Salesian Holiness

Vita di Don Michele Rua (parte 3) - Don Francis Desramaut

FRANCIS DESRAMAUT

VITA DI DON MICHELE RUA

PRIMO SUCCESSORE DI DON BOSCO

(1837-1910)

A cura di Aldo Giraudo

LAS – ROMA

IT pdf       IT zip       PT zip      

Titolo originale dell’opera: Vie de Don Michel Rua premier successeur de Don Bosco (1837-1910) - © LAS, Roma, 2009.

Traduzione dal francese di Antonella Fasoli

Revisione generale sulle fonti archivistiche di Aldo Giraudo

   


INDICE

 

INTRODUZIONE   2

1 - L'INFANZIA DI MICHELE RUA   5

La città di Torino nel decennio 1830-1840  5

La famiglia Rua nella fabbrica della Fucina  7

Michele e la scuola della Fucina  8

Il Risorgimento a Torino  10

Michele frequenta la scuola dei Fratelli 11

2 – ALLA SCUOLA DI DON BOSCO   15

Lo studio del latino con don Bosco  15

Le classi ginnasiali 16

Michele Rua veste l’abito chiericale  19

3 – GLI STUDI DI FILOSOFIA   21

Michele e la filosofia  21

Infermiere dei malati di colera  22

Il secondo anno di filosofia  24

I voti privati di Michele Rua  24

4 - LA NASCITA DELLA SOCIETÀ SALESIANA   26

Lo studio della teologia  26

La nascita di una società religiosa in un contesto turbolento  26

La morte di Margherita Bosco e di Domenico Savio  27

Il primo progetto costituzionale di don Bosco  28

A Roma con don Bosco nel 1858  29

Il trattato “De Deo uno et trino”  32

L’organizzazione della Società di san Francesco di Sales  33

5 – MICHELE RUA GIOVANE PRETE   35

La preparazione  35

Michele Rua è ordinato presbitero  36

Il lavoro del giovane sacerdote  37

Direttore a Mirabello  38

6 - DON RUA PREFETTO GENERALE   43

Don Rua sostituisce don Alasonatti 43

Don Rua rappresenta don Bosco  43

La riorganizzazione dell’Oratorio  44

Le feste di consacrazione della chiesa di Maria Ausiliatrice  45

La vita quotidiana del prefetto don Rua  46

7 – FORMATORE DEI GIOVANI SALESIANI  48

Il problema della formazione dei chierici all’Oratorio di Torino  48

Don Rua maestro dei novizi senza titolo  51

8 – DON RUA COLONNA DELL'ORATORIO E REGOLA VIVENTE   54

Una Società in continua crescita  54

Un prefetto esigente  55

Un sacerdote devoto  58

9 – DON RUA VISITATORE DELLE CASE AFFILIATE   59

Don Rua «visitatore» delle case salesiane  59

Il programma di don Rua «visitatore»  59

Le ispezioni di don Rua nel 1874 e 1875  61

Don Rua visitatore a Borgo San Martino e Lanzo Torinese  61

Don Rua visitatore a Sampierdarena, Varazze, Alassio e Valsalice  63

L’istituzione dell’ispettore nella Società di san Francesco di Sales  64

10 – IL BRACCIO DESTRO DI DON BOSCO   66

Don Rua a Mornese presso le Figlie di Maria Ausiliatrice  66

Le circolari mensili ai direttori 66

Due fondazioni mancate  67

Don Rua nella controversia con l’arcivescovo Gastaldi 69

L'austerità del prefetto generale  72

11 – IN VIAGGIO CON DON BOSCO   76

A Roma nei mesi di aprile e maggio del 1881  76

Aiuto di don Bosco a Parigi e Lille, nel maggio 1883  77

Con don Bosco a Frohsdorf 80

12 – DON RUA VICARIO GENERALE DI DON BOSCO   83

L'intervento di Leone XIII  83

L'ufficializzazione del titolo di vicario generale  85

Con don Bosco in Spagna  87

Il ritorno dalla Spagna  90

13 – LA MORTE DI DON BOSCO   92

Un vicario umile e pio  92

A Roma per la consacrazione della chiesa del Sacro Cuore  93

La sostituzione di don Bosco rimasto senza voce  93

La morte di don Bosco  94

I funerali e la sepoltura del Fondatore  96

14 – DON RUA RETTOR MAGGIORE   98

La successione di don Bosco  98

Al cospetto di Leone XIII  99

La famiglia salesiana ereditata da don Bosco  101

15 – GLI ANNI DELL’APPRENDISTATO (1888-1892) 104

Sulle orme di don Bosco  104

Il peso dei debiti accumulati 106

Il problema degli studi ecclesiastici 107

Gli studi letterari 109

Per una saggia direzione  110

16 – LA VITA QUOTIDIANA DEL RETTORE A VALDOCCO   112

Don Rua confessore  112

Le udienze  113

La corrispondenza  113

Le celebrazioni annuali 115

17 - L'ESPLORAZIONE DEL MONDO SALESIANO IN EUROPA   117

In Italia  117

Nel meridione della Francia  119

In Spagna  122

A Lione e a Parigi 124

Don Rua in Inghilterra, nel Nord della Francia e in Belgio  125

18 – IL MEDIO ORIENTE   129

Don Antonio Belloni in Terra Santa  129

La fusione della Congregazione della Sacra Famiglia con la Società Salesiana  129

