A cura di Aldo Giraudo
Titolo originale dell’opera: Vie de Don Michel Rua premier successeur de Don Bosco (1837-1910) - © LAS, Roma, 2009.
Traduzione dal francese di Antonella Fasoli
Revisione generale sulle fonti archivistiche di Aldo Giraudo
1 - L'INFANZIA DI MICHELE RUA 5
La città di Torino nel decennio 1830-1840 5
La famiglia Rua nella fabbrica della Fucina 7
Michele e la scuola della Fucina 8
Michele frequenta la scuola dei Fratelli 11
2 – ALLA SCUOLA DI DON BOSCO 15
Lo studio del latino con don Bosco 15
Michele Rua veste l’abito chiericale 19
Infermiere dei malati di colera 22
Il secondo anno di filosofia 24
I voti privati di Michele Rua 24
4 - LA NASCITA DELLA SOCIETÀ SALESIANA 26
La nascita di una società religiosa in un contesto turbolento 26
La morte di Margherita Bosco e di Domenico Savio 27
Il primo progetto costituzionale di don Bosco 28
A Roma con don Bosco nel 1858 29
Il trattato “De Deo uno et trino” 32
L’organizzazione della Società di san Francesco di Sales 33
5 – MICHELE RUA GIOVANE PRETE 35
Michele Rua è ordinato presbitero 36
Il lavoro del giovane sacerdote 37
6 - DON RUA PREFETTO GENERALE 43
Don Rua sostituisce don Alasonatti 43
Don Rua rappresenta don Bosco 43
La riorganizzazione dell’Oratorio 44
Le feste di consacrazione della chiesa di Maria Ausiliatrice 45
La vita quotidiana del prefetto don Rua 46
7 – FORMATORE DEI GIOVANI SALESIANI 48
Il problema della formazione dei chierici all’Oratorio di Torino 48
Don Rua maestro dei novizi senza titolo 51
8 – DON RUA COLONNA DELL'ORATORIO E REGOLA VIVENTE 54
Una Società in continua crescita 54
9 – DON RUA VISITATORE DELLE CASE AFFILIATE 59
Don Rua «visitatore» delle case salesiane 59
Il programma di don Rua «visitatore» 59
Le ispezioni di don Rua nel 1874 e 1875 61
Don Rua visitatore a Borgo San Martino e Lanzo Torinese 61
Don Rua visitatore a Sampierdarena, Varazze, Alassio e Valsalice 63
L’istituzione dell’ispettore nella Società di san Francesco di Sales 64
10 – IL BRACCIO DESTRO DI DON BOSCO 66
Don Rua a Mornese presso le Figlie di Maria Ausiliatrice 66
Le circolari mensili ai direttori 66
Don Rua nella controversia con l’arcivescovo Gastaldi 69
L'austerità del prefetto generale 72
11 – IN VIAGGIO CON DON BOSCO 76
A Roma nei mesi di aprile e maggio del 1881 76
Aiuto di don Bosco a Parigi e Lille, nel maggio 1883 77
12 – DON RUA VICARIO GENERALE DI DON BOSCO 83
L'ufficializzazione del titolo di vicario generale 85
A Roma per la consacrazione della chiesa del Sacro Cuore 93
La sostituzione di don Bosco rimasto senza voce 93
I funerali e la sepoltura del Fondatore 96
14 – DON RUA RETTOR MAGGIORE 98
La successione di don Bosco 98
La famiglia salesiana ereditata da don Bosco 101
15 – GLI ANNI DELL’APPRENDISTATO (1888-1892) 104
Il peso dei debiti accumulati 106
Il problema degli studi ecclesiastici 107
16 – LA VITA QUOTIDIANA DEL RETTORE A VALDOCCO 112
17 - L'ESPLORAZIONE DEL MONDO SALESIANO IN EUROPA 117
Nel meridione della Francia 119
Don Rua in Inghilterra, nel Nord della Francia e in Belgio 125
Don Antonio Belloni in Terra Santa 129
La fusione della Congregazione della Sacra Famiglia con la Società Salesiana 129
Il pellegrinaggio di don Rua in Terra Santa 130
19 – IL CONGRESSO SALESIANO DI BOLOGNA 139
L'organizzazione dei Cooperatori salesiani 139
La preparazione del Congresso di Bologna 140
Lo svolgimento del Congresso 141
20 - L'ESPANSIONE SALESIANA IN AMERICA 147
Lo zelo missionario di don Rua 147
La Colombia e l'episodio di Agua de Dios 148
L'insediamento dei Salesiani in Perù 150
Venezuela, Bolivia, Paraguay, El Salvador 153
21 - L'ALGERIA E LA POLONIA 160
La fondazione oranese del 1891 162
Il salesiano polacco Bronisław Markiewicz 163
La fondazione polacca del 1892 164
22 - VIAGGIO NELLA PENISOLA IBERICA (1899) 170
In Catalogna e nei Paesi Bassi 170
23 – I CAPITOLI GENERALI DEI PRIMI DIECI ANNI 179
I Capitoli Generali sotto don Rua 179
Il quinto Capitolo Generale (1889) 179
Il sesto Capitolo Generale (1892) 180
Il settimo Capitolo Generale (1895) 183
L’ottavo Capitolo Generale (1898) 183
Don Rua è rieletto Rettor Maggiore 184
24 - L'ALBA DI UN NUOVO SECOLO 186
I direttori salesiani confessori dei loro subordinati 186
Il decreto del Sant’Uffizio (5 luglio 1899) 187
Il decreto del 24 aprile 1901 188
La consacrazione della Società Salesiana al Sacro Cuore di Gesù 191
Il venticinquesimo anniversario dell’opera salesiana in Francia 194
La legge francese sulle associazioni 195
La tattica salesiana di fronte alla nuova legge 197
26 – LA CRISI DEGLI ISPETTORI FRANCESI 201
Il potere sfugge all’ispettore Pietro Perrot 201
Don Perrot è esonerato dall’incarico 202
L’impetuosa difesa di don Perrot e il suo ricorso a Roma 203
Don Bologna ricostituisce l’ispettoria della Francia del Nord 205
La dolorosa destituzione di don Bologna 207
27 – I CAPITOLI GENERALI DEL 1901 E DEL 1904 214
Il nono Capitolo Generale (1901) 214
L’incoronazione di Maria Ausiliatrice (1903) 217
Il decimo Capitolo Generale (1904) 220
Le conclusioni del decimo Capitolo Generale 223
I lavoratori francesi pellegrini sulla tomba di don Bosco (1891) 226
Le lezioni del Congresso di Bologna (1895) 227
La Società Nazionale del Patronato e Mutuo Soccorso per le Giovani Operaie 229
Lo sciopero dello stabilimento Anselmo Poma (1906) 229
29 – LE FIGLIE DI MARIA AUSILIATRICE 233
La direzione delle Figlie di Maria Ausiliatrice 233
Le lettere circolari di don Rua alle Figlie di Maria Ausiliatrice 234
L’allerta nell’estate 1905 239
L’annuncio alle Figlie di Maria Ausiliatrice 240
La separazione dei beni dei due Istituti 241
I ricorsi a Roma delle Figlie di Maria Ausiliatrice 241
30 - L'ESPANSIONE SALESIANA NEL PASSAGGIO DI SECOLO 247
L’Associazione Nazionale italiana ad Alessandria d’Egitto 248
L’Associazione Nazionale e le opere salesiane di Palestina 250
L’opera salesiana in India 254
La causa di beatificazione di don Bosco 257
Le deposizioni al processo informativo 258
Opposizioni e repliche - Don Bosco è venerabile 260
La condanna del modernismo 269
32 – SETTE MESI DI FATICHE E DI GIOIE 271
La visita straordinaria alle case della Congregazione 271
Don Rua in viaggio verso l’Oriente 272
Costantinopoli, Smirne, Nazaret 273
Betlemme, Gerusalemme, Cremisan, Beitgemal, Haifa 275
Il processo di beatificazione e canonizzazione di Domenico Savio 280
33 – LA CONSACRAZIONE DELLA CHIESA DI S. MARIA LIBERATRICE 282
La chiesa di Maria Liberatrice a Roma 282
La consacrazione della Chiesa 284
34 – L’ULTIMO ANNO DI DON RUA 288
La vita ordinaria di don Rua ammalato 289
Le deposizioni di don Rua al processo apostolico di don Bosco 292
L’estate faticosa del 1909 294
Le conclusioni della visita straordinaria 295
Le ultime settimane di don Rua 298
Il fedele discepolo di don Bosco 304
Nella circolare del 31 gennaio, don Rua aveva scritto, parlando di don Bosco: «Incaricato di tenerne le veci, farò del mio meglio per corrispondere alla comune aspettazione». Perché non dire che l’avrebbe sostituito? Non si fece caso alla sfumatura tra i Salesiani, andava da sé che don Rua sarebbe succeduto a don Bosco. Ma don Rua continuava a considerarsi come semplice vicario. Niente di più. Non conosceva alcun decreto formale che facesse di lui un vicario con diritto di successione. Don Bosco non ne aveva mai fatto menzione, né a voce, né per iscritto. Si era basato sulle comunicazioni dell’arcivescovo Alimonda. Ma queste disposizioni non escludevano in alcun modo un’elezione regolare da parte del Capitolo Generale.
Interrogò dunque l’arcivescovo, che gli consigliò di rivolgersi a Roma. L’8 febbraio don Rua presentò a Leone XIII un esposto sulla situazione. Terminava con queste espressioni: «Beatissimo Padre, considerando la mia debolezza e incapacità mi trovo spinto a farvi umile preghiera di voler portare su altro soggetto più adatto il sapiente vostro sguardo, e dispensare lo scrivente dall’arduo uffizio di Rettor Maggiore, assicurandovi però che coll’aiuto del Signore non cesserò di prestare con tutto l’ardore la debole opera mia in favore della Pie Società, in qualunque condizione venissi collocato».[231]
I membri del Capitolo Superiore non erano di questo avviso. L’indomani, indirizzarono al cardinal Parocchi, protettore della Società Salesiana, una lettera collettiva che esponeva le ragioni a favore della conferma di don Rua; lo assicuravano che tutta la Congregazione non solo gli si sarebbe sottomessa docilmente, ma avrebbe provato una gioia sincera e molto cordiale. Lo pregavano di conseguenza di riferirlo al Santo Padre.[232]
Il documento contribuì a tacitare le voci di coloro che a Roma prevedevano l’inevitabile catastrofe dell’opera di don Bosco. Secondo alcuni personaggi di curia, non c’erano tra i Salesiani uomini in grado di salvare la Congregazione. L’unico rimedio sarebbe stato quello di scioglierla e inglobare i suoi membri in altra società con obiettivi analoghi. Queste preoccupazioni erano arrivate fino a Leone XIII e l’avevano tanto impressionato da fargli prendere in considerazione una misura così radicale. Il papa non conosceva abbastanza don Rua, che aveva visto una sola volta nel maggio 1887. Il suo comportamento semplice e persino ingenuo non gli aveva permesso di individuare in lui le qualità intellettuali necessarie per succedere a don Bosco.
Provvidenzialmente in quei giorni si trovava a Roma mons. Emiliano Manacorda, vescovo di Fossano, che amava molto don Bosco e la sua opera. Questo vescovo conosceva la curia romana dove aveva iniziato la sua carriera. Non appena ebbe percepito il pericolo, si adoperò per dissipare dubbi e timori, cercando di dimostrare che i Salesiani non mancavano di uomini di valore. Si poteva dunque aver fiducia nell’avvenire della loro Società. La lettera dei capitolari arrivò proprio in quel momento e fu letta con molto interesse, tanto più che era firmata in primo luogo da mons. Giovanni Cagliero. Il cardinale Parocchi si recò immediatamente dal papa. Terminata l’udienza, comunicò l’esito del colloquio a Cagliero: «Lieto di aver ottenuto dalla Santità di N. Signore l’esaudimento della giusta richiesta di V. S. Ill.ma e dei suoi degnissimi confratelli, m’affretto a parteciparle, Mosignore carissimo, la bella notizia. In questo istante il Santo Padre ha riconfermata la nomina di don Rua a Rettor Maggiore della Congregazione Salesiana per 12 anni. Sia lodato il Signore, qui mortificat et vivificat!». Poi gli trasmise il decreto in latino che nominava don Rua Rettor Maggiore, a partire dall’11 febbraio 1888, con riserva che questa procedura valeva per questa sola volta e non poteva dunque costituire un precedente rispetto al dettato delle Costituzioni.[233] Da quel documento si apprese che esisteva un decreto anteriore, datato 27 novembre 1884, dunque risalente al tempo della nomina di don Rua a vicario generale. Che cosa ne era stato? Mistero!
Nella seconda quindicina di febbraio, don Rua raggiunse Roma. Come ex-allivo dei Fratelli delle Scuole Cristiane volle assistere, il 19 febbraio, alla cerimonia di beatificazione di Giovan-Battista de La Salle, dove potè vedere Leone XIII. Da questo momento la sua preoccupazione sarà quella di avvviare della causa di beatificazione di don Bosco. La fama di santità che aveva accompagnato il maestro durante la vita, si era trasformata in una convinzione generale nel corso della malattia e all’indomani della sua morte. Don Rua, che credeva con tutto il cuore alla santità di don Bosco, si diede da fare già ventiquattro ore dopo la sepoltura. Riunì il Capitolo Superiore per considerare l’eventualità di pensare alla causa. Così, a Roma, tra le personalità della curia che incontrò, ci fu il promotore della fede mons. Caprara, per sapere come si potesse fare per iniziare senza ritardi la causa di don Bosco. Seppe così che bisognava riunire al più presto tutti i documenti sui miracoli e le grazie ottenute per sua intercessione. Don Rua affidò il compito a don Giovanni Bonetti.[234] Il 28 di febbraio, durante una seduta del Capitolo Superiore, Bonetti sarà invitato a redigere uno schema riassuntivo dei fatti e delle virtù di don Bosco, e a interrogare i testimoni diretti.[235]
Il papa accolse don Rua in udienza privata la mattina del 21 febbraio. Dell’incontro, di cui ci ha lasciato una lunga relazione allegata alla circolare ai Salesiani del 19 marzo, ricordò soprattutto la raccomandazione del pontefice: per qualche tempo si sarebbe dovuto dovuto contenere l’espansione della Società, per non rischiare la brutta avventura di altre congregazioni che avevano fondato centri con due o tre sole persone, che si erano poi dovuti chiudere pietosamente. Raccolse dalla sua bocca anche una serie di lezioni sulla formazione ascetica da impartire ai novizi. Don Rua avrebbe dovuto fare particolare attenzione ad accogliere nelle case solo individui di virtù provata e, a questo scopo, era esortato ad istituire un noviziato severo. «E voi lo fate far bene il noviziato? Per quanto tempo?», chiese il papa, certamente al corrente della duttilità di don Bosco in quest’ambito. «Sì, Santo Padre – avrebbe risposto don Rua – il noviziato si suol fare da noi per un anno dagli aspiranti alla carriera sacerdotale e per due dai coadiutori». «Va bene – avrebbe continuato il papa – ma raccomandate a chi li dirige di attendere diligentemente alla riforma della vita dei novizi. Questi quando entrano portano con sé della scoria; e quindi hanno bisogno di esserne purgati e venir rimpastati allo spirito di abnegazione, di obbedienza, di umiltà e semplicità e delle altre virtù necessarie alla vita religiosa; e perciò nel noviziato lo studio principale e direi unico dev’essere di attendere alla propria perfezione. E quando non riescono a correggersi, non abbiate timore di allontanarli. Meglio qualche membro di meno, che avere individui che non abbiano lo spirito e le virtù religiose».[236]
Dieci anni prima mons. Gastaldi aveva tenuto lo stesso linguaggio sulla formazione spirituale dei Salesiani. Non lasciandosi circuire da don Bosco, come il suo benevolo predecessore, questo papa prendeva di contropiede le posizioni salesiane in materia di formazione degli ascritti. Un noviziato non è né un collegio né un Oratorio, ma un’istituzione tipica. Leone XIII esaltava le virtù passive necessarie a chi vuole vivere da religioso. Don Rua, uomo dell’ordine e della disciplina, non chiedeva altro che l’applicazione delle lezioni venute dall’altro. Sotto il suo rettorato, i noviziati salesiani, riformati secondo tale formula, si moltiplicheranno e gli istituti vedranno diminuire il numero di ascritti formati alla buona da direttori più o meno qualificati. Si noterà che le indicazioni del papa – per quanto don Rua le avesse riprodotte fedelmente – combaciavano parzialmente con quelle del nuovo Rettor Maggiore nella sua precedente circolare ai direttori dell’8 febbraio. Anch’egli chiedeva ai Salesiani di calmarsi, ma per ragioni finanziarie. Prevedeva il peso dei diritti di successione che la Società avrebbe dovuto pagare. Istruiva i direttori avvalendosi delle indicazioni lasciate da don Bosco: «Che siano sospesi i lavori di costruzione; non si aprano nuove case (e s’intende pure non si assumano nuovi impegni nelle case esistenti che importino necessità di maggiore personale o di spese straordinarie), non si decantino debiti; ma si usino comuni sollecitudini per pagare la successione, estinguere le passività, completare il personale delle case esistenti». Terminava seccamente:«Tanto per norma a tutti i Salesiani e senza commenti».[237]
Nella sua prima lettera in qualità di Rettore maggiore, datata 9 marzo 1888, giorno di san Giuseppe, non si percepisce la stessa tensione – del resto molto comprensibile. Due erano i pensieri dominanti all’inizio del suo mandato: la causa di don Bosco e la fedeltà al suo esempio. Scriveva che a Roma, il cardinal Parocchi aveva insistito: «Vi raccomando la causa di don Bosco, vi raccomando la causa di don Bosco». Istruito sullea procedura dei processi di canonizzazione, don Rua esortava dunque tutti i confratelli a scrivere ciò che sapevano di particolare sulla vita del Fondatore, sulle sue virtù cardinali, teologali e morali, sui doni sovrannaturali: guarigioni, profezie, visioni e cose analoghe. Le dichiarazioni avrebbero dovuto essere consegnate a don Giovanni Bonetti come direttore spirituale generale, incaricato di raccoglierle affinché servissero di base all’introduzione della causa. Don Rua avvertiva i testimoni che erano invitati a confermare le loro dichiarazioni sotto giuramento e che quindi avevano tutto l’interesse ad essere estremamente precisi. Infatti soltanto il 2 giugno 1890 don Rua promulgherà il decreto che nominava Giovanni Bonetti postulatore della causa di don Bosco.[238]
D’altra parte, don Rua riteneva che i Salesiani dovessero sentirsi fortunati figli di un padre come don Bosco. La loro sollecitudine doveva essere quella di sostenere e, a suo tempo, di sviluppare sempre più le opere da lui iniziate, seguirne fedelmente i metodi e gli insegnamenti, persino nel modo di parlare e di agire, cercando di «imitare il modello che il Signore nella sua bontà ci ha in lui somministrato». Don Rua dichiarava solennemente: «Questo, o Figli carissimi, sarà il programma che io seguirò nella mia carica; questo pure sia la mira e lo studio ciascuno dei Salesiani».[239] Tra le grandi prove della sua vita vi saranno, appunto, alcune radicali modifiche imposte dall’autorità romana alla sua fedeltà assoluta alla linea di don Bosco.
In qualità di Rettor Maggiore, don Rua riceveva da don Bosco un albero dai molti rami robusti, che avrebbe dovuto coltivare e sviluppare, una vera famiglia religiosa insomma, composta dalla Società di san Francesco di Sales, detta dei Salesiani, dall’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice e dalla Pia Unione dei Cooperatori salesiani.
Le statistiche della Società Salesiana contavano allora 768 professi perpetui (di cui 301 sacerdoti), 95 professi temporanei, 276 ascritti (o novizi) e 181 aspiranti (postulanti), il tutto ripartito in 56 case. Oltre all’Oratorio di Valdocco e alle tre case di formazione in Piemonte, le altre 52 case erano raggruppate in 6 ispettorie religiose, dette a seconda della loro regione di insediamento: piemontese, ligure, romana, francese, argentina, uruguaiano-brasiliana. Le case di Spagna, Inghilterra e Austria (Trento) erano ancora dipendenti dall’ispettoria romana.
Don Bosco aveva lasciato ai suoi figli religiosi, un «testamento spirituale» che merita di essere qui riportato, soprattutto perché don Rua lo terrà sempre in grande considerazione dal punto di vista religioso.
Prima di partire per la mia eternità io debbo compiere verso di voi alcuni doveri e così appagare un vivo desiderio del mio cuore. Anzitutto io vi ringrazio col più vivo affetto dell'animo per la ubbidienza che mi avete prestata, e di quanto avete lavorato per sostenere e propagare la nostra Congregazione. Io vi lascio qui in terra, ma solo per un po' di tempo. Spero che la infinita misericordia di Dio farà che ci possiamo tutti trovare un dì nella beata eternità. Colà io vi attendo.
Vi raccomando di non piangere la mia morte. Questo è un debito che tutti dobbiamo pagare, ma dopo ci sarà largamente ricompensata ogni fatica sostenuta per 'amor del nostro maestro il nostro buon Gesù. Invece di piangere fate delle ferme ed efficaci risoluzioni di rimanere saldi nella vocazione fino alla morte.
Vegliate e fate che né l'amor del mondo, né l'affetto ai parenti né il desiderio di una vita più agiata vi muovano al grande sproposito di profanare i sacri voti e così tradire la professione religiosa con cui ci siamo consacrati al Signore. Niuno riprenda quello che abbiamo dato a Dio. Se mi avete amato in passato, continuate ad amarmi in avvenire colla esatta osservanza delle nostre costituzioni.
Il vostro primo Rettore è morto. Ma il nostro vero superiore, Cristo Gesù, non morrà. Egli sarà sempre nostro maestro, nostra guida, nostro modello; ma ritenete che a suo tempo egli stesso sarà nostro giudice e rimuneratore della nostra fedeltà nel suo servizio.
Il vostro Rettore è morto, ma ne sarà eletto un altro che avrà cura di voi e della vostra eterna salvezza. Ascoltatelo, amatelo, ubbiditelo, pregate per lui, come avete fatto per me. Addio, o cari figliuoli, addio. lo vi attendo al cielo. Là parleremo di Dio, di Maria madre e sostegno della nostra Congregazione; là benediremo in eterno questa nostra Congregazione, la cui osservanza delle regole contribuì potentemente ed efficacemente a salvarci.[240]
L’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice, per volontà di don Bosco, era completamente integrato nella Società di san Francesco di Sales. Il Rettor Maggiore dei Salesiani era anche, in forza della Costituzioni, il loro Superiore Generale. Queste Regole ricalcavano la Regola salesiana. Miravano ad assicurare alle suore compiti apostolici analoghi a quelli svolti dai Salesiani a vantaggio dei giovani. Con loro, da dieci anni ormai, avevano fondato opere nell’America del Sud. Ora contavano 390 professe e 100 novizie, con trentacinque case in Italia, quattro in Francia, una in Spagna, sei in Argentina, tre in Uruguay. Un totale di 49 opere, di cui quattro erano sede provinciale, quelle di Torino, di Trecastagni in Sicilia, di Almagro a Buenos Ayres (Argentina) e di Villa Colon a Montevideo (Uruguay). La casa madre di Nizza Monferrato e la casa di Almagro erano provviste di noviziato.
La Pia Unione dei Cooperatori salesiani era stata una creazione di don Bosco nel 1874 e riconosciuta da Pio IX nel 1876. Impossibilitato ad unire alla sua Società membri che vivessero al di fuori della comunità e che praticassero la Regola nella misura delle proprie possibilità, come prospettava in uno dei capitoli del progetto di Costituzioni della Società – uno dei più contestati dalle autorità romane – aveva creato una realtà nuova con un regolamento particolare. Era, nel suo spirito, una sorta di terz’ordine salesiano, con lo scopo principale della santificazione personale non tanto attraverso esercizi di pietà, ma di carità verso i giovani. Naturalmente questi Cooperatori lo avrebbero aiutato, e in modo molto efficace. Da qui sarebbe nata una confusione senza fine tra Cooperatori e benefattori, del resto favorita da don Bosco stesso, che includeva tra i Cooperatori tutti gli abbonati al Bollettino Salesiano. Questa confusione si consolidò nei mesi che seguirono la morte di don Bosco, con una pretesa «Lettera-testamento ai Cooperatori», stampata in un fascicoletto di otto pagine e accompagnata da una circolare di don Rua del 23 aprile 1888, spedita a tutti gli abbonati al Bollettino Salesiano.[241] Si apriva purtroppo con l’intestazione: «Miei buoni benefattori e mie buone benefattrici», specchio dell’idea errata che si era fatto il suo vero redattore, Giovanni Bonetti.[242]
Bisogna notarlo: l’intenzione di don Bosco nel creare questa Pia Unione era soltanto caritativa e sociale. Nel Regolamento del 1876 si affermava chiaramente che «scopo fondamentale dei Cooperatori salesiani è di fare del bene a sé stessi mercé un tenore di vita, per quanto si può, simile a quella che si tiene nella vita comune». E ancora: «Molti andrebbero volentieri in un chiostro, ma chi per età, chi per sanità o condizione, moltissimi per difetto di opportunità ne sono assolutamente impediti. Costoro facendosi Cooperatori salesiani possono continuare in mezzo alle loro ordinarie occupazioni, in seno alle proprie famiglie, e vivere come se di fatto fossero in Congregazione. Laonde dal Sommo Pontefice quest’Associazione è considerata come un terz’ordine degli antichi colla differenza, che in quelli si proponeva la perfezione cristiana nell’esercizio della pietà; qui si ha per fine principale la vita attiva nell’esercizio della carità verso il prossimo e specialmente la gioventù pericolante».[243]
Fedele all’idea madre del suo antico capitolo costituzionale De externis, don Bosco faceva dei suoi Cooperatori una sorta di religiosi nel mondo. Ma queste sfumature sfuggivano ancora ai collaboratori di don Rua, mentre assumeva la responsabilità di tutta la famiglia salesiana. Egli stesso le avrebbe scoperte rapidamente, come si vedrà al Congresso dei Cooperatori di Bologna.
I Cooperatori si contavano allora a migliaia in Italia e in Francia. Numerosi membri del clero erano entrati nelle loro file, come molti laici di ogni condizione: nobili, borghesi, artigiani, commercianti o contadini. L’associazione si era aperta alle donne. I Cooperatori costituivano, secondo la formula di don Ceria, la longa manus della Congregazione in seno alla società. Don Rua avrebbe fatto ricorso alla Pia Unione dei Cooperatori sforzandosi di organizzarla bene. Ma bisognerà attendere due generazioni per realizzare correttamente l’idea madre di don Bosco sul terz’ordine salesiano, che, nel suo spirito, era un esercito di benefattori devoti.
A tutti costoro, ma particolarmente ai Salesiani e alle Figlie di Maria Ausiliatrice, don Rua voleva mostrarsi come padre amorevole, così come aveva saputo esserlo don Bosco, che gli aveva sussurrato all’orecchio sul letto di morte: «Fatti amare!». Si sarebbe messo intelligentemente sui passi del suo maestro spirituale, la cui immagine l’avrebbe accompagnato lungo tutto il rettorato. Voleva comunicare l’idea che don Bosco non se n’era andato dall’Oratorio. Per questo lasciò intatta la camera in cui era spirato, collocò il suo ufficio nella stanzetta attigua, dove don Bosco riceveva negli ultimi tempi. Unica modifica all’arredamento fu la sistemazione di un canapè che ogni sera trasformava in branda per il riposo della notte.[244]
15 – GLI ANNI DELL’APPRENDISTATO (1888-1892)
Il cardinale Gaetano Alimonda non si sbagliava quando, nell’orazione funebre pronunciata in Maria Ausiliatrice il 1° marzo 1888, trenta giorni dopo il decesso di don Bosco, affermò che egli continuava a vivere e operare in Torino. «Dio non ci diede il cuore solo per piangere; ci diede cuore, mente, fantasia per surrogare al pianto il soave conforto, ci diede una potenza meravigliosa di riparazione, quella di ricostruire nelle nostre idee, nella nostra immaginazione e nel nostro affetto l’immagine delle persone che non sono più, di rivestirle, di ricolorarle come se fossero cosa viva, riportandocele sotto allo sguardo. Io voglio dunque vedere l’amico, il benefattore, il padre, vedere e salutare Giovanni Bosco. […] La morte, io non so, nel rapircelo, nel celarlo, lo cinse quasi di un’aureola. Lo vedrò pertanto con più di rispetto che non prima, ma sempre col medesimo affetto tenero, sempre col medesimo cuore innamorato».[245] Se c’era uno che, più di ogni altro, percepiva al suo fianco questa presenza aureolata di don Bosco, era senza alcun dubbio il nostro don Rua. Lo supplicava di non abbandonarlo mai.
Infatti si sforzava di essere un altro don Bosco. Per mesi continuò a riunire il Capitolo Superiore nella stessa camera dove egli era spirato. La sua ombra tutelare continuava ad essere presente attraverso la volontà del successore. Proteggeva con la sua autorità divenuta invisibile le decisioni che si prendevano. Certo, i loro temperamenti erano diversi. Ci si avvicinava meno facilmente a don Rua, che era sobrio ed essenziale, rispetto a don Bosco sempre affabile. Ma il consiglio ripetuto dal maestro in fin di vita, «Fatti amare!», non smetteva mai di riecheggiare in lui e di portar frutti. Don Rua non si abbandonò mai alla collera e nemmeno a scatti di voce inopportuni. Sapeva manifestare il suo disaccordo, inevitabile in certe situazioni, ma lo esprimeva con una calma tale da non irritare mai chi contraddiceva.
Il 24 giugno, festa di san Giovanni Battista, ricordava a tutti gli figli di Valdocco, soprattutto agli ex-allievi, i festeggiamenti tradizionali in onore del padre e maestro. Si decise di continuare la manifestazione, festeggiando il successore Michele Rua. Nel 1888, anno di lutto, non si fece nulla. Ma nel 1889 le cose cambiarono. Il 22 giugno in preparazione della festa, a Valsalice venne inaugurata la cappella funeraria di don Bosco, alla presenza di duemila persone. Il giorno successivo, alle 5 del mattino don Rua celebrava la prima messa in quella cappella, che gli sarà tanto cara. Gli «antichi allievi dell’Oratorio salesiano» fecero stampare un fascicoletto: «Alla venerata memoria di D. Giovanni Bosco ed all’amato D. Michele Rua».[246] Tra il 23 e il 24 giugno i festeggiamenti si svolsero a Valdocco, con discorsi e omaggi il 23 e un’accademia musico-letteraria il 24. Come testimonianza significativa di quelle giornate, ci restano alcuni documenti: un album pubblicato dagli ex-allievi,[247] un quaderno di «Comunioni e visite al SS. Sacramento offerte dagli alunni del Collegio di Spezia pel loro amato Padre D. Michele Rua»,[248] un album di sedici pagine, «A don Rua Michele, i suoi figli di Alassio», con le firme di professori, allievi e Figlie di Maria Ausiliatrice,[249] e, soprattutto un grande foglio a stampa, intitolato: «Omaggio di filiale affetto e riconoscenza a D. Michele Rua il 23 giugno 1889, giorno degli annuali festeggiamenti a D. Giovanni Bosco», con un inno di circostanza in dodici strofe firmato G.B.L., cioè Giovanni Battista Lemoyne, poeta ispirato dalle grandi occasioni. Molte strofe commossero profondamente l’austero don Rua, sempre preoccupato di rimanere fedele all’immagine lasciata da don Bosco.[250]
Tergete le lagrime,
Cessate i lamenti,
Sull’arpe ritornino
Gli antichi concenti;
D’amore ripetansi
Le note giulive,
D. Bosco ognor vive,
Ei morto non è.
Fanciullo, rallegrati,
Di varia regione,
Le porte non chiudonsi
Di questa magione,
Ei vive nel Presule
Che Dio volle darte
Trasfuse la parte
Migliore di sé.
[…]
A te dunque o Presule,
Che ognor Padre ci sei,
Dal cuore si elevino
I cantici miei;
Che abbiam sempre nosco
Del caro D. Bosco
La mente ed il cuor.
È suo quel sorridere
Che in volto ti splende,
È sua quell’amabile
Parola che scende
Dal tuo labbro all’anima:
È suo quello sguardo
Che infonde nel tardo
Mio spirto l’ardor.
[…]
La festa diventerà una tradizione. Il 23 e il 24 giugno si continuerà a festeggiare simultaneamente don Bosco e il successore. Il nostro don Rua, senza lasciarsi lusingare dagli elogi di circostanza, era persuaso di trovarsi sulla buona strada, quella tracciata dal suo Padre e Maestro.
Dopo la morte di don Bosco le offerte erano diminuite. Nell’estate 1888, durante gli esercizi spirituali, don Rua spiegò ai direttori che dalla fine di gennaio le donazioni si erano dimezzate. Don Bosco conosceva il segreto per “far aprire le borse”. Il successore avrebbe dovuto darsi molto da fare per supplirlo, in questo come in tutti gli altri campi. Ora i debiti della Direzione centrale salesiana, secondo don Ceria, ammontavano a seicentomila lire, cifra enorme per la Congregazione. Si imponeva un’economia drastica. La prima lettera circolare di don Rua ai direttori ordinava loro, come sappiamo, di sospendere i lavori di costruzione, di non aprire nuove case, di non fare altri debiti e di impiegare tutta la loro sollecitudine «per pagare la successione, estinguere le passività, completare il personale delle case esistenti».[251]
Il 10 marzo 1888 don Rua inviava ai Cooperatori e ai benefattori una circolare, implorando il loro aiuto per «le centinaia e migliaia di poveri infelici sparsi in diverse parti del mondo».[252]
La Direzione della Congregazione doveva estinguere i debiti contratti colla costruzione della chiesa del Sacro Cuore a Roma. Don Dalmazzo, per mancanza di fondi, aveva dovuto sospendere i lavori per la costruzione dell’ospizio voluto da don Bosco accanto alla chiesa. Inoltre comportavano spese considerevoli anche le spedizioni missionarie, riprese l’11 marzo e il 30 ottobre 1888, in attesa del più consistente invio del 7 gennaio 1889, che mobilitò trenta Salesiani e venti Figlie di Maria Ausilitrice.
Per finanziare l’ospizio romano venne creata la «Pia Opera del Sacro Cuore». Don Rua imparò l’arte di tendere la mano, come vediamo nella prima strenna ai Cooperatori del gennaio 1889. In essa, imitando don Bosco, fece il resoconto di quanto si era realizzato nell’anno trascorso e presentò i progetti per il futuro. Dopo un lungo paragrafo sulla «carità», intesa come «mezzo efficace per sostenere le Opere», offriva ai Cooperatori tre consigli pratici:
1° Mettiamo tutti i giorni, o almeno tutte le settimane o tutti i mesi qualche cosa in disparte, per sostenere le opere di beneficenza e di religione. Questo già suggeriva di fare l'apostolo san Paolo ai primi cristiani, in sollievo degli indigenti (1 Cor 16, 1-2). 2° Facciamo di quando in quando qualche sacrifizio e risparmio a tale uopo, ora in un viaggio, ora in un divertimento, ora nell'acquisto di una veste o di un abito e simili, ora nella cucina, rendendola più economica, e via dicendo [...]. 3° Chi intende di lasciare qualche parte del fatto suo a vantaggio delle opere di carità, prenda il consiglio di farlo sua vita durante; lasci anche più poco, ma si assicuri in tal modo che la sua volontà si eseguisca, direi quasi, sotto i suoi occhi...[253]
Un grattacapo imprevisto si verificò alla fine del 1891, quando gli agenti del fisco di Torino informarono don Rua che, in qualità di proprietario delle case d’Italia, da cui dipendevano sia la Società Salesiana, sia l’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice, era titolare di un reddito imponibile di 322.500 lire. Fu l’inizio di una lunga controversia. Don Rua, assistito dall’avvocato Carlo Bianchetti, presentò ricorso alla commissione comunale. Seguì tutta una serie di condanne, dapprima quella del Tribunale di Torino, poi quella della Corte d’appello e della Corte di cassazione di Torino. Ma, seguendo l’esempio di don Bosco in circostanze simili, non si dette per vinto e fece ricorso alla Corte suprema di Roma. Nello stesso tempo, senza trascurare i mezzi umani, si affidava alle preghiere dei confratelli. Il suo segretario particolare Angelo Lago era parente di Giovanni Giolitti (1842-1928), allora capo del governo. Gli fece dunque esporre al ministro lo stato della questione. Giolitti riferì alla Corte suprema e chiese ai membri il loro parere. Lasciarono le mani libere al loro presidente, che impartì i dovuti ordini agli agenti del fisco affinché smettessero di molestare don Rua. Poco dopo, venuto a Torino, il Presidente volle ricevere il successore di don Bosco e comunicargli personalmente il risultato della controversia. Fu un grande conforto per lui, sempre a corto di denaro.[254]
Gli studi ecclesiastici di filosofia e di teologia non erano stati una priorità per don Bosco, che aveva conservato un ricordo non esaltante di quelli fatti un tempo nel seminario di Chieri. Le dispute speculative lo facevano dormire, arrivò a dire a proposito di Rosmini. Aveva preso interesse solo per la pratica del sacramento della penitenza, la storia sacra e la storia della Chiesa, materie trascurate nei seminari dell’epoca. Le critiche alle scarse conoscenze filosofioche e teologiche dei Salesiani non erano dunque mancate. Don Bosco si era fatto pregare, prima di introdurre un capitolo sull’argomento nelle Costituzioni. Ad eccezione di don Luigi Piscetta, che si specializzò in teologia morale, gli uomini di cultura della cerchia di don Rua si chiamavano Giovanni Battista Francesia, Celestino Durando, Giovanni Cagliero, Giovanni Battista Lemoyne e Giulio Barberis, erano artisti o letterati, non filosofi o teologi. Il più competente sembra essere Francesco Cerruti, al quale sarà presto offerta la responsabilità generale degli studi salesiani.
