo anniversario della sua immobilità. Il 7 gennaio 1955 le viene preannunciato che quello sarebbe stato l’anno della sua morte. Il 12 ottobre volle ricevere l’unzione degli infermi. Il 13 ottobre, anniversario dell’ultima apparizione della Madonna a Fatima, la si sentì esclamare: «Sono felice, perché vado in cielo». Alle 19,30 spirò.
Nel 1978 le sue spoglie vennero traslate dal cimitero alla chiesa parrocchiale di Balasar, dove oggi – in una cappella laterale – riposa il corpo di Alessandrina. Sulla sua tomba si leggono queste parole da lei volute: «Peccatori, se le ceneri del mio corpo possono essere utili per salvarvi, avvicinatevi, passatevi sopra, calpestatele fino a che spariscano. Ma non peccate più; non offendete più il nostro Gesù!». E’ la sintesi della sua vita spesa esclusivamente per salvare le anime.
A Oporto nel pomeriggio del 15 ottobre i fiorai rimasero privi di rose bianche: tutte vendute. Un omaggio floreale ad Alessandrina, che era stata la rosa bianca di Gesù.
Alessandrina assume per noi un valore paradigmatico. Il suo amore all’Eucaristia e alla Madonna e la sua vita interiore, giunta ai livelli più alti della mistica, raccomandano a tutti il “programma” della santità, che è Cristo stesso, da conoscere, amare, imitare (cf. Novo Millennio Ineunte, n. 29). E’ chiaro che si tratta qui del “conoscere” mistico: è il conoscere dell’Apostolo, che poggia il suo capo sul cuore di Gesù. Proclamandola beata, il Papa ha detto: «Nell’esempio della beata Alessandrina, espresso nella trilogia “soffrire, amare, riparare”, i cristiani possono trovare lo stimolo e la motivazione per nobilitare tutto ciò che la vita ha di doloroso e di triste attraverso la prova più grande: sacrificare la vita per chi si ama».
Alessandrina, esperta in santità, insegna e raccomanda a ogni discepolo la “scienza dell’amore”, la più profonda conoscenza del mistero di Cristo. E’ in assoluto la “scuola di formazione” più esigente e più feconda.
E. dal Covolo
[1] Mentre stendevo questi appunti mi trovavo a San José dos Campos, in Brasile. Non potrò mai dimenticare questa esperienza. Ho toccato con mano quanto possa incidere nella formazione del popolo di Dio (di tanti sacerdoti, di consacrate, di consacrati e di fedeli) la testimonianza semplice e irresistibile di santità del Venerabile Rodolfo Komorek, sacerdote salesiano (1890-1949). La sua profonda pietà – soprattutto l’amore verso l’Eucaristia –, il servizio infaticabile del prossimo e il suo spirito di continua penitenza hanno formato e continuano a formare generazioni di credenti. La vita di questi santi è una vera “scuola di formazione”, a cui il Signore ci iscrive ogni giorno: basta che vogliamo frequentarla!
[2] Per questo paragrafo e per la relativa documentazione, ridotta qui all’essenziale, vedi più ampiamente E. DAL COVOLO, La santità del fedele nella dottrina dei Padri della Chiesa, «Rivista Liturgica» 89 (2002), pp. 535-546.
[3] Devo la maggior parte di questo paragrafo ad alcune suggestioni di P. CODA, La santità come luogo teologico, in CONGREGATIO DE CULTU DIVINO ET DISCIPLINA SACRAMENTORUM, Il martirologio romano. Teologia, liturgia, santità, Città del Vaticano 2005, pp. 39-50. Vedi inoltre F. ASTI, Teologia e santità, ascetica e mistica, «Rassegna di teologia» 46 (2005), pp. 55-79.
[4] J. Ratzinger, Credere, cioè vedere, «Trentagiorni» 1988/12.
[5] «Communio» 87 (1986), p. 101.
[6] H.U. von Balthasar, Teologica, 3. Lo Spirito della Verità, tr. it., Milano 1992, p. 22.
[7] J. Maritain, Breve trattato dell’esistenza e dell’esistente, tr. it., Brescia 1974, p. 67.
[8] La bibliografia su Alessandrina M. da Costa, beatificata da Giovanni Paolo II a Roma in piazza San Pietro il 25 aprile 2004, è ingente. Si può consultare il sito www.sdb.org nella voce “santità salesiana (beati - Alessandrina M. da Costa)”.