Il pellegrinaggio di don Rua in Terra Santa  130

Betlemme e Gerusalemme  131

Cremisan  133

Beitgemal 134

Nazaret 135

Rientro a Betlemme  135

Il ritorno in Europa  137

19 – IL CONGRESSO SALESIANO DI BOLOGNA   139

L'organizzazione dei Cooperatori salesiani 139

La preparazione del Congresso di Bologna  140

Lo svolgimento del Congresso  141

La chiusura del Congresso  143

I sentimenti di don Rua  144

20 - L'ESPANSIONE SALESIANA IN AMERICA   147

Lo zelo missionario di don Rua  147

L’America del Sud  148

La Colombia e l'episodio di Agua de Dios  148

L'insediamento dei Salesiani in Perù  150

L’avventura ecuadoregna  151

Il Messico  152

Venezuela, Bolivia, Paraguay, El Salvador  153

Negli Stati Uniti 158

21 - L'ALGERIA E LA POLONIA   160

I Salesiani in Algeria  160

La fondazione oranese del 1891  162

Il salesiano polacco Bronisław Markiewicz  163

La fondazione polacca del 1892  164

La crisi del 1897  165

22 - VIAGGIO NELLA PENISOLA IBERICA (1899) 170

In Catalogna e nei Paesi Bassi 170

In Portogallo  171

In Andalusia  173

Le case dell’Africa  176

23 – I CAPITOLI GENERALI DEI PRIMI DIECI ANNI  179

I Capitoli Generali sotto don Rua  179

Il quinto Capitolo Generale (1889) 179

Il sesto Capitolo Generale (1892) 180

Il settimo Capitolo Generale (1895) 183

L’ottavo Capitolo Generale (1898) 183

Don Rua è rieletto Rettor Maggiore  184

24 - L'ALBA DI UN NUOVO SECOLO   186

I direttori salesiani confessori dei loro subordinati 186

Il decreto del Sant’Uffizio (5 luglio 1899) 187

Il decreto del 24 aprile 1901  188

La consacrazione della Società Salesiana al Sacro Cuore di Gesù  191

25 – LE VICENDE FRANCESI  194

Il venticinquesimo anniversario dell’opera salesiana in Francia  194

La legge francese sulle associazioni 195

La tattica salesiana di fronte alla nuova legge  197

26 – LA CRISI DEGLI ISPETTORI FRANCESI  201

Il potere sfugge all’ispettore Pietro Perrot 201

Don Perrot è esonerato dall’incarico  202

L’impetuosa difesa di don Perrot e il suo ricorso a Roma  203

Don Bologna ricostituisce l’ispettoria della Francia del Nord  205

La dolorosa destituzione di don Bologna  207

Il governo di don Rua  212

27 – I CAPITOLI GENERALI DEL 1901 E DEL 1904  214

Il nono Capitolo Generale (1901) 214

L’incoronazione di Maria Ausiliatrice (1903) 217

Omaggi di don Rua a Pio X   219

Il decimo Capitolo Generale (1904) 220

Le conclusioni del decimo Capitolo Generale  223

28 - LA PACE SOCIALE   225

“Rerum novarum“  225

I lavoratori francesi pellegrini sulla tomba di don Bosco (1891) 226

Le lezioni del Congresso di Bologna (1895) 227

La Società Nazionale del Patronato e Mutuo Soccorso per le Giovani Operaie  229

Lo sciopero dello stabilimento Anselmo Poma (1906) 229

29 – LE FIGLIE DI MARIA AUSILIATRICE   233

La direzione delle Figlie di Maria Ausiliatrice  233

Le lettere circolari di don Rua alle Figlie di Maria Ausiliatrice  234

Si profila la separazione  237

L’allerta nell’estate 1905  239

L’annuncio alle Figlie di Maria Ausiliatrice  240

La separazione dei beni dei due Istituti 241

I ricorsi a Roma delle Figlie di Maria Ausiliatrice  241

La separazione effettiva  243

30 - L'ESPANSIONE SALESIANA NEL PASSAGGIO DI SECOLO   247

In Tunisia  247

L’Associazione Nazionale italiana ad Alessandria d’Egitto  248

Costantinopoli e Smirne  249

L’Associazione Nazionale e le opere salesiane di Palestina  250

I Salesiani in Cina  252

L’opera salesiana in India  254

31 – L’ANNO 1907  257

La causa di beatificazione di don Bosco  257

Le deposizioni al processo informativo  258

Opposizioni e repliche - Don Bosco è venerabile  260

I fatti di Varazze  263

Don Rua nella tormenta  266

La condanna del modernismo  269

32 – SETTE MESI DI FATICHE E DI GIOIE   271

La visita straordinaria alle case della Congregazione  271

Don Rua in viaggio verso l’Oriente  272

Costantinopoli, Smirne, Nazaret 273

Betlemme, Gerusalemme, Cremisan, Beitgemal, Haifa  275

Impressioni di viaggio  279

Il processo di beatificazione e canonizzazione di Domenico Savio  280

33 – LA CONSACRAZIONE DELLA CHIESA DI S. MARIA LIBERATRICE   282

La chiesa di Maria Liberatrice a Roma  282

In viaggio verso Roma  284

La consacrazione della Chiesa  284

Il disastro di Messina  286

34 – L’ULTIMO ANNO DI DON RUA   288

Prepararsi alla morte  288

La vita ordinaria di don Rua ammalato  289

Le deposizioni di don Rua al processo apostolico di don Bosco  292

35 – IL TRAMONTO   294

L’estate faticosa del 1909  294

Il declino  295

Le conclusioni della visita straordinaria  295

Le ultime settimane di don Rua  298

La morte di don Rua  300

I funerali di don Rua  301

EPILOGO   303

Verso la beatificazione  303

Il fedele discepolo di don Bosco  304

 


23 – I CAPITOLI GENERALI DEI PRIMI DIECI ANNI

I Capitoli Generali sotto don Rua

Il Capitolo Generale rappresenta sempre per una Congregazione, dunque per il suo Superiore Generale, un fatto di grande importanza. È un incontro fecondo tra le personalità più rilevanti dell’Istituto che discutono e prendono decisioni di interesse comune per la conservazione o il consolidamento dell’istituzione. All’origine della Congregazione Salesiana, i Capitoli Generali erano triennali. Durante i primi dieci anni del suo rettorato don Rua convocò quattro Capitoli Generali (1889, 1892, 1895, 1898). Poi, nei dodici anni che seguirono fino alla sua morte, se ne celebrarono soltanto due (1901, 1904).

Le quattro assemblee del primo decennio riunivano normalmente i membri del Capitolo Superiore, gli ispettori, tutti i direttori delle case, il maestro dei novizi e il procuratore generale di Roma.[424] La distanza obbligava a adottare misure particolari per i centri americani. Così nel 1889, dopo aver deciso che sarebbero intervenuti al Capitolo solo gli ispettori americani o i loro delegati, più un direttore per ogni ispettoria, scelto dall’ispettore in accordo con il Rettor Maggiore, si vide arrivare a Torino il solo ispettore Giacomo Costamagna e i due direttori e parroci Stefano Bourlot e Domenico Albanello. I Capitoli, sempre brevi, si tenevano a Valsalice presso alla tomba di don Bosco. Le proposte e gli interventi di don Rua, in qualità di Rettor Maggiore, erano accuratamente registrate dai segretari nel corso delle sedute.

Il quinto Capitolo Generale (1889)

Il quinto Capitolo Generale della Società Salesiana, venne inaugurato la sera di lunedì 2 settembre 1889 e concluso la mattina di sabato 7. I capitolari erano quarantadue. Fin dall’inizio, prima in cappella, poi al momento della riunione d’apertura, don Rua comunicò ai partecipanti il senso che intendeva dare all’assemblea. Il Capitolo, diceva, era mirato al progresso delle singole case, al mantenimento del giusto spirito nella Congregazione e al bene delle anime a lei affidate. Bisognava quindi pregare per la sua buona riuscita. Il grande problema del momento era quello di mantenere la piena conformità alle idee e alle intenzioni di don Bosco. Don Rua temeva ogni forma di deviazione.