Papa Leone XIII non ignorava questa critica situazione. All’indomani della morte di don Bosco, espresse a mons. Manacorda il desiderio di un rinnovamento intellettuale della Società Salesiana attraverso la formazione di uomini applicati alle scienze speculative. Il verbale del Capitolo Superiore del 21 agosto 1888 ci informa che suggerì di mandare qualche giovane all’Università Gregoriana di Roma. Don Rua passò subito all’azione. Nel nuovo anno accademico inviò alla Gregoriana i diaconi Giacomo Giuganino e Angelo Festa, che presero dimora nell’ospizio del Sacro Cuore. Poi, il 29 gennaio 1889, spedì una breve intensa circolare ai direttori unicamente dedicata al problema dello studio teologico nelle case.[255]
La questione degli studi ecclesiastici avrebbe monopolizzato il quarto Capitolo Generale tenuto a Valsalice nel settembre 1889. Per comprendere il dibattito, è opportuno rendersi conto della situazione del tempo, fortunatamente superata. Nella Società Salesiana c’erano studentati filosofici dove i chierici seguivano corsi tenuti da ottimi insegnanti. Appena usciti, questi giovani passavano allo studio della teologia. In assenza di centri di studio appositi, la loro formazione dipendeva dalle risorse più o meno aleatorie delle case alle quali erano destinati. Pochi privilegiati, come abbiamo visto, frequentavano la Gregoriana. Qualche altro seguiva corsi nei seminari diocesani. Là dov’era possibile riunirne un certo numero, come all’Oratorio di Torino, a Valsalice, a Marsiglia o a Buenos Aires, si organizzavano lezioni con professori Salesiani o esterni. Ma nelle case isolate, che andavano sempre più umentando, l’insegnamento era affidato ai preti del luogo. La Regola prevedeva che, qualsiasi fosse la loro situazione, i chierici sostenessero gli esami due o tre volte all’anno (la terza per i trattati studiati nelle vacanze) davanti a esaminatori designati dal consigliere scolastico generale o dai rispettivi ispettori. Va inoltre detto che si studiava teologia non a partire dall’insegnamento di un docente, ma su manuali di cui bisognava memorizzare il contenuto.
Nel corso della prima sessione del quarto Capitolo Generale, il 3 settembre 1889, si affrontò lo schema intitolato: «Studi di teologia e di filosofia. Conviene cambiare i libri di testo, quali proporre? Quali miglioramenti apportare allo studio della filosofia, della teologia e dell’ermeneutica biblica?». Fu subito auspicata la costituzione di veri e propri studentati teologici. Nel frattempo era necessario migliorare lo stato delle cose. Molto dipendeva dalla scelta dei manuali di teologia. La commissione responsabile, presieduta da Francesco Cerruti, discusse sul Compendium theologiae del gesuita Giovanni Perrone, giudicato troppo difficile, e sull’edizione della Theologia moralis universa di Pietro Scavini curata da Giovanni Antonio Del Vecchio. Ma non fu possibile raggiungere un accordo sulla sostituzione del testo del Perrone che tutti auspicavano. La decisione, rimandata al Consiglio superiore, si protrasse anche dopo il Capitolo Generale, fino al 24 ottobre. Vennero allora proposte tre opere, ad esperimento per un anno scolastico: la teologia dogmatica di mons. Federico Sala (1842-1903) per l’Oratorio, il compendio del gesuita Hugo Hurter (1832-1914) per lo studentato di Valsalice e il manuale del gesuita François Xavier Schouppe (1823-1904) per la casa di Marsiglia. Alla fine la Medulla Theologiae Dogmaticae (la quintessenza della teologia dogmatica) dell’Hurter ebbe la meglio. Era la sintesi in un volume di tre tomi intitolati Theologiae dogmaticae compendium (Innsbruck, 1876-1878), un manuale di teologia dogmatica, che aveva avuto grande fortuna nei seminari per la vasta documentazione, la chiarezza e la preoccupazione di stabilire un legame con la pastorale. La Medulla sembrava il testo più adatto alle possibilità dei modesti studenti salesiani dell’epoca, spesso obbligati, lo abbiamo capito, a cavarsela più o meno da soli, con tesi che non li entusiasmavano più di tanto.
Segno di una certa preoccupazione in merito fu la circolare agli ispettori del prefetto generale Domenico Belmonte, datata 28 gennaio 1890, nella quale a nome di don Rua chiedeva la lista delle case in cui non si tenevano corsi di teologia.[256] Alla fine del 1891 don Rua informava gli ispettori che «in certi collegi i corsi di teologia e di liturgia» erano «molto trascurati». Raccomandava loro: «Insistete perché questi corsi siano regolarmente assicurati e gli si dia tutta l’importanza che meritano».[257] Nella maggioranza dei casi, infatti, i chierici salesiani ingurgitavano lezioni per semplice dovere e senza reale profitto. Risultato deplorato da don Rua in una lettera ai direttori sullo studio della teologia: agli esami si constatava una «deficienza nella perfetta comprensione» delle tesi studiate e una conseguente incapacità di esporle in modo «chiaro e preciso».[258] La formazione degli studenti di teologia rimarrà una preoccupazione costante per don Rua. In questo era sostenuto efficacemente dal consigliere scolastico Francesco Cerruti, come testimonia la raccolta delle lettere circolari e dei programmi di insegnamento tra gli anni 1885 e 1917, pubblicata da José Manuel Prellezo.[259]
Il mondo salesiano, maschile e femminile, era costituito in gran parte da insegnanti. In una circolare ai Salesiani sugli studi letterari, datata 27 dicembre 1889, don Rua richiamò con forza l’esempio di don Bosco. Infatti, si erano manifestati seri dissensi nel personale scolastico salesiano d’Italia sul sistema di insegnamento e sui classici latini. Don Rua ricordò il prudente intervento del santo nella disputa scoppiata quarant’anni prima tra l’abate Gaume e mons. Dupanloup. La discussione era stata orchestrata dal polemista cattolico Louis Veuillot, paladino della libertà d’insegnamento, con la pubblicazione, nel 1852, di un libro intitolato il Ver rongeur ou le paganisme dans l'éducation (il verme roditore o il paganesimo nell’educazione). Questo tarlo roditore, a suo parere, era inoculato nella gioventù dallo studio dei classici latini e greci. Anche il papa Pio IX aveva dovuto occuparsene. Piuttosto che denigrare gli autori latini cristiani, come san Girolamo, don Bosco aveva esortato i suoi ad esaltarne le incontestabili qualità. Poiché era necessario seguire i programmi classici, si era adoperato per la pubblicazione di una selezione di autori profani, debitamente purgati da ciò che poteva essere contrario ai buoni costumi. Se vogliamo essergli fedeli, concludeva don Rua, uniamoci nell’applicare i suoi principi. Gli autori classici profani sono necessari per apprendere l’eleganza della lingua, ma gli autori latini cristiani sono alrettanto necessari perché veicolano «la verità». I maestri dunque sappiano valorizzare gli scritti dei Padri della Chiesa.
C’era stata una discussione anche sulla lingua italiana. Alcuni erano infatuati dello stile classico, altri sostenevano un uso della lingua modellato sugli autori moderni, dunque ritenevano necessaria la lettura delle loro opere. Anche qui, don Rua fece appello a don Bosco, che aveva studiato i classici italiani al punto di poter recitare ancora in vecchiaia lunghi brani di Dante. Ma questo tipo di letteratura non conveniva alla gioventù. Così, quando ce ne fu bisogno, aveva fondato la Biblioteca dei classici italiani per la gioventù, debitamente selezionati e purgati. Chi avesse messo nelle mani dei giovani le opere moderne nella loro integralità, sosteneva don Rua, sarebbe certamente andato contro la volontà di don Bosco. Si era appreso, con rammarico, che in alcune case erano stati introdotti libri di autori contemporanei, «conosciuti per la loro opposizione ed odio alla religione alla moralità». Già il 21 settembre 1888, il Capitolo Superiore aveva deplorato l’introduzione nella casa di noviziato di opere di Carducci e Leopardi.[260] «Come soffriva don Bosco – scrive don Rua – quando veniva a conoscenza di cose del genere!», lui che, all’inizio di ogni anno scolastico, esigeva da ciascun allievo la lista dei libri per eliminare preventivamente le opere pericolose.
Infine, concludeva il successore di don Bosco, guardiamoci dal censurarci gli uni gli altri. Un maestro non critichi l’altro sul modo di insegnare e sulle materie che spiega. Ci si parli direttamente o si facciano intervenire gli amici. «Che la carità e la grazia di Nostro Signore Gesù Cristo regnino sempre nei nostri cuori», augurava don Rua al termine della circolare.[261]
Una decina di giorni più tardi, il 6 gennaio 1890, spediva una circolare parallela, destinata alle suore salesiane, le sue «care figlie in Gesù Cristo». Intendeva metterle in guardia dai gravi pericoli che minacciavano consorelle e allieve, sia interne che esterne. Gli pareva che l’inondazione di giornali cattivi e di pessimi romanzi costituisse una delle piaghe più gravi della società moderna. Questa stampa perversa era diffusa nelle città, nei paesi e persino nella profonda campagna tramite librerie, chioschi e spedizioni postali. Anche qui si appellava a don Bosco per indicare il rimedio contro tale flagello: egli conosceva bene la letteratura italiana non ne ignorava gli scogli; per questo aveva fatto pubblicare edizioni epurate dei classici adatte ai giovani. Don Rua suggeriva, dunque, alle insegnanti di non citare mai in classe un libro cattivo o, peggio tesserne gli elogi. Se necessario, invece, esaltassero la sana dottrina per prevenire i danni. In linea generale, bisognava sempre fornire l’antidoto contro le opere perniciose raccomandando buone letture, come quelle pubblicate nella collana Letture Cattoliche. La lettera si concludeva con consigli pratici agli insegnanti e soprattutto ai catechisti: mai violenza, mai umiliazioni, curare di preferenza i più deboli, evitare assolutamente la critica reciproca.[262]
Don Rua, dunque, inseriva tra i suoi compiti di Rettor Maggiore dei Salesiani e delle salesiane una sorta di magistero intellettuale.
Ispettori e direttori costituivano per i confratelli gli intermediari indispensabili del Rettor Maggiore. Fin dalla prima seduta del quinto Capitolo Generale del 1889, dava loro consigli operativi, che il segretario del Capitolo registrò con cura, e che rivelano nella loro semplicità le sue idee sul buon governo della Società.
I direttori sono come luminari in mezzo agli altri: Constitui te in lumen gentium [Ti ho costituito come luce per le nazioni]. I subalterni osservano il direttore in tutto, anche nelle piccole cose, nel parlare, nal trattare, nel giudicare. Così avere esperimentato egli stesso. Ciò li deve tenere in apprensione e metterli in guardia, onde siano modelli di attività, puntualità, ecc. Perciò i direttori celebrano, come è richiesto, pie, devote et attente [in modo pio, devoto e attento], come modelli di pietà. Dicano il breviario anche nel modo e nel luogo conveniente, dove non siavi pericolo di distrazioni. Il direttore sia esemplare di pietà. Si trovi presente alla meditazione, alla lettura, e se non può regolarmente, almeno quando può, onde possa vedere anche se intervangano i confratelli, come vi stiano ed avvisarli opportunamente. Così faccia per l’esercizio della buona morte, ecc. […]
Tra le principali cose richiama l’attenzione sull’art. 1° dei Consigli confidenziali lasciati dal caro Don Bosco ai direttori: Niente ti turbi, come praticavano S. Teresa e S. Francesco di Sales. Così: 1) conserveranno la serenità in tutto, per giudicare e decidere sulle cose della casa e che ci appartengono; 2) eguaglianza di umore, tanto necessaria e di tanto profitto. Ciò dà confidenza e guadagna il cuore dei dipendenti.
I direttori precedano altresì gli altri nel lavoro. Già si fa assai, e non può se non ringraziare il Signore. Deo gratias! Avvertano però di non volere far tutto essi. Specialmente si studino di distribuire il lavoro agli altri. Ciò è fondamento di buon ordine. In un laboratorio se il capo lavora lui solo, lavora con due braccia; se distribuisce il lavoro, lavora con le mani di tutti.
Nel fare qualche cosa di particolare fuori di casa, se ciò lo disturba nel disimpegno del proprio ufficio, [il direttore] se ne esoneri.
Attenda ad osservare i registri del prefetto; se il catechista fa il suo dovere; attenda ai maestri, ai laboratori. Se potrà tenersi lontano da occupazioni fisse avrà tempo a guidarli meglio. Questa è e fu sempre raccomandazione di D. Bosco, e specialmente deve farsi coi nuovi confratelli che vengono dallo studentato. Tal modo non istancherà il direttore, e farà ben contenti i subalterni.[263]
Ma chi non vedeva in questo ritratto del direttore ciò che don Rua stesso intendeva essere all’interno del Capitolo Superiore? Tutti sapevano come egli fosse d’esempio nel lavoro e nella pietà. Era un punto di riferimento per i suoi stretti collaboratori. E sapeva distribuire i compiti in modo eccellente.
Nel 1893, dopo la morte di don Bonetti (1891) e la sua sostituzione con don Albera, il Capitolo Superiore era così composto: Domenico Belmonte, prefetto generale; Paolo Albera, direttore spirituale; Antonio Sala, economo; Francesco Cerruti, consigliere scolastico; Giuseppe Lazzero, consigliere professionale; Celestino Durando, consigliere (di fatto, questo consigliere senza portafoglio era ispettore di una provincia sui generis detta di Tutti i Santi, che comprendeva case sparse in Svizzera, Spagna, Inghilterra, Polonia, in attesa di altre fondazioni in Africa e Asia); infine Giovanni Battista Lemoyne, segretario. Al Capitolo vero e proprio venivano aggiunti anche il maestro dei novizi Giulio Barberis, il procuratore generale di Roma Cesare Cagliero, e il vicario generale per le Figlie di Maria Ausilitrice. Il Rettor Maggiore si interessava al lavoro di ciascuno, ma attento a non invadere le competenze altrui. Lo si può vedere, per esempio, nei rapporti con don Cerruti, don Durando o don Barberis. Anche in ciò si mostrava fedele discepolo di don Bosco, il quale voleva a capo della sua Società non un presidente circondato da ministri che formavano il suo consiglio, ma un «Capitolo Superiore», cioè un collegio il cui presidente sarebbe stato solo il primus inter pares. Merita la pena citare un esempio. Il 25 maggio 1888, il Capitolo Superiore dibatté la proposta di don Alberione di cedere la sua tipografia ai Salesiani. L’accettazione avrebbe comportato la stampa del giornale l'Osservatore cattolico. Don Rua propendeva per l’accettazione. Cagliero si dichiarò contrario: don Bosco, ricordava, non voleva assolutamente che si stampasse un giornale. E il Capitolo si allineò con l’opinione di Cagliero. La Congregazione si estese e si affermò sotto il rettorato di don Rua, grazie alla sua determinazione, ma anche alla saggezza della sua direzione collegiale.
Teneva ben salde nelle mani le redini del potere, come dimostrano, fin dai primi mesi del rettorato, le «Norme» stabilite per ispettori e direttori «sull’uso del libro dei privilegi» (8 giugno 1888)[264] e sui «resoconti amministrativi» (29 novembre 1888),[265] ma anche la sua richiesta agli ispettori, attraverso la mediazione del prefetto generale, di fare tra dicembre e gennaio la visita di ogni casa, di verificare le proprietà di ogni confratello, di far redigere agli anziani il testamento e inviarne copia a Torino.[266] Queste leggi, certamente elaborate con il Capitolo Superiore, erano debitamente firmate e responsabilmente fatte proprie dal Rettor Maggiore.
16 – LA VITA QUOTIDIANA DEL RETTORE A VALDOCCO
La giornata di don Rua a Torino iniziava sistematicamente con la meditazione comunitaria, alle cinque e mezzo in inverno e alle cinque in estate. Dopodiché si metteva nel confessionale della vecchia sacrestia. C’erano altri confessori in chiesa, ma quasi tutti i confratelli e, secondo don Ceria, la maggioranza degli artigiani e degli studenti che assistevano alla messa in due momenti successivi, si confessavano da lui. Le confessioni duravano fino alle otto, ora in cui egli celebrava la messa.
Al processo di canonizzazione di don Rua, alcuni ex-figli spirituali parlarono della loro esperienza personale. Discreto nelle domande, breve e conciso nei consigli, don Rua confessore faceva riferimento alla liturgia e al santo del giorno. Gli capitava spesso di richiamare consigli dati in precedenza, cosa che conferiva continuità alla sua direzione spirituale. Troviamo a questo proposito due testimonianze nel processo diocesano di canonizzazione. La prima è di don Rigoli, prevosto di Somma Lombardo: «Fu anche mio confessore, presentandomi a lui soventissimo. Aveva tutta la mia confidenza, come pure quella di molti altri miei compagni. Colla mia esperienza d’oggi, ripensando a quella direzione, dico che era veramente illuminata e di sacerdote tutto di Dio».[268] L’altra testimonianza è del professor Pietro Gribaudi: «Ispirava una grande confidenza, sicché, nonostante la sua apparente austerità, si ricorreva a lui come confessore con animo aperto. Quando in qualche circostanza della vita sentivo il bisogno di un esame completo di tutti i miei atti ricorrevo a D. Rua e sempre dopo la confessione mi sentii profondamente sollevato».[269] Al processo apostolico, il salesiano Melchiorre Marocco depose: «Io che l’ebbi per circa dieci ani moi direttore spirituale, lo trovai sempre di una carità, di una prudenza, di una saggezza e di una pietà veramente ammirabili».[270] Aveva un’altissima considerazione del suo ministero di confessore e non tollerava di essere disturbato mentre lo esercitava. Un giorno stava confessando e vennero ad avvertirlo che una personalità di alto rango chiedeva di incontrarlo; replicò aspramente che non bisognava chiamarlo quando era in confessionale, per qualsiasi motivo.
Egli stesso, ogni lunedì, al più tardi il venerdì, dopo aver ascoltato la confessione di don Giovanni Battista Francesia, gli cedeva il posto e, in ginocchio, si confessava con lui di fronte a tutti quelli che attendevano il loro turno. Durante i viaggi, quando giungeva il giorno della sua confessione, pregava un confessore salesiano di ascoltarlo. Talvolta chi era coinvolto, piuttosto imbarazzato, cercava modo per schivarlo; ma don Rua, seriamente e fermamente gli faceva capire che non era il momento di fare cerimonie.
Terminate le confessioni e celebrata la messa, si ritirava in ufficio e dava udienza fino a mezzogiorno. Riceveva tutti quelli che desideravano parlargli. Talvolta erano eminenti personaggi, Salesiani e suore, signore e signori, spesso benefattori, ma anche e di frequente povera gente del popolo. Chi gli chiedeva consiglio, chi conforto, altri imploravano soccorso. Traspariva sul suo viso la partecipazione che dimostrava per le sofferenze altrui. Ascoltava pazientemente interminabili confidenze, per dare alle anime afflitte la gioia di potersi esprimere. Si commuoveva nel sentire il racconto delle disgrazie altrui. Molte persone, che i segretari avevano visto entrare in ufficio pensierose, preoccupate e tristi, ne uscivano con il volto trasformato. Le entrate e le uscite si succedevano senza sosta per tre ore. La sua fede viva e la sua ardente carità davano efficacia alle parole. Don Ceria riporta la relazione di un prete salesiano scrupoloso che aveva spesso bisogno di una voce amica per sostenersi: «La mia penna è incapace di esprimere veramente, come vorrei, le attenzioni delicate nei miei riguardi di questo santo e fedele servo di Dio, per dire di quale squisita e delicata carità il suo cuore era animato verso l’ultimo dei suoi figli». Si udì un’anima buona un po’ semplice gridare: «Se è così dolce conversare con i santi, chissà come sarà dolce trovarsi di fronte a Dio!».
Don Rua scriveva molto. Il fondo dell’archivio salesiano centrale che racchiude solo una minima parte della sua corrispondenza, annovera per esempio, tra gennaio e dicembre 1889, quarantadue lettere inviate a Cesare Cagliero, suo procuratore a Roma. Questa corrispondenza – ancora insufficientemente raccolta e studiata – ci consegna un aspetto caratteristico del suo metodo di governo. Come Rettore, conservò l’abitudine delle relazioni personali con tutti i confratelli indistintamente. I legami erano stati facili quando la Congregazione non contava che qualche decina di membri. Le relazioni personali divennero complicate quando si avvicinarono al migliaio. I Salesiani non erano ancora novecento alla morte di don Bosco. Don Rua divenuto Rettore, tentò di mantenere legami personali anche quando il numero superò il migliaio. Non contento di tenere i contatti con la Congregazione attraverso lettere circolari collettive molto paterne, gli sarebbe piaciuto coltivare la stessa intimità con ciascuno, persino con gli sconosciuti, attraverso corrispondenze individuali dirette o indirette. Tutti sapevano di potergli scrivere in piena libertà, sicuri di non rimanere senza risposta. Ci si rivolgeva a lui per parlare di bisogni reali o immaginari, per confidare le proprie pene, per esprimere un desiderio. Quando alcuni sembravano volersi eclissare, rompeva il ghiaccio per primo, invitandoli a dargli notizie.
Una corrispondenza personale così abbondante, sommata a quella d’ufficio, significava un gran numero di lettere quotidiane, che i suoi poveri occhi malati leggevano con cura e alle quali rispondeva o faceva rispondere secondo i casi. Tale lavoro richiedeva tempo e libertà. Perciò tra le ore 15 e le 17, talvolta si ritirava in casa di qualche benefattore dove non sarebbe stato disturbato. Là si dedicava a rispondere agli affari più urgenti. Le persone che lo ospitavano erano felici di mettere a sua disposizione una stanza per scrivere indisturbato. Spesso queste due ore non gli bastavano, allora doveva dedicare una parte della notte per sbrigare la corrispondenza.
Non è necessario leggere molte lettere per riconoscere il suo stile piuttosto secco. Un gran numero di esse era opera dei segretari che, come lui, non cercavano di fare letteratura. Uno studio coscienzioso di questa corrispondenza dovrebbe tenerlo presente. Mi sembra che non si trovino più nelle sue lettere da Rettor Maggiore le formule spesso brusche di quando era prefetto generale nel decennio 1870-1880. Ma don Rua non fu mai un letterato. Ha ragione don Ceria a scrivere che si cercherebbe invano nelle lettere del Rettore qualche guizzo di immaginazione, qualche originalità nella forma o nelle idee. Per ragioni di risparmio, le sue corrispondenze spesso venivano scritte su ritagli di carta. Anche le lettere personali erano rapide. Tuttavia concordiamo volentieri con il biografo, che ammirava lo stile tranquillo, l’amabilità e l’apertura di un’anima semplice e sobria, ma schietta e cordiale che da esse traspare. Facevano riflettere e commuovevano chi le riceveva. Don Ceria parla di un «linguaggio del cuore».
Riporto due lettere autografe che mi paiono significative, una scritta agli inizi del suo mandato come Rettor Maggiore, l’altra verso la fine. La prima è una risposta del 5 giugno 1892 al don Louis Cartier (1860-1945), direttore della casa di Nizza. Un pizzico di umorismo – forse involontario – sulla «benedizione» delle medagliette da parte di don Bosco, morto quattro anni prima, le conferisce un certo che di pungente.
Carissimo don Cartier,
Rispondo solo ora alla gradita tua del 24 maggio.
1. Ti spedisco 12 medaglie benedette dal Santo Padre, come mi chiedi. Sono le ultime che ancor mi rimanevano. Mandale a quella Signora che le chiedeva benedette da Don Bosco e dille che furono sul letto di lui.
2. Non ho potuto leggere l’articolo sull’Oratorio di San Giuseppe; ma spero andrà bene.
3. Quanto alla Visitazione si potrebbe provare don Canepa. Chi sa che un po’ di moto non possa fargli bene?
4. Spero che la vostra festa di Maria Ausiliatrice sia riuscita bene. Io ve ne auguro le più elette benedizioni, mentre mi ripeto tuo affezionato in Gesù e Maria
sacerdote Michele Rua.[271]
Il secondo esempio è la risposta del 7 marzo 1907 a una lettera dell’ispettore di Bogotà (Colombia), Antonio Aime (1861-1921), ottimo missionario.
Carissimo Don Aime,
Molto mi consola la buona notizia che mi dai della guarigione del caro nostro confratello: voglia Maria Ausiliatrice compiere l’opera con ristabilirlo perfettamente, se sarà per il bene dell’anima sua e degli altri. In questa tua del 27 gennaio mi accenni all’inconveniente di articoli inseriti in novembre e dicembre nel Bollettino: pareva che si potesse fare stantechè la materia di quegli articoli si ricavava quasi interamente dalle informazioni pubblicate costì probabilmente per ordine od almeno col consenso del governo; visto però quanto ora ci scrivi, tralasceremo di parlarne per l’avvenire. Ci chiedi tre sacerdoti; ma dove possiamo prenderli? Molti altri ci sono chiesti da parecchie altre parti; ma dobbiamo a tutti rispondere egualmente: non possiamo, non abbiamo: fatevi coraggio; cercate far fuoco col vostro legno, ed intanto limitate le vostre imprese a misura delle vostre forze. Non mancherò però di pregare per voi.
Il tuo affezionatissimo in Gesù e Maria
sacerdote Michele Rua.[272]
Don Rua si curava sempre di edificare spiritualmente il destinatario. Se era vicina una festività religiosa, non mancava di farvi allusione. Aveva attenzioni delicate per i corrispondenti in occasione di feste o anniversari. Esaudiva richieste un po’ curiose. Un chierico dell’Ecuador, ad esempio, desiderava una dozzina di manuali per l’insegnamento del canto liturgico; don Rua glieli fece spedire subito. Dal collegio di Randazzo, in Sicilia, don Trione gli chiedeva un inno di circostanza, per la celebrazione della prossima festa del direttore Pietro Guidazio (1841-1902). La musica era già composta e don Rua si affrettò a far scrivere i versi che desiderava e inviarli in modo che arrivassero in tempo.[273] Aveva molte trovate paterne. Michele Borghino (1855-1929), giovane direttore in Uruguay, predicava ai confratelli la dolcezza e la mansuetudine di san Francesco di Sales e di don Bosco, ma aveva fama meritata di agire in senso contrario. Vide un giorno arrivare da Torino un pacco postale, il cui indirizzo era chiaramente scritto dalla mano di don Rua. Lo apri e vi trovò un vasetto di miele con un biglietto: «Ecco, mio caro don Borghino, prenderai un cucchiaio di miele tutte le mattine, don Rua». Don Borghino sarà un superiore energico, ma tutto sommato, un buon salesiano.
Le risposte di don Rua lo rivelano pieno di comprensione per i corrispondenti. Se i temperamenti collerici superavano il limite, egli li richiamava dolcemente, da padre compassionevole. Aveva talvolta a che fare, osserva don Ceria, con persone bizzarre, che riempivano di sciocchezze pagine intere, credendole verità di vangelo. A prima vista serebbe venuta voglia di cestinarle. Non era il caso di don Rua. Per lui si trattava di una debolezza umana da trattare come tale. Il malato può essere noioso, il medico lo cura ugualmente. Dopo la sua morte, furono trovate, racconta lo stesso Ceria, cento e quindici lettere di un prete salesiano squilibrato, che moltiplicava osservazioni inconcludenti, prendendole per le cose più serie del mondo. Ebbene don Rua rispondeva ogni volta con grande premura. Cinquantasei di queste riposte sono rimaste, scriveva don Ceria; le altre cinquantanove sono state distribuite dal destinatario a persone desiderose di avere uno scritto autografo del successore di don Bosco. Potevano andare nelle mani di chiunque: tanto era il candore, l’amabilità, la capacità di sorvolare, che nessuno avrebbe indovinato la situazione del corrispondente.
Don Rua era preciso nelle risposte. Nelle prime righe specificava la data della lettera alla quale ripondeva. Poi passava ai dettagli, mostrando di conoscerne esattamente il contenuto. Insomma, la sua corrispondenza, benché semplice e senza fronzoli, testimoniava la sua bontà di padre e una spiritualità reale, benché poco appariscente. «Chi lo conobbe – conclude don Ceria – vi scorge lui con le sue doti e con le sue virtù».
Il Rettor Maggiore aveva un ruolo centrale nelle celebrazioni che si susseguivano lungo l’anno nella casa di Torino. Dal 1868, don Rua, prefetto dell’Oratorio e prefetto generale, aveva partecipato ogni 24 maggio a fianco di don Bosco alle solennità di Maria Ausiliatrice. Continuò a presiederle in qualità di Rettor Maggiore. Si è detto come, a partire dal 1889, il 23 e il 24 giugno Valdocco celebrasse insieme l’onomastico di don Bosco e la festa di don Rua. Finché gli fu possibile, presenziò anche alla distribuzione dei premi dell’Oratorio il giorno dell’Assunzione e non mancò di salutare ogni anno in chiesa gli allievi in partenza per le vacanze. Infatti continuava a mantenere contatti con i giovani della casa, pur senza occuparsi direttamente di loro, e approfittava di ogni occasione per farsi vedere in chiesa e fuori chiesa. Tutti sapevano di poterlo avvicinare quando volevano. Passeggiava volentieri tra gli allievi durante la ricreazione del pomeriggio e normalmente ogni settimana rivolgeva la parola agli studenti delle classi superiori.
Fatiche straordinarie lo attendevano tra metà agosto e i primi di ottobre. Era il periodo degli esercizi spirituali per i Salesiani e per le Figlie di Maria Ausiliatrice. Si limitava a fare una comparsa o tutt’al più presiedere alla chiusura degli esercizi spirituali delle suore. Per i Salesiani, invece, don Rua faceva molto di più: voleva essere presente in ogni muta di esercizi dall’inizio alla fine. Si metteva interamente a disposizione di coloro che partecipavano, sempre numerosi, a Valsalice o a Borgo San Martino. Dopo aver celebrato la messa – che allora era sempre individuale – in mattinata confessava per parecchie ore. Riprendeva le confessioni prima e dopo la cena. Era estremamente esigente con se stesso e gli capitò confessando di crollare svenuto. Si riprendeva subito e ritornava in confessionale. Nel corso della giornata riceveva quanti volessero parlargli. La maggior parte dei confratelli non terminava il ritiro senza averlo avvicinato, nonostante le file di attesa alla porta della sua stanza. Passava la ricreazione «moderata» dopo pranzo a conversare con quelli che lo circondavano. Ogni sera gli esercitandi ascoltavano la sua buona notte (il discorsetto della sera) dopo le preghiere, un colloquio breve e sempre interessante. Infine, a chiusura delle giornate di esercizi, teneva personalmente la predica detta «dei ricordi». Questi due mesi di esercizi spirituali lo affaticavano enormemente. Quando glielo fecero notare rispose: «È la mia vendemmia». Ma quella vendemmia durava tutta la stagione, osserva don Ceria.
Il biografo termina il capitolo con alcune considerazioni generali sul problema sempre delicato delle nomine degli ispettori e dei direttori. Quando don Rua doveva nominare un direttore, un ispettore o un membro supplente del Capitolo Superiore, non sceglieva il soggetto che gli piaceva, ma un uomo osservante. Aveva bisogno di un superiore fedele alla Regola e alle tradizioni salesiane. Poi pregava e consultava separatamente ciascuno dei membri del Capitolo Superiore. Il risultato di solito era soddisfacente. Bisogna dare credito alla testimonianza resa da Giulio Barberis al processo informativo di canonizzazione: «Non mi ricordo che ci siano state gravi lamentele a questo proposito; si deve, al contrario, ammirare il fatto che tutti si siano piegati volentieri alle sue decisioni».[274] Non fu sempre così, come testimoniano le tensioni sorte in occasione della sostituzione degli ispettori don Pietro Perrot e di don Giuseppe Bologna dopo le vicende francesi del 1904, di cui avremo occasione di parlare. Ma, guardando con attenzione, si scopre, in ogni situazione difficile, un Rettore sempre impegnato ad ammorbidire i provvedimenti presi in consiglio dal Capitolo Superiore.
Insomma, nella casa di Valdocco, per le persone vicine, per quelle esterne che venivano numerose a visitarlo e per i giovani della scuola, l’austero e pio don Rua riusciva ad essere un padre benevolo, capace di rinunciare totalmente a se stesso, fatto tutto a tutti, come sarebbe piaciuto al suo maestro don Bosco se fosse stato ancora in questo mondo.
17 - L'ESPLORAZIONE DEL MONDO SALESIANO IN EUROPA
Nel 1888, anno di lutto per la morte di don Bosco, don Rua non uscì da Torino. L’anno successivo intraprese progressivamente la visita delle case salesiane d’Europa cominciando, naturalmente, dall’Italia.[275]
Facciamo una sintesi dei suoi viaggi in Italia durante i primi anni di rettorato, tra 1889 e 1892, cercando di coglierne, con l’aiuto di don Ceria, i dettagli più salienti. Nel 1889 e all’inizio del 1890, prese contatto con le case del Nord. Nell’estate 1889, lo vediamo predicare gli esercizi spirituali alle suore salesiane di Nizza Monferrato tra il 31 maggio e il 5 giugno, poi spostarsi sulla costa ligure, a Sampierdarena e Alassio, dove il suo passaggio è documentato da un album con le firme di tutti gli allievi delle scuole superiori della casa. Questo volume si apre con una dedica commovente per un uomo la cui maggior preoccupazione era quella di seguire il più possibile le orme del maestro: «Amatissimo Padre, la tua visita ci ha fatto passare tre giorni felici: la tua presenza, le tue parole hanno destato in noi una purissima gioia, un santo entusiasmo. Oseremmo dire che pareva venuto da noi, non il successore, ma don Bosco medesimo. Te ne ringraziamo adunque con tutto l’affetto del cuore».[276]
Il 25 giugno don Rua fu a Borgo San Martino per celebrare la festa di san Luigi Gonzaga. Le suore della vicina casa di Maria Ausiliatrice gli chiesero di benedire una delle consorelle che i medici avevano dato per spacciata. Don Rua le invitò semplicemente a recitare presso il suo letto tre Ave Maria per la sua guarigione. Nella buonanotte, prima di andare a dormire, fece la stessa raccomandazione agli allievi. L’ammalata prese sonno. L’indomani il medico le riscontrava solo una grande debolezza. La notizia diede occasione a don Rua per esaltare la potenza dell’intercessione di Maria Ausiliatrice. Suor Filomena Bozzo, che le consorelle chiamavano la «miracolata di don Rua», morì venticinque anni più tardi, il 22 maggio 1914, direttrice di un istituto a Damasco in Siria.[277]
Il 13 luglio troviamo don Rua in Emilia, nella bella città di Faenza, dove gli anticlericali rendevano dura la vita ai Salesiani. Si doveva benedire la cappella interna del collegio. Don Rua ammirò l’efficace entusiasmo dei Cooperatori che sostenevano i Salesiani. Furono tre giorni di festa. L’ultima sera, dopo il discorso di addio, impiegò più di un’ora per staccarsi dalla folla, che voleva avvicinarlo. Chi gli domandava una benedizione, chi un consiglio, chi desiderava sentire una parola, chi voleva almeno baciargli la mano o toccargli gli abiti. «Insomma – scriveva don Lazzero a mons. Cagliero – non si fece niente di meno di quanto già si faceva per l’amato nostro Padre don Bosco».[278]
Visitò in seguito le case di Firenze e di Lucca. Rientrò a Torino in tempo per occuparsi degli esercizi spirituali dei Salesiani e delle Salesiane, poi del Capitolo Generale che si tenne a Valsalice tra il 2 e il 7 settembre.
Nel gennaio del 1890, scese a Roma, dove la costruzione dell’ospizio del Sacro Cuore andava per le lunghe. Lunedì 13 era sul posto in attesa del biglietto di invito a un’udienza privata di Leone XIII.[279] Il papa lo ricevette mercoledì 22, con don Cesare Cagliero e don Lazzero. Possiamo immaginare la loro soddisfazione quando lo sentirono esclamare: «Le imprese di quel sant’uomo che fu don Bosco sono state benedette durante la sua vita, continueranno ad essere protette dopo la sua morte». Si interessò particolarmente all’opera dei Salesiani nei territori di missione, soprattutto in Colombia. Il papa benedisse i progetti missionari che i Salesiani intendevano avviare in Africa e in Asia, dove ancora non erano entrati. «Possiamo esser tranquilli – scriverà don Rua nella circolare del 1° febbraio – qualora ci venga fatta dimanda di missionari per quelle parti, di averne la missione dal Vicario di nostro Signore Gesù Cristo, e quindi da Dio stesso». Ci fu uno scambio di pareri sulla parrocchia del Sacro Cuore. «Coraggio! – esclamò il papa – Continuate a lavorare. Si vede che dove si lavora, nonostante le difficoltà dei tempi, il popolo accorre e si fa del bene». Don Rua intraprese il viaggio di ritorno a Torino sabato 25. Si fermò in visita all’opera di La Spezia; poi tenne un’efficace conferenza ai Cooperatori nella chiesa di san Siro di Genova. «Con l’amore di un padre e la carità di un fratello, raccomandò la cura e la protezione della gioventù abbandonata», scriverà un giornale il 28 gennaio.[280]
Nei mesi di aprile-maggio 1891, completò la visita delle opere salesiane dell’Italia del Nord, dapprima con gli istituti di lingua italiana di Trento (allora nell’impero Austrio-Ungarico) e di Mendrisio (nel Canton Ticino), dove c’era un collegio municipale aperto da don Bosco non senza qualche esitazione. A Trento, i Salesiani avevano assunto la direzione di un orfanotrofio dipendente da una fondazione locale. Un articolo del regolamento impediva l’accettazione di orfani che non fossero della città. Don Rua nella conferenza ai Cooperatori, raccontò come, poco prima, a Nizza i Salesiani avevano trovato una sera un ragazzino di undici anni intirizzito dal freddo, e l’avevano accolto con premura nella loro casa. Ora il povero bambino era trentino. Abbandonato dal fratello maggiore, mendicava alla porta di un grande albergo. E Dio sa dove sarebbe finito se mani caritatevoli non si fossero prese cura di lui. I presenti furono molto commossi dal racconto. Persino colui che si dimostrava più ostinato nel sostenere la clausola restrittiva, si ricredette, sicché l’articolo venne soppresso.[281] A Mendrisio, don Rua restò piacevolmente impressionato per l’eccellente funzionamento dell’Oratorio festivo. Il 12 maggio successivo, confidò al Capitolo Superiore che a Mendrisio «i Salesiani sono ben visti da tutte le autorità e da tutti i partiti, soprattutto per questo Oratorio festivo».[282] Durante tutto il rettorato, si farà apostolo dell’Oratorio, in un contesto salesiano che preferiva di gran lunga il convitto e l’insegnamento.