Un pensiero mi addolora – esclamò nel corso della seduta di apertura – manca D. Bosco [...] Però consoliamoci, siamo vicini alla sua salma, e come le reliquie dei santi sono fonte di benedizione, così lo sarà specialmente per noi la salma di D. Bosco; ma non solo la salma, bensì il suo spirito ci guiderà e ci otterrà lumi nelle deliberazioni delle varie commissioni e sessioni... Preghiamo, ma informiamoci specialmente ai suoi sentimenti. Indaghiamo bene quali fossero i suoi intendimenti, poiché si vide come fu guidato da Dio nelle sue imprese... Egli intendeva sempre in tutto [adoperarsi per] la gloria di Dio e il bene delle anime. Ho raccomandato all’Oratorio di pregare e far pregare, ma lo raccomando specialmente a voi, affinché nessuna passione faccia velo all’intelletto, e solo ci sia di mira il bene della gioventù e delle anime. Mettiamoci sotto l’intercessione di Maria SS. come Sede della Sapienza, di S. Francesco di Sales perché ottenga che tutto facciamo col suo spirito. Con questi aiuti e quelli di D. Bosco tutto riuscirà bene. Abbiamo confidenza in questo, e tutte le nostre deliberazioni andranno al bene della Chiesa, della civile società ed a maggior gloria di Dio.[425]

Il 3 settembre, al termine della sessione dedicata agli studi dei chierici, problema di cui abbiamo diffusamente parlato (cap. 15), don Rua sentì il bisogno di tenere una lezione ai direttori riuniti, affermando che debbono essere come dei fari per i loro giovani confratelli. Il 4 settembre intervenne ancora sullo stile di comportamento del direttore: quando deve rimproverare un confratello, mantenga la calma; soprattutto eviti espressioni sconvenienti, come si è talvolta verificato, poiché l’interessato se ne ricorderà per tutta la vita. Ritroviamo in questi avvertimenti il don Rua ispettore delle case affiliate negli anni 1870.

Nel corso della terza sessione, quando il Capitolo discuteva sulle vacanze degli aspiranti, dei novizi e dei confratelli, prese la parola per ricordare come don Bosco raccomandasse sempre di occupare utilmente i confratelli durante le vacanze, come egli stesso aveva fatto da chierico e con i giovani dei primi tempi. Allora venne sollevata la questione dell’opportunità che gli aspiranti partecipassero agli esercizi spirituali coi Salesiani durante le vacanze dopo l’Assunzione. A questo proposito don Rua osservò: «Quest’anno medesimo su 54 giovani dell’Oratorio [che hanno preso parte a questi esercizi spirituali] solo 4 o 5 passarono al secolo, altri al seminario e circa 42 alla Congregazione. Furono gli esercizi che li fecero decidere in bene. Se andavano prima a casa, quanti forse sarebbero tornati?».[426] Il suo parere ebbe la meglio: gli aspiranti non sarebbero andati subito in vacanza in famiglia, ma avrebbero partecipato coi Salesiani agli esercizi spirituali estivi.

Il 5 settembre, in mattinata, don Rua riprese il discorso ai direttori, insistendo su alcuni punti decisivi: i dipendenti devono essere trattati come fratelli, affidando loro compiti proporzionati alle forze di ciascuno; si proibisca l’uso dei mezzi violenti e, più ancora, le affettuosità con i giovani e le carezze; si curino con molta carità i coadiutori e i famigli, non considerandoli mai come domestici; ci si interessi non soltanto dell’istruzione dei giovani ma anche della loro salute fisica e spirituale; infine il direttore si impegni personalmente a coltivare le vocazioni, isegnando ai giovani il modo di confessarsi bene: «Don Bosco vi dedicava molto tempo, imitiamolo». Don Rua teneva sempre presente il magistero e l’esempio di don Bosco.

Il sesto Capitolo Generale (1892)

Il sesto Capitolo Generale si tenne a Valsalice dal 29 agosto al 7 settembre 1892. Nella lettera di convocazione del 12 marzo, don Rua affidava al Capitolo il compito di studiare i mezzi migliori per assicurare il consolidamento e lo sviluppo della Società Salesiana, come anche il profitto spirituale e scientifico dei suoi membri. Questa volta il Capitolo fu davvero «generale»! Erano stati invitati tutti i direttori delle case, anche quelli delle comunità più piccole. Forse, proprio per questo, nel corso del Capitolo si porrà la questione sull’opportinità della loro partecipazione. Il moderatore designato, don Francesco Cerruti, comunicò: «Il Rettor Maggiore ha rinviato al prossimo Capitolo Generale la risposta a questa domanda e ha deciso che per quest’anno ci si conformerà alla tradizione degli anni precedenti, cioè che i direttori di queste case prenderanno parte al Capitolo Generale, come all’elezione del Capitolo Superiore, ma sono dispensati dal portare con sé un confratello professo». Il giorno dell’apertura i capitolari erano sessantanove.

Venivano sottoposti all’esama del Capitolo sette schemi, che qui elenchiamo: l) Studi teologici; 2) Rivedere e coordinare in un solo volume le deliberazioni dei vari Capitoli Generali; 3) Un manuale unico per le pratiche di pietà per i Salesiani e  per i giovani, e norme con cui compilarlo; 4) Regolamento per le case degli ascritti (novizi) e per gli studentati dei chierici; 5) Regolamento per il provveditore ispettoriale e per il capo-ufficio della direzione dei laboratori; 6) Studio dell’Enciclica Rerum novarum del Santo Padre sulla questione operaia e modo di farne l’applicazione pratica nei nostri Ospizi ed Oratori; 7) Proposte varie dei confratelli. Il programma prevedeva che i lavori si interrompessero mercoledì 31 agosto, per l’elezione dei membri del Capitolo Superiore.

Nella cerimonia introduttiva, che si svolse nella cappella di Valsalice, don Rua parlò ai capitolari. Fece notare che per la prima volta in assenza di don Bosco si celebrava un Capitolo con elezione dei superiori, «ma il suo ricordo è talmente vivo tra di noi che possiamo davvero considerarlo presente». Disse che l’opera salesiana aveva avuto una considerevole espansione negli ultimi sei anni: tra il 1886 e il 1892 il numero dei confratelli e quello delle case era più che raddoppiato. Si vedeva chiaramente la mano di don Bosco, il quale nel dicembre 1887, qualche giorno prima dell’ultima malattia, aveva detto a un gruppo di Cooperatori: «Pregate affinché io possa fare una buona morte. Infatti in Paradiso potrò fare per i miei figli e per i miei poveri ragazzi molto di più di quanto non possa fare sulla terra».

La sera del 30 agosto, giornata consacrata al lavoro in commissione, prima della benedizione col Ss. Sacramento, don Rua volle rispondere ad alcune critiche che circolavano. In quel tempo la distribuzione del personale nelle case della Congregazione era stabilita dai superiori maggiori, di fatto da don Cerruti, consigliere scolastico generale. C’era chi pensava che il Capitolo Superiore accettasse troppo facilmente la proposta di nuove opere e così si trovasse nell’impossibilità di inviare il personale necessario alle case esistenti. Don Rua fece notare che i superiori maggiori resistevano energicamente alle richieste, tranne quando le autorità romane intervenivano obbligandoli. Secondo altri, il personale designato non rispondeva sempre alle necessità locali: certo, rispose don Rua, il Capitolo non poteva rendersi conto esattamente delle diverse situazioni.[427] Infine qualcuno si interrogava sulla formazione data ai chierici. Don Rua sostenne che la formazione fosse corretta, ma date le inevitabili carenze individuali, spettava alle case porvi rimedio aiutando i giovani confratelli.

Il 1° settembre, di fronte al problema di raccogliere tutte le delibere dei Capitoli in un unico volume, i capitolari giudicarono più saggio chiedere al Rettor Maggiore di costituire una commissione che se ne incaricasse. Il 2 settembre la riflessione sul manuale di pietà dei giovani e dei confratelli portò i capitolari a chiedere che si mantenesse il latino nelle preghiere comuni: Pater, Ave, Credo, Angele Dei, Angelus. Don Rua colse l’occasione per fare l’apologia di quella lingua: «Come i despoti mirano ad abolire la lingua propria d’un popolo per ridurlo a servitù, così i nemici della fede cattolica vorrebbero abolito il latino per rompere l’unità della Chiesa. Perciò è da insistere nell’opera nostra, anche contrastando colla inveterata consuetudine, insinuando quanto è possibile il latino quale si pratica nella Liturgia della Chiesa romana».[428] Il Vaticano II si sarebbe aperto solo sessant’anni dopo: forse alcune sue decisioni avrebbero turbato il nostro don Rua.

Quel giorno mentre si deliberava sul regolamento dell’economo ispettoriale e su quello del responsabile della direzione dei laboratori nelle scuole professionali, don Rua trovò modo di fare alcune raccomandazioni ispirandosi  ai Ricordi confidenziali: «Si raccomanda ai direttori di ben conoscere il loro personale, chiamando a sé gli individui a parte e leggendo insieme la parte del Regolamento che loro spetta e dando così opportuni consigli. In secondo luogo si raccomanda ai direttori che dispieghino tutta la sollecitudine per ben conoscere le relazioni morali tra gli assistenti e maestri tra loro e cogli allievi e tra gli allievi stessi. In terzo luogo si raccomanda che nel rendiconto col Regolamento alla mano interroghino i subalterni e conoscano le difficoltà che questi incontrano nei loro uffici. Finalmente si raccomanda di inculcare costantemente la divozione a Maria SS. e al SS. Sacramento, che sono due fonti inesauribili di grazie».[429]

Il 3 settembre, introducendo l’assemblea generale, don Rua parlò ampiamente delle vocazioni e del modo di coltivarle. È necessario, disse tra l’altro, armare i giovani contro lo spirito del mondo che, attraverso giornali, libri malvagi e cattive compagnie, soffoca le vocazioni nascenti. Quando se ne presenta l’occasione, si raccomandi la cura delle vocazioni ai parroci e ai preti di parrocchia. Si faccia molta attenzione all’impegno del giovane per conservare la virtù della purezza: si potrebbe transigere facilmente sulle capacità intellettuali, ma non in quest’ambito. Il lavoro e l’esemplarità dei Salesiani sono i mezzi più efficaci per attirare i giovani e incitarli ad abbracciare lo stato religioso o ecclesiastico. Si venne poi alla questione delle vacanze, periodo che don Rua, come già don Bosco, guardava con sospetto. Se non si possono abolire le vacanze estive, disse, cerchiamo almeno di sminuzzarle. Il direttore mostri molta pazienza e dolcezza verso le vocazioni nascenti, si raccomandi alle loro preghiere, assicuri che prega per loro. Al termine del ginnasio consigli agli allievi di preferire lo stato di vita che darà loro più consolazione in punto di morte. Ma dissuada il giovane dallo scegliere lo stato ecclesiastico unicamente per il bene della sua famiglia o per meri interessi economici...

Nello stesso giorno, la discussione sul regolamento dei noviziati (allora si preferiva parlare di «case per gli ascritti») e degli studentati, portò il Rettor Maggiore a dare alcune indicazioni. Conveniva identificare presto, nelle case, eventuali candidati adatti a diventare Salesiani chierici o coadiutori, ai quali tenere almeno due conferenze mensili. In esse conveniva partire dal manuale di pietà in uso, il Giovane provveduto, per insegnare come comportarsi da buoni cristiani, però senza mai parlare di voti o di Congregazione. Poi verrà il noviziato, che come un setaccio separa il loglio dal buon grano. La Congregazione Salesiana non è fatta per coloro che hanno già sperimentato una vita mondana. «Noi abbiamo bisogno di soci sicuri, che vengano da noi col fine di raggiungere la cristiana perfezione».[430] Di conseguenza il maestro dei novizi ammetta ai voti e i direttori presentino alle ordinazioni solo soggetti di moralità perfettamente garantita.

Don Rua concluse l’assemblea generale del 5 settembre con una esortazione sull’umiltà collettiva: «Noi dobbiamo ringraziare il Signore che continuò a benedire la nostra Congregazione da non lasciarla mai incagliata: tanto da potersi dire che nihil habentes…, non ci manca nulla.[431] Con tutto ciò importa di tenerci umili e bassi, e rispetto alle altre congregazioni tenerci per ultimi. Non si censurino mai, anzi siamo roconoscenti loro, ché tutte in qualche modo concorsero a darci aiuto dappertutto in Europa e in America. Perciò non si hanno a censurare mai e tanto meno disprezzare. Tutto ci può far del bene e salvarci da tante noie».[432]

Il 6 settembre, nella seduta di chiusura, don Rua lasciò ai capitolari tre impegni che il segretariato riportò sinteticamente, cioè: «1° di promuovere la Pia Unione dei Cooperatori Salesiani; 2° di far conoscere e diffondere le Letture Cattoliche; 3° di far conoscere e diffondere l’Associazione al SS. Cuore di Gesù».[433]

I risultati di questo sesto Capitolo Generale saranno comunicati ai confratelli con la lettera circolare dell’11 novembre 1892.[434]

Il settimo Capitolo Generale (1895)

Il settimo Capitolo Generale, fu particolarmente breve, si svolse dal 4 al 7 settembre 1895. Secondo i verbali delle sedute don Rua fece pochi interventi. All’inizio di ogni seduta, leggeva e commentava brevemente un passo dei Ricordi confidenziali di don Bosco ai direttori, un adattamento leggermente ampliato dei consigli che egli stesso aveva ricevuto quando andò direttore a Mirabello.

Quando venne esaminata la questione dell’istruzione religiosa nelle scuole salesiane, don Rua chiese, come già don Bosco, che il catechismo fosse insegnato e recitato ad litteram, alla lettera, e si evitassero le lunghe spiegazioni. Il problema del tempo da dedicare all’istruzione religiosa degli artigiani suscitò molte discussioni. Durante questi confronti, non risultano inteventi di don Rua. Soltanto è registrato il suo rammarico per il fatto che in alcune case, soprattutto nell’Oratorio di Torino, l’istruzione religiosa fosse stata ridotta ad un’unica ora settimanale e solo per i sei mesi dell’anno scolastico. Osservava tuttavia che, a differenza di istituzioni educative più esigenti, come quelle segnalate dai capitolari, i Salesiani disponevano anche di altri mezzi per assicurare l’istruzione religiosa ai giovani: la buonanotte, la predicazione domenicale, le esortazioni in classe, ecc. Grazie a ciò, diceva, «la nostra istruzione è completa come quella degli altri». Infine, quando si parlò dei Cooperatori e venne sollevata la questione del contributo delle case alle spese del Bollettino Salesiano, insistette per chiedere ai direttori solo il minimo di una lira annuale per ogni abbonamento.

Il 7 settembre, durante l’assemblea di conclusione, don Rua lesse la lettera di un ammiratore che aveva partecipato al Congresso di Bologna. Si augurava che i Salesiani continuassero a distinguersi per l’umiltà, la purezza dei costumi e una grande carità. Il verbale dell’ultima assemblea venne firmato da novantasei capitolari.