Nell’aprile del 1891, dopo un breve ritorno a Torino, ripartì per il Veneto. Della visita al collegio Manfredini di Este, ricordiamo la viva soddisfazione per una messa solenne interamente cantata in gregoriano da tutti gli allievi. Gli procurò una grande gioia: nella sua precedente circolare del 1° novembre, infatti, aveva ricordato l’amore di don Bosco per il canto della Chiesa e l’invito rivolto a mons. Cagliero di preparare un manuale di insegnamento del gregoriano. Scriveva: «in vari stati cattolici si fa attualmente diligente studio di questo canto, e in collegi di grande reputazione, lasciata a parte la musica, si applicano i giovani allievi allo studio del canto gregoriano».[283] Gli fece piacere che questo fosse avvenuto anche nel collegio di Este. Scese poi in Emilia Romagna, a Bologna, Imola e Faenza, per risalire a Parma, complimentandosi per i progressi di quelle fiorenti opere salesiane, soprattutto quella di Parma, grazie al geniale don Carlo Baratta (1861-1910), in una regione in cui trionfava il laicismo più o meno anticlericale.
Don Rua visitò le opere dell’Italia Meridionale solo tra gennaio e marzo 1892.[284] Accompagnato da don Francesia, a metà gennaio fu a Roma, dove Leone XIII lo ricevette in udienza, chiedendogli gentilmente notizie dei «suoi cari Salesiani».[285] Constatando che il papa riteneva «don Bosco grandemente meritevole presso Dio, la Chiesa, gli uomini, il mondo», don Rua scrisse ai Salesiani: «Felici noi, che apparteniamo alla scuola di un maestro così virtuoso e così santo!».[286] Da Roma scese a Napoli, dove si imbarcò per la Sicilia. A Palermo, incontrò alcuni Cooperatori, quindi raggiunse Marsala. Là si discuteva da tempo l’opportunità di affidare un orfanotrofio ai Salesiani. Riuscì a concludere le trattative. A Catania, ebbe la soddisfazione di constatare la stima che circondava l’Oratorio quotidiano, frequentato e molto vivace. Folle di giovani vi accorrevano. La gioventù di Catania adorava il direttore dell’Oratorio, il giovane sacerdote Francesco Piccollo (1861-1930). Il collegio di Randazzo, prima opera salesiana nell’isola, aveva conosciuto un tempo di crisi tra 1885 e 1889, per il trasferimento a Lanzo del direttore-fondatore, don Francesco Guidazio. Ora tornato don Guidazio il collegio stava ritrovando la vitalità di un tempo.
Non trascurò le Figlie di Maria Ausiliatrice. Visitò le opere di Catania, Bronte, Trecastagni, Mascali, Acireale, Alì Marina. L’accoglienza ad Alì Marina fu particolarmente entusiasta. Non appena si seppe del suo imminente arrivo, i giovani accorsero alla stazione per fargli festa. Il Rettore in mezzo alle loro acclamazioni raggiunse l’Oratorio dove in suo onore si svolse un piccolo «spettacolo musico-letterario». Tornato sul continente, in Calabria, salì attraverso Taranto e Bari fino a Macerata, per vedere il collegio salesiano inaugurato di recente. In un’autobiografia inedita, don Francesia scrive che la casa di Macerata, «aperta da poco, era già piena e straripante. Si sarebbe creduta l’Arca di Noè: c’erano studenti, artigiani, giovani dell’Oratorio. Solo l’amore vi manteneva l’ordine».[287] Dopo un pio pellegrinaggio a Loreto, per venerare la Santa Casa, don Rua salì verso il Veneto, con brevi scali ad Ancona, Rimini e Venezia. Da là ritornò in Piemonte, a Novara. Il vescovo della città aveva fatto costruire un magnifico Oratorio, destinato a diventare l’inizio di un’opera salesiana particolarmente florida. Quando finalmente l’8 marzo rientrò a Torino, non c’era nessuno ad attenderlo poiché il suo arrivo non era stato annunciato. Ma poteva dirsi soddisfatto di aver fatto il giro completo delle opere salesiane d’Italia.
Tra febbraio a maggio 1890, don Rua effettuò un lungo viaggio in Francia, Spagna, Inghilterra e Belgio.[288] Non era ancora conosciuto in queste regioni dove il ricordo di don Bosco rimaneva vivissimo. Rientrato a Torino il 27 gennaio, al termine di una spedizione che l’aveva condotto fino a Roma, il 4 febbraio ripartiva per la Francia, via Sampierdarena.[289]
La prima casa francese a beneficiare della sua presenza fu quella di Nizza, fondata da don Bosco nel 1875, prima tra le opere salesiane fuori d’Italia.[290] Il titolo di Patronage Saint-Pierre non deve trarci in inganno. Non era un «patronato» vero e proprio: come l’Oratorio di Torino, il convitto nicese aveva le due sezioni degli studenti e degli artigiani. La visita di don Rua, ben documentata nella cronaca della casa, può essere raccontata nel dettaglio. Arrivò alle ore 20 di sabato 8 febbraio. Era buio e faceva freddo. L’ingresso e il cortile del Patronato erano ornati con bandiere e lumi. Quando apparve, la banda musicale e gli applausi dei giovani lo accolsero con gioia. Si gridava: Viva don Rua! Viva don Rua! Un passaggio del discorso di benvenuto letto da un ragazzo (e composto da don Cartier), è in perfetta sintonia con i suoi sentimenti di fedele imitatore di don Bosco: «Oggi viene a noi, amato Padre. Scopriamo in lei l’anima, lo spirito e il cuore di colui che abbiamo perduto. Anzi ritroviamo in lei lui stesso, tutto intero. I nostri occhi si aprono alla luce e sentiamo nel profondo del cuore che il nostro Padre, il nostro Maestro non è morto. Anche noi possiamo dire: – Non ardeva forse d’amore il nostro cuore mentre ascoltavamo la sua voce?». Don Rua commosso rispose più o meno così: «Il ricordo di don Bosco, pur facendo rivivere in me un profondo dolore, è particolarmente utile per rammentarci tutto ciò che il nostro venerato Padre ha fatto e ciò che noi dobbiamo fare. Ora don Bosco è in cielo. Abbiamo sentito più volte il suo benefico appoggio.Vi ha raccomandato di amarmi come voi l’avete amato, di obbedirmi come voi gli avete obbedito. Seguendo le sue raccomandazioni, renderete alquanto dolce e facile il mio compito, che consiste soprattutto, lo sapete, nel fare del bene alle anime vostre».
L’indomani, domenica 9 febbraio, la casa celebrava la festa di san Francesco di Sales. Don Rua entrò in confessionale alle sei e mezzo del mattino, assediato dai confratelli e dai giovani. Confessarsi con don Rua era per tutti come una benedizione. Lasciò il confessionale alle sette e trenta per celebrare la messa di comunità. I Cooperatori furono invitati alla conferenza regolamentare nella chiesa di Notre Dame, dopo i vespri delle ore 15. Don Rua parlò in presenza del vescovo di Nizza. Nel suo «sermone di carità», secondo l’espressione del giornale Semaine religieuse, chiese la collaborazione degli ascoltatori per tre tipi di istituzioni: Oratori festivi; orfanotrofi e altri istituti educativi; missioni. Come don Bosco, non si vergognava a tendere la mano. Queste opere infatti esigevano continue risorse economiche. Potevano sopravvivere solo grazie alla carità dei Cooperatori e delle Cooperatrici.[291]
Lunedì 10 febbraio, le due associazioni di sostegno della casa di Nizza, il «Comitato protettore dei laboratori del Patronato» e le «Dame patronesse», parteciparono quasi al completo alla conferenza di don Rua. Si complimentò con loro per il lavoro svolto nella casa, ma lamentò la mancanza di un «Oratorio esterno» maschile, accanto all’«Oratorio interno», visto che nelle vicinanze esisteva già un Oratorio di festivo per le fanciulle, animato dalle Figlie di Maria Ausiliatrice. «Don Bosco gioisce del bene che voi fate ai giovani operai. Ma molti ragazzi hanno ancora bisogno di essere soccorsi». È solo a questa condizione che l’opera di Nizza potrà dirsi completa secondo l’idea di don Bosco.[292]
Il resto della settimana trascorse in visite ai Cooperatori e al Circolo cattolico, in ricevimenti, in riunioni con i confratelli, in lunghe sedute al confessionale. Il tutto si concluse, lunedì 17 febbraio, vigilia della partenza, con grandi giochi e una rappresentazione teatrale. Il 18 era martedì grasso. Così don Rua, secondo la commossa cronaca del Bolletino Salesiano francese, nel discorsetto di addio tenuto la sera del 17, raccomandò a tutti per l’indomani di fare la comunione e recitare le preghiere per i defunti, volendo che tale giornata, vissuta dal mondo in modo poco cristiano, portasse almeno un po’ di sollievo alle anime purganti.[293]
Martedì 18, mentre i giovani di Nizza facevano l’esercizio della buona morte e si preparavano a festeggiare il carnevale, don Rua si trasferì nella vicina casa di la Navarre, dove si fermò quattro giorni, interrotti da una puntata a Tolone per un’ora di conferenza nella chiesa principale di Santa Maria, e per la visita ad alcuni benefattori.[294] A la Navarre, il 19 si tenne il ricevimento di benvenuto. Le Compagnie e le varie classi gli indirizzarono omaggi poetici e componimenti letterari. Sabato 22 si fece l’esercizio della buona morte. Don Rua confessò a lungo gli allievi, seguendo anche in questo le orme di don Bosco che definiva la confessione come la «miglior pedagogia». Alle 10 – con l’autorizzazione del vescovo – amministrò il battesimo a due orfani protestanti accolti dal direttore della casa di Tolone Pietro Perrot. Nel pomeriggio, di ritorno a Nizza, sostò a Cannes, dove don Bosco si era fatto numerosi amici. Là, il giorno successivo, domenica, nella chiesa di Notre-Dame du Bon Voyage tenne un «sermone di carità» su don Bosco, le sue opere e i suoi Cooperatori. Il frutto della questua fu generoso (2000 franchi, secondo l’agenda di don Lazzero). A Cannes si femò cinque giorni, visitando benefattori e comunità religiose. Mercoledì 26, andò all’orfanotrofio di St. Isidore a St. Cyr-sur-Mer, tenuto dalle Figlie di Maria Ausiliatrice. Lo accolse il cappellano, don Antonio Varaia.[295] Il mattino successivo tenne una conferenza ai Cooperatori; partecipò a un pranzo con il clero locale e il conte di Villeneuve; infine si mise a disposizione delle suore tutto il pomeriggio.
La sera del 28 febbraio, preannunciato da un telegramma, giunse all’Oratorio Saint-Léon di Marsiglia. Qui si fermò otto giorni. Marsiglia era sede della casa provinciale, con l’ispettore don Paolo Albera. Ma non si limitò alla casa di Saint-Léon. Infatti (salvo errori, dato che la cronaca del Bulletin e quella di don Lazzero non concordano sulle date) don Rua dedicò due giorni, mercoledì 5 e domenica 9 marzo, al noviziato di La Providence, nel quartiere Sainte-Marguerite di Marsiglia. I trenta novizi Salesiani francesi celebrarono il suo arrivo con una bella «accademia». Poi don Rua ricevette a colloquio tutti coloro che avevano chiesto di fare la professione o di vestire l’abito chiericale. Si interessò anche dell’attigua fattoria e della campagna.[296] Il 7 e l’8 andò a far visita al curato d’Aubagne, poi al conte di Villeneuve a Roquefort, due affezionati amici di don Bosco. Nelle giornate trascorse a Saint Léon, don Rua ricevette i visitatori, confessò i confratelli e gli allievi, parlò ai comitati protettori, maschile e femminile. Rivolse anche ai ragazzi due discorsetti serali – molto lunghi – uno per incoraggiarli ad accostarsi ai sacramenti, l’altro sulla devozione a San Giuseppe. Il 6 marzo, tenne un’ampia conferenza ai Cooperatori, in cui fece l’elogio degli Oratori festivi: «I risultati ottenuti sono davvero consolanti. In una città abbiamo aperto l’Oratorio in un quartiere malfamato. Una persona rispettabile non poteva attraversarlo senza essere presa a sassate o bersagliata dai ragazzini che gettavano fango. Sei mesi dopo l’apertura dell’Oratorio salesiano, il quartiere era irriconoscibile. Io stesso ho potuto constatare che quei fanciulli non solo ci rispettano, ma sono educati e premurosi». Parlò anche delle missioni salesiane tra i «selvaggi».[297]
La sera di lunedì 10 marzo 1890, in compagnia di don Giulio Barberis, don Rua lasciò Marsiglia per la Spagna. Vi tornava quattro anni dopo il memorabile viaggio del 1886 a fianco di don Bosco.[298] Visitò due opere salesiane molto distanti l’una dall’altra: Sarrià, presso Barcellona e Utrera nella regione di Siviglia. Il tragitto li obbligò a percorrere lughi tratti con mezzi di trasporto lenti e complicati.
L’11 marzo, dopo una notte in treno e una splendida accoglienza alla stazione di Barcellona, potè celebrare la messa nella cappella privata della benefattrice Doña Dorotea Chopitea. Poi si affrettò a visitare il vescovo che gli dimostrò una «straordinaria bontà» (Barberis). Alle ore 16, finalmente, arrivò a Sarrià, dove si fermò otto giorni, dall’11 al 20. Musica strumentale, canti e applausi salutarono il suo arrivo. Il cortile della casa era stato addobbato con lumi collocati sotto i portici del pianterreno, del primo e del secondo piano. Neanche don Bosco aveva ricevuto un’accoglienza tanto magnifica. Giulio Barberis il 15 marzo scriveva a don Luigi Piscetta: «Tutti i Barcellonesi venerano grandemente don Rua e riconoscono veramente in lui un altro don Bosco».[299] Trascorse le giornate a ricevere persone e visitare benefattori, in particolare il signor Luis Marti-Codolar. Come degno coronamento del soggiorno a Barcellona, il 18 marzo don Rua inaugurò un’opera popolare in un sobborgo particolarmente povero. Doña Chopitea vi aveva fatto costruire a proprie spese un complesso che comprendeva la scuola e l’Oratorio festivo ed affidava ai Salesiani la missione di istruire e formare la popolazione del quartiere. Il vescovo benedì l’edificio. Poi, in una delle stanze, fu organizzato un ricevimento con discorso di circostanza, indirizzi di omaggio, poesie e brani musicali affidati ai giovani di Sarrià. Il Correo Catalan, del giorno seguente scrisse: «Sotto il fastoso baldacchino disposto per sua Ecc. Mons. Vescovo, presidente del ricevimento, avevano posto un bel ritratto di don Bosco; alla destra del prelato presero posto il M. Rev. don Rua, superiore Generale della Congregazione Salesiana, il Vicario Generale della diocesi e il Presidente delle Associazioni cattoliche».[300]
L’ultimo giorno, don Rua con i membri della comunità e i giovani di Sarrià celebrò la festa di san Giuseppe, una devozione a lui molto cara, che gli allievi solennizzarono a sera con uno spettacolo teatrale. L’indomani 20 marzo i nostri due viaggiatori si incamminarono verso la seconda opera salesiana della Spagna, Utrera, via Madrid e Siviglia. Al momento di intraprendere la descrizione di questo itinerario Barberis scriveva a Luigi Piscetta: «In primis et ante omnia bisogna che ti dica che il viaggio da Barcellona ad Utrera è lungo, assai lungo, qualche cosa di più che da Torino a Barcellona; ed aggiungo che in Spagna i treni non sono tanto celeri e vi sono pochissimi diretti di modo che il viaggio viene a sembrare assai più lungo».[301] È vero che a Barcellona Doña Chopitea aveva procurato loro biglietti di prima classe, ma resta il fatto che, partiti da Barcellona il 20 marzo alle 8 del mattino, raggiunsero Madrid, a metà percorso, il giorno seguente alla stessa ora. Don Rua, indisposto, non potè dormire e si sentiva estremamente affaticato. Ma non gli importava. Appena arrivati a Madrid, da cui sarebbero ripartiti verso sera, cercarono un luogo per la messa. Egli celebrò nella cappella privata di un ricco benefattore; Barberis invece in una chiesetta nelle vicinanze della stazione. Poi andarono a salutare il cardinale di Siviglia che si trovava a Madrid, il vescovo della città, il nunzio apostolico e il vicario generale della diocesi. Il viaggio in ferrovia fino a Siviglia durò altre tredici ore. Partiti da Madrid il 21 marzo alle 18,30 arrivavano a destinazione l’indomani alle 7,30. Malgrado la scomodità del treno, questa volta don Rua riuscì a riposare un poco. A Siviglia celebrarono la messa probabilmente nella cattedrale, «una delle meraviglie del mondo», scrive Barberis. In quel momento parecchie centinaia di operai stavano lavorando al suo restauro. Dopo la visita dell’Alambra e di alcune famiglie di benefattori, ripresero il treno per l’ultima tappa. Il viaggio questa volta durò «non più di tre quarti d’ora».[302]
Come era prevedibile, alla stazione di Utrera venne predisposta un’accoglienza grandiosa. La casa salesiana della città, infatti era molto apprezzata. Una ventina di vetture attendevano don Rua, con i due parroci della città, il sindaco, il pretore, il Capitolo della casa salesiana, tutti i sacerdoti del luogo, i diversi dignitari, e gli amici, come scrive don Barberis in una lettera del 25 marzo. Tutti volevano «far conoscenza col successore di don Bosco ed onorare in lui don Bosco medesimo». Fu un bel corteo di vetture fino alla casa salesiana. «Oh Utrera! Utrera! Io non ti dimenticherò mai più», esclamò Barberis, tanto era stato incantato dalla vivacità dei giovani andalusi.[303] Appena aperto il portone, centotrenta giovani ben allineati con i loro assistenti cominciarono a gridare Evviva!, ad applaudire e a protendersi verso colui che attendevano con tanta impazienza. Fu intonato un inno di benvenuto. La presenza di don Rua confortò i confratelli: la casa, aperta da dieci anni, non aveva ancora ricevuto la visita di un superiore. Il 23 era domenica. Tutti i giovani cercarono di confessarsi da don Rua che, a differenza di Barberis, conosceva lo spagnolo. Alla sera ci fu una grande accademia musico-letteraria. La «cattolica Spagna» impressionò don Barberis e probabilmente anche don Rua. «L’Andaluso non può parlare senza esaltare il suo S. Ermenegildo, il suo S. Ferdinando, S. Isidoro, e senza ricordare il tempo della dominazione moresca, che essi con l’aiuto di Maria hanno vinta. Varii componimenti versavano su questi soggetti».[304] Durante il suo breve soggiorno, il Rettor Maggiore volle compiere un pellegrinaggio a Nuestra Señora del Consuelo, patrona di Utrera e di tutta l’Andalusia. Visitò l’alcade, l’arciprete e due o tre famiglie di benefattori. Il 24 tenne una conferenza ai Cooperatori. «La sua parola semplice e piena di dolcezza toccò i cuori», ed ebbe tale successo che il chierico addetto all’elemosina faticava a tenere in mano il vassoio, appesantito dalle monete che vi erano state deposte.[305] Infine, la sera del 25 marzo, i due viaggiatori si disposero a riprendere la strada per Torino, dove prevedevano di arrivare all’alba del 30, domenica delle Palme. Rientrarono pieni di ammirazione per la Spagna, la generosità dei suoi Cooperatori e l’attaccamento del paese alla persona di don Bosco.
Dopo due settimane trascorse a Torino nella preghiera e in lunghe riunioni capitolari, don Rua, benché avesse fretta di arrivare nella recentissima opera di Battersea (Inghilterra), fece ancora due brevi tappe a Lione e a Parigi.[306] Era accompagnato da don Louis Roussin, redattore del Bulletin Salésien francese.[307] Partiti da Torino la mattina del 14 aprile, vennero accolti alla stazione di Lione dalla famiglia Quisard, che li ospitò. Il 15 don Rua celebrò la messa nella cappella delle clarisse di rue Sala, presso il luogo in cui morì san Francesco di Sales, cosa a cui don Rua diede molto rilievo. Poi intraprese quelle poche visite che il tempo gli permetteva, in particolare al vicario generale mons. Belmont, in assenza del cardinale arcivescovo Foulon, e all’Opera della Propagazione della Fede. Quest’opera sosteneva i missionari Salesiani dell’America del Sud. Informati del viaggio di don Rua a Lione, mons. Cagliero, vicario apostolico in Patagonia e mons. Fagnano, prefetto apostolico della Terra del Fuoco, per suo mezzo si raccomandavano all’Opera. Il segretario generale mostrò in una vetrina del museo qualche oggetto proveniente dalle missioni. Il giorno successivo, don Rua salì sulla collina di Fourvière, dove era in costruzione la grande basilica che la renderà famosa. Celebrò messa nella cappella storica attigua, che già aveva visto don Bosco nel 1883. L'Echo de Fourvière apprezzò il suo tratto. Don Rua, scriveva, «è abituato a contare sulla Provvidenza, che dà il pane quotidiano a centomila ragazzi, sottratti alla miseria, e alla valorosa falange di missionari che portano la buona novella nelle regioni lontane della Patagonia. Don Rua non è in nulla da meno del suo tanto compianto maestro, per lo zelo, la mansuetudine e soprattutto per questa fede vivissima che sposta le montagne».[308] In serata, lasciava Lione su un treno notturno che lo avrebbe condotto a Parigi, dove non intendeva fermarsi più di due giorni, riservandosi di sostarvi più a lungo al suo ritorno dall’Inghilterra.
Dedicò la giornata del 17 aprile al piccolo convitto aperto a Paris-Ménilmontant nel 1884 presso l’Oratorio, culla dell’opera. Lo accolsero con la fanfara. Con sua grande soddisfazione, celebrò la messa accompagnata in canto gregoriano dagli allievi. Nel pomeriggio gli offrirono uno spettacolo, alla presenza di pochi intimi. L’Oratorio Saints Pierre et Paul, benché misero, era vivace e lo dimostrava. Don Rua passò quasi tutta la giornata del 18 fuori casa. In mattinata visitò le Benedettine del Santo Sacramento, in rue Monsieur, per le quali celebrò la messa in gregoriano, poi tenne una «chiacchierata molto paterna» con la comunità, come scrive Louis Roussin nel Bulletin Salésien, per raccontare i progressi delle opere salesiane in Europa e nelle missioni americane, ed esprimere la riconoscenza dei Salesiani verso quelle religiose che li sostenevano con le preghiere e le offerte. Nel primo pomeriggio, accompagnato dal direttore Joseph Ronchail, don Rua venne ricevuto dal nunzio mons. Rotelli, che elogiò l’opera di Ménilmontant, dove il campo d’azione offerto ai Salesiani era vasto. Seguì una conferenza ai Cooperatori, tenuta nella chiesa dell’Assunzione, in rue Saint Honoré, davanti a un’assemblea ridotta «a causa del cattivo tempo». Don Rua riprese semplicemente ciò che aveva già detto a Nizza e a Marsiglia su don Bosco, sul suo apostolato per la gioventù povera e abbandonata, sui progressi delle opere salesiane, soprattutto nelle missioni. Insistette con forza «sull’assoluta necessità di ingrandire la casa di Ménilmontant», dove a fronte di ottocento domande di ammissione si disponeva di novanta posti soltanto. I Cooperatori erano invitati a mettere mano alla borsa. Don Rua stesso passò tra di loro a raccogliere le offerte. Dopo la benedizione col Santissimo Sacramento diede udienza in sacrestia. Ebbe così modo di constatare quanto rimanesse vivo a Parigi il ricordo di don Bosco.
Poco prima della morte, don Bosco aveva accettato una poverissima missione cattolica in un quartiere operaio di Londra, a Battersea.[309] Gli inizi erano stati faticosi. Il primo superiore Edward Mac Kiernann era morto il 30 dicembre 1888. Don Rua dedicò a quest’opera nascente sei giorni, tra il 19 e il 25 aprile. La dirigeva padre Charles Macey. I nostri due viaggiatori trovarono, vicino ad una chiesa piuttosto misera, una casetta che fungeva da canonica, una fiorente scuola mista di 315 allievi affidata a delle religiose, sovvenzionata parzialmente dallo Stato, ma amministrata finanziariamente dalla parrocchia, un Oratorio festivo per i ragazzi e un principio di orfanotrofio con tre ragazzini ancora alloggiati nella canonica.[310] In parrocchia si contavano circa duemila cattolici, per la maggior parte irlandesi.
Don Rua scrisse a don Durando: «La chiesa e le scuole sono molto frequentate, il bene che si fa è grande pei cattolici del quartiere – scriveva don Rua il 21 aprile – ed è pur grande pei protestanti giacché si ottengono sovente conversioni e talvolta d’intere numerose famiglie, ciò che accade in via ordinaria molto di rado. Anche l’Oratorio festivo procede bene: non è ancora numeroso come quello di don Pavia [a Valdocco], ma speriamo che poco alla volta verrà ad emularlo». Continuava prospettando il coinvolgimento delle Figlie di Maria Ausiliatrice nella missione inglese: «Se possiamo combinare qualche affare che abbiamo in vista, sarà conveniente inviare qui anche delle nostre suore per prendersi cura dell’Oratorio festivo delle ragazze, che verrebbero in numero molto grande e somministrerebbero anche un buon contingente di vocazioni se potessero venir coltivate».[311]
Don Rua ispezionò accuratamente gli ambienti. Si complimentò per la costruzione del muro di cinta che proteggeva i due cortili attorno alla chiesa: i ragazzini non avrebbero più potuto scavalcarli per rompere i vetri; si rammaricò che la copertura di zinco della chiesa non proteggesse a sufficienza i fedeli dalla pioggia; e soprattutto chiese a don Macey di ampliare la scuola divenuta insufficiente, per raddoppiare il numero degli allievi.
Poi iniziò le visite. La prima fu al vescovo della diocesi (Southwark), mons. Butt, che lo portò a vedere nelle vicinanze una scuola di un migliaio di allievi che aveva fatto costruire con l’aiuto dei diocesani. Questo vescovo dava priorità alla scuola cattolica, cosa che don Rua comprendeva e apprezzava. Quindi salutò il clero della parrocchia Notre Dame du Mont Carmel, il curato e il vicario, che avevano sostenuto i primi Salesiani arrivati a Battersea. Visitò la comunità delle suore di Notre Dame de Namur, responsabili della scuola, molto attive nel servizio ai poveri. Si interessò alle qualità delle funzioni liturgiche, sia nella chiesa anglicana di Westminster, sia nella comunità degli immigrati italiani. L’atmosfera di Westminster gli sembrò particolarmente fredda, mentre trovò nella comunità italiana fedeli che cantavano, devoti e cordiali. Molti protestanti, stando alla cronaca, assistevano alle funzioni degli italiani e ai concerti che organizzavano nella loro chiesa.
Il 25 aprile, don Rua riattraversata la Manica raggiunse il continente. Il 26 poteva spedire da Guînes, nelle vicinanze di Calais, una lettera a Cesare Cagliero.[312] Qui le Figlie di Maria Ausiliatrice gestivano un orfanotrofio aperto di recente. Don Rua benedì la loro cappella privata.[313] A sera raggiunse l’orfanotrofio salesiano di Lille. Il ricevimento fu solenne, con luci, fanfara, omaggi e canti della schola cantorum. Dopo la preghiera della sera, il direttore Ange Bologne annunciò ai ragazzi che l’indomani iniziavano gli esercizi spirituali e che il Rettor Maggiore sarebbe stato a loro disposizione tutto il tempo, nel confessionale e in camera. Don Rua fece la predica di apertura il 27 aprile e quella di chiusura il 1° maggio. Tra il 2 e il 6 maggio si dedicò alle numerose personalità civili ed ecclesiastiche amiche di don Bosco e dell’opera di Lille. Il direttore Bologne stava cercando fondi per l’acquisto di un fabbricato vicino alla casa, per raddoppiare i locali dell’orfanotrofio. Ne presentò il progetto dettagliato il 6 maggio, durante la conferenza ai Cooperatori, presieduta dal Rettore delle Facoltà cattoliche di Lille.[314] Don Rua espresse il suo accordo con l’oratore. Leggiamo nella cronaca: «In tre quarti d’ora, con una semplicità piena di candore, espone lo stato, i progressi e i bisogni delle opere salesiane. Insiste sulla necessità di ingrandire l’orfanotrofio di Lille e raccomanda caldamente questa impresa alla carità dei Cooperatori della regione del Nord».
Il 7 maggio, don Rua con i confratelli Bologne e Roussin entrò in Belgio. Qualche settimana prima della morte, don Bosco aveva accettato la proposta del vescovo di Liegi, Victor Doutreloux, di creare in città un’opera simile a quella di Valdocco. Don Rua intendeva realizzare il progetto. L’8 maggio presenziò alla benedizione della prima pietra dell’orfanotrofio salesiano Saint Jean Berchmans, nel quartiere industriale di Laven. La solenne cerimonia, presieduta dal nunzio apostolico di Bruxelles e da mons. Doutreloux, si svolse in due momenti: nella chiesa Sainte-Véronique si tenne il discorso, poi nel cantiere si celebrò la messa all’aperto e si svolse la benedizione propriamente detta.[315] A Sainte-Véronique don Rua fu il protagonista. Dopo il canto del Veni Creator, come racconta la Gazette di Liegi, «vediamo dirigersi verso il pulpito un sacerdote straniero, dalla carnagione scura, magro come un anacoreta. Cosa che colpisce non meno della sua magrezza, è la vivacità serena dello sguardo che brilla sotto le palpebre arrossate dalle troppe ore di veglia. [...] Si esprime con cuore e con ricchezza di eloquio, correttamente e semplicemente, con un accento in cui la parola francese si ammanta, senza mai mascherarsi, di una pronuncia francamente italiana». Don Rua raccontò per sommi capi la vita di don Bosco, la nascita della Società Salesiana e soprattutto l’accettazione piuttosto avventurosa della nuova opera di Liegi. Concluse chiedendo con fervore l’appoggio degli abitanti della città, per una casa che non avrebbe potuto vivere senza la carità pubblica. L’allocuzione, scrive la Gazette, «detta semplicemente ma con cuore, con convinzione e piena di una fede comunicativa, è bastata per dare a tutti l’impressione che don Bosco non avrebbe potuto trovare sostituto più degno e più capace».
Alla festa seguì in vescovado un banchetto rallegrato da alcuni brindisi. Anche don Rua parlò e ringraziò il nunzio con un ricordo simpatico: i Salesiani avevano potuto fondare a Catania una casa per la povera gioventù grazie ai numerosi benefattori. Tra di essi, proprio «di fronte allo stabile, c’è una signora che i bambini chiamano con il dolce nome di "mamma". È la degnissima madre… di mons. di Nava, nunzio apostolico a Bruxelles».[316]
Tra il 9 e il 17 maggio, percorse quasi tutto il Belgio per visitare numerosi benefattori e amici dei Salesiani nel paese.[317] Fu a Namur, Lovanio, Bruxelles, Malines, Anversa, Gand, Bruges, Courtrai e Tournai. Poi rientrò a Parigi. Di qui, il 19 maggio, don Rua visitò l’orfanotrofio agricolo salesiano Le Rossignol, recentemente aperto a Coigneux (Somme). Responsabile dell’orfanotrofio era don Jean-Baptiste Rivetti di trentanove anni.[318] Sembrava una seconda Betlemme: infatti era una fattoria «piuttosto fatiscente», con muri in argilla battuta, posta al centro di un terreno disboscato di novanta ettari. Una piccola stanza a pianoterra era stata trasformata in cappella. Gli orfani dormivano nel granaio, dove non c’era un angolo libero. L’orfanotrofio non possedeva che due mucche e due maiali. Don Rua benedisse i fanciulli e si augurò di ritrovare prossimamente questa casa provvista di quanto le era necessario, grazie alla generosità dei benefattori della Somme e del Pas-de-Calais. Il Bulletin francese ne faceva l’elenco: «Oggetti e ornamenti per il culto divino, biancheria da letto, mobili, abiti, stoffe diverse, utensili e arnesi per arare; veicoli, animali da tiro e bestiame, concime ecc., ecc.». L’orfanotrofio agricolo salesiano Le Rossignol nel 1890 viveva nella miseria più nera.
Il 20 maggio, don Rua e Louis Roussin presero la strada per Parigi. Fecero tappa ad Amiens per salutare il vescovo e qualche benefattore.[319] All’Oratorio Saint Pierre et Paul di Parigi, i ragazzi li accolsero in cortile con bandiere sventolanti e al suono della fanfara. Il 21, come scrive il redattore del Bulletin, «il successore di don Bosco riprendeva la serie delle visite che il suo incarico e gli interessi delle nostre opere richiedono». Il 22 maggio si fermò a lungo nei laboratori degli Assunzionisti di rue François Ier, editori del giornale La Croix e del Pèlerin. Poi visitò il cardinale-arcivescovo François Richard, molto affezionato a don Bosco. Infine rientrò a Ménilmontant per salutare il nunzio mons. Rotelli, che veniva a restituire la visita fattagli in occasione del suo precedente passaggio a Parigi. In quei giorni i giovani facevano gli esercizi spirituali annuali, predicati da un padre redentorista. Don Rua tenne la predica di chiusura il 25 maggio, domenica di Pentecoste, soffermandosi sul modo di mantenere i propositi. Nel pomeriggio, in cortile sotto un’ampia tenda, ci fu il trattenimento introdotto da un discorso del presidente del comitato dell’Oratorio. Si recitò il dramma Le Prêtre, il Prete, ma venne interrotto sin dal primo atto a causa di «un vero e proprio uragano».
Il 26 e 27 maggio, don Rua volle fare ancora qualche visita d’addio: alle Benedettine di rue Monsieur, ai Redentoristi di boulevard Ménilmontant, ecc. La sera del 27 (per non sprecare il tempo sceglieva sempre treni notturni), riprese la strada verso Torino, con tappe più o meno lunghe, a Paray-le-Monial, Cluny e Laizé (presso la famiglia Quisard, di Lione). Arrivò alla stazione di Torino Porta Nuova venerdì 30 maggio, alle 8 del mattino.
Terminava così il suo primo grande viaggio di esplorazione delle opere salesiane d’Europa. Nello stesso tempo, lavorava a un progetto mirato ad introdurre la Congregazione Salesiana in Terra Santa. Ciò avrebbe comportato per lui un altro viaggio inatteso.
Nel verbale della riunione capitolare del 25 agosto 1890 leggiamo: «Don Rua legge la proposta confidenziale del canonico Belloni di incorporare la sua Congregazione dell’Infanzia abbandonata di Terra Santa, a Betlemme, Betgialla, Nazaret ecc., colla Congregazione Salesiana cedendo a questa tutte le sue proprietà. I principali suoi coadiutori sono d’accordo. Belloni verrà in Europa, ed il Capitolo, mentre risponde acconsentendo in genere, aspetta questa venuta per delibarare».[320] Aveva inizio una delle più grandi avventure del rettorato di don Rua, che preparava l’ingresso dei Salesiani in Medio Oriente.
Il canonico Antonio Belloni (1831-1903) non era sconosciuto a don Rua.[321] Questo Vincenzo de’ Paoli della Terra Santa, italiano d’origine, missionario nella regione dal 1859, professore di Sacra Scrittura e direttore spirituale del seminario, era rimasto profondamente colpito dalla miseria dei fanciulli, vittime di sfruttatori corrotti e completamente ignoranti in materia religiosa. Aveva iniziato accogliendo in casa propria il figlioletto abbandonato di un cieco. Presto si aggiunsero altri tre poveri ragazzi. Trovò un lavoro per ciascuno di loro, mentre gli faceva un po’ di scuola. Dal momento che non erano graditi in seminario, affittò una catapecchia nelle vicinanze e vide così aumentare il suo piccolo gregge. Lo aiutavano alcuni benefattori. Stabilì la sua opera a Betlemme sulla strada della santa Grotta. Dispensato dall’insegnamento in seminario con autorizzazione del patriarca latino, andò ad abitarci. Era preoccupato per il futuro. Nel 1874, circondato da 45 ragazzi, decise di dar vita a una Congregazione diocesana di Fratelli della Sacra Famiglia che lo aiutassero nella sua opera di beneficenza. I primi tre aspiranti provenivano dall’orfanotrofio stesso. Nel 1875 dopo un giro di propaganda in Europa, don Belloni portò con sé un prezioso collaboratore, il sacerdote italiano Raffaele Piperni (1842-1930). Ma l’iniziativa non gli sembrò sufficiente. Nel 1878, se si presta fede a una testimonianza poco sicura e di molto posteriore,[322] incontrando don Bosco a Torino gli offrì la sua opera in Palestina. Acquistò poi un terreno a Beitgemal per fondarvi un orfanotrofio agricolo e lo affidò a un prete venuto dall’Italia. Nel 1885, i giovani raccolti erano 80 a Betlemme e 56 a Beitgemal. Quell’anno aprì anche un esternato a Betlemme con 150 allievi. Nel 1886 fondò un terzo centro a Cremisan, presso Betlemme, per accogliere gli aspiranti della Sacra Famiglia. Infine acquistò un tereno sulla collina di Nazaret in vista di un quarto centro. L’insieme degli immobili costituiva dunque un bel patrimonio, malgrado la sua dipendenza sempre angosciante dalla carità pubblica.
La questione della fusione dell’opera Belloni con la Società Salesiana prese rapidamente corpo. Il verbale della riunione del Capitolo Superiore presieduto da don Rua il 6 ottobre 1890, ci informa che il «canonico Belloni, fondatore degli ospizi per giovani abbandonati a Betlemme, Betgialla e Nazaret» vi è presente. «Si esaminano ad una ad una le domande che presentò scritte il can. Belloni per la fusione della sua Congregazione colla nostra e il Capitolo risponde a tutte affermativamente. Don Durando è incaricato di stendere su queste la convenzione in articoli da presentarsi alla [Congregazione di] Propaganda in Roma». Tre giorni dopo si tenne una seconda riunione con la presenza del canonico. Secondo il verbale, «Don Durando legge la convenzione per la fusione delle due società, che è approvata da ambe le parti».[323] Don Giulio Barberis sarebbe andato a verificare sul posto la situazione. Don Belloni non perse tempo. Si recò subito a Roma per presentare il piano a Leone XIII, che lo approvò, gli fece dono di settemila lire e lo invitò a prendere contatti con Propaganda Fide. Il suo prefetto, il cardinale Simeoni, gli chiese solo di verificare se il patriarca latino di Terra Santa, mons. Piavi, presente a Roma, non ponesse ostacoli all’accordo. Tutto andò per il meglio, cosicché il 9 novembre il rescritto era pronto.