L’ottavo Capitolo Generale (1898)

L’ottavo Capitolo Generale, riunì circa duecentodiciassette capitolari. Si tenne a Valsalice tra il 29 agosto e il 7 settembre 1898.

Fu preparato in sette mesi, sotto la responsabilità del moderatore Francesco Cerruti. Tutti i membri parteciparono alla seduta di apertura la sera del 29, sotto la presidenza di don Rua. C’erano i superiori generali (ad eccezione di don Lazzero ammalato), i vescovi Giovanni Cagliero e Giacomo Costamagna in qualità di vicari del Rettor Maggiore per i due versanti dell’America del Sud, il procuratore generale Cesare Cagliero, il maestro dei novizi Giulio Barberis, il vicario delle suore salesiane Giovanni Marenco, dieci ispettori, centoventiquattro direttori, e settantuno confratelli delegati (le comunità infriori a sei confratelli non avevano diritto di eleggere gli accompagnatori dei direttori). Il lavoro venne suddiviso in dieci commissioni. Tre erano i temi da affrontare: a) come perseverare nella vocazione; b) come strutturare l’insegnamento della filosofia e della teologia; c) come mantenere intatto tra i Salesiani lo spirito di don Bosco. Erano argomenti che stavano particolarmente a cuore a don Rua, ma i verbali non documentano suoi interventi nelle giornate dedicate alla discussione (31 agosto, del 1° e 2 settembre). Il 30 agosto fu riservato all’elezione dei membri del Capitolo Superiore. Il mandato di sei anni, iniziato nel 1892, terminava appunto il 31 agosto. Lo stesso don Rua volle sottomettere a elezione il proprio mandato di Rettor Maggiore.

Don Rua è rieletto Rettor Maggiore

In effetti, gli anni passavano e si stava per concludere il XIX secolo . Don Rua pensava alla successione. La Santa Sede l’aveva confermato per dodici anni nel 1888. Il suo mandato sarebbe scaduto nel 1900. Ma egli aveva buone ragioni per volerlo interrompere prima.[435] Le presentò in una circolare del 20 gennaio 1898. Vi diceva che i suoi dodici anni regolamentari sarebbero scaduti l’11 febbraio 1900. Tuttavia, continuava:

In quest’anno il nostro amato Padre D. Bosco compirebbe il secondo dodicennio dalla sua conferma a Rettor Maggiore, avvenuta nel 1874, quando furono approvate dalla Santa Sede le nostre Costituzioni. Io eletto dal Santo Padre Leone XIII a succedergli, durante il secondo suo dodicennio, compio in quest’anno il mio mandato, col compiersi del periodo dodicennale. Che se avessi da compiere dodici anni in carica, si porterebbe ad un tempo troppo incomodo l’elezione del Rettor Maggiore, il che sarebbe causa di gravissimi disturbi alle nostre case. Invito adunque i membri dell’ottavo Capitolo Generale all’elezione del Rettor Maggiore nel tempo stesso che a quella degli altri membri del Capitolo Superiore.[436]

Aveva il diritto di rinunciare a due anni di incarico. Tuttavia per procedere in perfetta regolarità e non dare l’impressione di sottrarsi alla missione che il papa gli aveva affidato, il 4 novembre 1884 don Rua chiese al suo procuratore Cesare Cagliero di parlarne al Santo Padre o al prefetto della Congregazione dei Vescovi e dei Regolari o ancora, se necessario, ad altre persone perché fosse approvata la misura che proponeva per pura convenienza. Il procuratore rivolse al papa una supplica che si concludeva nei termini seguenti: «Il Signor don Rua vi rivolge con insistenza questa domanda, non per essere esonerato dal suo incarico, ma per ovviare ai gravi problemi di una nuova convocazione di circa 300 confratelli da tutte le parti del mondo, e a spese di migliaia e migliaia di lire per i viaggi di tante persone». La risposta arrivò il 20 agosto attraverso il cardinale Parocchi, protettore della Congregazione. Informava don Rua che il Santo Padre, «attentis specialibus casus adiunctis attentoque insuper consensu Rectoris Maioris Sodalium Salesianorum» [in considerazione del carattere particolare della misura e dato inoltre il consenso del Rettor Maggiore della Società Salesiana], accordava tutte le facoltà necessarie e opportune. Sette giorni più tardi, il Segretario di Stato Rampolla, in una lettera al procuratore, comunicava a don Rua una benedizione speciale del papa:

Il Santo Padre ha appreso con piacere che si terrà a Torino il 29 agosto prossimo l’assemblea di tutti i direttori e dei confratelli aventi diritto all’elezione del Rettor Maggiore e dei membri del Capitolo Superiore. Ha anche appreso con piacere che dopo ciò si terrà il Capitolo Generale dei Salesiani di don Bosco. Sua Santità, volendo accordare a questa Congregazione un segno della sua benevolenza, ha il piacere di dare a tutti i confratelli dell’una e dell’altra assemblea la benedizione apostolica, pregando Dio di voler diffondere su di essi abbondanti grazie, perché tutto riesca al meglio per la maggior gloria di Dio e per il bene della Chiesa.

Così nessuno avrebbe potuto rimproverare a don Rua la sua iniziativa. Ottenuta la benedizione del papa, egli apparve persino più allegro.

Il mattino del 30 agosto, dopo l’invocazione dello Spirito Santo, don Rua espose il suo caso nei termini che conosciamo. Poi si passò alla lettura delle Regole e DELLE Deliberazioni capitolari sulle elezioni. I vescovi Cagliero e Costamagna fecero un piccolo discorso ciascuno. Cagliero, che non amava i cambiamenti nel Capitolo Superiore, chiese ai capitolari di rispettare «gli antichi statuti» della Congregazione. E Costamagna lo approvò. Presiedeva il prefetto generale don Belmonte. I due vescovi presero posto al tavolo presidenziale. Don Rua, pregato di salirvi, si rifiutò categoricamente e si accomodò in prima fila in compagnia dei segretari delle sedute. Si cantò il Veni Creator e mons. Cagliero lesse, nel più religioso silenzio, la lettera del cardinale Rampolla che comunicava la benedizione del papa all’assemblea. Poi il moderatore fece l’appello, al quale risposero presente, 217 capitolari sui 227 del giorno precedente (dieci erano assenti giustificati). Fu letto un biglietto di don Rua: avvisava che i due vescovi non erano eleggibili e che conveniva nominare Rettor Maggiore un confratello di età non troppo avanzata, cosa che gli avrebbe consentito di svolgere un compito tanto faticoso nelle migliori condizioni.

Il seggio era composto da tre scrutatori e due segretari. Si avvisò l’assemblea che la maggioranza assoluta sarebbe stata di 110 voti. Don Rua fu subito eletto con 213 voti. Mancavano quattro voti all’unanimità. Si seppe in seguito che due confratelli, impressionati dal biglietto di don Rua, avevano scelto il consigliere Bertello e che un terzo, un coadiutore delegato di Montevideo (Uruguay), aveva semplicemente scritto sulla scheda «Viva don Giovanni Bosco». Il quarto voto che optava per don Giovanni Marenco, allora vicario delle Figlie di Maria Ausiliatrice, non poteva provenire che da don Rua.