Bisognava passare all’azione. Nella riunione capitolare del 7 febbraio 1891, «don Rua espone come il can. Belloni abbia scritto chiedendo che oltre al visitatore si mandino con lui a Betlemme due Salesiani per stabilirvisi al fine di maggio. Il Capitolo propende ad acconsentire e intanto stabilisce due preti che sembrano molto atti a lavorare in Palestina».[324] Saranno don Giovanni Battista Useo e don Ruggero Corradini. Il 15 giugno 1891, il canonico con i Salesiani Barberis, Useo e Corradini sbarcavano a Jaffa. Il successivo 8 ottobre arrivarono a Betlemme quattro chierici, tre coadiutori salesiani e cinque Figlie di Maria Ausiliatrice. Altri diciassette Salesiani guidati da don Antonio Varaia, sei chierici e nove coadiutori, arriveranno il 29 dicembre. La fusione aveva preso corpo.[325]
Ma l’operazione si rivelò molto faticosa. Parecchi collaboratori abbandonarono don Belloni e si incardinarono nel Patriarcato latino. Altri recalcitravano. Circolavano voci ostili. I Salesiani minacciarono di ritirare le suore. Mancava il denaro. Al Patriarcato si contestava al fondatore la cessione dei beni in favore di don Rua, infatti, si diceva, i doni gli erano stati fatti non a «titolo personale» (intuitu personae), ma «a titolo del Patriarcato» (intuitu Patriarcatus). L’affare prese una piega così brutta che don Rua mandò in Palestina un visitatore straordinario per calmare gli spiriti. Don Celestino Durando arrivò il 23 luglio 1892. Quando, accompagnato da don Belloni, si presentò al Patriarca, quest’ultimo gli chiese a bruciapelo: «Siete venuto in Palestina per ritirare i Salesiani?». «Si vedrà, si vedrà», replicò Durando. Ma don Belloni intervenne subito: «Se i Salesiani partono, parto anch’io». Il Patriarca si ammorbidì. Fu soltanto imposta a don Belloni la restituzione dei titoli di canonico, il che fece volentieri nelle mani dei due inviati del Patriarcato. Entrò così formalmente nel mondo salesiano. Durante l’estate 1893 fece solennemente la professione perpetua nelle mani di don Giovanni Marenco, venuto sul luogo a predicare gli esercizi spirituali. Don Rua pagò i debiti dell’opera e le destinò a partire da quell’anno un sussidio annuale di ventimila franchi.
A poco a poco nelle tre case di don Belloni divenute salesiane le critiche si placarono. Nulla avrebbe potuto conciliare meglio l’unione tra gli spiriti che una visita di don Rua. Egli decise di partire nel 1895.[326]
Accompagnato dal direttore spirituale generale don Paolo Albera, si imbarcò a Marsiglia sabato 16 febbraio 1895 sulla nave Druentia, della compagnia marittima Cyprien Fabre, diretta ad Alessandria d’Egitto. Il marchese di Villeneuve-Trans, cooperatore di Marsiglia, viaggiava con loro. In realtà in un primo tempo era previsto un piroscafo delle Messageries maritimes, più confortevole, ma visto che la nave non partiva nel giorno fissato da don Rua, optarono per l’altra. I primi giorni furono travagliati: un violento vento da Est obbligò due volte il comandante a fermarsi e modificare la rotta per avvicinarsi alla costa italiana. I viaggiatori sballottati dalle onde soffrivano. La mattina di domenica 17, don Rua uscì livido dalla cabina con l’intenzione di celebrare una messa preannunciata. Dovette rinunciarvi e rimanere disteso tutta la giornata in cuccetta, obbligato ogni tanto ad aggrapparsi per non essere scaraventato a terra. Le valigie ruzzolavano giù dal letto. I barili rotolavano, facendo un gran fracasso sul ponte. Tuttavia, racconta don Albera, egli restava calmo, leggeva o pregava. Infine, nella notte tra lunedì a martedì la tempesta si placò. Finalmente il 19 don Rua e don Albera poterono celebrare la messa. Trasformavano il loro viaggio in un ritiro spirituale, celebrando la liturgia delle ore, facendo insieme la meditazione e la lettura spirituale quotidiana.
La traversata Marsiglia-Alessandria durò una settimana. La nave attraccò domenica 24 febbraio. Quel giorno, celebrata la messa a bordo, salutarono il comandante e l’equipaggio, che si erano dimostrati molto gentili nei loro riguardi, e sbarcarono. Alessandria apparve loro una città pittoresca, come leggiamo nella bella descrizione di don Albera a don Belmonte. Prima di riprendere il largo per raggiungere la Palestina, alloggiarono al collegio san Francesco Saverio dei Gesuiti, i quali «colmarono di gentilezze il nostro venerando Superiore». Don Rua volle rendere visita al delegato apostolico mons. Corbelli, che insistette sulla necessità di creare ad Alessandria un centro professionale salesiano. Evidentemente riuscì a convincerlo, visto che il desiderio sarà esaudito a cominciare dall’anno seguente. Don Rua tentò anche, senza grande successo, di incontrare alcuni Cooperatori, impresa complessa in una città dalle strade senza nome e dalle abitazioni senza numero civico.
Mercoledì 27 febbraio si imbarcarono su un piroscafo di una compagnia turca. Durante il viaggio don Rua trovò un angolo tranquillo per scrivere la corrispondenza. Il giorno successivo approdarono a Giaffa, senza poter celebrare l’eucaristia. Ma ebbero la gioia di essere accolti da alcuni Salesiani che erano venuti in barca a prelevarli insieme ai bagagli, risparmiando loro parecchie noie. Nel convento francescano della città li aspettava con impazienza don Belloni.
Finalmente in terra palestinese, i nostri viaggiatori, preoccupati innanzitutto di compiere un vero pellegrinaggio, si affrettarono a cercare una chiesa per recitare il Te Deum, un Pater e un’Ave per ottenere l’indulgenza plenaria concessa ai pellegrini in arrivo in Terra Santa. Don Rua, con Belloni e Albera raggiunse la stazione da cui partiva il treno per Gerusalemme. Eccolo attento a individuare i luoghi segnalati nella Bibbia, apocrifi compresi, o santificati dal passaggio di Gesù, di Maria e degli apostoli: la casa di Simone il conciatore di pelli di Giaffa; Joppe dove risuscitò Tabita; Ramlah, l’antica Arimatea, patria di Giuseppe e di Nicodemo che curarono la sepoltura di Gesù; la valle del Saron ricordata per le trecento volpi di Sansone, e così via.
Alla stazione di Gerusalemme, un gruppo di preti, chierici e giovani accolse il successore di don Bosco. I tre viaggiatori partirono subito in vettura verso Betlemme. Li scortavano giovani su cavalli o asini. Altri correvano a piedi. Passando salutarono il pozzo dei re Magi e la tomba di Rachele. A un chilometro da Betlemme, una parte dei ragazzi dell’orfanotrofio con lanterne attendeva la vettura di don Rua. Gridarono di gioia. A poco a poco la truppa divenne così compatta da bloccare la carrozza, e don Rua decise di continuare a piedi. La «confusione è indescrivibile» (Albera). Alla fine, tutti festanti raggiunsero la cappella. Sulla soglia i preti attendevano in paramenti sacri, i chierici con la cotta. La banda suonò un brano. Don Rua fu accompagnato all’altare, dove venne esposto il Santissimo Sacramento e intonato il Te Deum tra le volute d’incenso e scintillio di lumi.
Don Rua era molto stanco. Acconsentì tuttavia a passare in una sala per un discorso di benvenuto, al quale rispose con grande cordialità. Poi tutta la comunità dell’orfanotrofio si riunì nello stesso refettorio per la cena, così i ragazzi poterono ammirare «l’aspetto dolce e tutto paterno del nostro venerato Superiore» (Albera). Senza dubbio, nel suo ruolo di Rettor Maggiore, egli aveva completamente abbandonato l’aria severa da prefetto generale, attento alle minime infrazioni della regola.
Venerdì 1° marzo, don Rua partecipò alla meditazione comunitaria, poi celebrò la messa, constatando con piacere che nell’orfanotrofio di Betlemme il primo venerdì del mese era dedicato al Sacro Cuore di Gesù. Fece visita al padre Guardiano dei Francescani e si diresse verso la grotta della Natività. La situazione lo rattristò: la navata dell’antica basilica di Sant’Elena era divenuta una palestra per le esercitazioni dei soldati turchi, il coro era stato trasformato in una chiesa dei Greci ortodossi (scismatici, come scrive Albera a Belmonte). Nella grotta, una stella d’argento sotto un altare avvertiva: Hic de Virgine Maria Jesus Christus natus est. [Qui Gesù è nato dalla Vergine Maria] Don Rua si inginocchiò e pregò a lungo. Ma l’altare era riservato agli ortodossi e agli Armeni e non si poteva celebrare la messa. Qualche passo più in là, una mangiatoia di marmo indicava il luogo dove «i pastori ed i Magi adorarono il divino infante» (Albera). Qui c’era un secondo altare, destinato esclusivamente ai cattolici. Don Rua vi celebrerà l’eucarestia il giorno successivo. Nei dintorni della basilica non mancavano siti più o meno storici da visitare: la grotta del sogno di san Giuseppe prima della fuga in Egitto, quella in cui furono ammassati i cadaveri degli Innocenti, il sepolcro di san Girolamo, Santa Paola ed Eustochio, l’Oratorio di san Girolamo… Luoghi santificati che appagavano il devoto don Rua, sensibile alla memoria storica e alle reliquie.
Il 2 marzo, si intrattenne a lungo con i confratelli e i ragazzi dell’orfanotrofio. Domenica 3, insieme ad Albera e al marchese di Villeneuve-Trans fu invitato a un’assemblea della Conferenza di san Vincenzo de Paoli, organizzata a Betlemme su iniziativa di don Belloni. Don Albera vi notò lo stesso spirito di carità, le stesse preghiere, le stesse preoccupazioni di sostegno alle famiglie povere delle conferenze sorelle d’Europa. Il marchese ne uscì entusiasta. Al loro ritorno, i giovani avevano preparato uno spettacolo in italiano, il dramma di don Lemoyne intitolato La Patagonia. «Bisognava applaudire calorosamente questi attori, che per lo più arabi, avevano con grande sforzo appreso le loro parti in italiano e le sostenevano in modo ammirabile» (Albera).
Lunedì 4 fu dedicato alla visita a Gerusalemme. Poco prima di entrare in città, i pellegrini costeggiarono la valle della Geenna, divenuta una specie di cloaca di acqua stagnante. Don Rua aveva fretta di inginocchiarsi presso il Santo Sepolcro. Ma dovette prima presentarsi al Patriarca latino, mons. Piavi, che, tempo prima avrebbe voluto sbarazzarsi dei Salesiani. «Questi, sebbene molto sofferente, lo riceve con grande bontà; gli manifesta a più riprese il suo piacere di vedere il successore di D. Bosco, e ricorda coloro fra i superiori salesiani che già conosce» (Albera). Dall’ufficio del patriarca, don Rua passò a quello del coadiutore mons. Apodia e nel seminario presso il Patriarcato. Dalla sua terrazza stava contemplando raccolto la città, quando arrivarono i seminaristi per baciargli la mano e sentire qualche sua parola. Don Albera racconta la scena nella lettera del 7 marzo a Belmonte: «Don Rua vi si presta volentieri e con un linguaggio semplice e cordiale li esorta a coltivare lo studio e la pietà onde far un giorno gran bene in queste missioni prese di mira dai scismatici, dai protestanti e persino dai framassoni che in questi giorni si radunano a congresso in Gerusalemme portando da lontani paesi il loro odio contro Gesù Cristo e la sua Chiesa». La Francia esercitava allora una sorta di protettorato sui cattolici orientali. Don Rua dunque andò anche a salutare il console francese, che lo ricevette con venerazione, gli presentò la famiglia e si mostrò molto interessato dalle opere salesiane, ritenendole provvidenziali in tutti i paesi, specialmente in Palestina. La visita protocollare al console italiano fu riservata al pomeriggio. Durerà a lungo.
Finalmente don Rua poté visitare il Santo Sepolcro, il Calvario, la chiesa di sant’Elena, «là dove fu scoperta la Santa Croce», e «e molti altri luoghi divenuti l’oggetto della venerazione dei fedeli e che tutti sono compresi nella grande basilica del Santo Sepolcro» (Albera). Alla sera cenò presso i Francescani che lo alloggiarono per permettergli di celebrare la messa al Santo Sepolcro l’indomani, alle quattro del mattino. Avrebbe condiviso la camera con gli altri due pellegrini. Poco gli importava! D’altra parte non dormì molto se, come raconta don Albera, salì sulle gallerie superiorì e là, con «lo sguardo fisso sul Santo Sepolcro, prolungò le sue preghiere fino ad ora assai tarda».
L’indomani don Albera e il marchese di Villeneuve servirono la messa di don Rua, ch era «visibilmente commosso». Albera celebrò dopo di lui, mentre egli, inginocchiato sulla pietra, faceva il suo ringraziamento. Poi i pellegrini seguirono parzialmente la Via dolorosa sulle orme di di Gesù, visitarono diverse stazioni della Via Crucis, entrarono nella chiesa delle Dame di Sion per vedere l’arco dell’Ecce homo. Si diressero quindi al Gethsemani, senza entrarci, e salirono sul monte degli Ulivi. Sulla strada c’è il convento delle Carmelitane, costruito «nel luogo stesso dove Gesù Cristo insegnò il Pater noster». Vi si trova anche la Grotta del credo, «perché pare che fossero colà radunati gli Apostoli quando prima di separarsi composero il Simbolo Apostolico». Le Carmelitane li fecero accompagnare fino alla chiesetta dell’Ascensione, ove baciarono la pietra che «porta l’impronta dei piedi di Nostro Signore». Quindi visitarono Betfage, da cui Gesù aveva contemplato Gerusalemme e annunciato la sua rovina; l’orto in cui Gesù fu tradito da Giuda; la grotta dell’Agonia; il sepolcro della Vergine Maria, «che – lamenta don Albera – è in mano dei scismatici».
La loro emozione religiosa fu costante e intensa, come documenta il racconto dettagliato di Albera sulla visita del pomeriggio. Incontrarono molti inglesi, «fra cui molti pastori protestanti». «Essi visitano tutto come turisti e non danno il minimo segno di pietà e di divozione. Ecco il frutto d’aver abolito il culto esterno!». I nostri tre pellegrini, invece, soprattutto il devoto don Rua, rimasero tutto il tempo in preghiera.
Ritornato a Betlemme, don Rua dedicò la giornata del 6 marzo alla casa di Cremisan, un po’ più lontana, dove volle recarsi a piedi malgrado le asperità del percorso. Vi abitavano i giovani destinati alla vita salesiana, chierici e coadiutori. Don Rua sperava di farne un vivaio di ottimi Salesiani. Era il giorno dell’esercizio della buona morte: ormai le usanze salesiane si erano radicate nelle antiche case della Sacra Famiglia. Dopo l’esercizio si tenne un’accademia con composizioni in latino, in italiano, in francese e in arabo. Nel pomeriggio fu presentato un dramma in italiano. Sembrava di essere in Italia, racconterà don Albera. Don Rua visitò la campagna e la cantina, dispiaciuto che la produzione dell’anno precedente non fosse ancora stata messa in commercio: «Com’è difficile a venderlo! eppure si ha tanto bisogno di danaro». Poi ricevette i resoconti spirituali dei confratelli e di tutto il personale, che desiderava confidarsi con lui.
Il 9 marzo giunsero a Betlemme cinque confratelli di Beitgemal. Avevano camminato otto ore sotto la pioggia per incontrare il Rettor Maggiore, immaginando che avrebbe potuto dedicare ben poco tempo alla loro casa.[327] Don Rua trascorse i giorni 10 e 11 di marzo in diverse visite: agli ospedalieri di San Giovanni di Dio, che festeggiavano il loro fondatore; a varie persone in Gerusalemme, soprattutto al patriarca Piavi, con il quale si dovevano trattare affari importanti per le case della Palestina. Don Albera, presente all’incontro, scrisse: «Anche in questa circostanza potei comprendere quanta stima abbia del nostro Rettor Maggiore mons. Patriarca e quanta grande sia l’oculatezza e la prudenza di D. Rua».[328]
La visita di Beitgemal era prevista per il 12. Saliti sul treno nella stazione di Gerusalemme, don Albera lesse sul giornale Italia Corriere la notizia che un seminarista diocesano di Catanzaro aveva sparato al suo Rettore, il salesiano don Francesco Dalmazzo. La tristezza di don Rua fu immensa. Lungo il viaggio continuò a tornare sul drammatico fatto, auspicando che la ferita non fosse mortale. La speranza si rivelerà vana. Il treno li portò da Gerusalemme a Deyroban. Di qui andarono alla colonia agricola di Beitgemal. Vennero loro offerte alcune cavalcature, ma don Rua preferì andare a piedi, malgrado la distanza e il caldo.
All’entrata della tenuta venne accolto con canti e componimenti di benvenuto. Scoprì l’impazienza e la gioia con cui i giovani e i loro maestri lo attendevano. Ammirò il giardino in fiore e salì verso la casa, una specie di castello in cima alla collina. I ragazzi gli si strinsero attorno, ascoltando tutte le sue parole, mentre alcuni cavalieri continuavano a caracollare nelle vicinanze in segno di gioia. In casa, si cantò un Te Deum e don Rua visitò gli ambienti con evidente soddisfazione. Il pranzo era composto quasi completamente da alimenti prodotti nella colonia e preparati dalle Figlie di Maria Ausiliatrice che curavano la guardaroba e la cucina. Sorpresa: quando alzò il coperchio della zuppiera, ecco volar fuori una colomba bianca in segno di benvenuto. Gli fu anche offerto del cinghiale, cacciato dal pastore della tenuta. Al pasto seguirono alcuni compomimenti e un interminabile concerto del musicista del villaggio, che non riuscì a incantare granché i nostri italiani, che non erano abituati alla musica araba. Don Rua visitò le scuderie e tutta la casa minuziosamente. La domenica 3 marzo si fece festa: di buon mattino ci fu la messa con la comunione generale; alle dieci altra messa cantata in gregoriano, poi la benedizione di una grotta di Lourdes nel cortile dell’istituto. Nel pomeriggio don Rua ricevette i rendiconti spirituali di tutti i confratelli. Insomma l’accoglienza della colonia agricola era stata perfetta.
Il 14 marzo, in groppa a un asinello e circondato da tutti i ragazzi di Beitgemal don Rua si accomiatò. Augurò prosperità a quella casa, che attraversava una grave crisi economica. Partì per Nazaret dove don Belloni aveva acquistato un terreno destinato ad un orfanotrofio simile a quello di Betlemme.
Dalla stazione di Deyroban, il Rettor Maggiore e i suoi due compagni raggiunsero in treno il porto di Jaffa. Si spostarono ad Haifa in battello, poi arrivarono Nazaret in vettura. Il mare era calmo. A Giaffa furono accolti dai carmelitani, nonostante l’ora molto avanzata (era quasi mezzanotte). Il giorno successivo, 15 marzo, partirono alle sette del mattino.
A Nazaret alloggiarono presso i Francescani. Dopo pranzo si affrettarono a venerare la Santa Casa, la casa di Maria. Con emozione grande, don Rua si prostrò all’altare, sormontato dall’iscrizione: Verbum caro hic factum est. Secondo il resoconto di don Albera, videro «le tracce delle fondamenta di quella casa che gli Angeli trasportarono a Loreto, le sue dimensioni, la grotta scavata nel sasso cui era addossata la casa ed un’altra cavità che si dice servisse di cucina a Maria SS.».[329] A Don Rua sarebbe piaciuto sostare più a lungo in meditazione su quei luoghi santificati da Gesù e Maria. Ma doveva salire la collina per ispezionare il terreno della futura costruzione e deciderne l’uso. Vedendo non lontano un istituzione protestante si sentì stimolato nello zelo. Ridiscesero ed entrarono nella casa del proprietario del terreno. Venne loro offerto qualcosa da bere e sgabelli su cui accomodarsi, mentre la famiglia, con loro grande stupore, sedeva su un tappeto. Il giorno seguente, alle cinque del mattino, don Rua e don Albera ebbero la gioia di celebrare la messa nel santuario della Madonna. Anche qui i pellegrini non trascurarono di visitare alcun luogo memorabile: la fontana della Vergine, la cappella eretta sul luogo del laboratorio di san Giuseppe, con l’iscrizione: Hic Iesus subditus erat illis, la mensa Christi, «che non è altro che un’immensa pietra su cui si dice che Gesù Cristo abbia preso cibo co’ suoi discepoli». Don Albera, che ci lascia queste notizie, mostra di essere informato sulle pie tradizioni locali. Don Rua visitò anche la sinagoga in cui Gesù, aperto il libro aveva commentato le parole: «Mi ha inviato a evangelizzare i poveri e a sanare i contriti di cuore». Gli fu anche mostrato il dirupo sul quale gli Ebrei avevano trascinato il Signore per precipitarlo di sotto. Di là scorsero anche il monte Tabor, che, con rimpianto, non poterono visitare.
Dopo aver pranzato presso i Francescani (era quaresima), ripartirono in vettura verso Haifa e il monte Carmelo, ospitati cordialmente dai Carmelitani. Terminato l’ufficio religioso, li attendeva una buona cena. Don Rua intendeva rifiutare a motivo del digiuno quaresimale. «Io la dispenso in forza della facoltà che mi accordò il Patriarca di Gerusalemme», lo informò il priore, ed egli dovette cedere.
Avevano il biglietto del battello per Giaffa e dovevano trovarsi al porto di Haifa l’indomani, domenica 17 marzo, alle tre del mattino. Verso l’una e mezzo un fratello carmelitano invitò i due sacerdoti a celebrare la messa. Dopo una rapida colazione, i tre partirono alla ricerca del loro «vaporetto». Ma il mare burrascoso e lo spettacolo dei passeggeri che sbarcavano in condizioni pietose indussero don Albera ad assumersi la responsabilità di una decisione che non sarà senza conseguenze. Riteneva che «il Superiore Generale d’una Congregazione non doveva avventurarsi a quel modo; che i confratelli avrebbero avuto ragione d’incolpare lui stesso qualora fosse avvenuto qualche disastro». Convinse con difficoltà don Rua, che finì con rassegnarsi quando il capitano l’avvisò che sarebbe stato probabilmente obbligato ad andare fino a Port-Saïd. Non avrebbe così potuto tornare a Betlemme per la festa di san Giuseppe, come si era impegnato a fare. I biglietti furono rimborsati.
Alla fine i tre si ritrovarono sulla strada per Giaffa in una vettura con un conducente tedesco. Si lanciavano in un’avventura imprevedibile. Ebbero momenti piacevoli, come il passaggio attraverso una colonia ebraica tenuta molto bene, dove visitarono la sinagoga, e la traversata pittoresca di un accampamento di beduini con tende e greggi… Altri momenti furono meno simpatici. Le cose si guastarono al calar della sera. A partire dalle ore 19, in quelle regioni non si può più circolare, spiegherà don Albera. Il vetturino non può vedere la strada e si potrebbe essere assaliti dai beduini. La vettura si fermò presso un villaggio di povere capanne in argilla. Il capo voleva ospitarli, ma essi non vollero mangiare circondati da spettatori curiosi né dormire in una di quelle casupole per terra sulle stuoie. Ringraziarono e rifiutarono. Cenarono con un uovo, qualche sardina e un po’ di vino. Cercarono di riposare nella vettura, mentre il conducente si stese a terra. Un turco armato sorvegliava il bivacco. Sfortunatamente soffiò un forte vento per tutta la notte. Penetrava nel veicolo dalla parte anteriore rimasta aperta. Così alle due del mattino, con le membra indolenzite per l’aria umida e la posizione scomoda, cominciarono a spazientirsi. Don Rua, avvolto nel mantello, non poteva proteggersi dal freddo e si trovava le gambe rigide. Insistette a più riprese perché il vetturino si rimettesse in strada. Questi fingeva di non capire. Alla fine i cavalli furono agganciati, e verso le tre la vettura si rimise in moto. «Ti assicuro – scrive Albera a Belmonte – che ci parve molto opportuno non solamente di farci il segno di croce, come già facevamo ogni altra volta che la vettura si metteva in moto, ma di raccomandarci di cuore al nostro Angelo Custode». La strada era accidentata e capirono perché il conducente si fosse tanto fatto pregare a riprendere la marcia prima del levar del sole. Trattenevano il respiro a ogni attraversamento di fossato. La vettura pendeva pericolosamente da un lato e dall’altro, sembrava si rovesciasse. Le mancò poco: una delle ruote aveva urtato bruscamente un grosso ramo sul terreno e il vetturino evitò la caduta facendo da contrappeso sull’estremità del sedile. Quando giunsero a un ponte stretto e senza parapetto si spaventarono. Don Rua chiese al vetturino di scendere e tenere i tre cavalli per la briglia. Questi non ci fece caso, avvicinò le bestie con le redini, le frustò e le fece avanzare stretta l’una all’altra, mentre i passeggeri trattenevano il respiro e si raccomandavano a Maria Ausiliatrice. Al di sotto l’acqua scorreva profonda e rumorosa. Scrive don Albera: «Don Rua non perde queste occasioni per dire a’ suoi compagni di viaggio: e che sono queste miserie in paragone di ciò che soffrono i nostri missionari? Ed aggiunge che è il Signore che lo guidò in quei paesi perché si facesse una idea dei loro pericoli e dei loro disagi». Il suo pensiero volava in continuazione ai suoi Salesiani nelle foreste amazzoniche o equatoriali. Finalmente si fece giorno. I due preti che avevano già recitato le preghiere del mattino, aprirono il breviario. Verso le nove il vetturino, uscendo dal suo silenzio, mostrò in lontananza il campanile e la chiesa di Giaffa. Alle ore 10 entrarono nella Casa del Pellegrino della città.
Il ritorno a Betlemme fu più tranquillo: viaggiarono in treno da Giaffa a Gerusalemme. Nella breve fermata alla stazione di Deyroban, furono salutati da confratelli, suore e giovani di Beitgémal. A Gerusalemme, gli amici offrirono le loro vetture per il tragitto verso Betlemme, dove arrivarono finalmente alle diciotto e tranta di quell’avventuroso 18 marzo.
Il giorno successivo, festa di S. Giuseppe, si concludeva degnamente il pellegrinaggio in Terra Santa. Don Rua cantò la messa solenne nella cappella dell’orfanotrofio. Dopo il pranzo, ricevette parecchie professioni religiose e consegnò l’abito ai novizi. La cerimonia si concluse con la benedizione del Santissimo. Poi era atteso nell’Oratorio femminile tenuto dalle suore salesiane per la vestizione di una suora di Betlemme. «Non fu mai vista tal funzione, quindi incredibile l’entusiasmo delle figlie dell’Oratorio e dei loro stessi parenti», scrive don Albera. Don Rua si espresse in italiano e le ragazze, benché non capissero, ascoltarono «assai raccolte e silenziose».
Quella sera, l’ultima nel paese di Gesù, don Rua parlò ai Salesiani, diede consigli e incoragiamenti. Tutti si commossero. Quando l’indomani, prima di lasciare definitivamente la casa, alle sei e mezzo del mattino benedisse ancora una volta giovani e confratelli, «quasi tutti gli occhi erano ripieni di lacrime».
Si imbarcarono il 20 marzo a Giaffa sul Sindh, vapore destinato a portarli fino a Marsiglia, via Port-Saïd e Alessandria. Ma poiché c’era tempo a sufficienza, decisero di sbarcare a Port-Saïd il 21 per raggiungere in ferrovia il porto di Alessandria dove avrebbero preso lo stesso vapore. A bordo fecero alcune amicizie. Un medico francese di origine polacca, che aveva conosciuto il marchese di Villeneuve a Marsiglia in una casa di esercizi spirituali dei Gesuiti, si affrettato ad offrire la sua cabina a don Rua, quando seppe che era il Superiore Generale dei Salesiani. Il successore di don Bosco si trovò come in una cappella, le pareti della cabina infatti erano ornate di pie immagini. Vi celebrerò la messa con l’assistenza del medico. Un certo signor Descamps, facoltoso commerciante di Lille, perfetto conoscitore della Palestina e dell’Oriente, si dichiarò Cooperatore salesiano. Conversando col marchese de Villeneuve, scoprì che erano stati compagni nel collegio Rollin a Parigi. Per compiacere i nostri pellegrini, scese con loro a Port-Saïd per accompagnarli in treno ad Alessandria.
Il 22 fecero una puntata al Cairo. Si fermarono presso i Gesuiti. Don Rua si mise sulle tracce dei Cooperatori locali, che insistevano per avere una scuola professionale salesiana anche al Cairo. Il loro desiderio si realizzerà solo sotto il rettorato di don Albera. Eccezionalmente, don Rua accettò la proposta del padre ministro (economo) gesuita di una passeggiata fino alle Piramidi: al ritorno avrebbero potuto visitare Matarieh, dove la tradizione ricorda una sosta della sacra Famiglia in fuga da Erode. Attraversarono il Nilo, pensando al piccolo Mosé nel cesto, vigilato dalla sorella maggiore. L’enormità delle Piramidi li impressionò, ma il loro piacere fu guastato da un nugolo di arabi vocianti, che volevano far da guida o farli salire sui cammelli o chiedevano insistentemente denaro. Il padre Ministro dovette persino minacciare con la frusta del vetturino un uomo particolarmente violento.
A Matarieh, ammirarono l’albero «sotto cui credesi abbia riposato la Sacra Famiglia. Esso è oggetto di venerazione per i mussulmani stessi». Poi bevvero l’acqua della fontana che dissetò Maria, Giuseppe e il bambino. Dopo una deviazione a Heliopolis, i vetturini li condussero nella parte vecchia della città, alla «casa che si crede sia stata abitata dalla Sacra Famiglia nel suo esilio in Egitto». Don Albera annota: «La tradizione che quella stessa casa sia stata abitata da san Giuseppe e da Maria SS. non sembra senza fondamento»; e aggiunge: «Il luogo è in mano dei Copti».
L’indomani, dopo la messa, il superiore dei Gesuiti accompagnò personalmente don Rua alla stazione del Cairo. Verso mezzogiorno, il gruppo era ad Alessandria nel bell’istituto dei Gesuiti, dove già avevano alloggiato qualche settimana prima. Il 24 ritrovavano il Sindh con i suoi numerosi passeggeri. Li avrebbe condotti direttamente a Marsiglia. Per una brutta distorsione l’amico medico non poteva camminare e doveva tenere la gamba distesa. Don Rua avrebbe voluto restituirgli la cabina, ora che ne aveva bisogno. Ma egli non volle sentire ragioni. Durante la traversata, ogni mattina, vi si trascinerà per assistere alla messa.
All’ora dei pasti, nel soggiorno, i cinque o sei sacerdoti presenti sulla nave si sistemavano allo stesso tavolo, pregavano insieme e conversavano su temi religiosi. Si era ancora in Quaresima e don Rua non lo dimenticava. Farà digiuno durante tutta la traversata: «Don Rua, con una costanza che non tutti si sentono d’imitare, dispone le cose in modo che un pasto sarva da pranzo e l’altro da colazione, e così continua il suo digiuno. È vero che talvolta deve contentarsi per cena di alcune olive o d’una pera, tutto essendo preparato al grasso».[330] Le eccezioni sull’applicazione rigorosa delle norme ecclesiastiche invocate dai casuisti non lo interessarono mai. Fu sempre molto esigente con se stesso.
Il tempo era variabile e talvolta una improvvisa tempesta rallenta la nave. Alcuni dei viaggiatori erano talmente disturbati che li si vide soltanto a Marsiglia, come narra don Albera. Non così per don Rua, forse grazie all’austerità del suo regime. Il tempo sconsigliò il capitano di passare lo stretto di Bonifacio. Si fece il giro della Corsica e il viaggio durò dieci ore più del previsto. Venerdì 29 marzo verso le ore 15, il Sindh entrò nel porto di Marsiglia. Con loro grande sorpresa, i Salesiani venuti ad accoglierlo trovavano un don Rua con la barba lunga: si era imposto di riprendere un’antica usanza dei pellegrini in Terra Santa e l’aveva lasciata crescere.
Il pellegrinaggio aveva permesso a don Rua di alimentare la sua devozione ripercorrendo i luoghi santificati dalla presenza del Signore, di rafforzare definitivamente i legami tra la Congregazione Salesiana e l’opera di don Belloni, di prendere contatto con le popolazioni orientali di cui fino a quel momento non sapeva nulla. Rientrò a Torino molto cambiato, per celebrare la settimana santa e preparare l’imminente congresso dei Cooperatori, che si tenne a Bologna nel mese di aprile.
19 – IL CONGRESSO SALESIANO DI BOLOGNA
Nel 1876, con l’istituzione della Pia Unione dei Cooperatori don Bosco aveva realizzato in qualche modo il suo antico progetto sui “Salesiani esterni”. Ne aveva anche stilato un regolamento formale. Ora i Cooperatori si erano moltiplicati in Francia e in Spagna, soprattutto in Italia. Nel luglio 1894, durante il viaggio di un mese attraverso la Svizzera, l’Alsazia-Lorena e il Belgio, don Rua era venuto a contatto con gruppi di ferventi ammiratori dell’opera di don Bosco nei cantoni svizzeri del Ticino (Lugano) e di Argovia (Muri), in Alsazia (Obernai, Andlau, Sainte-Marie-aux Mines), in Lorena (Metz), in Belgio (Liegi, Hechtel, Bruxelles) e pefino a Maestricht, nei Paesi Bassi.[331] Sentiva quanto fosse importante organizzare e animare quei cattolici generosi. La loro ragion d’essere, spesso mal compresa, era stata illustrata da don Bosco in una conversazione con Lemoyne del 19 febbraio 1884: «Il loro vero scopo diretto non è quello di coadiuvare i Salesiani, ma di prestare aiuto alla Chiesa, ai vescovi, ai parroci sotto l’alta direzione dei Salesiani nelle opere di benificienza, come catechismi, educazione di fanciulli poveri e simili. Soccorrere i Salesiani non è altro che aiutare una delle tante opere che si trovano nella Chiesa cattolica».[332] Così don Rua pensò che fosse necessario interessare direttamente le diocesi. Convocò dunque per il 12 e 13 settembre 1893, presso la tomba di don Bosco a Valsalice, il primo convegno dei direttori diocesani dei Cooperatori d’Italia. Ventisei diocesi risposero all’invito. Dopo la seduta di apertura della riunione, volle dimostrare come don Bosco, nel rispetto della gerarchia, ambiva raggruppare tutti gli operatori del bene attorno ai vescovi e, in questo modo, attorno al vicario di Gesù Cristo.[333] Fu molto soddisfatto per il risultato dell’incontro, come scrisse dopo alcuni giorni nell’affettuosa lettera collettiva di ringraziamento.[334]
Un ulteriore passo organizzativo si compì nel 1894, quando don Rua fece pubblicare una sorta di guida per i coordinatori locali, il Manuale teorico-pratico ad uso dei decurioni e direttori.[335] Nella prima parte del libretto si precisava il ruolo del «decurione», responsabile del gruppo locale di Cooperatori o Cooperatrici; si illustrava il compito del direttore diocesano, del vicedirettore (previsto per le città più importanti), del comitato salesiano, dei sotto-comitati delle Cooperatrici, degli «zelatori» e delle «zelatrici». La seconda parte, dedicata integralmente alle «opere di zelo», conteneva alcuni elementi chiave di una vera e propria spiritualità apostolica. Suggeriva il modo di coordinare azione e preghiera, catechesi («ogni cooperatore dovrà essere catechista») e cura delle vocazioni ecclesiastiche (nella famiglia, nella scuola), promozione della stampa (da diffondere tra il popolo, nei catechismi, negli oratori, nelle officine e negli ospedali) e interesse per la gioventù abbandonata (da aiutare cooperando con le opere educative e sostenendo l’azione dei Salesiani). Infine invitava a fare buon uso del denaro, mezzo potente per compiere il bene, ed esortava ad impiegarlo con frutto nelle opere.[336]
Il cardinale Domenico Svampa, arcivescovo di Bologna, ammiratore di don Bosco, desideroso di avere i suoi figli nella propria città, venne a Torino per il Congresso Eucaristico nel settembre 1894. Consapevole del successo riportato dal convegno dei direttori diocesani dei Cooperatori, propose a don Rua l’idea di una grande manifestazione, estesa non ai soli quadri dirigenti, ma a tutti i Cooperatori d’Italia. Il progetto piacque immediatamente al successore di don Bosco. In novembre scrisse al cardinale suggerendo Bologna come sede del Congresso. Svampa non si limitò ad accettare la proposta, ma considerò l’affare come proprio. Per comunicare al pubblico l’evento scelse il salesiano don Stefano Trione (1856-1935), oratore efficace e perfetto organizzatore.[337] Questi, il 26 novembre, al cospetto dell’arcivescovo, di membri eminenti del clero, «di patrizi, di matrone, di operai, di impiegati e di donne del popolo», pronunciò un discorso su Don Bosco e la gioventù del diciannovesimo secolo, nel corso del quale annunciò la convocazione a Bologna, per la primavera del 1895, del primo Congresso dei Cooperatori salesiani.
La preparazione fu rapidissima. Il mattino succesivo, con l’aiuto del cardinale don Trione formò il comitato organizzatore. I componenti vennero immediatamente avvisati e la sera dello stesso giorno si riunirono in una sala dell’arcivescovado. Don Trione spiegò il progetto, L’evento venne fissato per il 23, 24 e 25 aprile successivo. Lo scopo era quello di far conoscere l’utilità e l’opportunità delle opere fondate da don Bosco per l’educazione dei figli del popolo – attraverso oratori festivi, scuole, convitti, orfanotrofi, scuole d’arti e mestieri –, per l’assistenza degli immigrati italiani, per le missioni in Asia, in Africa e tra i «selvaggi» dell'America meridionale. Il Congresso avrebbe dilatato la collaborazione e incoraggiato lo zelo e l’attività dei Cooperatori salesiani, «che sono nel mondo come dei Terziari di don Bosco, desiderosi di riprenderne lo spirito e imitarne le opere».[338] Il comitato si organizzò scegliendo come presidente mons. Nicola Zoccoli, vicario generale dell’arcivescovo, che scrisse a don Rua pregandolo di sostenere il progetto e informandolo che il cardinale Svampa avrebbe accettato la presidenza d’onore del Congresso. Don Rua rispose: «Lascio immaginare a Vostra Eccellenza con quale piacere io approvo sì bel disegno, dandovi a suo tempo tutta la pubblicità, tutto l’appoggio di cui posso essere capace presso i nostri benemeriti Cooperatori. Se poi pare conveniente che, come Superiore dei Salesiani, io assuma la presidenza effettiva di tale Congresso, sebbene con qualche trepidazione, accetto il benevolo invito, confidando a mia volta sull’appoggio del Comitato e sulla benignità dei Cooperatori che vi prenderanno parte».[339]
Don Rua seguì con ammirazione e riconoscenza il lavoro minuzioso di preparazione delle assemblee. Il comitato stabilì sei commissioni preparatorie: la prima era preposta alla ricerca e alla preparazione della sala del Congresso; la seconda responsabile del reperimento dei fondi e delle riduzioni sui biglietti ferroviari; la terza addetta all’ospitalità dei congressisti; la quarta incaricata dell’ufficio stampa; la quinta aveva il compito di esaminare i discorsi e stabilirne l’ordine; la sesta era adibita alla cura delle cerimonie religiose e dei festeggiamenti. Il programma fu suddiviso in quattro sezioni: educazione e istruzione; missioni salesiane; buona stampa; organizzazione dei Cooperatori. Bisognava anche suscitare l’interesse delle autorità ecclesiastiche. Nel gennaio 1895, il presidente del comitato inviò due circolari all’episcopato italiano, una per notificare ufficialmente il Congresso e invitare i vescovi alla partecipazione, l’altra per pregarli di designare in ciascuna diocesi una persona con la quale il comitato potesse corrispondere, incaricata di distribuire le circolari e gli inviti. Le adesioni più prestigiose affluirono subito. Cardinali e vescovi si complimentarono per l’organizzazione di un’assemblea atta a restaurare la vitalità della Chiesa e della società. Per darle il giusto peso, nella sua lettera pastorale di Quaresima, il cardinale Svampa annunciò il Congresso a tutti i diocesani. A cura della commissione per la stampa vennero pubblicati e diffusi due «numeri unici» sul Congresso con articoli e illustrazioni di circostanza. I Bollettini salesiani nelle varie lingue fecero la loro parte. Così la notizia si diffuse anche fuori dall’Italia. Quando la presidenza del comitato ebbe la certezza della partecipazione di Cooperatori da almeno sette nazioni europee, non esitò a parlare di «Congresso internazionale». Così l’iniziativa divenne un avvenimento sensazionale anche per la città di Bologna.
Accompagnato da don Filippo Rinaldi, ispettore di Spagna, don Rua arrivò alla stazione di Bologna il 21 aprile pomeriggio. Lo attendevano numerosi membri del comitato. Con il cardinale Svampa poté ammirare la magnifica sala delle riunioni, sistemata nella barocca «Chiesa della Santa» (che custodisce il corpo di santa Caterina de’ Vigri fondatrice del monastero delle clarisse). Un immenso tendaggio con al centro il busto di Leone XIII sovrastava la parte alta del coro, dove era collocata una pedana a due livelli per la presidenza d’onore e la la presidenza effettiva. Ai due lati del coro erano disposti i busti di Pio IX e di don Bosco.[340]
La cerimonia di apertura si tenne il mattino del 23 aprile nella basilica di San Domenico. Alle otto, tra una folla immensa, sfilò una lunga processione che partiva dalla sacrestia: chierici, sacerdoti, curati, canonici, don Rua, ventun vescovi e arcivescovi in cappa, con mitra e pastorale, i cardinali di Ravenna, di Ferrara, di Milano, e infine il cardinal Svampa, che celebrò la messa pontificale dello Spirito Santo. La musica di Palestrina contribuì perfettamente alla solennità del momento.
Terminata la liturgia, i congressisti, muniti di tessera di riconoscimento, si diressero verso la Chiesa della Santa, preparata per l’assemblea. I posti vennero rapidamente occupati. Sui banchi della stampa sedevano i rappresentanti di trentanove giornali italiani di ogni tendenza, di quattro testate spagnole, sette austriache, quattro francesi, una tedesca, tre svizzere e due inglesi. L’ingresso dei venticinque prelati fu salutato da applausi. Un periodico milanese descrive così l’arrivo di don Rua: «Mentre s’andava chetando il sussurro e l’ultimo battimani, ecco di bel nuovo fragorosamente applaudire, tutti levarsi in piedi, allungare il collo, appuntare le ciglia: un povero prete, magro, macilento, stecchito, dimesso ed umile, ma con il volto tutto raggiante di riso bonario, ascendere al banco della presidenza. Era Don Rua, colui che ha raccolto l’eredità di Don Bosco, e che ricopiando in sé le virtù del suo padre, non ci ha fatto tanto a lungo lacrimare sulla tomba dell’apostolo di Torino».[341]
Il cardinale Svampa salutò l’assemblea, a cominciare dai dignitari ecclesiastici e da don Rua, che, diceva, ha raccolto insieme con l’incarico di Rettore lo spirito stesso di don Bosco. Il segretario generale lesse il Breve di Leone XIII, che esaltava il lavoro dei Salesiani per l’educazione della gioventù e la diffusione della civiltà e delle fede cristiana tra popolazioni ancora pagane. A nome del comitato promotore il suo presidente spiegò l’origine e il significato del Congresso. Infine don Rua ringraziò gli organizzatori, in particolare il cardinale di Bologna, fervente ammiratore di don Bosco da quando, ancor giovane seminarista a Fermo, era stato scelto per leggere il componimento poetico durante una sua visita del Santo in seminario. Un immenso applauso si levò mentre don Rua baciava la mano del cardinale e questi lo abbracciava.
Il Congresso fu suddiviso in quattro sezioni:1) Educazione e istruzione; 2) Missioni salesiane; 3) Stampa; 4) Organizzazione della Pia Unione dei Cooperatori salesiani. Ciascuna delle sezioni doveva eleggere un presidente, un segretario e un relatore. Il programma giornaliero era denso. Alle 8 c’era la messa, celebrata da un cardinale. Alle 8.30 iniziavano le riunioni per sezioni, incaricate di preparare le mozioni da sottoporre all’assemblea; alle 10 si teneva l’assemblea generale; alle 13 riprendevano le riunioni per sezione, e alle 15 si teneva una nuova assemblea; infine, alle 17, c’era un sermone tenuto da un arcivescovo e la benedizione del Santissimo nella basilica San Domenico. La sera del terzo giorno fu organizzata, nella sala stessa del congresso, un’accademia in onore dei congressisti. L’avvenimento fu coronato il 26 aprile da un pellegrinaggio diocesano al santuario della Vergine di san Luca.
Gli interventi erano stati accuratamente preparati. La lista dei titoli dimostra la varietà e l’ampiezza di interessi dei congressisti: don Bosco e le sue opere; la cooperazione salesiana; l’origine e la missione dei Cooperatori salesiani; il sistema educativo di don Bosco; gli Oratori festivi e i catechismi; la scuola di religione; le scuole primarie e secondarie; i collegi e gli internati; l’educazione delle ragazze e l’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice; l’educazione dei giovani lavoratori; le colonie agricole salesiane; le missioni salesiane; la tutela dei migranti; la collaborazione economica alle opere salesiane; la stampa popolare; i libri scolastici; l’opera salesiana a servizio della Chiesa per il bene dell’umanità; infine «il papa e don Bosco». Bisogna aggiungere le numerose mozioni elaborate nelle singole sezioni e fatte proprie dall’assemblea, che sono sparse qua e là negli Atti, soprattutto in riferimento all’apporto dei Cooperatori per l’educazione religiosa dei giovani: la loro collaborazione nella catechesi familiare e nei catechismi parrocchiali; l’impegno per introdurre nelle scuole elemntari pubbliche l’insegnamento religioso nella forma e nel senso voluti dalla Chiesa; la scelta per l’educazione dei figli di scuole e collegi ispirati alla fede e alla morale cattolica; la necessità di far pesare la propria autorità o prestigio perché nei concorsi le amministrazioni comunali preferissero insegnanti che per educazione, studi e qualità morali dessero garanzia di svolgere bene il loro incarico dal punto di vista pedagogico e religioso; l’aiuto ai migranti; la battaglia contro la stampa immorale ed empia e la cooperazione per una stampa popolare di buona qualità; la necessità da parte dei genitori di verificare con cura l’istruzione dei figli. Le undici mozioni sulla condizione dei giovani operai, in perfetta sintonia con «l’ammirabile enciclica Rerum novarum» di Leone XIII (1891), meriterebbero di essere citate per esteso, tanto sono significative dell’impatto della dottrina sociale della Chiesa sul mondo salesiano. Il tutto costituiva un vasto programma apostolico, soprattutto per i Cooperatori d’Italia, direttamente interessati. Restava solo la sfida di metterlo in atto.
L’ultima assemblea si tenne nel pomeriggio del 25 aprile.[342] In qualià di presidente effettivo, don Rua aveva guidato con tatto tutte le riunioni. Prese la parola, con «voce tremante per l’emozione», come scrive la cronaca. Fu un discorso di ringraziamento: al papa per il suo Breve, ai quattro cardinali per la loro presenza, agli arcivescovi e vescovi, ai preti, ai laici, ai Cooperatori e Cooperatrici accorsi numerosi. Conclue: «Nella storia della Congregazione Salesiana le date 23, 24 e 25 aprile 1895 saranno segnate a caratteri d’oro, ed in mezzo ad esse brillerà il nome dell’Eminentissimo Cardinale Svampa». Il vice-presidente Achille Sassoli-Tomba ringraziò gli organizzatori e il pubblico a nome dei Cooperatori salesiani della città di Bologna. Poi parlò il cardinale Svampa, presidente onorario. Negli Atti, i suoi discorsi sono raccolti a parte così come furono pronunciati. Ci sembra utile riprenderli, nonostante il loro carattere retorico più o meno evidente, perché ci aiutano ad entrare nel clima dell’evento.
Egli disse che la sua felicità per la perfetta riuscita della manifestazione era adombrata
da un sentimento di mestizia, perchè questa è l’ultima seduta, perché dobbiamo staccarci da tante e sì care persone, perché non udremo più quesi discorsi così pratici ed interessanti che animarono la speranza del nostro cuore. Oh! perché questi discorsi non sono scolpiti a lettere eterne! Ma la rimembranza sta viva nel cuore di tutti ed è consolante il pensare che di quanto si è detto sarà steso esatto e minuto ragguaglio. Del resto è anche una pena pel mio cuore dovermi sì presto distaccare da persone tanto care che in questi giorni ci hanno onorato della loro presenza e tanto contributo hanno porto all’opera dei promotori; da queste persone che ora ci ringraziano della ospitalità ricevuta, mentre siamo noi che dobbiamo ringraziarle d’aver aderito al nostro invito; da queste persone che qui hanno trovato tutto buono, perché hanno il cuor buono. Ma mentre la nostra non è che una separazione di spazio e di persone, mi conforta il pensiero che avremo altre occasioni di trovarci. Mi duole altresì di dover dare l’addio ai miei carissimi Salesiani, e specialmente al mio carissimo D. Rua, l’anima di questo Congresso; ma è per poco, giacché egli lo ha detto, e la parola di D. Rua non si è mai smentita (applausi entusiastici), è come la firma in una cambiale con data memoranda. E noi li avremo i Salesiani, non come ospiti, li avremo nostri: non di passaggio, ma stabilmente (applausi).[343] […]
Ognuno partendo dal Congresso tornerà alla propria residenza infiammato di novello ardore per la santa causa del bene. Lavoriamo, sì lavoriamo compatti, cooperiamo tutti uniti. Questa sia la nostra aspirazione. Uniti di fede, di cuore e di carità, cerchiamo che non entrino mai tra noi i funesti dissidi che uccidono le opere buone. Sappiamo dominare noi stessi e freniamo le passioni micidiali dell’orgoglio, dell’ambizione, della vanità. Iddio corrobori i santi propositi e li benedica. E la Vergine di S. Luca, che ci ha assistiti e guidati in questo nostro Congresso, domani ci aspetta al suo Santuario della Guardia per benedirci nuovamente. Portiamole i fiori olezzanti della nostra divozione, ed Essa benedirà le nostre opere ora e sempre e farà in modo che, come in questi giorni fummo tanto lietamente raccolti in questa chiesa della Santa, trasformata in nostro cenacolo, così possiamo trovarci allietati nell’ottenere da Dio quell’ospitalità che D. Rua ci augurava e che è il premio riservato ai perseveranti.[344]
Al termine del discorso, scrisse il cronista, il pubblicò scoppiò in lunghi e irrefrenabili applausi.
Non appena rientrato a Torino, don Rua si affrettò a indirizzare ai Salesiani una circolare dedicata al Congresso di Bologna.[345] «Per ben quattro giorni ebbi la bella sorte di assistere ad un sì sublime spettacolo, di fede, di zelo, di carità e, diciamolo pure, di simpatia, verso l’umile nostra Società, che ancora il mio cuore ne è tutto commosso e tutta ripiena la mente. Non tento neppure di mettervi dinnanzi agli occhi quanto mi fu dato divedere e udire; malgrado ogni sforzo non riuscirei che a darvi una sbiadita e pallida immagine di ciò che è avvenuto. Avrei a narrare cose sì belle, sì straordinarie e maravigliose che parrebbero avere dell’esagerato a chiunque non ne sia stato testimone oculare». Lascando dunque ad altri il compito di tracciare la storia e la fisionomia di un Congresso, «che rappresenterà una delle più belle pagine degli annali della nostra Pia Società», egli si limitò a notare che l’evento aveva messo in splendido risalto la bontà del Signore «verso gli umili figli di don Bosco». L’idea del Congresso, l’entusiasmo scatenato nella città di Bologna, l’attività instancabile del comitato organizzatore, la scelta della Chiesa della Santa per le assemblee, la competizione tra le più illustri famiglie per alloggiare i congressisti, la partecipazione devota del popolo alle cerimonie religiose quotidiane nella basilica di San Domenico, capace «di contenere quindicimila persone»…, tutto gli sembrava avesse qualcosa di straordinario. Come, all’indomani della chiusura, il pellegrinaggio di cinquantamila fedeli saliti al Monte della Guardia insieme ai congressisti per ringraziare la Vergine di san Luca del suo felice svolgimento.
Non volle tacere la benevolenza speciale delle autorità cittadine verso i partecipanti. Nulla si era risparmiato per il mantenimento dell’ordine pubblico. I congressisti erano stati trattati ovunque con squisita gentilezza. Avevano potuto visitare gratuitamente i musei di Bologna, semplicemente presentando le loro tessere di adesione. Per l’occasione, l’episcopato, non solo italiano, aveva dato «la più bella prova del suo affetto e della sua stima verso i poveri figli di don Bosco». Quattro cardinali e più di trenta vescovi erano intervenuti personalmente al Congresso. «E altri in quantità incalcolabile gli avevano inviato la loro adesione in termini così delicati e con tali elogi da lasciarci molto confusi». Per di più, una stupenda lettera d’approvazione di Leone XIII, indirizzata al cardinale Svampa, letta all’apertura del Congresso, assicurava la sua benedizione. In qualche modo si poteva dire che la manifestazione si fosse tenuta sotto la sua presidenza, poiché il suo busto maestoso troneggiava sulla la sala. Certamente il papa era stato presente con il cuore e lo spirito.15
Ciò che maggiormente aveva impressionato don Rua era stata la genuina fraternità, l’unione intima degli spiriti, il perfetto accordo di sentimenti e di volontà che si leggevano sul volto dei congressisti. Nella sala si respirava un’atmosfera tutta salesiana. Erano membri di un’unica famiglia, riuniti per parlare con attenzione commossa e nobile del loro padre comune don Bosco, di opere salesiane che erano anche le loro, che accoglievano con segni di approvazione e fragorosi applausi ciò che veniva proposto per il bene delle anime. Cardinali, vescovi, sacerdoti, così come dotti e zelanti laici avevano pronunciato discorsi molto eloquenti che avevano fatto vibrare le fibre più delicate dei cuori. Si era ampiamente parlato dei Salesiani per incoraggiarli a proseguire nelle loro imprese. Con molta efficacia i Cooperatori erano stati esortati a portare loro sostegno morale e materiale. Il cardinal Svampa a ragione poteva concludere dicendo che tutti i congressisti avevano imparato qualcosa.
Vi farà forse meraviglia se vi fu chi, trasportato dall’entusiasmo, chiamò questo Congresso un trionfo, un’apoteosi della Congregazione Salesiana? Io non avrei neppur osato riferirvi tale parola che sembra ferire quella modestia che ogni Salesiano dovrebbe praticare, se non per ricordarvi che pare ciò fosse predetto da quel sogno che ebbe don Bosco, nella notte dal 10 all’11 settembre 1881. Dopo averci santamente spaventati descrivendoci i gravi pericoli che correrebbe la Congregazione pel rilassamento di alcuni suoi membri, don Bosco ci rinfrancava dicendo: circa il 1895, gran trionfo. Dolcissimo Padre, la vostra parola si è avverata.[346]
Don Rua continuava la sua lettera cercando di trarre lezioni dal Congresso a vantaggio dei Salesiani. Un tale successo li obbligava anzitutto a riconoscere la bontà di Dio che, attraverso l’intercessione di Maria Ausiliatrice, aveva concesso felice riuscita a un’impresa tanto ardua. «Grazie a Dio e alla Vergine Maria, la riuscita superò di gran lunga la nostra aspettazione. Il cielo ci guardi dall’attribuirci una benché minima parte di ciò che è unicamente l’opera di Dio. A Lui solo tutto l’onore, a Lui la gloria!». I Salesiani poi dovevano esultare al pensiero che il loro primo Congresso avesse rallegrato «l’Augusto Vegliardo del Vaticano, che volle esser minuziosamente tenuto informato d’ogni atto delle nostre assemblee». Dunque, invitava i Salesiani a rinsaldare i legami che univano la famiglia salesiana al Vicario di Gesù Cristo; li esortava a rallegrasi nel vedere che i vescovi «si compiacciono degli sforzi che noi facciamo per secondare il loro zelo, per combattere al loro fianco le battaglie del Signore. Diamo ovunque l’esempio del rispetto verso le loro sacre persone e nell’ubbidienza ai loro comandi». Lo splendido risultato del Congresso doveva anche far crescere il loro attaccamento alla Pia Società, nella quale erano entrati per rispondere a una chiamata di Dio. Se già avevano avuto tante prove «che Iddio benedice e protegge in modo specile l’Istituto», il Congresso li doveva rendere ancor più convinti della loro missione e spronare a meritarsi sempre di più i favori celesti. «Da veri figli di don Bosco porgiamo vive grazie al Signore d’aver permesso che durante questo Congresso sia nella sala delle adunanze, sia nella basilica di san Domenico, per ben tre giorni si fosse particolarmente glorificato il suo fedel servitore, il nostro veneratissimo Fondatore e Padre. Crdinali e vescovi ne celebrarono dal p ergamo le lodi non altrimenti che avrebbero fatto d’un santo, ed ispirarono ai loro divoti uditori la più alta stima della sua virtù e dll’Opera sua, che chiamarono ad ogni piè sospinto provvidenziale».
Don Rua esortava i Salesiani ad un esame di coscienza sulla qualità della loro vita morale e religiosa. Meritavano veramente di essere tanto esaltati?
Vi confesso, carissimi Figli in Gesù Cristo, che fui coperto di confusione nel vedere quale alta stima si abbia ovunque dei poveri Salesiani. Essi furono rappresentati al Congresso quali modelli di religiosi, come ardenti di santo zelo per la salvezza delle anime, come valenti maestri nell’arte difficilissima di educare la gioventù, nell’informarla alla pietà. Più vivo divenne in molti vescovi e Cooperatori il desiderio di veder sorgere nelle loro città istituti salesiani, ripromettendosi da loro veri miracoli per la rigenerazione della odierna società. Ma voi mi scuserete, se in fondo al cuore io chiedeva a me stesso se noi siamo realmente quali siamo creduti?... M’assalì più volte il dubbio sconfortante che non avessero i nostri troppo benevoli Cooperatori a ricredersi, se loro si porgesse il destro di esaminare da vicino la condotta di certi confratelli... Ah! Se coloro che sono rilassati nella pietà, poco osservanti della santa Regola, negligenti nei loro doveri, fossero stati presenti al Congresso, non ne dubito, avrebbero fatto il proposito di mutar vita. Ve ne scongiuro, uniamoci tutti per sostenere l’onore della nostra Pia Società, viviamo nello spirito di don Bosco e rappresentiamolo meglio che per noi si possa ovunque abbia a condurci la mano di Dio.
La circolare si chiudeva con l’auspicio che il Capitolo Generale, previsto nel successivo mese di settembre, aiutasse concretamente i Salesiani a corrispondere alle attese dei Cooperatori. Con la grazia di Dio, i direttori delle case, riuniti attorno alla tomba di don Bosco a Valsalice, avrebbero potuto attingere zelo e fervore da infiammare tutti i loro confratelli.
20 - L'ESPANSIONE SALESIANA IN AMERICA
Le missioni salesiane erano state uno dei temi centrali del Congresso di Bologna. Don Rua, da parte sua, non cessò mai di alimentare nei Salesiani l’amore alla vocazione missionaria, acceso da don Bosco nel 1875, cosicché non faceva fatica a trovare soggetti necessari a nuove spedizioni missionarie, che si ripeterono ogni anno sotto il suo rettorato.[347] Per noi oggi non è facile capire che cosa significavano quelle partenze. Nel corso del secolo trasporti e comunicazioni avevano avuto una radicale evoluzione. Allora le separazioni erano drastiche e durature. La corrispondenza impiegava al minimo un mese ad attraversare l’Atlantico. Don Rua dunque si preoccupava di preparare accuratamente coloro che si rendevano disponibili per questa avventura.
Aveva l’abitudine di riunirli a Torino nella cappellina attigua alla camera di don Bosco, prima della cerimonia tradizionale di addio nella chiesa di Maria Ausiliatrice. Là, dopo averli incoraggiati a mostrarsi degni figli di un tale padre, con lo zelo, la carità e l’osservanza, li benediva in suo nome. Li riuniva in quel luogo ristretto, malgrado talvolta fossero in molti, per parlare loro familiarmente, come ebbe a dire, come un padre con i figli. Quando, alla fine della cerimonia in Maria Ausiliatrice, sfilavano l’uno dopo l’altro davanti a lui per abbracciarlo, mormorava all’orecchio parole affettuose, che andavano dritte al cuore. Non le avrebbero più dimenticate.
Una volta partiti, don Rua non li perdeva di vista. Chiedeva di essere informato nel dettaglio sulle loro peregrinazioni. Lo leggiamo nelle prime righe di una lunga lettera di Bernardo Vacchina da Rawson, sulla sua visita agli indios Tehuelches nel novembre-dicembre 1895: «Spesse volte ella, amatissimo padre, ci raccomandò di scriverle dal luogo delle nostre Missioni, allegandoci che le relazioni dei suoi figli missionari, oltre ad alimentaare nel cuore gli affetti del fraterno amore che ci unisce in Domino, lette in comunità o date alle stampe sono un potente mezzo di educazione sacerdotale e di mutua edificazione, un argomento di gloria a Dio e di consolazione alla Santa Chiesa, ed un soave conforto ed un efficace stimolo per i nostri generosi Cooperatori...».[348] Egli stesso scriveva loro con frequenza, anche durante i suoi viaggi, soprattutto a coloro che avevano responsabilità, come gli ispettori o i maestri dei novizi. Per esempio, nel solo anno 1890, indirizzò otto lettere a don Giuseppe Vespignani, maestro dei novizi in Argentina, la prima in febbraio da Nizza, la seconda da Bruxelles, la terza da Torino, una da San Benigno, l’ultima in novembre da Torino. In realtà le vere lettere ai missionari erano piuttosto rare. Di solito per risparmiare tempo e spese postali, don Rua faceva dei pacchetti di bigliettini personali con qualche riga, che sarebbero stati letti avidamente, e religiosamente conservati.
Rispondeva meglio che poteva alle richieste di denaro dei missionari. Il cardinal Cagliero testimonierà che, quando si trovava in Patagonia, don Rua si piegava generosamente alle sue richieste di aiuto. Agì allo stesso modo con mons. Fagnano, che per l’intensa attività apostolica si trovava spesso in seri imbarazzi finanziari. Don Rua mirava unicamente a espandere il Regno di Dio in quelle terre lontane.
Alla morte di don Bosco, la Congregazione contava in America del Sud due ispettorie, Argentina-Cile e Uruguay-Brasile, e stava entrando in Equador. L’attività missionaria strettamente intesa, veniva esercitata in due circoscrizioni ecclesiastiche recentemente erette dalla Santa Sede: un vicariato apostolico comprendente il Nord e il Centro della Patagonia, e una prefettura apostolica che inglobava la Patagonia meridionale e la Terra del Fuoco. Durante il rettorato di don Rua, sotto il suo prudente impulso, i Salesiani fondarono opere in sette nuovi paesi dell’America Meridionale e Centrale: Colombia (1890), Perù (1891), Messico (1892), Venezuela (1894), Bolivia e Paraguay (1896), El Salvador (1897).
La Colombia è in testa alla lista. Gli archivi conservano reiterate domande e pressioni del governo di quel paese e dell’arcivescovo di Bogotà al Rettor Maggiore e alla curia romana.[349] Si voleva ad ogni costo i Salesiani a Bogotà. L’affare prese una piega talvolta offensiva per don Rua. Nel 1889, quando forte dell’invito del papa a non creare nuove opere, resisteva alle pressioni, ricevette dal cardinale protettore Parocchi un biglietto datato 30 marzo che gli fece male: «Torno ora dall’udienza pontificia, dolente che i miei carissimi Salesiani abbiano, senza volere, disgustato la Santità di N. Signore. Il Santo Padre ardentemente desidera che si accetti dalla nostra Congregazione la nuova casa in Colombia, e la Congregazione rifiuta. Compremdo le difficoltà della fondazione, veduta la scarsità de’ soggetti e la moltitudine de’ bisogni da provvedere; ma dinanzi al papa conviene piegarsi, per così dire, anche all’impossibile, con la fede che porta via le montagne». «Non può immaginarsi quanta pena tale notizia abbia arrecato al nostro cuore, rispose subito don Rua al cardinale Parocchi. Ed io mi affretto a rispondere per mettere in chiaro le cose...».
Non corrispondeva a verità affermare che i Salesiani rifiutavano la fondazione in Colombia. Dal mese di maggio dell’anno precedente avevano preparato una convenzione con il rappresentante del governo colombiano. Soltanto che questi avrebbe voluto che i Salesiani arrivassero già nel gennaio 1890, e invece loro «tenevano duro per il 1891».[350] Le discussioni ripresero. Il rappresentante colombiano assistette anche a Torino a una riunione del Capitolo Superiore a fine aprile 1889. Leone XIII continuava a insistere. Alla fine, i missionari per la Colombia si imbarcarono a San Nazaro il 10 gennaio 1890, sotto la guida di don Michele Unia, un sacerdote di quarant’anni. Nello stesso tempo nel Cile, don Evasio Rabagliati riceveva l’ordine di fare le valigie per assumere la direzione della nuova opera di Bogotà.
La missione colombiana assunse un aspetto particolare per le vicende di don Unia ad Agua de Dios.[351] Lo avevano informato che in quel luogo, a due o tre giorni di marcia da Bogotà, c’era un villaggio isolato dove vivevano, in un degrado materiale e morale quasi totale, parecchie centinaia di lebbrosi. Persino le loro lettere non venivano aperte per timore del contagio. Leggendo il racconto evangelico dei dieci lebbrosi guariti da Cristo, Unia sentì la chiamata a mettersi al servizio di quei disgraziati, rifiutati da tutti, miseramente assistiti dal governo con insignificanti sussidi, senza nessun sacerdote per il soccorso spirituale. Ottenne dal superiore il permesso di recarvisi, a condizione di chiedere l’autorizzazione definitiva a don Rua. Prima di mettersi in viaggio dunque, Unia inviò al Rettor Maggiore una lettera datata 18 agosto 1891. L’arcivescovo di Bogotà benediva un’impresa che, agli occhi di tutti aveva dell’incredibile. Per i lebbrosi il suo arrivo parve quello di un angelo. Non credevano ai propri occhi. Il gruppo dei più sani, uomini, donne e bambini, lo circondò e si mise a danzare per la gioia. Unia entrò allora nel lazzaretto per visitare quelli che erano costretti a star sdraiati. Piaghe ributtanti li coprivano dalla testa ai piedi. Alcuni non avevano più forma umana. Malgrado la raccomandazione di non toccarli e un’inevitabile ripugnanza, egli arrivò persino ad abbracciarli. L’arcivescovo lo nominò cappellano di Agua de Dios. Il 28 agosto Unia scrisse di nuovo a don Rua, esprimendogli la sua intenzione di rimanere sul posto, malgrado tutti i rischi che correva. Don Rua parve non condividere quell’apostolato straordinario, ma si trattò di un contrattempo. Infatti le lettere di Unia incrociarono sull’Oceano una lettera del Rettore che, ignaro dell’impresa, gli chiedeva di recarsi in Messico per assumere la direzione di una nuova casa. Convinto che don Rua non approvasse il suo ministero, Michele Unia ubbidì immediatamente, lasciò il lazzaretto tra i pianti e i lamenti di tutti quei disgraziati. Le autorità di Bogotà si commossero e telegrafarono a Torino e a Roma affinché don Rua ritornasse sulla sua decisione. Ma era cosa fatta. Nel frattempo giunsero a don Rua anche le lettere di Unia e una commovente richiesta dei lebbrosi, datata 17 ottobre, con cinquantaquattro firme. Piangevano per l’allontanamento del loro cappellano e lo supplicavano di conservargli questo conforto.
Il 13 ottobre don Rua comunicò a Unia la sua benedizione:
Sono contentissimo della generosa risoluzione di sacrificarti in favore dei lebbrosi. Ti do il mio pieno consenso e imploro da Dio per te le più elette e abbondanti benedizioni. Tu sei disposto a sacrificare la tua vita ed io me ne congratulo. Ti raccomando bensì di usare le debite precauzioni per non contrarre quella terribile infermità o almeno contrarla il più tardi possibile. Può essere che qualche altro Salesiano, attratto dal tuo esempio, si disponga ad andare a farti compagnia per aiutarvi reciprocamente nei bisogni spirituali e temporali. Benché ti trovi coi lebbrosi ti consideriamo sempre come nostro caro confratello salesiano; anzi consideriamo Agua de Dios come una nuova colonia salesiana, e ben vorremmo ci fosse possibile autare in qualche modo cotesti infermi. Con che piacere lo faremmo! Per ora basta. Saluta affettuosamente i tuoi infermi da parte nostra e di’ loro che li amiamo molto e che preghiamo per loro.[352]
Unia si fece in quattro per i suoi cari lebbrosi. Costruì una casa per i bambini, lanciò una sottoscrizione per costruire un grande ospedale, restaurò la chiesa, fece arrivare l’acqua potabile da una collina vicina, organizzò feste religiose e coltivò la musica. Quattro anni di lavoro massacrante bastarono a sfinirlo. Morì in Italia, dove era tornato per curarsi, il 9 dicembre 1895. Stava per compiere 46 anni.
Intanto l’opera salesiana si espandeva in Colombia. Dopo la scuola professionale Leone XIII di Bogotà, nel 1892 i Salesiani ricevettero l’incarico di una parrocchia a Barranquilla, il maggior porto della Colombia sull’Atlantico. Nel 1893 si aprì a Fontibon un noviziato che sarà in seguito trasferito a Mosquera. Si studiavano progetti di missioni nella provincia di San Martin verso le regioni amazzoniche nell’Est del paese, ma vennero ostacolati dalla rivoluzione del 1895 e dalla scarsità di personale. Ad Agua de Dios, frattanto, i Salesiani Crippa e Variara avevano preso in mano e fatto prosperare l’opera iniziata da don Unia. Nel 1896 si costituì l’ispettoria colombiana. Nel 1905 per favorire il rinnovamento delle tecniche agrarie sarà creata la scuola agricola di Ibaguè. A dispetto delle difficoltà politiche, endemiche in questo continente, che avranno sempre gravi contraccolpi sulle opere sostenute dai governi locali, sotto don Rua l’ispettoria colombiana continuò a crescere.
Come aveva fatto per la Colombia, la Santa Sede fece pressione per l’insediamento della Congregazione in Perù. Nel marzo 1890, il cardinale Rampolla informava don Rua che Leone XIII desiderava al più presto l’invio di Salesiani nella capitale Lima, perché si occupassero della gioventù. Al fine di evitare il ripetersi dell’affare colombiano, don Rua rispose categoricamente al cardinale: «Potete rassicurare Sua Santità che faremo tutto ciò che potremo per rispondere ai suoi venerati desideri». Le trattative richiesero comunque qualche tempo.
Il testo della convenzione è interessante per conoscere i legami che i governi sudamericani cercavano di intessere con la Congregazione Salesiana. Il 6 giugno il Capitolo Superiore modificò qualche punto di un progetto preparato dai peruviani. Il loro governo accettò l’accordo. Il 25 luglio il ministro plenipotenziario del Perù in Italia, Carlos Elias, partecipò in Torino a una riunione capitolare sulla creazione di un orfanotrofio maschile a Lima. Nel documento approvato in tale occasione leggiamo:
Animati dal caritatevole scopo di provvedere all’istruzione e cristiana educazione della gioventù povera ed abbandonata della città e provincia di Lima, tra S.E. il Ministro del Governo ed il Rev.mo Sac. Michele Rua, Rettor Maggiore della Pia Società Salesiana, si conviene: 1° Il Governo dal canto suo cederà in proprietà assoluta od in uso perpetuo una casa con annessi cortili e giardini capace di contenere almeno trecento alunni. – 2° Provvederà tutti i mobili ed utensili necessari pei dormitori, laboratori, scuole, cucina, refettorio, ecc. e la conveniente lingeria. – 3° Provvederà pure tutti gli arredi sacri ed i banchi per la cappella; oppure, oltre il locale, come sopra, darà per l’impianto la somma di L. 50.000 [il Governo preferì il secondo modo, depositando la somma presso la Società di Beneficenza, che la trasmise a don Rua in due rate per il tramite del ministro peruano a Roma]. – 4° Per dieci anni il primo viaggio di ciascuno del personale addetto all’Orfanotrofio sarà a carico del Governo. – 5° Il Sig. D. Rua si obbliga ad aprire in Lima nell’anno ….. un istituto di arti e mestieri ed eziandio di scuole elementari e di istruzione superiore per quelli che vi avessero attitudine. – 6° Il direttore dell’Orfanotrofio, come rappresentante di D. Rua, potrà liberamente applicare ad un mestiere oppure agli studi ciascuno dei giovani ricoverati. – 7° L’amministrazione e la disciplina dell’istituto sarà interamente e liberamente affidata al medesimo direttore. – 8° Saranno sempre di preferenza accolti nell’istituto i giovanetti raccomandati dal Governo, purché siano nell’età non inferiore ai 10 anni né superiore ai 14 e siano di sana costituzione fisica ed esenti da difetti corporali. – 9° Per ciascuno de’ suoi raccomandati il Governo pagherà all’Orfanotrofio franchi 40 in oro in ciascun mese. Quando alcuno tenesse cattiva condotta, per cui fosse di scandalo ai compagni, o fosse affetto da malattia contagiosa o cronica, dovrà ritirarlo tosto che ne avrà ricevuto l’avviso dal direttore. – 10° Questa convenzione durerà cinque anni, e s’intenderà rinnovata per un altro quinquennio, se dall’una delle parti non sarà dato preavviso due anni prima della scadenza.[353]
Don Rua voleva rispettare scrupolosamente le indicazioni di don Bosco: garantirsi l’appoggio della società civile, ma anche la piena libertà nell’educazione dei giovani.
Don Angelo Savio preparò l’insediamento salesiano nel paese attraverso il contatto con un’associazione benefica di Lima. Tre Salesiani e nove Figlie di Maria Ausilitrice arrivarono nella capitale verso la fine del 1891. Don Antonio Riccardi, fino a quel momento in Argentina, fu il primo direttore dell’orfanotrofio e lo organizzo come scuola di arti e mestieri. Accanto si aprì un Oratorio. La società di beneficenza della capitale ffidò alle suore una scuola professionale per ragazze. Nel 1896, al termine del quinquennio di esperimento, il Senato peruviano approvò la creazione di altre scuole salesiane. In quel momento si rendevano disponibili vari Salesiani, cacciati dall’Equador in seguito a una rivoluzione anticlericale. Così sorsero due nuove opere, una scuola agricola ad Arequipa nel 1897 e un collegio a Callao l’anno successivo. Altre opere verranno fondate a Cusco e Piura nel 1905 e 1906.
Sin dall’arrivo dei Salesiani a Quito, il 28 gennaio 1888, l’opera in Ecuador fu fiorente. La casa contava quattordici laboratori in piena produttività. All’inizio degli anni 1890, attirò l’attenzione dei vari presidenti. Allora vennero aperte altre opere a Riobamba (1891) e a Cuenca (1892) e un noviziato a Sangolqui. Nel 1894, don Rua decise la creazione di un’ipsettoria ecuadoregna e ne affidò l’incarico a don Luigi Calcagno (1857-1899).