Al termine delle elezioni degli altri membri del Capitolo Superiore, don Rua prese la parola per ringraziare i presenti del loro accordo nella sua rielezione. Vedeva in ciò soltanto un omaggio reso a don Bosco che l’aveva scelto per vicario e un segno di devozione verso il sovrano pontefice che l’aveva eletto successore dello stesso don Bosco. Esortò l’assemblea a perseverare negli stessi sentimenti, garanzia efficace di prosperità per tutta la Congregazione.

Il 3 settembre, tutti i capitolari parteciparono alla benedizione della prima pietra della nuova chiesa che doveva essere costruita a Valsalice «come omaggio internazionale a don Bosco», secondo i termini del comitato promotore dell’impresa. La cerimonia si svolse in presenza del cardinale Manara, vescovo di Ancona, dell’arcivescovo di Torino, di sei vescovi e di numerose personalità civili. La festa concludeva gioiosamente le belle giornate dell’ottavo Capitolo Generale.

 

 


24 - L'ALBA DI UN NUOVO SECOLO

I direttori salesiani confessori dei loro subordinati

Don Rua iniziava così il secondo mandato di dodici anni, che sarebbe stato segnato da prove spesso molto pesanti da sopportare. Cominciamo con l’affare dei direttori confessori.[437]

Per capire questa vicenda, che obbligò don Rua ad abbandonare una tradizione molto radicata in Congregazione, bisogna risalire all’Oratorio delle origini. Don Bosco, unico sacerdote, era anche il confessore di coloro che vivevano presso di lui. Più tardi altri preti si unirono, ma, benché egli non esitasse a ricorrere all’aiuto di confessori esterni, la maggiranza di ragazzi e dei confratelli continuava ad andare da don Bosco per la confessione. Il fatto che egli fosse superiore, non impediva ai dipendenti di confidargli i segreti della loro coscienza, perché nell’esercizio dell’autorità, più che superiore si mostrava padre. Quando negli anni Sessanta, iniziò a fondare i collegi, i direttori, formati secondo il suo spirito, si comportarono allo stesso modo, cercarono di guadagnarsi l’affetto e la confidenza di tutti, esercitando paternamente la loro autorità. Si interessavano molto delle questioni ascetiche, ma agli occhi dei confratelli apparivano rivestiti di un’autorità spirituale fatta di dolcezza indulgente che apriva tutti alla confidenza. Dunque ogni direttore era innanzitutto il confessore della comunità. Tuttavia don Bosco, con l’esempio personale e la parola, aveva suggerito una precauzione, di cui fece cenno anche in due capoversi del suo testamento spirituale, che non conviene separare per capire a fondo il suo pensiero:

6° - Per lo più il direttore è il confessore ordinario dei confratelli. Ma con prudenza procuri di dare ampia libertà a chi avesse bisogno di confessarsi da un altro. Resta però inteso che tali confessori particolari devono essere conosciuti ed approvati dal superiore secondo le nostre regole.

7° - Siccome poi chi va in cerca di confessori eccezionali dimostra poca confidenza col direttore, così esso, il direttore, deve aprire gli occhi e portare l’attenzione particolare sopra l’osservanza delle altre regole e non affidare a quel confratello certe incombenze che sembrassero superiori alle forze morali o fisiche di lui.[438]

Così, seppure il salesiano aveva l’incontestabilmente libertà di scegliere un confessore che non fosse il porprio direttore, questa libertà era, nello spirito di don Bosco, fortemente inquadrata. Chi non si confessava dal direttore appariva un po’ sospetto.

Questo stile, sicuramente pericoloso con il moltiplicarsi delle nuove comunità, si continuò per i dodici anni sucessivi alla morte del santo. Il direttore confessava i propri subordinati ed anche gli allievi della casa.

Ma col tempo cominciarono a sorgere delle lamentele, probabilmente a partire dai Salesiani stessi. Il 26 settembre 1896, Il cardinale Parocchi scrisse una lettera a don Rua che denunziava la mancanza di libertà nelle case salesiane nella scelta dei confessori.[439] Don Rua si difese affermando che nelle case salesiane di fatto c’era varietà di confessori.[440] In seguito a ciò, il Sant’Uffizio chiese che le precauzioni di don Rua fossero osservate rigorosamente nella Società Salesiana.[441] Ma il nostro Rettore, allertato da questo ammonimento, raccomandò ai direttori, attraverso il prefetto generale don Belmonte, di invitare regolarmente nelle loro case ogni mese, meglio ogni quindici giorni, un confessore straordinario.[442] In tal modo la libertà di coscienza gli sembrava garantita. Ma Roma era di altro avviso.

Il decreto del Sant’Uffizio (5 luglio 1899)

La Chiesa obbligò i Salesiani a cambiare metodo. La ragione era, secondo una lettera del procuratore generale don Marenco a mons. Cagliero, che la Santa Sede, vedendo la diffusione mondiale della Società Salesiana, non voleva si introducesse una pratica che non era in tutto conforme allo spirito della Chiesa.[443] A dire il vero, Roma temeva tre cose: a) che nei collegi salesiani la libertà dei giovani nella confessione delle loro colpe fosse condizionata a svantaggio dell’integrità sacramentale; b) che i superiori legati dal segreto sacramentale fossero meno liberi nell’esercizio del loro incarico; c) che li si sospettasse di utilizzare le informazioni avute in confessione. Era pura e semplice saggezza.

La Santa Sede procedette a tappe. Innanzitutto, col decreto del Sant’Uffizio del 5 luglio 1899, proibì nelle comunità religiose, nei seminari o nei collegi di Roma che qualsiasi superiore, maggiore o minore, ricevesse la confessione dei sudditi e degli allievi residenti nella casa. Il decreto, riguardava esclusivamente la città di Roma, ma fu introdotto anche in altre diocesi. Il cardinale vescovo di Frascati, ad esempio, immediatamente lo estese alla propria giurisdizione. Così il direttore salesiano dell’ospizio del Sacro Cuore di Roma e quello del collegio di Frascati, dovettero cessare di confessare in casa. Intanto si diffuse la voce che fosse in cantiere un provvedimento radicale.

Don Rua sentì il dovere di prendere posizione, tanto più che il decreto era stato pubblicato su alcune riviste specializzate. Il 29 novembre 1899 scrisse agli ispettori una lunga circolare dedicata al sacramento della penitenza, dalla quale emergono chiaramente i principi di don Bosco.[444] Si introduceva affermando che il documento del Sant’Uffizio riguardava soltanto le confessioni degli allievi (alumni) da parte del superiore. Ricordava che, secondo due decreti pontifici precedenti, il confessore ordinario dei novizi era il maestro e che i superiori religiosi potevano confessare i sudditi se questi lo chiedevano spontaneamente. Del resto, poiché il decreto in questione non aveva forza obbligante fuori Roma, i direttori potevano continuare a confessare come in passato. Tuttavia emanava su questo punto sette direttive: non esercitare la loro autorità nelle «questioni odiose»; lasciare ad altri le misure disciplinari; affidare ai prefetti le relazioni con i genitori degli allievi; non intervenire nell’assegnazione dei voti di condotta; non leggerli in pubblico; invitare ogni sabato confessori esterni alle loro case e sistemarli in un luogo a cui i giovani potessero accedere senza essere visti dal direttore; conquistare i cuori di tutti i propri dipendenti con la pietà e la carità dolce e paziente.