Nello stesso tempo la Santa Sede offrì alla Congregazione una missione importante nella zona orientale del paese, popolata da tribù indigene non ancora civilizzate.[354] Il 26 marzo 1889, il Capitolo Superiore prese in considerazione una lettera del segretario della Congregazione degli Affari Straordinari che offriva ai Salesiani il nuovo vicariato apostolico di Mendez e Gualaquiza. Il 6 settembre il cardinale Rampolla precisava a don Rua: «Sua Eccellenza Flores, presidente della Repubblica Ecuadoregna, mi ha indirizzato poco fa una lettera colla quale chiede alla Santa Sede che la missione di Mendez e Gualaquiza sia affidata ai sacerdoti della benemerita Congregazione da Lei presieduta». I Salesiani accettarono. Nel 1892, don Angelo Savio fu inviato a esplorare i luoghi; ma sfortunatamente il 17 gennaio 1893 morì a causa di una congestione polmonare, contratta dormendo a terra in una notte freddissima. A Torino si attese fino all’8 di febbraio il documento della Congregazione degli Affari Straordinari, che annunciava l’istituzione e i confini del nuovo vicariato. La prossimità a Cuenca, dove era appena stata aperta una casa, facilitava le cose. L’esplorazione fino a Gualaquiza fu affidata al giovane don Gioachino Spinelli (1868-1949) e al coadiutore Giacinto Pankeri (1857-1947). Partirono per una marcia di trentasei giorni, all’inizio di ottobre 1893. Tra mille difficoltà, a Gualaquiza venne presto stabilita una piccola scuola artigianale. La missione di Gualaquiza era poverissima. I laboratori, le aule, la cappella e l’abitazione stessa non erano che misere capanne in legno ricoperte di foglie.
Nel 1894, il presidente della Repubblica Antonio Flores segnalò alla Santa Sede in qualità di vicario apostolico di Mendez e Gualaquiza il salesiano Giacomo Costamagna, ispettore dell’Argentina, che aveva conosciuto a Quito.[355] Don Rua accetò e senza indugi gli inviò l’obbedienza. Il 3 dicembre, Costamagna salutò il collegio di Almagro. Il giorno di Natale, era all’Oratorio di Torino.[356] Nel concistoro segreto del 18 marzo 1895, Leone XIII gli conferì la sede titolare di Colonia d’Armenia. Il 23 maggio, l’arcivescovo di Torino Riccardi, assistito dagli ausiliari, lo consacrò vescovo nella chiesa di Maria Ausiliatrice. Era il terzo vescovo missionario salesiano dopo Giovanni Cagliero e Luigi Lasagna. Sfortunatamente il vicario apostolico di Mendez e Gualaquiza, molto atteso, venne ordinato in un momento di gravi sommovimenti politici in Ecuador. Col cambio di presidente, la sua presenza non fu più gradita, essendo stato scelto dal deposto presidente Flores.
Con la rivoluzione liberale del 1895 sorsero gravi difficoltà per i Salesiani dell’Ecuador. Si trattava infatti di un liberalismo anticlericale. Gli amici del governo precedente passarono per nemici del nuovo regime. Nel 1896 ci fu la catastrofe. Accusati di manovre antigovernative, i Salesiani vennero arrestati e le loro opere requisite. Nove religiosi, tra cui l’ispettore Calcagno, furono costretti a un terribile viaggio fino alla frontiera peruviana. L’odissea durò quaranta giorni e li lasciò più morti che vivi.[357]
Don Rua, avvertito, sollecitò l’intervento del ministro italiano degli Affari Esteri, Emilio Visconti-Venosta, il quale scrisse al console italiano di Guayaquil in Ecuador e al suo ministro plenipotenziario di Lima, il comandante Castelli, per chiarire le cose e intervenire in favore dei Salesiani, tutti di nazionalità italiana. Si avviò un complesso affare diplomatico. L’ispettore Calcagno presentò le sue rimostranze. All’inizio del 1897, la matassa sembrò dipanarsi. Ma fu un’illusione. In settembre don Rua insistette ancora presso il ministro degli Esteri per ottenere dal governo ecuadoregno un giudizio formale. Il coadiutore salesiano Giacinto Pankeri, rimasto a Quito, faceva del suo meglio per proteggere i beni della Congregazione. Il ministro italiano preferì affidare l’incarico di difendere gli interessi salesiani al ministro spagnolo presso il governo di Quito. Il 29 marzo 1898, il governo ecuadoregno convennne con Pankeri sulla creazione di una commissione di arbitrato. Le conferenze della commissione durarono fino al 1902,[358] quando l’opera salesiana nel suo insieme, appoggiata a Quito da energici Cooperatori, per nulla rassegnati a vederla perseguitata, ripartì nuovamente.[359]
Nell’ottobre del 1892, don Rua decise di inviare un primo gruppo dei suoi religiosi in Messico, paese che li attendeva già da circa quattro anni.[360] Mentre si trovava a Roma per la consacrazione della chiesa del Sacro Cuore, il 12 maggio1887, don Bosco aveva ricevuto la visita di un gruppo di ecclesiastici allievi del Collegio Sud-Americano. Qualcuno gli chiese quando i Salesiani sarebbero andati in Messico. Rispose: «Non sarò io a inviare i Salesiani in Messico; il mio successore farà ciò che io non posso fare. Siatene certi». Don Rua non mancò di adempiere il desiderio del fondatore.
Dopo la morte di don Bosco la fama della sua opera si estese in tutta l’America Latina. Il 23 giugno 1889 sette membri del comitato cattolico del Messico, volendo che il loro paese beneficiasse di una presenza così interessante, si riunirono per studiare i mezzi più adatti a raggiungere lo scopo. Quando uno dei membri si dichiarò Cooperatore salesiano, tutto il gruppo decise di iscriversi alla Pia Unione. Fu costituito un comitato promotore presieduto da Angel G. de Lascurain. Ottenuta la benedizione dell’arcivescovo Pelagio Labastida, si misero in contatto con don Rua. Questi, contento dell’iniziativa, spedì a ciascuno il diploma di Cooperatore. Quel nucleo di entusiasti amici di don Bosco diffuse la conoscenza del Santo e della sua opera in tutta la Repubblica. Persino alcuni vescovi chiesero di entrare nella Pia Unione dei Cooperatori. Il nome di don Bosco divenne popolare soprattutto nella capitale, dove molti iniziarono a desiderare l’arrivo dei Salesiani a servizio della gioventù.
Infine una ricca cooperatrice offrì la propria casa al comitato promotore perché fosse trasformata in collegio. Poiché i Salesiani tardavano, i buoni Cooperatori decisero di agire di loro spontanea volontà. Aprirono un istituto sotto la direzione del sacerdote Enrico Perez Capetillo, con laboratori di tipografia e di calzoleria, e corsi elementari serali per nove orfani, numero che salì presto a trentasette, tutti tra i più poveri della capitale. Don Rua, informato, benedisse l’iniziativa promettendo l’invio di Salesiani nel minor tempo possibile. Poi la vicenda si complicò. Il 4 febbraio 1891, l’arcivescovo del Messico, grande protettore e benefattore dell’opera, morì. Il padre Capetillo si ritirò. Tutto sembrava crollare. A questo punto don Rua, cedendo alle ripetute istanze dei messicani e incoraggiato dalla Santa Sede, si decise a inviare in Messico nell’ottobre del 1892 un primo contingente di figli di don Bosco.
Arrivarono a Vera Cruz il 1° dicembre, ricevuti con entusiasmo dai Cooperatori. Erano cinque: tre preti, compreso il direttore don Angelo Piccono, un chierico e un coadiutore. Presentarono subito al nuovo arcivescovo Alarcon una lettera di raccomandazione del cardinale Rampolla (datata 19 ottobre 1892), trasmessa direttamente da don Rua. Il cardinale esprimeva la soddisfazione del Santo Padre per la partenza dei missionari:
Le presenterà questo mio foglio il capo dei sacerdoti Salesiani che vengono a prendere possesso della casa che è stata per essi aperta in cotesta metropoli. Sebbene io sia pienamente convinto che Ella farà loro la più paterna accoglienza e che si varrà del suo potere ed influenza per sostenerli e proteggerli nella loro missione e facilitare così ad essi il conseguimento del nobile scopo per cui abbandonano la patria, e si recano in coteste lontane regioni, con tutto ciò non ho voluto mancare di munirli di questa miai commendatizia, onde Ella sappia che in tal modo farà cosa gradita al Santo Padre ed a me. Perché questi benemeriti figli di Don Bosco meritano tutto l’appoggio della Santa Sede pel bene che fanno spiritualmente ed anche materialmente in particolar modo nell’educare la gioventù alle lettere ed alle arti, col prestarsi al soddisfare ai bisogni dei fedeli nelle loro svariate forme.[361]
Iniziata sotto tali auspici, l’opera salesiana in Messico prese forma in tempi rapidi. Il 3 gennaio 1893, don Piccono espose i suoi progetti ad un’assemblea di Cooperatori salesiani. Subito una dama, Giulia Gomez, gli fece dono di un terreno di due ettari e l’ingegner Sozaya preparò il progetto di un collegio capace di ospitare quattrocento giovani. Le offerte affluirono. Il 29 gennaio l’arcivescovo poteva già benedire la prima pietra davanti a una folla di fedeli. La Repubblica messicana acquistava una posizione di riguardo tra i paesi con insediamenti salesiani in America Latina.
Riassumiamo gli eventi relativi all’ingresso dei Salesiani in altri quattro paesi americani sotto il governo di don Rua.
Il Venezuela figurava da parecchi anni nella lista di don Bosco e di don Rua.[362] Tra i precursori dell’opera salesiana nel paese, come in Messico, ci fu soprattutto un prete, Ricardo Arteaga, e un gruppo compatto di Cooperatori. L’arcivescovo Crispolo Uzcategui appoggiò presso don Rua la loro richiesta di avere i Salesiani nella città di Caracas.[363] Simultaneamente intercedeva presso il papa e faceva intervenire a suo favore la Congregazione di Propaganda Fide.[364] Tutto questo facilitò il lavoro dei Salesiani una volta arrivati sul posto. Si imbarcarono a Genova il 1° novembre 1894. La popolazione venezuelana li festeggiò, ma anche qui sopraggiunsero le delusioni. A Caracas il governo concesse una scuola d’arti e mestieri già esistente, ma solo in apparenza. Infatti amministrazione e disciplina rimanevano nelle mani di laici, sotto la dipendenza diretta dal governo, con infiltrazione di elementi anticlericali e sobillatori. I Salesiani furono costretti progressivamente a ritirarsi dalla scuola. Aiutati dall’arcivescovo trovarono altri campi di apostolato.
Un sacerdote diocesano venezuelano dall’anima salesiana, Vittore Arocha, era stato inviato a Torino dall’arcivescovo Uzcategui per ottenere da don Rua altri Salesiani per la città di Valencia. Attese un anno, ma riuscì nel suo progetto. Il direttore Andrea Bergeretti (1846-1909), sacerdote diocesano che aveva appena fatto professione salesiana, partì il 23 settembre 1894. Due chierici lo seguirono in novembre, accomagnati da don Arocha. In una casa presa in affitto a Valencia aprirono una scuola elementare, per la quale, non avendo padronanza dello spagnolo, dovettero ricorrere a insegnanti laici. Non era che l’inizio. L’afflusso dei ragazzi li obbligò a trovare un altro ambiente. Acquistarono un terreno con alcune case antiche, ma solide. Questa fu l’origine del collegio don Bosco di Valencia. Nel 1897, il ministro dell’Istruzione pubblica, in visita all’opera, fu salutato nella stazione dalla banda miusicale dell’istituto salesiano. Il collegio si sviluppava di anno in anno, a mano a mano che il personale salesiano si irrobustiva: classi primarie, classi secondarie, belle feste religiose che attiravano molta gente. Nel 1899, don Bergeretti si distinse per la sua abnegazione in occasione di una terribile epidemia di vaiolo che devastò la città. Il governo gli assegnò una medaglia al merito.
Don Luigi Costamagna (1866-1941), nipote di mons. Giacomo Costamagna, fu il primo salesiano a entrare in Bolivia, vasto paese nel cuore dell’America del Sud, tra il Brasile, il Cile e il Paraguay.[365] Con lettera del 23 settembre 1889, l’arcivescovo di La Paz, mons. Borgue, aveva fatto appello allo spirito apostolico di don Rua per la fondazione di una scuola di arti e mestieri nella sua città. Don Rua non poté che infondergli speranza per l’avvenire. Poi il 10 giugno 1891, il ministro plenipotenziario della Bolivia a Buenos Ayres, Mariano Baptista, propose, a nome del governo, una convenzione per la fondazione di due collegi di arti e mestieri, uno a La Paz, l’altro in un luogo da concordare. Le condizioni erano favorevolissime.[366] Don Rua accettò, ma l’affare richiese tempo. Nel frattempo Baptista, divenuto presidente della repubblica, conferì al suo ambasciatore in Francia, Manuel de Argandoña, pieni poteri per fissare i termini del contratto con don Rua. Il documento, economicamente interessante per i Salesiani, fu firmato l’8 ottobre 1895. Eccone i punti salienti:
1° Il Rev. Sac. D. Michele Rua s’impegnerà ad avere pronto un personale di almeno dieci Salesiani, che possano partire per la Bolivia al più tardi entro il novembre di quest’anno 1893.
2° Il Superiore destinato alla Bolivia, d’accordo con il rappresentate del Governo di questo paese, acquisterà e invierà tutti gli atrezzi e utensili necessari per i due istituti da fondarsi.
3° Il Governo di Bolivia pagherà le spese di viaggio per tutto il personale che dovrà essere mandato ai collegi di Bolivia durante i primi dieci anni, e anche dei viaggi che l’interesse dei singoli Istituti potrà richiedere.
4° Il Governo della repubblica di Bolivia farà cessione al sacerdote o sacerdoti preposti dalla Società di S. Francesco di Sales dell’uso del locale o locali con i relativi connessi, dal suddetto Governo stabiliti per la fondazione dei collegi di arti e mestieri, con tutto il mobilio, macchinario e attrezzi da comperarsi in Europa.
5° Il Governo provvederà al Superiore destinato in Bolivia, oppure al sacerdote da lui indicato, tutta la somma necessaria per le spese d’installazione.
6° La Società Salesiana e le sue case verranno esentate dalle imposte doganali e dalle altre tasse fiscali e godranno delle immunità e di tutti gli altri privilegi concessi alle Associazioni Religiose.
7° Se per cause impreviste, i Salesiani dovessero abbandonare gli stabili li restituiranno al Governo nello stato in cui si trovino e avviseranno del ritiro un anno prima.
8° Se il Governo volesse rescindere il contratto, dovrà avvisarne il Superiore quattro anni prima e pagare le spese necessarie per il trasferimento del personale.
9° Gli alunni esterni saranno tutti gratuiti e per il loro insegnamento il Governo stabilirà una sovvenzione mensile a ciascuno stabilimento, oppure assegnerà un onorario a ogni salesiano o impiegato assunto dai Salesiani.
10° Gli alunni interni pagheranno una pensione che dovrà stabilirsi d’accordo fra il Governo e il Superiore del collegio rispettivo.
11° La direzione e amministrazione interna e così pure tutte le disposizioni disciplinari dipenderanno unicamente ed esclusivamente dalla Società Salesiana.[367]
Firmando la convenzione, don Rua evitava ai Salesiani le disavventure di Caracas, dove si erano trovati alle dipendenze di un’amministrazine laica. Infatti, già prima della firma del documento, era stato designato il personale della missione boliviana. I Salesiani sarebbero stati quattordici, di cui sette per la capitale La Paz. Arrivarono a Buenos Ayres il 23 novembre seguente. Ma i contrattempi e le complicazioni di un viaggio attraverso il Cile, parte in treno, parte in battello, parte in una specie di diligenza, ritarderanno il loro arrivo a La Paz e a Sucre, fino al febbraio 1896. Anche qui l’accoglienza fu entusiasta.[368]
Le trattative tra la Santa Sede e don Bosco avrebbero dovuto far entrare i Salesiani in Paraguay già nel 1879. Ma il paese era scosso da rivoluzioni che interessarono anche il clero dell’unica diocesi di Asunción.[369] I dissesti politici bloccarono i Salesiani, che erano già pronti a Buenos Aires. Quindi il delegato apostolico si rivolse ai Lazzaristi, che accettarono la difficile missione.
Tredici anni più tardi, troviamo in Paraguay il salesiano Angelo Savio, in viaggio esplorativo nella vastissima zona del Gran Chaco.[370] Ritornato ad Asunción, egli scrisse a don Rua i risultati della sua spedizione in una regione un tempo evangelizzata dai Gesuiti (le «Riduzioni del Paraguay»). Ne aveva avuto una triste impressione: «Migliaia di indigeni selvaggi si trovano alle sponde dei fiumi e quanti saranno a 100, 200, 300 miglia nell’interno? […] Son tribù numerosissime ed alcune mi pare abbiano conservato qualche ricordo delle antiche missioni, ma ora sono nuovamente selvagge non essendovi tra loro il sacerdote che insegni la religione unica fonte di vera civiltà. Gli sciocchi governi del passato han cacciato il prete, hanno uccisi i vescovi e pretendevano di governar senza Dio». Aggiunse che il governo militare gli aveva pagato il biglietto di ritorno e manifestato il desiderio di veder tornare i sacerdoti, ma forse solo per scopi politici.[371] Don Savio si intese anche con l’amministratore della diocesi che, lo stesso giorno, scrissse al prefetto di Propaganda Fide perché fosse affidata ai Salesiani una missione nel Gran Chaco.[372] Il cardinal Rampolla, su istruzione di Leone XIII, interessò don Rua al progetto.[373] Ma l’affare non sarà concluso sotto il suo rettorato.
Allora entrò in scena l’intrepido salesiano, Luigi Lasagna (1850-1895), ordinato vescovo titolare di Tripoli nel 1893. Egli visitò il Chaco e prese contatto con gli indios. Ma in un paese rovinato dalla guerra, gli sembrava più urgente occuparsi della formazione della gioventù delle città. Il 19 maggio 1894, convinse don Rua ad aprire nella capitale un internato per i ragazzi poveri.27 Le autorità politiche lo appoggiarono. Il 19 agosto 1895, il Parlamento paraguayano votò persino una legge per la quale il paese cedeva a mons. Lasagna, in quanto superiore dei Salesiani, un vecchio ma solido edificio, con terreni adiacenti, ad Asunción capace di ospitare cento interni, per crearvi una scuola d’arti e mestieri sotto la totale dipendenza dei Salesiani. Grazie alla sua amicizia con il presidente della repubblica paraguayana e alla sua azione efficace, mons. Lasagna era risucito anche a ristabilire le relazioni tra il Paraguay e la Santa Sede, rotte in seguito all’assassinio del legittimo vescovo di Asuncion e più tardi del suo usurpatore.[374] Sfortunatamente, la morte accidentale di questo esimio vescovo salesiano in un disastro ferroviario a Juiz de Fora (Brasile), il 6 novembre 1895, parve annullare l’ingresso dei Salesiani nella capitale. Tuttavia, su consiglio di mons. Costamagna, il console paraguayano a Montevideo, Matia Alonso Criado, chiese a don Rua di onorare gli impegni presi con mons. Lasagna. «La mia disgraziata Repubblica, diceva, è la principale vittima della spaventosa morte di mons. Lasagna, che tutti deploriamo con immenso dolore. Solamente la S.V., come degnissimo Rettore generale dei Salesiani può attenuare per il Paraguay le conseguenze di sì grande sventura».[375] Ad Asuncion, i sostenitori dei Salesiani riuscirono a far sopprimere un articolo malevolo nei loro riguardi contenuto nella legge del 19 agosto 1895.
I primi Salesiani destinati al Paraguay partirono da Montevideo (Uruguay) per Asuncion il 14 luglio 1896. Erano quattro, tutti dell’ispettoria dell’Uruguay: il direttore don Ambrogio Turriccia, un altro prete, un chierico e un coadiutore. Li guidava l’ispettore don Giuseppe Gamba. Il viaggio si fece in battello, dapprima a Buenos Ayres, poi verso la capitale attraverso i fiumi Paraná e Paraguay. Sbarcarono ad Asunción il 23. Si presentarono alle autorità religiose e civili. Venne loro destinato un immobile costruito un tempo dai Gesuiti. Don Turriccia scrisse a don Rua: «Conceda Iddio che noi, gli ultimi venuti in questa porzione della vigna del Signore, possiamo almeno fare la millesima parte del gran bene che fecero gl’illustri figli del Loyola. Ancor adesso, dopo tanti anni dalla loro espulsione, ben si vede la gran fede che essi seppero infondere in quelle nazioni».[376] Come in altre parti, anche ad Asunción i Salesiani iniziarono aprendo, a partire dal mese di ottobre, un Oratorio festivo per i ragazzi del quartiere, poi un internato di arti e mestieri per una trentina di orfani, il collegio Monseñor Lasagna.
Nel 1895, il vicario generale dell’unica diocesi della repubblica del Salvador, l’italiano mons. Michele Vecchiotti, attirò l’attenzione di don Rua su quel paese.[377] Un comitato cattolico lo aveva incaricato di trattare con Torino.[378] Don Rua gli rispose che prima del 1898 non avrebbe potuto far nulla per mancanza di uomini. Ma i salvadoregni fecero ricorso a Roma. Così don Rua qualche mese dopo ricevette una lettera del cardinale Rampolla:
Il Signor Presidente della Repubblica di San Salvador ha recentemente fatto conoscere al Santo Padre quanto da lui si va compiendo per promuovere l’istruzione ed educazione della gioventù, ed ha in particolar modo mostrato di aver grande fiducia nell’opera dei Salesiani, e di volerne affrettare il definitivo stabilimento in quella nazione; onde sarebbe suo vivo desiderio che la S.V., anziché attendere il 1898 per effettuare l’invio di alcuni padri, come gli ha promesso, si determini a disporne l’immediata partenza. Pertanto a secondare le lodevoli disposizioni del mentovato Signor Presidente della Repubblica, Sua Santità ha giudicato conveniente recarle a conoscenza di V.S., affinché col suo solito zelo e prudenza possa adottare quei provvedimenti che giudicherà più convenienti alla buona riuscita dell’opera.[379]
Anche in questo caso dovette ubbidire, promettendo di fare il possibile e dicendo che attendeva precisazioni dal presidente del Salvador. Al posto della lettera del presidente, gli giunse un’altra missiva del segretario di Stato. Il ministro delle Finanze della Repubblica salvadoregna era giunto a Roma, munito della raccomandazione del presidente e del vescovo, con l’incarico di fare il necessario per la costruzione di una scuola, che sarebbe stata affidata ai Salesiani. Poco dopo il ministro raggiunse Valdocco con una raccomandazione del cardinal Rampolla, affinché tutto andasse a buon fine «secondo i comuni desideri, per il bene della gioventù di quella lontana Repubblica».[380] Don Rua chiese allora al vicario generale Vecchiotti, di mettersi in contatto con don Angelo Piccono, direttore in Messico, al fine di stilare il progetto di convenzione con il governo per la costruzione in Salvador di una scuola di arti e mestieri e di agricoltura. Il progetto Piccono, rivisto da Rua, fu ufficialmente accettato dal governo il 28 aprile 1897. I Salesiani entrarono a San Salvador il 3 dicembre seguente, condotti da don Luigi Calcagno, ispettore dell’Ecuador cacciato dai rivoluzionari. Lo accompagnavano due preti, tre chierici e tre coadiutori. Il vescovo si prese cura di loro meglio che poté. I Salesiani furono subito stimati dalla popolazione e i Cooperatori si moltiplicarono. Il presidente Guttierez li visitò più volte.[381] Ma don Calcagno non si faceva illusioni. Il 17 gennaio 1898 scrisse a don Rua: «Sapendo per esperienza dove vanno a finire le case dipendenti dal Governo, dobbiamo temere che questa, la quale attualmente occupiamo, finisca come le altre: la sua esistenza è precaria». In febbraio insistette: «c’è bisogno di case indipendenti dal potere politico».[382] In quel momento si presentava un’occasione nella cittadina di Santa Tecla, presso la capitale. Don Piccono aveva raccomandato al Rettor Maggiore un ricco medico del luogo, Manuel Gallardo, cuore d’oro e ottimo cattolico. Don Rua gli mandò il diploma di Cooperatore salesiano. Gallardo, ringraziandolo, scriveva: «Sto facendo il possibile per meritare l’alto onore concessomi di V.R. e a tale effetto fra pochi giorni sarà terminato un edificio che fo’ costruire per accogliervi fanciulli orfani, che spero educare sotto la direzione dei Padri Salesiani, purché V.R. mi voglia accordare questo insigne favore».[383] Don Calcagno lo incoraggiava: poiché pensava che in quella casa i Salesiani sarebbero stati pienamente liberi nei loro movimenti.
Don Rua chiese a Gallardo di pazientare fino al 1901, cosa che lo indispose. In effetti, agli inizi del 1899, con un cambio di governo, cominciarono le difficoltà per i Salesiani della capitale: non vennero più pagate le rette e si fesero orecchie da mercante nei riguardi dei reclami. Verso la fine di gennaio, una parte dei confratelli con don Calcagno passò a Santa Tecla, dove la casa, piccola ma comoda, era pronta a riceverli. Gli altri attesero. Gli avvenimenti precipitarono a tal punto che nel 1900 anch’essi dovettero raggiungere i confratelli. Così a Santa Tecla sorse un vero collegio salesiano, con artigiani e studenti, sotto il patrocinio di Santa Cecilia, nome di battesimo della defunta moglie del dottor Gallardo.
Con il Salvador, nel corso dei primi dieci anni del rettorato di don Rua, i Salesiani avevano messo piede in sette nuovi paesi dell’America Latina. L’esperienza aveva loro insegnato con quale prudenza bisognasse muoversi nella stipulazione di convenzioni con i governi. Del resto avrebbero dovuto barcamenarsi in continuazione per adattarsi alle mutazioni politiche in un continente perpetuamente instabile.
Negli stessi anni i Salesiani penetrarono nel Nord del continente americano. Si era in un tempo di grande emigrazione italiana negli Stati Uniti, soprattutto sulla costa dell’Ovest. Nel 1896, don Angelo Piccono, dal vicino Messico dove era stato inviato, visitò i compatrioti di San Francisco. Il 2 luglio, l’arcivescovo Patrick Riordan lo convocò per dirgli che offriva ai Salesiani: «oltre la parrocchia degli Italiani [SS. Pietro e Paolo, nel centro della città] una grande stensione di campagna nei dintorni di questa città in proprietà per farne quello che vogliono».[384] Le trattative con Torino si concretizzarono rapidamente. Il 23 novembre di quell’anno, l’arcivescovo accettava una formula di convenzione proposta da don Rua in questi termini:
1° Sua Eccellenza mons. Riordan, offre ai Salesiani la parrocchia degli Italiani esistente nella città di San Francisco.
2° Provvede alle spese del viaggio e delle prime indispensabili provviste ai Salesiani che verranno nel dicembre prossimo 1896.
3° Il Sig. D. Rua manderà per ora due preti, un chierico ed un laico a prender cura di detta parrocchia ed a misura che si potrà si aprirà Oratorio festivo, scuole diurne e serali, e poi anche ospizio e scuole d’arti e mestieri, specialmente pei giovanetti abbandonati.
4° Limita ai Salesiani di esercitare il sacro ministero in favore degli Italiani.[385]
L’arcivescovo era preoccupato di prevenire eventuali conflitti con il clero locale. Così all’inizio del 1897 i Salesiani presero possesso della parrocchia italiana di San Francisco. Nel 1898, veniva a loro affidata una seconda parrocchia in un altro quartiere della città e un’altra ancora per gli immigrati portoghesi. Lo stesso anno sulla costa Est, a New York, dove risiedevano quasi quattrocentomila italiani, i Salesiani si stabilirono nella parrocchia di Santa Brigida. Don Rua sostenne con particolare impegno quelle opere apostoliche che segnarono l’inizio dell’espansione salesiana negli Stati Uniti.
Nel corso degli anni Novanta, don Rua introdusse l’opera salesiana in due nuovi paesi: l’Algeria e la Polonia. Le vicende dell’insediamento in Algeria non fecero grande rumore. In Polonia invece, la situazione risultò molto più travagliata.
Nel 1883, a Parigi, don Bosco aveva promesso al cardinale Charles-Martial Lavigerie (1825-1892), arcivescovo di Cartagine in Tunisia, che avrebbe inviato i Salesiani in Africa.[386] Era il 21 maggio e si trovavano entrambi nella chiesa parigina di Saint-Pierre du Gros-Caillou. Al cardinale che, dall’alto del pulpito, gli aveva richiesto i Salesiani, don Bosco rispose: «Sono nelle vostre mani, Eminenza, per compiere in Africa tutto ciò che la divina Provvidenza chiederà da me. Sì, sì, siate certo che, se noi possiamo fare qualche cosa in Africa, io e tutta la famiglia salesiana saremo a disposizione di Vostra Eminenza. Vi invierò i miei figli, italiani e francesi».[387] Da vari anni, dunque, il cardinale attendeva i Salesiani in Tunisia. Nel 1891 don Rua lo informò, per delicatezza, di un’imminente fondazione nella diocesi di Orano. Il cardinale rispose il 2 luglio con un tono piuttosto risentito:
Reverendissimo Padre,
ho ricevuto a Cartagine la sua lettera del 16 giugno, insieme a quella del padre Bellamy. Sono stato, lo devo proprio confessare, molto sorpreso nel constatare che due santi (in verità non ancora canonizzati) come Don Bosco e Don Rua, abbiano potuto mancare a una promessa fattami in pubblico di fondare una loro casa in Tunisia, e che lei, Rev. Padre, oggi mi annunci con tutta calma e serenità l’apertura di un’opera nella diocesi di Orano. Posso certo perdonare le ingiurie, e lo devo, perché nostro Signore ce ne ha dato il comando e l’esempio; ma ringraziare e felicitami con gli autori è al disopra della mia virtù, senza dubbio molto fragile. Dunque mi limito a notificare di aver ricevuto la lettera che lei mi ha inviato il mese scorso, e di professarmi il suo
umilissimo e obbedientissimo,
ma non disperato servitore,
Charles Card. Lavigerie.[388]
Il principale autore della manovra era stato il vescovo di Orano Géraud-Marie Soubrier (1826-1899). Nell’ottobre 1889, aveva incaricato il suo vicario generale di incontrare a Marsiglia l’ispettore don Paolo Albera. Era urgente occuparsi della gioventù di Orano. La città contava allora quasi sessantamila abitanti di diverse nazionalità, soprattutto spagnoli. Un grande numero di ragazzi vagava nelle strade, senza alcuna nozione di catechismo, senza la quale non si poteva essere amessi alla prima comunione.[389] Don Rua rispose al vescovo che accettava la proposta, ma attendeva ulteriori precisazioni. Esse arrivarono. Don Rua non rispose immediatamente. Così il 31 agosto 1890 mons. Soubrier scrissveva: «Il Rev. don Albera, in una lettera che mi è giunta ieri, si dice molto stupito che lei non mi abbia scritto ancor nulla. Conoscendo i suoi grandi impegni, non mi stupisco e le faccio la stessa domanda rivolta dai discepoli di san Giovanni Battista al Divin Maestro: Tu es qui venturus es, an alium expectamus? [Sei tu che devi venire o dobbiamo aspettarne un altro?]. Non dubito affatto che abbia intenzione di ripondere al mio appello, ma mi permetta di rivolgerle la preghiera dei Macedoni a san Paolo: Transiens ad civitatem nostram episcopalem nostram adiuva nos. [Passando per la nostra città vescovile, aiutaci]».[390]
Prudentemente, don Rua gli annunciò che avrebbe inviato due preti a visitare le case che il vescovo voleva dare ai Salesiani. Di fatto, don Celestino Durando e don Charles Bellamy, allora maestro dei novizi a Marsiglia, si recarono a Orano nel dicembre 1890. Al ritorno, don Durando spiegò a don Rua e al Capitolo Superiore che il vescovo cedeva ai Salesiani due case di cui era proprietario, una in centro città, l’altra nella zona sopraelevata di Eckmühl. La prima era un antico tribunale situtato accanto a un edificio detto la «Scuola del coro della cattedrale», con una sala per le udienze abbastanza grande da essere convertita in cappella. Questa casa, secondo il vescovo, avrebbe potuto ospitare l’Oratorio festivo, la scuola della cattedrale (cioè il piccolo clero che il vescovo considerava un vivaio di vocazioni sacerdotali) e le classi per gli esterni. Il vescovo aveva intenzione di farla restaurare, donando allo scopo dodicimila franchi. L’altra casa avrebbe potuto servire da collegio. Due sorelle Cooperatrici, erano pronte a cedere ai Salesiani un bel terreno adiacente per lo sviluppo di questa seconda opera.
Gli accordi tra Torino e Orano andarono rapidamente a buon fine. La convenzione venne firmata a Torino da don Rua il 2 febbraio 1891, festa della Purificazione, e a Orano da mons. Géraud Soubrier il 12 aprile successivo, domenica del Buon Pastore.[391] Essa comprendeva dieci articoli. L’introduzione esprime bene le intenzioni dei due contraenti ed evidenzia la volontà di don Rua di dare seguito alla promessa fatta da don Bosco al cardinale Lavigerie del 1883: «Sua ecc. mons. Soubrier, desideroso di provvedere all’educazione cristiana dei giovani della città di Orano, specialmente quelli poveri e abbandonati, propone al rev.mo don Rua di aprire in questa città opere ispirate allo spirito e alle regola della Pia Società fondata da don Bosco, di felice e venerata memoria. Don Rua accetta con riconoscenza la proposta, felice di poter così realizzare il desiderio di don Bosco di inviare i suoi figli entrare nelle regioni africane per la salvezza delle anime».
I Salesiani avrebbero realizzato il progetto nei termini stabiliti dalla convenzione. Come stabiliva il primo articolo, nell’ottobre 1891 don Rua avrebbe inviato a Orano il personale necessario per iniziare l’opera, almeno sei Salesiani, tra sacerdoti, chierici e laici. Essi avrebbero assunto la direzione della scuola della cattedrale Saint Louis, l’avrebbero incrementata con le scuole elementari e coll’aggiunta di un Oratorio (art. 2). Nell’ottobre 1892 si sarebbero iniziati i corsi di latino (art. 3). Le lezioni sarebbero state a pagamento (art. 4). Inoltre, «dato che lo scopo principale della Pia Società Salesiana di don Bosco è quello di prendersi cura della gioventù povera e abbandonata, i superiori avrebbero fatto in modo di aprire un internato o orfanotrofio, non appena la Divina provvidenza avrebbe procurato le risorse indispensabili» (art. 7). In vista di questa fondazione, mons. Soubrier cedeva ai Salesiani la casa e il terreno in suo possesso presso la chiesa parrocchiale di Orano-Eckmühl (art. 8). Gli altri articoli riguardavano questioni finanziarie, che don Rua ci teneva sempre, come anche mons. Soubrier, a mettere in chiaro e possibilimente a fissare nei dettagli: spese per l’adattamento dell’antico tribunale, spese di viaggio e di sistemazione dei religiosi, stipendi degli insegnanti.
Il salesiano francese Charles Bellamy (1852-1911), originario di Chartres, fu incaricato da don Rua quale direttore-fondatore dell’opera. Era piaciuto al vescovo durante il suo viaggio di esplorazione. «Spero che i Salesiani faranno un gran bene a Orano. Mi sembra che don Bellamy sia dotato delle migliori qualità», aveva scritto a don Rua il 4 gennaio 1891.
I sette membri della spedizione di Orano, don Bellamy, un sacerdote, due chierici, un coadiutore capo falegname e due giovani coadiutori viticultori, parteciparono a Torino il 16 agosto 1891 alla cerimonia tradizionale d’addio ai missionari nella chiesa di Maria Ausiliatrice. Cyprien Beissière, uno del gruppo, racconterà che don Rua li aveva riuniti in mattinata nella cappella attigua alla camera di don Bosco per intrattenersi familiarmente con loro. «Vi invio come agnelli in mezzo ai lupi», avrebbe detto.[392] In effetti, le seccature amministrative, troppo complesse per essere narrate qui, non mancheranno. Da Torino, i setti raggiunsero Marsiglia e l’Oratorio Saint Léon. Là, l’ispettore don Albera solennizzò la loro partenza. Il suo discorso, molto intenso e commovente, come si usava, svolse un tema biblico: «Come sono belli i piedi di coloro che vanno lontano ad annunciare il Vangelo della pace!». Il pubblico si commosse. «Le fatiche, le prove, i dolori dei missionari, il sangue che macchierà forse le loro corone, nulla è dimenticato». Salutò in modo particolare tre Salesiani del gruppo che erano stati «ragazzi del Saint-Léon». E, secondo la cronaca del Bollettino Salesiano, «qualche parola piena di delicata cordialità ricordò a tutti che il capo della spedizione [Charles Bellamy] era stato un benefattore caro a don Bosco, di cui si è mostrato costantemente degno figlio».
Il 22 agosto, i sette si imbarcarono sul piroscafo La Città di Roma diretti a Orano. Il 24 erano già a destinazione. Nessuna personalità civile o ecclesiastica li accolse: questi signori erano in vacanza in Europa. I Salesiani, guidati da don Bellamy, che conosceva i luoghi, si recarono subito alla cattedrale per salutare il Signore e incontrare il personale: il segretario generale del vescovo e i vicari della cattedrale, che fecero del loro meglio per prendersi cura di loro. Poi andarono in ricognizione in rue Ménerville per verificare lo stato dell’antico tribunale: lo trovarono in condizioni pietose. Ma avevano coraggio e spirito di sacrificio in abbondanza, come testimonia il 26 agosto una lettera di Bellamy a don Rua.[393] Si rimboccarono le maniche e si adattarono alla situazione. Il vescovo, di ritorno dalla Francia, impietositosi, fece una generosa offerta. Il 5 ottobre iniziarono le lezioni (classi elementari e classi medie), non nell’ex tribunale, ancora in cantiere, ma nella scuola parrocchiale messa a disposizione da mons. Soubrier. Volevano aprire l’Oratorio il 1° novembre, ma ci riuscirono soltanto il 15 dicembre (giorno in cui la diocesi festeggiava l’Immacolata), con la presenza di mons. Soubrier che benedì la cappella nell’antico tribunale. Un allegro spettacolo concluse la giornata. Grazie a qualche giovane attore improvvisato, ma molto sveglio, si rappresentò il piccolo dramma di don Bosco La Casa della fortuna, con grande soddisfazione del vescovo che stava in prima fila tra gli spettatori.