A questo punto passava a parlare della responsabilità dei direttori nei confronti dei confratelli, senza dimenticare i ragazzi. Essi, diceva, devono essere «le guide degli altri confratelli sul sentiero della perfezione, le sentinelle vigilanti dei giovani che sono a loro affidati, i custodi dello spirito di don Bosco, gli interpreti autorizzati delle intenzioni dei superiori, anzi i rappresentanti della loro autorità». Il direttore dunque è il primo responsabile del progresso dei sudditi sul «cammino della perfezione». Abbandonati a se stessi, molti non saprebbero fare alcun progresso. «A voi è specialmente rivolto il comando del Salvatore: Euntes docete. Insegnate questa scienza delle scienze, la scienza dei santi, la sola veramente necessaria, ed il cui insegnamento non potete e non dovete affidarlo ad altri. Insegnate la pratica della perfezione nelle conferenze, nelle confessioni e nei rendiconti; insegnatela in ogni conversazione come faceva D. Bosco». Il direttore di una comunità deve poi prendersi una cura tutta particolare dei giovani professi. «Non fate le meraviglie se trovate in loro dei difetti, se vi tocca ripetere molte volte lo stesso avvertimento: voi sapete che non si divien perfetti tutto ad un tratto».

Evidentemente la confessione non era che uno strumento tra gli altri nelle mani del direttore. Don Rua, ad esempio, dava maggiore importanza al rendiconto di quanto non avesse fatto don Bosco. Tuttavia, in quegli ultimi giorni del XIX secolo, egli continuava ad insistere fermamente sulla fedeltà alla tradizione ereditata dal Fondatore, che faceva del direttore il confessore normale dei confratelli per assicurarne il progresso spirituale.

Il decreto del 24 aprile 1901

Don Rua cercò di prendere tempo. L’idea di dover infrangere una tradizione cara a don Bosco, che durava da oltre sessant’anni, gli faceva male. Di fronte all’eventualità dell’estensione della misura romana all’insieme della Congregazione incominciò a serpeggiare un certo scoraggiamento anche tra i confratelli, soprattutto i più anziani. Infatti Roma seguiva con preoccupazione la prassi salesiana. Il 26 novembre 1900, il cardinale Gotti, prefetto della Congregazione dei Vescovi e dei Regolari, si lamentò con il procuratore don Marenco del fatto che, fuori di Roma, i direttori salesiani fossero obbligati a confessare i sottoposti e che il rendiconto riguardasse la sfera intima.[445]

Nel 1901, poco dopo la chiusura delle feste di Maria Ausiliatrice, arrivò da Roma la notizia che era pronto un provvedimento del Sant’Uffizio che proibiva espressamente ai superiori salesiani di ascoltare le confessioni dei loro sudditi. Uscì di lì a poco. Portava la data del 24 aprile, ma fu comunicato al procuratore salesiano solo il 29 maggio.[446] La formulazione era severa. Si leggeva su un foglietto allegato: «Il comissario del Sant’Uffizio, consegnando la copia autentica del decreto del 24 aprile 1901, prega il Rev.mo Procuratore Generale dei Salesiani di fargli sapere al più presto, per iscritto, che questo decreto non solo è accettato dall’Istituto, ma che sarà rapidamente e pienamente attuato in tutte le case del detto Istituto».[447] Ricevuto il testo, don Rua si affrettò ad incaricare il procuratore di trasmettere al Sant’Uffizio la seguente dichiarazione: «Ho l’onore di far sapere a Vostra Eccellenza che ho comunicato al Rettor Maggiore il decreto del 24 aprile della Suprema Inquisizione Romana e che non solo è stato accettato dall’Istituto, ma che sarà pienamente attuato in tutte le sue case con la rapidità richiesta dal decreto stesso».

Ma don Rua era preoccupato, e indugiava, col rischio di snervare il Sant’Uffizio. Domandò subito se la comunicazione ufficiale del decreto poteva essere differita fino al prossimo Capitolo Generale di settembre. Il 22 giugno gli fu intimato di darne comunicazione sine mora, senza indugio. Spedì allora un nuovo ricorso. Il sine mora doveva essere inteso in senso stretto o poteva conciliarsi con l’ordine che figurava nel decreto stesso di comunicare intra annum (entro l’anno) alla Sacra Congregazione l’esecuzione delle ordinanze? Di conseguenza, sarebbe stato lecito rinviare la comunicazione del decreto a tutta la Congregazione dopo la chiusura del prossimo Capitolo Generale?

Nel frattempo don Rua tenneuna breve conferenza ai confratelli dell’Oratorio, raccolti nella chiesa di San Francesco di Sales. Molti si erano stupiti che da qualche tempo in confessionale si traocasse il segretario in vece sua. Si giustificò raccontando la storia dei due decreti, quello riguardante Roma e quello esteso a tutta la Congregazione. Si era domandato: Che cosa avrebbe fatto don Bosco in simile circostanza? Certo avrebbe obbedito immediatamente. Era ciò che egli intendeva fare astenendosi dal confessare. Chiedeva dunque di non essere messo in imbarazzo pretendendo di confessarsi da lui. Poi lesse il decreto del 24 aprile in latino e subito dopo in italiano. Senza altro aggiungere, recitò la preghiera di conclusione e sciolse l’assemblea.

Il 6 luglio estese la comunicazione a tutta la Congregazione attraverso gli ispettori. La sua circolare ordinava che ciascun direttore riunisse i confratelli professi e leggesse il decreto a voce alta e comprensibile; che, senza commenti, ne spiegasse il senso a coloro che non conoscevano il latino; e che il documento fosse religiosamente conservato in quanto emanato dall’autorità suprema della Chiesa. Concludeva:

Finora a norma delle deliberazioni dei Capitoli Generali tenevamo una via che ci pareva più adatta alle nostre circostanze: ora chi fu da Dio incaricato di ammaestrare i popoli, ed anche i loro maestri, ci fa conoscere che dobbiamo modificarla; e noi riconoscenti e rispettosi con piena e volenterosa obbedienza eseguiamo quanto ci viene prescritto, imitando così il nostro buon Padre Don Bosco che tanta venerazione ed obbedienza prestò sempre a qualsiasi cenno della Santa Sede. Non si cerchi come mai ci sia dato quest'ordine, per causa di chi o di quale avvenimento: riteniamo che è disposizione dell'amorevole Divina Provvidenza, che è Gesù stesso che si degna parlarci per mezzo del suo Vicario, e studiamoci di eseguirne gli ordini colla maggiore fedeltà.[448]