Restavano da concretizzare gli articoli 7 e 8 della convenzione. La proprietà ceduta da mons. Soubrier sulle alture di Eckmühl comprendeva una casa e un vasto giardino. I Salesiani vi si stabilirono il 31 gennaio 1893. Il podere si ingrandì e si abbellì rapidamente. Piantarono alberi, allestirono dormitori, classi, sale. Presto vennero organizzati quattro laboratori per artigiani, una sezione di studenti (di età tra i dieci e i dodici anni), una sezione di aspiranti al sacerdozio, con qualche vocazione tardiva. Fu aperto anche un secondo Oratorio con la sua Joyeuse Union, replica della Società dell’Allegria del giovane don Bosco. L’opera di Eckmühl negli anni Novanta non era che una «casa salesiana in miniatura», con una novantina di allievi. Ma si sognavano grandi sviluppi.
Fino al 1896 le due opere di Orano funzionarono sotto la direzione del fondatore Charles Bellamy. Talvolta ebbero anche seri problemi. Nel 1895, il giornale Le Petit Africain condusse una campagna feroce contro i Salesiani. Il 26 ottobre, l’amministrazione prefettizia ordinò, senza spiegazioni, la chiusura della cappella di Ménerville, «negli stessi giorni in cui autorizzava l’apertura di una loggia massonica», fa notare amaramente padre Bellamy. La sua reazione arrivò il 30 ottobre con una lettera aperta al prefetto. E, fortunatamente, la cosa si fermò lì.[394]
Cambiamo completamente orizzonte e passiamo dall’Africa alla provincia polacca della Galizia, che era sotto l’amministrazione austriaca fino al 1919. Su richiesta del vescovo di Przemyśl, don Rua vi inviò nel 1892 don Bronisław Markiewicz come curato della parrocchia di Miejsce Piastowe, che divenne la prima opera salesiana in Polonia.
In quell’anno, Bronisław Markiewicz (1842-1912) era ancora, malgrado i suoi cinquant’anni, un «giovane salesiano».[395] Nato a Pruchnik, presso la città vescovile di Przemyśl, in Galizia, era entrato, non senza esitazione, nel seminario maggiore all’età di ventun anni ed era stato ordinato sacerdote tre anni dopo. Sacerdote molto dotato, studiò pedagogia e filosofia, prima a Leopoli poi a Cracovia. Potè così superare con successo l’esame di concorso parrocchiale (27 e 28 ottobre 1875). Per sette anni fu parroco di Gać (1875) e di Błażowa (1877-1882). Si diede con zelo al ministero: catechismi, predicazioni, confessioni, cura dei poveri e dei malati, fondazione di «confraternite degli astemi», in una zona in cui l’alcolismo era malattia endemica. Era molto stimato. Così il vescovo, mons. Łukasz Solecki, testimone delle sue qualità, lo promosse professore di teologia pastorale nel seminario maggiore (1882). Tuttavia Bronisław, a quarantatré anni, cominciò a sognare una vita spirituale più esigente in armonia con la pratica del ministero. Nel novembre del 1885, d’accordo con il vescovo, partì per Roma alla ricerca di una congregazione religiosa capace di rispondere alle sue aspirazioni. In principio parve pensare ai Teatini. Ma colpito dallo stile di vita e dalla spiritualità dei Salesiani di Roma, presso i quali era andato a celebrare la messa, decise di rivolgersi direttamente a don Bosco. Il 30 novembre 1885 lo incontrò a Torino e, affascinato, gli chiese di entrare nella sua Congregazione.
Il catalogo generale della Società per l’anno 1887 lo colloca tra gli ascritti (novizi) della casa di San Benigno Canavese. Iniziò il noviziato nel marzo 1886, dopo due mesi di postulato. Non esistono documenti sulla sua professione religiosa. Affermerà sempre di aver fatto professione nelle mani di don Bosco il 25 marzo 1887. Il segretario Viglietti registrava tutti gli spostamenti del suo superiore. In quella data don Bosco era a Torino. Il 25 marzo, dunque, Bronisław lo incontrò a Valdocco dove, facendo forse valere la sua età e la sua qualità di prete esperto, ottenere di pronunciare davanti a lui solo, nell’intimità della sua camera, i voti perpetui di obbedienza, povertà e castità. Probabilmente il segretariato generale non ne fu informato, per cui il catalogo della Società Salesiana per l’anno 1888 non lo include né nelle lista dei professi temporanei né in quella dei professi perpetui. Invece lo ritroviamo nelle edizioni tra il 1889 e il 1892 con il titolo di professo perpetuo. Passò due anni nella casa torinese di San Giovanni Evangelista e due anni nella casa di riposo di Mathì. In effetti si era ammalato di tubercolosi. In queste case, confessava, si occupava dei chierici, dava lezioni di storia o di teologia e, talvolta, predicava ai Salesiani. La sua visione della vita spirituale era molto esigente. «La spiritualità di don Bosco – scrisse il 30 agosto 1888 nelle sue note spirituali – consiste nell’oblio di se stessi per amor di Dio e del prossimo. Il prossimo affidato alle nostre cure si mostra spesso ostile verso di noi: bisogna tacere, sopportare pazientemente gli affronti, i sospetti, gli insulti, le calunnie, rispondendo sempre con la carità. Se il prossimo non vuole ricevere nulla da noi, bisogna permettere caritatevolmente che se ne occupino gli altri. Bisogna dunque sembre dimenticarsi di se stessi, disprezzare il proprio io».[396] Predicherà sempre l’abnegazione, la dolcezza e l’umiltà.
Al momento della professione, Bronisław sognava di tornare in Polonia per dedicarsi al servizio del proprio paese, soprattutto della povera Galizia che interiormente confrontava col ricco Piemonte. I suoi amici lo avrebbero voluto come salesiano nella parrocchia di Miejsce che dipendeva dalla sua diocesi di origine, ma era di patronato laicale.[397] Quando la parrocchia si rese libera, il «patrono» della parrocchia scrisse ufficialmente a don Rua chiedendogli di accettare la parrocchia come opera della Congregazione e di fare di don Markiewicz il curato del posto. In pieno accordo con la proposta, il 19 ottobre 1891 don Rua scriveva (in latino) al vescovo di Przemyśl: «Ho da tempo intenzione di aprire un’opera in Polonia per accogliere ragazzi, soprattutto poveri. Ma fino a questo momento, la mancanza di preti e di maestri me l’ha sempre impedito. Se la messe è abbondante, gli operai sono pochi. Ora per soddisfare il suo pio desiderio, accordo volentieri a don Bronisław Markiewicz il diritto di recarsi laggiù e di assumere l’incarico della parrocchia».[398] Don Markiewicz stesso avviò le pratiche alla fine del 1891,[399] e don Rua lo autorizzò ufficialmente.[400]
Rientrato in Polonia, don Bronisław arrivò a Miejsce Piastowe il 24 marzo 1892. Si mise a servizio della parrocchia, ma soprattutto si dedicò alla cura dei giovani abbandonati. Sapeva che don Rua pensava a un’opera salesiana regolare, così diede inizio all’«Istituto Don Giovanni Bosco» (è questo il titolo attribuito dai cataloghi salesiani tra 1894 e 1897 alla «casa» di Miejsce).
Don Markiewicz si lanciò nell’impresa a corpo morto. Alloggiò nella casa canonica e nelle sue dependance ragazzi e ragazze abbandonati. Lavoravano nella fattoria e nella campagna del «beneficio» parrochiale. Per loro nel 1895 crearono anche i laboratori di calzoleria, sartoria e altri. Cominciò a scegliere i ragazzi migliori per farne dei Salesiani al servizio dei compagni. Le ragazze avevano una loro organizzazione femminile. Don Markiewicz applicava con gli uni e le altre un metodo educativo ispirato alla migliore tradizione salesiana, basato sulla ragione, la religione e l’amorevolezza.[401] Nella lista del personale di Miejsce il catalogo salesiano del 1894 annovera undici «aspiranti»: tre coadiutori e otto studenti. Nel 1895 tre di loro appaiono come «ascritti», cioè novizi, e il numero degli aspiranti sale a diciassette (cinque artigiani e dodici studenti). Questi numeri incuriosirono Torino. I cataloghi del 1896 e del 1897 elencano solo più due «ascritti», ma non presentano aspiranti. Nel 1898, la stessa casa di Miezsce scompare dal catalogo. Ne vedremo subito il motivo.
Nella lettera ai Cooperatori sul Bollettino Salesiano del gennaio 1895, don Rua si rallegrava del lavoro di Markiewicz: «Nella Polonia da alcuni anni un sacerdote salesiano, inviatovi per fungere da parroco in Miejsce, paese della Galizia, cominciò a raccogliere nella casa parrocchiale poveri giovani bisognosi d’istruzione e sostentamento. Il piccolo ospizio si sviluppò poco alla volta. Già si dovette mandar soccorso di personale al povero parroco che da solo più non poteva bastare alla fatica; e sul finire dello scorso anno ammontava a circa cinquanta il numero dei ricoverati».[402]
Nel 1896, don Rua autorizzò una suora salesiana a partecipare alla formazione delle educatrici (erano quasi delle consacrate) che volevano abbracciare la vita religiosa.[403] Ma le iniziative sempre più audaci di don Markiewicz stavano per guastare tutto, come ci dice nella sua laconicità il verbale della riunione del Capitolo Superiore del 23 novembre 1896: «Da Miejsce, D. Markiewicz propone nuove iscrizioni [di novizi] e alcune professioni. Si decide di mandare a questa casa don Veronesi, per farsi un’idea chiara di quello che vi si fa. Intanto non si condedono né le iscrizioni né le professioni».[404]
Nella casa Don Giovanni Bosco di Miejsce Piastowe regnava la povertà. Il numero dei giovani accolti si avvicinava al centinaio. Ma si stava profilando una grave crisi. Nel giugno 1897, don Rua preoccupato dalle notizie che gli giungevano da quell’orfanotrofio fuori controllo, mise in atto la decisione del Capitolo e inviò come visitatore l’ispettore don Mosé Veronesi. L’accoglienza fu calorosa. Ma le sue conclusioni sconcertarono Bronisław Markiewicz.
Dopo averle fatte approvare da don Rua perché fossero trasmesse all’interessato per lettera (che non è stata conservata), il visitatore, che risiedeva a Mogliano Veneto, espose le sue decisioni al curato decano di Rymanow con lettera del 14 ottobre 1897.[405] Le donne dovevano essere alloggiate in un’abitazione separata; i ragazzi non avrebbero più potuto risiedere nella casa parrocchiale; il vitto dei giovani e dei religiosi doveva essere diversificato; il numero di ragazzi non poteva superare le venti unità; le ragazze non avrebbero dovuto entrare nell’istituto; don Markiewicz si sarebbe occupato della parrocchia, dei venti ragazzi rimasti, e avrebbe mandato gli altri altrove.[406]
Di fronte a posizioni così drastiche don Markiewicz decise di uscire dalla Congregazione di don Rua e di creare una Società più fedele, pensava, alle intenzioni originarie di don Bosco. Il 29 dicembre 1897, il segretario del Capitolo Superiore scriveva nel verbale: «Si legge relazione del perseverare di Markiewicz nella defezione. Ha fatto vestizioni cliericali e ammesse ai voti alcune figlie». È tutto.[407] Possediamo la lunga lettera di don Markiewicz, datata 28 dicembre 1897, in risposta al vescovo di Przemyśl che l’aveva interrogato sulle ragioni della sua rottura con i Salesiani. Eccone i punti principali: 1) I Salesiani hanno cambiato la regola primitiva, in cui regnava il motto «Lavoro e Temperanza»; si sono rivolti alle classi medie a scapito dei «poveri e degli abbandonati». 2) Hanno centralizzato il noviziato. 3) Hanno centralizzato la gestione economica a vantaggio degli Italiani. 4) Vogliono italianizzare i Polacchi che vanno da loro. 5) La stessa tendenza nelle missioni: «italianizzare questi paesi, soprattutto l’America del Sud, è lo scopo principale dei missionari salesiani, e non la conversione dei selvaggi». Di conseguenza, «dopo aver esaurito per undici anni tutti i miei argomenti, ora so chiaramente che per me, per il mio istituto, per la Polonia e per la Chiesa, è più utile che io mi separi dai Salesiani italiani e fondi una Congregazione a parte attenendomi alla regola primitiva di don Bosco. E a questo scopo il 23 settembre di quest’anno ho presentato domanda al Reverendissimo vescovo di Przesmysl e al Santo Padre».[408] Nascerà così la Società Lavoro e Temperanza, per la quale il nostro curato ottenne senza difficoltà il beneplacito dell’amministrazione civile.
Il vescovo, da parte sua, non credette di «doversi opporre al suo disegno di fondare una Congregazione secondo lo spirito primitivo di don Bosco, ispirandosi ad esempi simili nella storia della Chiesa», come leggiamo nel verbale del Capitolo Superiore del 14 marzo 1898. «Don Rua fa rispondere che Markiewicz si rifiutò all’obbedienza dopo che noi gli avevamo scritto di ordinare la casa sua secondo gli avvisi che ci aveva comunicati lo stesso Monsignore; che noi non potevamo permettere che questa nuova Congregazione portasse il titolo della nostra; che noi secondo le Regole scioglievamo dai voti Markiewicz, e che in conseguenza non partecipava più ai nostri privilegi». Il Capitolo decise di inviare al procuratore romano Cesare Cagliero una copia della lettera del vescovo e della risposta perché, all’occasione, potesse presentarla alla Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari, cioè alla Santa Sede.[409]
Infatti don Markiewicz insisteva con Roma, dove facevano orecchie da mercante. Al termine di una lunga lettera al papa, datata 5 aprile 1898, dopo aver elencato le sue riserve su quella che chiamava la «nuova Società Salesiana», scriveva:
[...] Quando quest’ultimo [don Veronesi], dapprima a voce, poi per lettera, insistette in nome dell’obbedienza sulla loro introduzione [delle usanze italiane], il sottoscritto, costretto dalla voce della coscienza, cessò i contatti con i suoi superiori e costituì una Congregazione a parte secondo la Regola primitiva e l’osservanza di don Bosco, perché, senza parlare degli esercizi annuali nello spirito di Sant’Ignazio di Loyola, la casa di don Bosco a Miejsce si distingue vantaggiosamente dalle altre case salesiane in Italia, soprattutto perché i suoi allievi mostrano quelle virtù consigliate insistentemente da don Bosco, come il lavoro e la temperanza, soprattutto per quel lato eccellente della temperanza che è l’umiltà.
Il sottoscritto ha con sé quattro chierici e quattro fratelli professi perpetui ed anche quaranta novizi. Prega dunque umilmente Vostra Santità di accordare a questa Congregazione i privilegi concessi dalla Santa Sede alla Congregazione fondata da Giovanni Bosco di gloriosa memoria, di cui è il figlio e l’imitatore più fedele.[410]
Don Markiewicz mise la sua Società sotto il patrocinio di San Michele Arcangelo. Fu questa l’origine della Congregazione maschile e femminile dei Micaeliti, riconosciuta da Roma dopo la morte del fondatore.
In questa vicenda, solo i sentimenti di don Rua ci riguardano direttamente. Li conosciamo attraverso le lettere che indirizzò nel 1897 e nel 1898 al vescovo di Przemyśl, mons. Solecki. Il 19 dicembre 1897, annunciava semplicemente l’uscita di don Markiewicz dalla Congregazione Salesiana:
A fronte della sua contumacia e della persistenza delle sue opinioni, dopo tre mesi di attesa paziente che ritratti, non ci resta altro che scioglierlo [don Markiewicz] dai voti e radiarlo dalla lista dei membri della nostra Congregazione. Tuttavia non vogliamo fare quest’ultimo passo senza informarne previamente S.E. Rev.ma e senza conoscere prima la sua saggia opinione. Se S.E. è d’accordo con noi, a partire da ora, con la presente, rimettiamo il Reverendo Markiewicz sotto la sua giurisdizione e lo togliamo dalla lista di membri della nostra Congregazione.[411]
Il 27 marzo 1898, in seguito alla lettera del vescovo, sopra citata, esaminata nella riunione del Capitolo Superiore del giorno 14, don Rua inviava un’altra lettera in latino, nella quale considerava dettagliatamente le principali critiche:
La ringrazio di tutto cuore per la sua lettera, piena di grande umanità e di benevolenza, che ho avuto il piacere di ricevere. Non aggiungerò granché sul sacerdote Bronisław Markiewicz che con la sua disobbedienza e la sua cocciutaggine, ha fatto soffrire me personalmente e gli altri superiori. Sua Eccellenza sa che ha creato nel villaggio di Miejsce una casa per ragazzi e per ragazze, che contravviene alle regole della nostra Pia Società, è molto pericolosa per i buoni costumi e, di conseguenza, è contro la mia volontà, Quando il visitatore don Veronesi, da me inviato a Miejsce, gli fece con spirito di carità tutte le osservazioni e gli ammonimenti che si imponevano e gli diede direttive secondo la volontà di Sua Eccellenza, don Markiewicz, perseverando audacemente nella propria opinione, affermò che lui solo seguiva la Regola della Pia Società di S. Francesco di Sales, e che tutti gli altri superiori avevano deviato dall’antica e buona strada. Quale audacia! O piuttosto, che sciocchezza! Quando tutti sanno che nemmeno uno iota è stato mai cambiato nelle Regole ricevute dal nostro veneratissimo Fondatore. L’infedeltà e la disobbedienza di alcuni non tocca le Regole. Prima di tutto, dunque, il carissimo don Markiewicz impari l’obbedienza e l’umiltà; constaterà allora che nulla è cambiato in queste Regole. A causa di una così grave disobbedienza e fuga, a tenore delle nostre Costituzioni (cap. II, art. 5), don Markiewicz è stato giustamente escluso dalla Pia Società di S. Francesco di Sales, cosa che confermo con questa lettera. Ritorna ad essere dunque semplice sacerdote secolare, sottomesso al suo vescovo e non beneficerà più del privilegio dei Regolari. Lo raccomando a Sua Eccellenza, sperando che sia un eccellente curato. Ma non permetterò mai che usurpi in qualche modo il nome dei Salesiani e del nostro veneratissimo don Giovanni Bosco. A ciò io mi opporrò con tutte le mie forze. Se ha intenzione di istituire qualche Pia Società, potrà darle i nomi di san Stanislao Kotska o di san Giovanni Berchmans. Ma non usurpi un nome conosciuto, cosa che genererebbe grandissima confusione, contro il parere del Santo Padre Leone XIII, che si adopera in ogni modo di condurre le Famiglie Religiose all’unità.
Benché indegno, affido me stesso e la mia Pia Società alle potenti preghiere di Sua Eccellenza.
Suo umilissimo e devotissimo servitore,
Michele Rua, sacerdote,
Rettor Maggiore della Pia Società Salesiana.[412]
Nell’aprile del 1898, in una nuova lettera in latino al vescovo, scritta su richiesta del suo ausiliare mons.Weber, don Rua riprese tutta la storia di don Markiewicz in Polonia.[413] È troppo lunga per essere riprodotta interamente, cito solo le nuove lamentele contro di lui. Malgrado la Regola lo permettesse, don Markiewicz aveva proibito ai Salesiani che gli erano stati inviati in aiuto di confidare le loro lamentele ai superiori. Aveva preteso che i Salesiani tenessero il denaro raccolto in Polonia per uso proprio, mentre di fatto serviva al mantenimento dei giovani polacchi in formazione nelle case di Foglizzo, Ivrea o Lombriasco. Quest’ultima casa era comunemente chiamata la casa dei Polacchi. «Come stupirsi che i Cooperatori polacchi, con cognizione di causa, ci abbiano aiutati – esclamava don Rua – e che approvino l’uso che noi facciamo del denaro che ci inviano!». «Non è stato possibile inviare in patria alcuni di questi giovani ad occuparsi della gioventù perché non hanno ancora terminato gli studi, ma tutti sanno che questa è la mia intenzione». Egli stesso ha aiutato personalmente gli emigranti polacchi in America o in Inghilterrra: «Ciò basti per confutare l’obiezione di don Markiewicz secondo cui, fino ad ora, i Salesiani non hanno fatto nulla per la Polonia». Terminava la lettera, chiaramente amareggiato, con la questione a suo parere più grave:
Non sia sorpreso, Eccellenza, che io deplori con tanto dolore lo scisma provocato nella nostra Società da don Markiewicz, per la sua disobbedienza, soprattutto per la sua audacia nel calunniare l’intera Congregazione come se avesse tradito del tutto lo spirito delle origini. Se veramente don Markiewicz vuole servire Dio e lavorare per la salvezza delle anime indipendentemente dai suoi legittimi superiori, non è giusto che usurpi il nome dei Salesiani, che si dica figlio di don Bosco e che allontani dalla loro vocazione altri preti e chierici polacchi.
Duole infatti che don Markiewicz, con numerose lettere, abbia esortato altri Salesiani a lasciare la Congregazione per unirsi a lui. Parecchi hanno rifiutato la proposta, ma un chierico di nome Orlemba, dopo la professione, è andato a Miejsce e, perché non si pentisse del suo gesto, è stato nominato da Markiewicz direttore del collegio. Il chierico Orlemba non è mai stato dispensato dai voti. Dia altro nome alla sua Congregazione e non si permetta di allontanare dalla loro vocazione preti e chierici e di scrivere ai Cooperatori per chiedere denaro, creando molta confusione. Questo è avvenuto in alcune lettere del 2 aprile scorso con le quali esortava i sacerdoti a celebrare messe in suo favore e a destinare gli onorari a quella che chiama la “casa di don Bosco”.
Prosternato ai piedi di Vostra Eccellenza, mi raccomando alle sue ferventi preghiere, io personalmente e la Pia Società a capo della quale mi trovo malgrado la mia indegnità.
Il postulatore della causa di don Markiewicz, mi ha detto: «È stata una discordia tra due santi». Certamente, visto che la Chiesa, riconoscendo l’eroicità delle loro virtù, ha beatificato l’uno e l’altro, Michele Rua nel 1972, Bronisław Markiewicz nel 2005... Ma bisogna confessare che nel 1897 e nel 1898, chi ha sofferto di più nella «battaglia tra due santi» è stato di sicuro il nostro don Rua. La prima fondazione salesiana sul suolo polacco lo fece soffrire enormemente. Lui, così scrupoloso nell’imitazione di don Bosco, lui che procedeva seguendo fedelmente le sue orme. Accusarlo pubblicamente di mancare di fedeltà al suo maestro, immaginare che all’origine ci fosse stata una Regola più austera, che di fatto non è mai esistita, e creare in questo modo una corrente antagonista, se non un vero scisma nella Congregazione: sarebbe stato difficile trovargli un supplizio più raffinato.
Nel 1898, la nuova fondazione, certamente laboriosa, ma riuscita, della casa di Oświęcim, sarà come un balsamo per il suo cuore.[414] Miejsce sarà dimenticato, Oświęcim prenderà il primo posto tra le opere salesiane polacche.
22 - VIAGGIO NELLA PENISOLA IBERICA (1899)
Sarebbe noioso seguire don Rua nei numerosi viaggi in Europa. Comunque è interessante soffermarsi su quello fatto in Spagna, Portogallo e Algeria nel 1899. Fu tanto l’entusiasmo dimostrato nei suoi riguardi dai giovani e dalle folle di varie città, da richiamare quello suscitato da don Bosco stesso a Parigi e a Lille nel 1883. Come era accaduto al Maestro sedici anni prima, in don Rua si percepiva e si venerava un santo vivente.[415]
Arrivò a Barcellona il 5 febbraio 1899, nella prime ore della notte, proveniente dalla Francia, in compagnia di don Giovanni Marenco, suo vicario generale presso le Figlie di Maria Ausiliatrice, di e don Filippo Rinaldi che l’aveva raggiunto alla frontiera. Tantissima gente lo aspettava alla stazione per dargli il benvenuto. Alcuni giovani lavoratori, che frequentavano l’Oratorio Salesiano San José, tentarono di staccare i cavalli dalla vettura inviata da un Cooperatore, per tirala a mano su Las Ramblas, la grande strada tutta illuminata che attraversa la città, ma li fecero educatamente rinunciare. I nostri viaggiatori arrivarono alla scuola salesiana di Sarrià anch’essa illuminata a festa. Don Rua passò in mezzo a quattrocento giovani molto curiosi di vederlo, disposti su due file.
Quindici giorni gli bastarono appena per visitare i Cooperatori di Barcellona, tenere conferenze, presentare il suo omaggio alle autorità religiose e civili e dare udienza alle persone desiderose di incontrarlo. L’Oratorio San José, ultima opera creata dalla santa Cooperatrice Dorotea Chopitea, gli fece grande impressione. Lo ricorderà a Bologna il 30 maggio successivo:
Pochi anni or sono, regnava il mal costume e l’irreligione eziandio ne’ ragazzi, che, fatti petulanti e sfacciati dall’esempio de’ maggiori, insultavano e offendevano villanamente i passeggeri, sì da provocare frequenti interventi della forza pubblica. Trovai quei popolani tranquilli e garbati, ed i ragazzi chiassosi ed allegri, ma rispettosissimi verso il sacerdote, che salutano ed accostano con grande confidenza. Essi stessi attribuiscono tal meraviglioso cambiamento all’Oratorio Festivo Salesiano, che da pochi anni funziona con regolarità in mezzo a loro, e benedicono quell’istituzione che, istruendo ed educando i figli, agisce così efficacemente eziandio sui parenti e su tutta la famiglia.[416]
A proposito delle prime quattro case visitate, due rette dai Salesiani e due dalle Figlie di Maria Ausiliatrice, don Rua il 15 febbraio scriveva al prefetto generale don Belmonte: «Qui le cose funzionano abbastanza bene. Queste case beneficiano di una grande simpatia». Dedicò due giorni a una quinta casa, il noviziato di Sant Vicenç dels Horts, relativamente vicino alla città. Erano gli ultimi giorni di carnevale. I novizi stavano facendo gli esercizi spirituali. Don Rua confessò, diede la buonanotte e tenne il discorso di chiusura. La popolazione locale si associò talmente alla festa del noviziato che parve dimenticare le mascherate tradizionali. Nei dintorni non si vide alcuna maschera. Don Rua era soddisfatto. Dal noviziato scriveva al prefetto generale: «Anche là sembra che le cose vadano bene». Il Rettor Maggiore non sprecava mai i suoi avverbi e soppesava le parole. Voleva dire che, malgrado alcuni difetti e debolezze immancabili, l’essenziale era assicurato. Le case di Barcellona e il vicino noviziato gli erano piaciuti per il loro ottimo spirito salesiano.[417]
Ritornato a Sarrià ebbe la piacevole sorpresa di partecipare a un convegno di ex-allievi, il primo che si teneva in Spagna. «Fu uno spettacolo veramente mirabile, come non avevamo mai visto», assicurerà un settimanale del luogo.[418] Incoraggiati da don Rua, questi giovani costituirono un’associazione permanente, destinata a raggruppare tutti gli ex-allievi della scuola di Sarrià.
Venerdì 17 febbario don Rua raggiunse la casa di Gerona, dove doveva benedire la prima pietra di una chiesa dedicata a Maria Ausiliatrice. Al suo arrivo pioveva a dirotto, la pioggia continuò tutta la notte, e nulla lasciava sperare che avrebbe smesso. La gente, angosciata da una lunga siccità, benedì il cielo e don Rua stesso, il cui arrivo sembrava aver scatenato quella benedizione. Ma la pioggia metteva in agitazione i Salesiani che temevano rovinasse la festa. Don Rua se ne accorse e li rassicurò. Suggerì che il sabato si recitassero bene le preghiere del mattino e della sera, così tutto sarebbe andato per il meglio. Infatti, la domenica 19 un sole primaverile consentì la cerimonia di posa della prima pietra con gran concorso di folla.
Il 21 febbraio lasciò la Catalogna e si diresse verso il Portogallo. Il viaggio fu più lungo e faticoso di quanto aveva previsto. Quattro tappe scandirono il percorso. Si fermò nelle case di Bilbao, Santander, Bejar e Salamanca. Dappertutto lo accolsero «con vero trasporto, con affetto, e sto per dire con divozione, non solo dai confratelli e dagli alunni, ma anche dagli esterni, specialmente Cooperatori», scriveva don Marenco a don Belmonte il 5 marzo successivo.[419] Don Rua fu continuamente assediato da persone che chiedevano consiglio, da giornalisti in cerca di interviste, da malati che imploravano le sue benedizioni. «Si rinnovano i fatti di don Bosco, compreso quello di vedere tagliati i panni addosso al povero Sig. D. Rua». La gente si procurava in tal modo reliquie a buon mercato. Come in Catalogna, vennero ad incontrarlo la municipalità, il popolo e il clero. I vescovi e i Gesuiti di Bilbao e di Salamanca, gli Scolopi di Saragozza, che gli diedero ospitalità, i Carmelitani di Alba de Tormes, dove, per rispondere al desiderio del vescovo di Salamanca, don Rua andò a venerare le reliquie di santa Teresa. Tutti, in vario modo, gli manifestarono la loro stima.
Il 4 marzo, dopo Salamanca, don Rua sospese provvisoriamente le visite delle case di Spagna per raggiungere direttamente Braga, nel Nord del Portogallo. Il viaggio riservò una spiacevole sorpresa ai nostri tre visitatori. All’ingresso della stazione di Quegigal, il loro treno, per una negligenza del manovratore, si inoltrò su un binario morto dove stazionavano alcuni vagoni merci. L’urto fu terribile. Don Rua, don Rinaldi e don Marenco furono bruscamente sbalzati contro i viaggiatori che sedevano di fronte e rotolarono a terra, mentre i bagagli cadevano loro addosso. Don Rua se la cavò con una leggera ferita alla fronte e un’emorragia dal naso. Gli altri passeggeri dello scompartimento rimasero indenni. In altri scompartimenti ci furono feriti più gravi e contusi. La locomotiva riuscì ancora a trascinare il convoglio fino alla stazione successiva, dove venne sostituita.
L’ora tarda dell’arrivo a Braga non impedì ai portoghesi di accogliere con onore il successore di don Bosco. L’indomani, 5 marzo, mons. Sebastião Leite de Vasconcellos, grande ammiratore dei Salesiani del Portogallo, organizzò in seminario il ricevimento in onore di don Rua. Un oratore famoso dispiegò tutta la sua eloquenza per magnificare don Bosco, descrivere la sua opera e tracciare il profilo del Cooperatore Salesiano. L’arcivescovo, simpatico e molto amato per la sua carità, pronunciò un breve ma fervente discorso. Poi don Rua, in portoghese, ringraziò ciascuno meglio che poté. I seminaristi erano entusiasti. Il 9 marzo don Marenco poteva scrivere a don Belmonte: «L’accademia fatta a Braga ad onore del Sig. D. Rua riuscì splendidamente e fu cosa di molta importanza in città». Continuava: «Quando il Sig. D. Rua partì per Vigo, il che fu martedì alle 11 e mezza, la stazione era gremita di gente. I più distinti benefattori erano là per salutarlo e ringraziarlo dell’onore fatto a Braga colla sua visita. La banda cittadina suonava, mentre la folla prorompeva in applausi e viva, finché il treno scomparve. Non va dimenticato che sul passaggio dalla carrozza al treno ereano sparsi fiori».[420]
La stazione di Vigo era distante tre chilometri dalla città. C’erano alcuni ragazzetti ad attendere don Rua. Lo accompagnarono gridando a squarciagola “Evviva don Rua!” e scortarono la sua vettura correndo fino all’Oratorio Salesiano. Le loro grida annunciavano l’arrivo del succesore di don Bosco ai cittadini, sorpresi dalla manifestazione. Don Rua ne parlerà a Bologna come aveva fatto per l’Oratorio San José di Barcellona. Dirà: «In un piccolo paese sono stato accolto da una folla di ragazzi di tutte le età e di ogni condizione e sono stato accompagnato da questo corteo d’onore per qualche chilometro tra le grida di gioia, i segni più sinceri di stima e di affetto». I Cooperatori e le Cooperatrici lo attendevano all’entrata del collegio, mentre molta gente si ammassava in cortile. L’indomani scese verso il quartiere dei pescatori in riva al mare, dove i Salesiani si erano spesi per tre anni. Questa gente semplice lo attendeva in chiesa e voleva ascoltarlo. Parlò loro molto familiarmente, promise che i Salesiani si sarebbero occupati delle loro necessità spirituali e domandò pubblicamente ai Cooperatori di aiutarli in questa missione. Il suo desiderio sarà realizzato quando, poco dopo, i Salesiani si assumeranno la cura della parrocchia locale.
Da Vigo il giorno 9 don Rua raggiunse il Portogallo. Dopo una giornata a Porto tra alcuni amici che lo ricevettero a braccia aperte, entrò a Lisbona la mattina dell’11 marzo. La bella capitale sembrava volergli riservare l’accoglienza migliore. La stampa, anche quella liberale, aveva annunciato il suo arrivo. Le principali autorità e la più alta aristocrazia non risparmiarono né gesti né parole per testimoniargli rispetto e stima. In quel tempo e in quel paese le classi sociali non si mescolavano. Ora, come scriverà don Ceria, nel collegio salesiano dove si voleva approfittare della presenza di don Rua per festeggiare l’assegnazione dei premi agli allievi, «si videro mani aristocratiche non disdegnare di consegnare a piccoli artigiani le ricompense che si erano meritati», in pratica utensili per il loro mestiere.
Il marchese di Liveri, «un compatriota di don Bosco, residente in Portogallo da parecchi anni», secondo una lettera di don Marenco del 14 marzo, organizzò un banchetto in onore di don Rua. Lo circondavano importanti personalità, così come i provinciali dei Domenicani, dei Francescani, dei Gesuiti, dei Lazzaristi e dei Padri del Santo Spirito. Don Rua rispose con finezza ai brindisi che si susseguirono, cosa che sembrò accrescere la generosità del marchese, molto amico dei Salesiani di Lisbona. Operavano allora in un casa piccola e poco adatta e speravano un giorno di sistemare la loro scuola in maniera più decente. Il marchese offrì al successore di don Bosco centomila franchi e un vasto terreno dove i suoi figli avrebbero potuto costruire un edificio capace di rispondere ai loro progetti. Questo gesto, reso pubblico, incoraggiò altri a dare la loro offerta o il loro appoggio ai Salesiani… A Lisbona, don Rua tenne una conferenza in francese, lingua allora compresa da molti.
Quando ebbe appreso che la sua visita sarebbe stata gradita a Corte, vi si recò. Incontrò dapprima la regina Amelia, che lo ricevette con grande amabilità. Ella avrebbe voluto che i Salesiani si facessero carico di un riformatorio dove, diceva, i giovani entravano monelli ed uscivano furfanti. «Ma – aggiungeva – visto che si tratta di un istituto del governo, non sarà facile. Almeno, con il tempo! Nel frattempo, sviluppate la vostra opera, mantenendo la vostra libertà. Io continuerò a proteggerla. Fa veramente del bene». Don Rua passò poi nell’appartamento dei due principini, i suoi figli; ma non vi trovò che il più piccolo, con il quale si intrattenne per qualche minuto; gli impartì la sua benedizione e gli diede una medaglia di Maria Ausiliatrice. L’indomani si recò dall’erede al trono, Luigi Filippo, che gli parlò della sua prossima prima comunione. Don Rua gli passò attorno al collo una medaglietta di Maria Ausiliatrice e gli diede la sua benedizione che il principe ricevette in ginocchio con molta devozione. Infine, il 14 marzo, fece visita alla regina madre Maria Pia di Savoia, che lo accolse con molta cordialità.
A Pinheiro de Cima, località non lontana dalla capitale, i novizi attendevano febbrilmente il Rettor Maggiore, che d’altra parte ci teneva ad accontentarli. Vi si recò il 16 marzo e ricevette la professione di due chierici portoghesi. L’indomani mattina lasciò Lisbona. Amici e ammiratori si ritrovarono alla stazione per rinnovargli la testimonianza del loro affetto. Don Rua disse al direttore: «Credimi, lascio a Lisbona una parte del mio cuore!». L’indomani il direttore, inviandogli il progetto dell’atto di donazione del terreno da parte del marchese di Liveri, gli scriveva: «I nostri giovani non si danno pace per la sua partenza». Qualcuno di loro, molto colpito da ciò che aveva visto e udito, chiedeva di diventare Salesiano, addirittura missionario. Il Correo de Andalucia, che annunciava il prossimo ritorno di don Rua in Spagna, scrisse: «Don Rua commuove le città che visita e le tracce del suo passaggio non saranno cancellate troppo presto».
Da Lisbona don Rua si recò direttamente a Siviglia, punto di partenza per le sue visite alle case salesiane dell’Andalusia.
L’accoglienza di Siviglia fu sensazionale. Appena disceso dal treno, Cooperatori e Cooperatrici si accalcarono attorno a lui. Il santo arcivescovo mons. Marcelo Spínola y Maestre – a cui si deve il piccolo libro Don Bosco y su Obra, pubblicato a Barcellona nel 1884 – lo salutò per primo. Sul piazzale della stazione, in mezzo a una moltitudine che applaudiva, c’era una fila di vetture in attesa. L’arcivescovo fece salire don Rua sulla sua. Una folla di gente, soprattutto di lavoratori, aspettavano vicino all’istituto salesiano. All’avvicinarsi della carrozza episcopale si levò un clamore misto a spari e a razzi luminosi, che copriva il canto della folla di giovani accompagnati dalla banda musicale. Don Rua, quasi portato dalla gente, si diresse verso la grande chiesa che ben presto fu ricolma. Gli allievi poterono finalmente farsi ascoltare e cantare un Te Deum intonato solennemente dall’altare. Seguirono i saluti nel cortile: un breve ma brillante discorso di un professore universitario, le parole affettuose dell’arcivescovo e una risposta commossa di don Rua in un buon castigliano. Poi dovette soffrire tutte le pene del mondo per liberarsi, tanto era schiacciato da ogni parte. Una volta entrato in camera, si accorse che gli avevano tagliuzzato la povera veste, se ne lamentò con il direttore don Pietro Ricaldone e lo pregò di intervenire perché non si ripetesse più un simile atto. Don Ricaldone promise, ma per tranquillizzarlo, gli fece notare con un pizzico di umorismo: «Stia tranquillo, domani avrà un’altra veste. Mi permetta di dirle che a me non è mai stato tagliato l’abito». Don Rua sorrise. I giorni seguenti, le famiglie più in vista mandarono alla scuola asciugamani, servizi da tavola, biancheria, coperte, tappeti, suppellettili, con la speranza che se ne servisse almeno una volta, per conservare poi questi oggetti come reliquie.
La serie delle visite durò due giorni. Il 19 marzo don Rua volle prendere parte con gli artigiani alla festa di san Giuseppe. Poi si recò dalle Figlie di Maria Ausiliatrice a vedere una casa salesiana recentemente aperta, dedicata a san Benedetto di Calatrava. Il 21 marzo interruppe il suo soggiorno a Siviglia per recarsi prima al collegio di Carmona, poi a Valverde del Camino presso le Figlie di Maria Ausiliatrice, quindi dai Salesiani e dalle suore di Ecija, nella nuova casa di Montilla, nell’istituto di Utrera e nella scuola tenuta dalle suore a Jerez de la Frontera, tutte piccole città della provincia di Siviglia. A Ecija, mentre il treno entrava in stazione, le campane della città suonarono a stormo. Nessun notabile mancò di presentare i suoi omaggi. E l’indomani una manifestazione di entusiasmo popolare salutò la partenza del «santo». Il 25 marzo, a Utrera, la prima casa salesiana fondata in Spagna, la città lo accolse, si disse, con lo stesso apparato di un re o di un membro della famiglia reale. Don Rua cantò la messa delle Palme, poi accompagnò i giovani agli esercizi spirituali nei primi tre giorni della settimana santa, li confessò, parlò loro nella buonanotte e nella predica di chiusura. Il 30 marzo, giovedì santo, era di ritorno a Siviglia, in tempo per presiedere in serata alla cerimonia della «lavanda dei piedi».
Il venerdì santo, rimase profondamente impressionato, come scrisse don Rinaldi, assistendo con devozione alla processione tradizionale della «morte del Cristo». La gente non cessava di ammirarlo, tanto era immerso in profondo raccoglimento. La sera del sabato santo, conclusione della Quaresima. I giovani del Circolo Cattolico dell’Oratorio S. Benedetto vennero a prenderlo. E gli oratoriani non lo lasciarono un istante. Innanzitutto ci fu un’accademia con discorsi, canti e musica. Poi lo fecero assistere a una rappresentazione drammatica, opera di don Pietro Ricaldone. Don Rua, fervente sostenitore degli Oratori, si prestava a tutto con una serenità che Ceria definisce «sovrumana». Al termine passò in chiesa, dove i papà e le mamme lo aspettavano per fargli benedire i bambini. Canti andalusi sotto il bel cielo di Siviglia resero gioiosa quella serata, conclusa a tarda ora nella notte con magnifici fuochi d’artificio.
Per il lunedì di Pasqua era prevista una manifestazione a conclusione delle giornate di Siviglia. Si svolse in un bel salone del palazzo vescovile. Vi presero parte tutte le autorità, l’aristocrazia, i cittadini più ragguardevoli. Alla fine don Rua ringraziò in casigliano, poi pregò l’arcivescovo di benedire nella sua «umile persona» la Congregazione Salesiana e tutti i presenti. L’arcivescovo volle premettere qualche parola, prima rivolto a don Rua, poi alla cittadinanza di Siviglia. A don Rua disse: «Rientrate a casa contento e soddisfatto. I vostri figli Salesiani fanno qui un gran bene e la città li conosce e li stima». Poi rivolto alla cittadinanza aggiunse: «Siete un popolo che sa apprezzare i benefici, che riconosce i servizi resi, che distingue il merito là dov’è, che applaude e onora colui che comprende e risponde ai bisogni dei tempi attuali. Un popolo che possiede tali risorse è un grande popolo capace di rigenerarsi». La scena che seguì produsse un’emozione indescrivibile. L’arcivescovo protestò di non poter accettare l’invito di don Rua a benedirlo. Ci teneva ad avere l’onore di ricevere lui stesso, insiema a tutti, la benedizione del successore di don Bosco. Don Rua tentò di anticiparlo inginocchiandosi, ma l’arcivescovo l’obbligò dolcemente ad alzarsi e a dare la sua benedizione a lui come e ai presenti. Si mise dunque in ginocchio. Ci fu un istante di stupore nel silenzio della sala. I testimoni affermarono che quando don Rua pronunciò le parole della benedizione, si riusciva a percepire nella voce le palpitazioni del suo cuore.
A Siviglia e dintorni, don Rua incoraggiò i Salesiani, conversò con gli allievi interni, si rivolse agli uni e agli altri nei sermoncini della buona notte, confessò ogni mattina e si interessò particolarmente all’Oratorio festivo. Nel Congresso di Bologna, il 30 maggio seguente, parlerà a lungo, dopo i benefici risultati dell’Oratorio di Barcellona, di quelli ottenuti «in una località vicina a Siviglia» :
I ragazzi del paese erano divisi in due fazioni, tra cui si combattevano frequenti lotte a colpi di fionda, che tutti sapevano maneggaire con grande destrezza. Si interposero più volte le guardie di pubblica sicurezza, ma con poco o nessun esito, che anzi i monelli erano riusciti qualche volta a metterle in fuga, unendosi tutti insieme contro di loro; ed intanto continuavano le scene selvagge e non sempre incruente a funestare quel paese. Fu allora che si sentì il bisogno di chi educasse quella gioventù abbandonata. Sorse l’Oratorio festivo, a cui corsero tutti quei birichini, attrattivi dai giochi e dai divertimenti, e dopo pochi mesi ne subirono il benefico influsso. Quale trofeo della vittoria che l’educazione religiosa aveva riportata su quei caratteri indomiti e selvaggi furono appese attorno al simulacro di Maria, posto nella cappella dell’Oratorio, trecendo fionde, di cui si disarmarono spontaneamente quei piccoli convertiti, troncando per amor della Madonna, quel triste e pericoloso gioco. E questa mi par davvero una bella pagina della storia degli Oratori festivi.[421]
Il 4 aprile, in mattina, don Rua disse addio a Siviglia tra le dimostrazioni di affetto che si possono immaginare. Aveva promesso di tenere a Mura una conferenza ai Cooperatori. Vi era già stato idurante la settimana santa, ma non aveva potuto parlare in pubblico. Ritornò per dedicare tutto il suo tempo a quegli amici particolarmente affezionati ai Salesiani.
Poi passò a Malaga. Anche là i Salesiani erano ammirati da tutti per la loro abnegazione al servizio della gioventù. L’Oratorio traboccava di ragazzi. Tra il 7 e il 12 aprile don Rua visitò tutto e fece la conoscenza di tutti. I Cooperatori avevano preparato in suo onore un ricevimento solenne. Lo presiedette il vescovo. Riunì quasi ottocento persone, «il fiore della città», come scrive don Ceria. E, quando la sera del 12 aprile si imbarcò per Almeria, una grande folla affluì al porto. Quando fu levata l’ancora e don Rua si fece vedere sul ponte, la gente, come fosse un solo uomo, si mise in ginocchio, chiedendo ad alta voce un’ultima benedizione. Li benedisse e mentre tutti lo salutavano rispose agitando le braccia.
Arrivò ad Almeria il mattino del 13 aprile. Di qui doveva imbarcarsi per Orano. Benché colà non ci fossero case salesiane né molti Cooperatori, gli venne riservata un’accoglienza solenne dalla popolazionelocale: clero e laici. Il comandante del porto lo prese nella sua barca. Una ventina di carrozze lo scortarono fino al palazzo di un facoltoso Cooperatore. Ma un’improvvisa burrasca lo obbligò a ritardare la partenza per Orano. Don Rua era talmente affaticato che don Marenco gli propose di rinunciare al viaggio in Africa. Egli non voleva deludere quelli che laggiù lo attendevano. Si aspetta un segno dal cielo. Passando presso il porto lanciò in mare una medaglia di Maria Ausiliatrice: «Se da qui a domani il vento si calma, partirò». L’indomani mattina il mare sembrava essersi calmato e s’imbarcò. Ma era un’illusione: la traversata in Algeria fu così travagliata che per raggiungere Orano la nave, invece di otto ore, ne impiegò diciannove.
Da Malaga, don Marenco, che non era molto sentimentale, aveva scritto a don Belmonte riassumendo le sue impressioni sul viaggio iberico di don Rua:
Stiamo dunque per lasciare questa terra spagnola, dove tuttora vive la fede operosa in molti cuori, e dove il Sig. D, Rua ebbe tali attestati di affetto e di venerazione che mai [vidi] i maggiori. Il viaggio del Superiore fu un vero trionfo ininterrotto. In certi momenti, come a Carmona, a Ecija, a Montilla, io a stento credevo a ciò che vedevo; e, in mezzo a quell’entusiasmo straordinario di popoli e di città intere, andavo tra me spesso pensando: Quanto è grande il nome di Don Bosco in mezzo alle genti![422]
Don Rua trascorse solo quattro giorni in Africa, più esattamente in Algeria.[423] Lo aspettavano per il 15 aprile. Accompagnato da don Marenco sbarcò a Orano soltanto domenica 16, alle sei del mattino, dopo una notte estenuante. Ma reagì con il suo abituale ardimento. San Luigi, l’opera collocata al centro della città, sperava di avere la primizia della sua visita: invece le circostanze (un ritardo imprevisto) fecero sì che l’Oratorio Gesù Adolescente, posto sulle alture di Eckmühl, avesse la priorità.
Quello era il giorno delle prime comunioni, che secondo l’uso francese aveva grande importanza nell’Oratorio. Don Rua celebrò la messa alle otto e mezzo, e, come dice la cronaca un po’ sentimentale del Bulletin Salésien, prima della comunione rivolse ai fanciulli «il discorso più semplice e più appropriato alla loro età e alla circostanza; le sue labbra sembravano distillare fede, pietà, amore». La casa gli porse il benvenuto in una sala tutta ornata con ghirlande. Una delle iscrizioni dovette fare particolarmente piacere a don Rua. Sui fogli di un immenso volume socchiuso, si poteva leggere un verso tratto dall’Ecclesiaste (30, 5): «Mortuus est pater... et quasi non est mortuus, similem enim reliquit sibi post se», che potremmo interpretare così: «Nostro padre don Bosco è morto, tuttavia per così dire non è morto, infatti ha lasciato in don Rua un altro se stesso». La gioia di don Rua fu particolarmente grande quando gli furono presentati i primi quattro Salesiani d’Algeria.
I tavoli erano stati preparati all’aria aperta per il banchetto che riuscì a riunire tutta la famiglia oranese: allievi, ex-allievi, familiari e confratelli delle due case di Orano. La pioggia disturbò un poco le attività del pomeriggio. Allora tutti si ammassarono nella cappella rurale Mater Admirabilis per cantare qualche lode e le litanie e ascoltare don Rua «con rispettosa familiarità». La preghiera della sera, con i giovani in ginocchio attorno a don Rua, come racconta la cronaca, «con la buonanotte pronunciata dalle sue labbra e raccolta come una reliquia, terminò quella giornata che alcuni dei nostri ragazzi chiamarono la più bella della loro giovinezza, fatta tutta di pietà, di gioia, di intimità salesiana».
La seconda giornata africana fu dedicata alle visite in città. Ispezionò con cura la casa di Eckmühl che lo ospitava. Poi si recò in rue Ménerville, all’Oratorio San Luigi, che gli ricordava le trattative del 1890-1891 con il vescovo mons. Soubrier. Tutto l’edificio era stato ornato in suo onore. Ne ammirò le decorazioni. Ma possiamo credere al cronista quando scrive: «Il più bell’ornamento della casa fu, ai suoi occhi, la folla di ragazzi che si accalcavano e che, con i loro “Evviva”, i loro canti, i loro complimenti, gli manifestavano il un caloroso affetto». Don Rua volle rendere visita al nuovo vescovo Edouard-Adolphe Cantel, e al suo predecessore nons. Géraud-Marie Soubrier, con cui aveva condotto il negoziato per l’edificio destinato ai Salesiani in città. A mons. Cantel sarebbe piaciuto vedere i Salesiani «intraprendere a Orano opere di insegnamento e di zelo in favore della classe agiata». Don Rua, ricordandosi probabilmente l’affare di Valsalice accaduto a don Bosco, promise di rifletterci.
Martedì 17 aprile venne riservato ai Cooperatori salesiani. Egli aveva a cuore la loro «Pia Unione» e «desiderava vivamente fare la loro conoscenza». Per evitare spostamenti troppo lunghi, era stato deciso che ci sarebbero stati due incontri: uno al mattino nell’Oratorio San Luigi e l’altro al pomeriggio a Eckmühl. Il vescovo, mons. Cantel, presiedette la conferenza del mattino. Secondo il cronista, don Rua parlò «di don Bosco, lo strumento docile della Provvidenza, il figlio privilegiato della Vergine Ausiliatrice e lo fece con una modestia nel contegno e una semplicità di parola che incantarono ciascuno e diedero a tutti l’illusione di sentire don Bosco stesso raccontare la sua propria vita». Tale fu in ogni caso l’impressione del vescovo che, nel suo intervento, «si rallegrò e si felicitò con l’assemblea per aver visto e sentito in don Rua un altro don Bosco, un vero figlio pieno dello spirito del suo venerato Padre e divenuto, per così dire, la sua incarnazione». A Eckmühl la riunione dei Cooperatori ebbe carattere ricreativo e venne rappresentata la tragedia «Il figlioccio di San Luigi», fortunatamente inframmezzata da intervalli comici. Al termine don Rua si mise a disposizione dei Cooperatori i quali se ne partirono chi con un consiglio, chi con una medaglia, chi con una benedizione.
La giornata di mercoledì fu riservata alle suore salesiane di Mers-el-Kébir. Nel sobborgo di Saint André occupavano una casa abbastanza spaziosa, di cui avevano appena ristrutturato due magnifiche sale a volta, trasformate in cappella. L’artificiere municipale annunciò «con fragorose e numerose detonazioni l’arrivo del successore di don Bosco». Don Rua, «scrupoloso osservatore dei riti sacri, benedisse canonicamente la cappella, dedicata a Maria Ausiliatrice». Poi vi celebrò una messa accompagnata dai canti della corale della scuola. Quella mattina, ricevette anche la professione di una giovane religiosa entrata nell’Istituto delle Figlie di Maria Ausilitrice. A pranzo il sindaco di Mers-el-Kébir, indisposto, si era fatto rappresentare dal suo primo aggiunto. Don Rua lo ringraziò «della fiducia e delle cortesie di cui la municipalità onora le suore di Maria Ausiliatrice». Nel pomeriggio, dice la cronaca, «al rumore dei colpi sparati dall’artiglieria, ripetuti con notevole precisione in ciascuno degli appuntamenti principali della giornata, e che raddoppiarono allora d’intensità, don Rua salutò le degne suore, i loro fanciulli, la brava gente di Mers-el-Kébir, soprattutto il signor curato, ringraziandoli tutti di un’accoglienza di cui avrebbe conservato un ricordo molto duraturo, tanto più che non si aspettava di incontrare in terra d’Africa una tale manifestazione d’affetto».
Rientrò a Eckmühl, dove la casa si disponeva a fare l’indomani l'esercizio della buona morte. Si mise dunque a disposizione dei giovani ricevendoli in confessione. Partì da Orano il 20 aprile. La messa che celebrò al mattino fu cantata «in musica palestriniana» per «soddisfare un desiderio espresso parecchie volte». Nel pomeriggio inoltrato, allievi e confratelli andarono di corsa verso il porto dove la nave Abd-el-Kader attendeva don Rua e don Marenco per portarli a Marsiglia. La separazione non fu senza lacrime. Due giorni dopo gli oranesi ricevevano un telegramma: «Viaggio buono. Don Rua saluta affettuosamente caro direttore, confratelli, benefattori, ragazzi d’Algeria. Condivide stessi sentimenti. Marenco». Più tardi arrivava un biglietto scritto personalmente da don Rua: «Porto di Marsiglia, 22 aprile 1899. – Ho ancora lo spirito pieno del ricordo di Orano, dei nostri cari confratelli, dei nostri cari giovani, ecc. ecc. Che il Signore vi benedica tutti! Grazie a Dio la traversata è stata buona, sbarcheremo tra un po’. Salutate cordialmente confratelli, giovani, e ex-allievi, a nome del vostro affezionatissimo in Gesù e Maria. Michele Rua, sacerdote».
Il periplo iberico che aveva condotto don Rua in Catalogna, nei Paesi Baschi, in Portogallo, in Andalusia, per passare poi in Algeria, si concludeva con l’ingresso nel porto di Marsiglia. Il passaggio aveva suscitato ovunque tra le popolazioni sentimenti evidenti di affetto e di venerazione. Parecchi ritrovavano in lui don Bosco, il maestro che egli si ingegnava di imitare. Il vescovo di Orano aveva persino parlato della sua «reincarnazione» in don Rua. Nulla poteva commuoverlo di più.
[230] Qui adatto le pagine dedicate al problema da Ceria, Vita, 136-139, a partire dai documenti raccolti attorno alla circolare collettiva firmata da mons. Cagliero e dal Capitolo Superiore in data 7 marzo. Cf. questi documenti in L.C., 6-16.
[231] Lettera di don Rua, in FdR 3912B1-4.
[232] L.C., 11-13.
[233] Cf. il documento firmato dal cardinale L. M. Parocchi, in L.C., 14-15.
[234] Lettera di M. Rua a G. Bonetti, 20 febbraio 1888, FdR 3859E5-7.
[235] FdR 4240D8.
[236] L.C., 20-24.
[237] L.C., 5.
[238] Il documento è riportato in MB XIX, 398.
[239] L.C., 18-19.
[240] Memorie dal 1841..., ed. F. Motto, 1985, 30-32.
[241] FdR 3993B7-C4.
[242] Dopo averla copiata nel 1937, senza commenti, in MB XVIII, 621-623, come se fosse stata ritrovata dopo la sua morte nelle carte di don Bosco, una ventina d’anni più tardi don Ceria riconoscerà in una nota del suo Epistolario IV, 393, che questo documento apocrifo fu opera del redattore del Bollettino Salesiano Giovanni Bonetti.
[243] Cooperatori salesiani ossia un modo pratico per giovare al buon costume ed alla civile società, Albenga, Tip. Vescovile di T. Craviotto, 1876, 27-28 (§ III).
[244] Cf. Ceria, Vita, 148.
[245] Giovanni Bosco e il suo secolo. Ai funerali di trigesima nella chiesa di Maria Ausiliatrice in Torino il 1° marzo 1888. Discorso del cardinale arcivescovo Gaetano Alimonda, Torino, Tipografia Salesiana, 1888, 6. Il testo della commemorazione è riportato a tratti in MB XIX, 12-16.
[246] Torino, Tipografia Salesiana, 1889, 24 p., FdR 2766A7-B6.
[247] FdR 2766D9-10.
[248] FdR 2758B8-C4.
[249] FdR 2758C5-D8.
[250] FdR 2758B6-7.
[251] Circolare dell’8 febbraio 1888, L.C., 3-5.
[252] FdR 3993B5-6.
[253] «Lettera del sacerdote Michele Rua ai Cooperatori salesiani e alle Cooperatrici», in Bollettino Salesiano, gennaio 1889, 7-9.
[254] Testimonianza di Melchiorre Marocco, in Positio super virtutibus, 1947, 513-514; ripresa parola per parola in Ceria, Vita, 211.
[255] L.C., 30-31.
[256] FdR 4064B10-C1.
[257] Cf. L.C., 70.
[258] Circolare del 29 gennaio 1889, in L.C., 30.
[259] F. Cerruti, Lettere circolari e programmi di insegnamento (1885-1917). Introduzione, testi critici e note a cura di J. M. Prellezo, Roma, LAS, 2006, 642 p.
[260] Verbali del Capitolo Superiore, 21 settembre 1888, in FdR 4240E7.
[261] «Studi letterarii», 27 dicembre 1889, L.C. 35-44.
[262] Torino, Tipografia salesiana, FdR 3987D3-5.
[263] FdR 4013E4-5.
[264] Intervento trascritto in Ceria, Annali II, 40-41.
[265] L.C., 25-29.
[266] Circolare di don Belmonte agli ispettori, 23 novembre 1889, in FdR 4064B2.
[267] Per descrivere la vita quotidiana di don Rua Rettor Maggiore a Valdocco, mi attengo al capitolo di Ceria sulle sue «Occupazioni giornaliere e periodiche» (Ceria, Vita, 198-206). Questo storico onesto parlava da testimone accorto e obiettivo. Sfortunatamente il suo testo, dunque anche il nostro, nell’insieme è privo di di riferimenti precisi alle fonti.
[268] FdR 4365C1-2; cf. Positio 1935, Summarium super dubio, 134.
[269] FdR 4360A10; cf. Positio 1935, Summarium super dubio, 257.
[270] FdR 4383E9-10.
[271] FdR 3879 C11.
[272] FdR 3836 B4-5.
[273] Sotto il rettorato di don Rua, Pietro Guidazio, fu direttore a Randazzo tra il 1889 e il 1902, anno della morte.
[274] Positio 1935; Summarium super dubio, 377.
[275] Per i viaggi di don Rua tra il 1889 e il 1892, cf. l’agenda Lazzero, in FdR 3001A11-3002A7, qui citata alla data; e Ceria, Vita, 163-222.
[276] Ceria, Vita, 164.
[277] Ceria, Vita, 165.
[278] Citato in Ceria, Vita, 167.
[279] Il racconto di questa udienza si trova nella circolare di don Rua ai direttori salesiani del 1° febbraio 1890, in FdR 3978D3-6, e in quella alle Figlie di Maria Ausilitrice del 2 febbraio 1890, in FdR 3987D6-7.
[280] Ceria, Vita, 171.
[281] Ceria, Vita, 173-174.
[282] Verbali del Capitolo, 12 maggio 1891.
[283] Lettera circolare, 1° novembre 1890; L.C., 50-51.
[284] Ceria, Vita, 212-216; «Don Rua in Sicilia», in Bollettino Salesiano, aprile 1892, 74-76.
[285] Secondo il rapporto di don Rua al Capitolo Generale, il 9 marzo seguente.
[286] Lettera di M. Rua a G. Costamagna, Marsala, 2 febbraio 1892, in FdR 3891D5-8.
[287] Ceria, Vita, 215.
[288] Interessante presentazione in Ceria, Vita, 179-197.
[289] Secondo l’agenda di don Lazzero, che fungeva da segretario, copia dattilografata, FdR 3001E5-6.
[290] Su don Rua a Nizza, cf. il lungo resoconto in Bulletin Salésien, février 1890, 25-29; avril 1890, 44-45.
[291] Secondo il Bulletin Salésien, art. cit., 26.
[292] I discorsi si trovano nel Bulletin Salésien, art. cit., 27-28.
[293] Bulletin Salésien, art. cit., 45.
[294] Su don Rua nella case di La Navarre, Tolone, Cannes e Marsiglia, cf. Bulletin Salésien, avril 1890, 45-51.
[295] La cronaca del Bulletin Salésien non dice nulla su don Rua a St. Cyr. Informazioni laconiche emergono nell’agenda del segretario Lazzero, cit., alla data.
[296] Secondo l’agenda Lazzero, cit., alla data.
[297] Discorso pubblicato sotto il titolo: «Conférence des Coopérateurs salésiens», in Bulletin Salésien, avril 1890, 49-50.
[298] Informazioni su questo viaggio in Spagna nelle lettere di don Barberis FdR 3002A8ss. Cf. l’articolo «Don Rua in Spagna», in Bollettino Salesiano, giugno 1890, 78-80.
[299] FdR 3002B9.
[300] Cf. l’articolo citato dal Bollettino Salesiano, giugno 1890, 78-79.
[301] FdR 3002B12-C1.
[302] FdR 3002C5-6 e 8.
[303] FdR 3002C6.
[304] Barberis, in FdR 3002C12.
[305] Barberis, in FdR 3002D2-3.
[306] Tappe minuziosamente raccontate in Bulletin Salésien, juin 1890, 76-79.
[307] La presenza di Roussin a fianco di don Rua è segnalata in una lettera di quest’ultimo a don Durando, Londra, 21 aprile 1890; FdR 3897A4.
[308] L'Echo de Fourvière, 19 aprile 1890, cf. Bulletin Salésien, art. cit., 77.
[309] Descrizione in una notizia di Francesco Dalmazzo, tradotta in Bulletin Salésien, décembre 1887, 149-150.
[310] Prolissa descrizione delle giornate di don Rua in Inghilterra in Bulletin Salésien, juin 1890, 79-85.
[311] Lettera di M. Rua a C. Durando, Londra, 21 aprile 1890, in FdR 3897A4-6.
[312] FdR 3863A10.
[313] Su don Rua a Guînes, Lille e Liège, cf. il lungo articolo del Bulletin Salésien, juillet 1890, 89-98.
[314] Chi fosse interessato, può leggerlo per esteso in Bulletin Salésien, art. cit., 92-94.
[315] Minuziosa descrizione di questa doppia cerimonia in un articolo firmato L. H. Legius, sulla Gazette de Liège, 10-11 maggio 1890, riprodotto nel Bulletin Salésien, mai 1890, 63-68.
[316] Bulletin Salésien, juillet 1890, 97.
[317] Cf. il racconto circostanziato di questo lungo viaggio in un articolo del Bulletin Salésien, août 1890, 105-109.
[318] Su don Rua a Le Rossignol cf. Bulletin Salésien, septembre 1890, 117-120.
[319] Relazione dettagliata di quest’ultima parte del viaggio di don Rua in un articolo del Bulletin Salésien, octobre 1890, 129-133.
[320] Verbali del Capitolo Superiore, 25 agosto 1890, in FdR 4241B6.
[321] Su don Antonio Belloni si veda la biografia di G. Shalhub, Abuliatama. Il Padre degli orfani nel paese di Gesù, Torino, SEI, 1955.
[322] Articolo anonimo «Un’era della carità in Palestina. Abuna Antun Belloni», in Osservatore Romano, 21 agosto 1935; riportato in MB XVII, 896.
[323] Verbali del Capitolo Superiore, 6 e 9 ottobre 1890, in FdR 4241B12.
[324] Verbali del Capitolo Superiore, 7 febbraio 1891, in FdR 4241C3-4.
[325] Cf. Annali II, 180-184.
[326] Sul viaggio di don Rua in Terra Santa, abbiamo lunghe lettere di don Paolo Albera a don Domenico Belmonte, prefetto generale, poi stampate e inviate ai direttori. Si trovano in FdR 3003C10-3004A11. Cf. il racconto «Don Rua in Palestina», in Bollettino Salesiano, giugno 1895, 151-157, attribuito più o meno legittimamente al marchese di Villeneuve Trans, che accompagnava don Rua.
[327] A questo punto, nel racconto di don Albera entra in scena il salesiano francese Athanase Prun (1861-1917), futuro creatore dell’orfanotrofio Jésus Adolescent di Nazaret, ordinato suddiacono quello stesso giorno.
[328] Lettera del 19 marzo, in FdR 3003E6.
[329] FdR 3003E9-10.
[330] FdR 3004A10.
[331] «Visita di don Rua ai Cooperatori della Svizzera, Alsazia, Belgio e Olanda», in Bollettino Salesiano, settembre 1894, 186-189.
[332] Il discorso originale è appuntato nel taccuino di don Lemoyne, Ricordi di gabinetto, 58; cf. MB XVII, 25.
[333] Cf. Bollettino Salesiano, ottobre 1893, 187-188.
[334] «La ringraziamo...», in FdR 3995B9.
[335] Manuale teorico-pratico ad uso dei decurioni e direttori della Pia Associazione dei Cooperatori salesiani, Torino, Tipografia Salesiana, 1894.
[336] Analisi di M. Wirth, Don Bosco et la Famille salésienne, Paris, Éditions Don Bosco, 2002, 415-416.
[337] Sul congresso di Bologna cf. Atti del primo Congresso Internazionale dei Cooperatori salesiani tenutosi a Bologna ai 23, 24 e 25 aprile 1895, Torino, Tipografia Salesiana, 1895 (d’ora in poi: Atti). Vedi anche il racconto dettagliato in Ceria, Annali II, 409-444.
[338] Atti del primo Congresso, 4.
[339] Atti del primo Congresso, 8.
[340] Fotografia della sala nell’allegato alla fine del volume degli Atti del primo Congresso.
[341] Alfonso Ferrandini, in La Scuola Cattolica, maggio 1895, citato da Ceria, Annali II, 421.
[342] Descrizione in Atti del primo Congresso, 70-76.
[343] L’Istituto salesiano di Bologna sarà fondato nel 1896.
[344] Atti del primo Congresso, 74-76.
[345] Una nota della circolare diceva l’intenzione di don Rua di spedire copia del Breve di Leone XIII a ciascuna casa salesiana perché fosse conservata negli archivi.
[346] Cf. il sogno in MB XV, 183-187.
[347] Riprendo qui i capitoli di Ceria, Vita, 258-274, completati da Annali II, e M. Wirth, Don Bosco et la famille salésienne, 293-307, tutti destinati alla vicenda missionaria in America.
[348] Lettera di B. Vacchina a M. Rua, Rawson, giugno 1896, in Bollettino Salesiano, agosto 1896, 210.
[349] Cf. Annali II, 124-130.
[350] Cf. queste lettere in Annali II, 126-128.
[351] Sull’avventura d’Agua de Dios, riassumo Annali II, 141-154.
[352] La lettera è riprodotta in Annali II, 145-146.
[353] Edito in Annali II, 136.
[354] Sulle origini del vicariato di Mendez e Gualaquiza, cf. Annali II, 283-296.
[355] Verbali del Capitolo Superiore, 23 agosto 1894, in FdR 4241E12.
[356] Sull’episodio Costamagna, cf. Annali II, 291-293.
[357] Sulle accuse ai Salesiani e il loro esilio, cf. Annali II, 549-577.
[358] Sul dettaglio di queste trattative, cf. Annali II, 590-598.
[359] Su questa rinascita, cf. Annali II, 598-602.
[360] Sull’entrata dei Salesiani in Messico, cf. le diciotto lettere di Angel G. de Lascurain e dei suoi amici, scritte tra il 1889 e 1891, in FdR 3305D9-3307A11. Cf. anche Annali II, 137-140 e F. Castellanos, «El nacimiento de la obra salesiana en México», in RSS, 8 (1989) 399-429, che mette in rilievo il ruolo dei Cooperatori nell’insediamento.
[361] Pubblicata in Annali II, 139.
[362] Sui Salesiani in Venezuela, cf. Annali II, 513-524.
[363] Cf. la lettera Crispolo Uzcategui a Don Rua, 26 maggio 1890, in FdR 3224C2, e la minuta della risposta di don Rua, in FdR 3224C3-5.
[364] Cf. la lettera del segretario di questa Congregazione a don Rua, Roma, 28 aprile 1891, in FdR 3224D2-3.
[365] Sulla fondazione dell’opera boliviana, cf. Annali II, 525-534.
[366] Cf. il documento in FdR 3267A4-7.
[367] Pubblicato in Annali II, 527-528.
[368] Sull’insediamento salesiano a La Paz, cf. le lettere di L. Costamagna a M. Rua, 1896, in FdR 3267B10-E1.
[369] Sull’ingresso dei Salesiani nella Repubblica paraguayana, cf. Annali II, 535-548.
[370] Lettera di A. Savio a M. Rua, dal Chaco, 8 luglio 1892, in FdR 3812E11-3813A2.
[371] Lettera di A. Savio a M. Rua, Asunción, 24 luglio 1892, in FdR 3813A11-12.
[372] Cf. Ceria, Annali II, 539.
[373] Lettera del card. Rampolla a M. Rua, Roma, 14 dicembre 1892, in FdR 3800A11-12.
[374] Lettera di L. Lasagna a M. Rua, Asuncion, 19 maggio 1894, in FdR 3755E5-3756A4.
[375] Annali II, 542.
[376] Cf. Annali II, 543.
[377] Sull’ingresso dei Salesiani nel Salvador cf. Annali II, 578-587.
[378] Lettera di M. Vecchiotti a M. Rua, San Salvador, 25 gennaio 1895, in Annali II, 579.
[379] Vaticano, Segreteria di Stato, 22 giugno 1895, in Annali II, 579.
[380] Vaticano, Segreteria di Stato, 23 agosto 1895, in Annali II, 579.
[381] Annali II, 583-584.
[382] Lettera di L. Calcagno a M. Rua, 17 gennaio 1898, in Annali II, 583.
[383] Lettera di M. Gallardo a M. Rua, Santa Tecla, 15 febbraio 1898, in Annali II, 584.
[384] Lettera di A. Piccono a M. Rua, San Francisco, 2 luglio 1896, in FdR 3788E4-7.
[385] Abbozzo di Convenzione, in FdR 3347A8; la Convenzione definitiva in inglese è riportata in A. Lenti, «The Founding and Early Expansion of the Salesian Work in the San Francisco Area from Archival Documents», in Journal of Salesian Studies, 7, Fall 1996, 18.
[386] Sulle origini della missione salesiana a Oran, cf. il dossier Oran, anni 1890-1892, in FdR 3517A11-3518A6. Vedi anche il racconto di Annali II, 306-312.
[387] Secondo Don Bosco à Paris, par un ancien magistrat, Paris, 1883, 108-111.
[388] FdR 3758C9-10
[389] Lettera di P. Albera a M. Rua, Marsiglia, 22 ottobre 1889, in FdR 3676B2-4.
[390] FdR 3517B8-10.
[391] FdR 3517E5-7.
[392] C. Beissière, Cinquante ans d'apostolat en Afrique du Nord, Tunis, 1941, 21.
[393] Cf. «Les Salésiens en Afrique», in Bulletin Salésien, novembre 1891, 179-181, dove è riportata la lettera di don Bellamy.
[394] Sulle origini delle case di Oran, cf. il lungo articolo di Charles Bellamy, «Les Oeuvres salésiennes d'Oran», in Bulletin Salésien, avril 1899, 97-107.
[395] La bibliografia di Bronisław Markiewicz è importante. Qui mi riferisco solo ai documenti e ai racconti che lo riguardano più o meno direttamente: Archivio Salesiano Centrale di Roma, in particolare: FdR 4206B2-4209A5; Congregatio de Causis Sanctorum, Premislien. Latinorum Canonizationis Servi Dei Bronislai Markiewicz, Positio super vita et virtutibus, Roma, 1990; Id., Premislien. Latinorum Beatificationis et Canonizationis Servi Dei Bronislai Markiewicz... Relatio et Vota congressus peculiaris super virtutibus die 30 novembris an. 1993 habiti, Roma, 1993; Maria Winowska, Aux portes du Royaume. Père Bronislaw Markiewicz, curé de paroisse et fondateur des Michaélites, nouvelle édition, Paris, Téqui, 1994; Mariano Babula, P. Bronislao Markiewicz, fondatore della Congregazione di San Michele Arcangelo, Roma, 2000.
[396] Positio super vita et virtutibus, 61.
[397] Documentazione in Positio super vita et virtutibus, 53-57.
[398] Lettera latina pubblicata in Positio super vita et virtutibus, 64.
[399] Cf. le sue lettere del 23 novembre e del 21 dicembre 1891, in FdR 4207C11-D4.
[400] Cf. la lettera al vescovo Solecki, 3 gennaio 1892, in FdR 4207E8-9; e le lettere testimoniali che riportano la data dello stesso giorno, in FdR 4207E6.
[401] Cf. eventualmente le testimonianze di L. Bialoczynski et W. Michulka, in Positio super vita et virtutibus, 72-75.
[402] Bolletino Salesiano, gennaio 1895, 3.
[403] Lettera di G. Marenco a B. Markiewicz, 21 settembre 1896, in Positio super vita et virtutibus, 76-77.
[404] Verbali del Capitolo Superiore, 23 novembre 1896, in FdR 4242A9.
[405] Copia dattilografata, ASC, dossier Markiewicz.
[406] Cf. anche la lettera di B. Markiewicz a Mons. T. Lekawski, citata in Positio super vita et virtutibus, 82.
[407] Verbali del Capitolo Superiore, 29 dicembre 1897, in FdR 4242C2.
[408] Lettera di B. Markiewicz al Vescovo di Przemyśl, Miejsce, 28 dicembre 1897, che mi è stata fornita e tradotta da Tadeusz Jania, Cracovia.
[409] Verbali del Capitolo Superiore, 14 marzo 1898, in FdR 4242C4.
[410] Documento fornito da Tadeusz Jania, Cracovia.
[411] Citata in Positio super vita et virtutibus, 83.
[412] Copia latina in FdR 4207E10-12.
[413] Copia manoscritta sattribuita all’aprile 1898, in FdR 4208A8-B3.
[414] Sulla fondazione di Oswiecim, cf. Annali II, 679-685.
[415] Cf. su questo viaggio le lettere di G. Marenco a D. Belmonte, in FdR 3004A12-C1, alle quali faccio spesso riferimento senza citazioni precise. Per il viaggio nella penisola iberica, cf. «Il viaggio del Ven.do nostro Superiore Don Rua», Bollettino Salesiano, maggio 1899, 120-122; giugno 1899, 145-147; soprattutto seguo da vicino il racconto di Ceria, Vita, 295-308.
[416] Amadei II, 534-535.
[417] Vedi la lettera in FdR 3756D9-10.
[418] El Sarrianes, 25 febbraio 1899, citato in Ceria, Vita, 297.
[419] Bollettino Salesiano, Maggio 1899, 121.
[420] Bollettino Salesiano, Maggio 1899, 122.
[421] Citato da Amadei II, 535.
[422] Lettera di G. Marenco a D. Belmonte, 11 aprile 1899, in Bollettino Salesiano, giugno 1899, 145.
[423] Su questo viaggio, cf. l’articolo, verosimilmente redatto da Charles Bellamy, «Première visite de Don Rua aux Missions d'Afrique», Bulletin Salésien, juillet 1899, 175-180. Le citazioni sono tutte tratte da questo articolo.