Tuttavia, nel frattempo don Rua commissionava uno studio teologico che gli avrebbe creato molte noie. Erano prevedibili due difficoltà nell’attuazione immediata della decisione romana. Come trovare sul campo, in ogni casa un confessore che avesse le qualità necessarie e fosse esente da incarichi incompatibili con il tenore del decreto? Come superare la ripugnanza di molti confratelli, soprattutto dei più anziani, a un cambiamento così brusco? Fece studiare il problema da don Luigi Piscetta, moralista salesiano molto stimato. Egli consultò l’ausiliare dell’arcivescovo di Torino, mons. Giovanni Battista Bertagna, il quale, come scrisse don Rua, «da oltre quarant'anni insegna con plauso universale la morale casistica ai sacerdoti che si preparano al ministero delle confessioni». Dopo matura riflessione, don Piscetta consegnò le sue conclusioni a don Rua, il quale si affrettò a farle stampare. Il 15 luglio 1901 le inviò agli ispettori, insieme ad una circolare che ne spiegava la genesi.[449]

Malgrado le precauzioni prese, le risposte di Piscetta caddero nelle mani del Sant’Uffizio che ritenne molto grave il fatto. Immediatamente il procuratore salesiano fu convocato dal commissario del Santo Ufficio, che gli fece un duro richiamo: pareva alla Sacra Congregazione che don Rua cercasse ogni mezzo per sottrarsi alla piena attuazione del decreto; gli si rimprovarava di aver voluto interpretare il documento, cosa strettamente riservata al Sant’Uffizio. Il commissario si espresse in termini severi e obbligò il procuratore a informare don Rua che si ordinava l’immediata revoca delle interpretazioni del teologo, dopodiché il Sant’Uffizio stesso avrebbe risposto alle questioni poste. Tutto ciò non si sarebbe verificato se don Rua avesse tenuto presente che l’interpretazione dei decreti del Sant’Uffizio è consentita solo a chi li emana. Nonostante avesse avuto la buona intenzione di fare le cose per bene, dava l’impressione di una certa ribellione, di cui dovette sopportare le conseguenze. Restò calmo e il 15 agosto scrisse agli ispettori revocando le risposte di don Piscetta:

Ho una lieta notizia a comunicarvi: vengo a sapere che la veneranda Congregazione della Suprema Romana e Universale Inquisizione ci darà la soluzione ufficiale di varii dubbi che sorgono nell’eseguire il Decreto Quod a suprema del 24 aprile del corrente anno. In attesa del desideratissimo documento revoco le soluzioni da me date a stampa, manoscritte ed voce a chi mi interrogava in passato intorno a tale argomento. Ringraziamo il Signore che si degna di darci una guida così sicura e continuiamo pregarlo ad aiutarci ad essere ognora fedeli nell’eseguirne gli insegnamenti.

Ma la sua gioiosa attesa fu di brevissima durata. Le questioni sottoposte a chi doveva dare un parere produssero, come effetto inatteso, la convocazione a Roma di don Rua stesso. Partì immediatamente e, arrivato a destinazione, subì personalmente i rimproveri che gli erano stati fatti attraverso l’intermediazione del procuratore. Inoltre si sentì intimare l’ordine di lasciare immediatamente la città. Il pessimo trattamento subito a Roma gli provocò un edema al petto e un aggravamento dell’infiammazione agli occhi, che lo tormentava già da qualche anno. Dio solo l’intensità della sofferenza morale da lui sopportata in quell’occasione, certamente più grave delle sofferenze fisiche.

Tra il 1° e il 5 settembre doveva tenersi a Valsalice il nono Capitolo Generale della Congregazione. Tre giorni prima dell’apertura arrivò da parte del Santo Ufficio la soluzione alle sue difficoltà da, datata 21 agosto.14 Si ripetevano, in forma ancora più imperativa, le disposizioni precedenti. Don Rua ordinò immediatamente la stampa in mille esemplari delle risposte di Roma. Le voleva distribuire ai capitolari. Veniva prescritta la lettura del documento ai membri del Capitolo Generale. Il procuratore don Marenco lo lesse all’inizio dell’assemblea. Poi, come dice il verbale, don Rua si espresse brevemente sulle domande e sulle risposte, confessando che ignorava che i problemi riguardanti i decreti del Sant’Uffizio dovessero essere risolti esclusivamente dal Sant’Uffizio stesso. Revocò dunque le soluzioni che aveva dato in precedenza e raccomandò: «Dobbiamo assolutamente eliminare qualsiasi maligna supposizione. [Il decreto] Ci viene dal papa, epperciò da Dio, quindi dobbiamo accettar con sottomissione assoluta e pronta e ringraziare anzi Iddio che ci ha dato tanta luce per mezzo dei supremi nostri Superiori, ascrivendo tale decreto ad atto di speciale benevolenza, volendo che noi ci facciamo conformi alle altre Società e Congregazioni religiose che hanno somiglianza colla nostra».[450]

Gli ordini dovevano essere messi in pratica. Nel volgere di un anno, a partire dalla data di pubblicazione del decreto – dunque entro il 24 aprile 1902 – bisognava presentare al Sant’Uffizio un esemplare delle Deliberazioni dei Capitoli Generali corrette su tutti i punti riguardanti le confessioni e i confessori. Il tempo non era sufficiente. Si chiese e si ottenne una dilazione. Ma, nella circolare del 9 marzo 1902,[451] don Rua ebbe cura di avvisare i confratelli che il ritardo nella ristampa dei documenti corretti non li dispensava in alcun modo dall’applicazione integrale del decreto.

I giovani si adattarono senza problemi. Invece molti salesiani professi fecero fatica a confessarsi da sacerdoti che spesso erano stati loro subordinati. Ecco un esempio tratto dal verbale di una riunione del Capitolo Generale del 1905. Il 16 febbraio il commissario del Sant’Uffizio convocò il procuratore Marenco per informarlo che in una casa salesiana, «gli individui erano moralmente obbligati a confessarsi da chi non godeva la comune confidenza; che nel dubbio, il S. Uffizio si rivolse, come di consueto per informazioni all’ordinario, da cui la cosa venne confermata, ed in seguito a ciò il S. Uffizio incaricò il vescovo a provvedere».[452] Don Rua, da parte sua, rispondeva laconicamente alle obiezioni che gli erano presentate. Evidentemente voleva evitare ogni discussione, poiché teneva all’obbedienza piena e totale alle decisioni romane.

La consacrazione della Società Salesiana al Sacro Cuore di Gesù

Don Rua aveva inaugurato quel doloroso primo anno del XX secolo con un atto che probabilmente giudicava il più importante del suo rettorato.[453]

Da molti anni pensava di soddisfare un desiderio espresso dall’eroico salesiano Andrea Beltrami (1870-1897), che, al termine di un suo libretto sull’apostola del Sacro Cuore Margherita Maria Alacoque, aveva scritto: «Vogliano il dolce nostro Redentore e la sua madre Maria SS., considerare sempre la Società Salesiana come sua figlia diletta e abbellirla dei fiori delle più elette benedizioni. E se la mia voce non è troppo ardita, faccio voti che la Società Salesiana venga solennemente consacrata a questo Cuore adorabile, da cui attingerà nuove grazie di vita eterna». Nel 1899, don Rua aveva auspicato che ciascun salesiano facesse la sua consacrazione personale al Sacro Cuore. Ma era a conoscenza del voto di don Beltrami e pensava di esaudirlo. Tanto più che, in quel tempo di grande devozione al Sacro Cuore, gli veniva chiesto da più parti, soprattutto dagli studentati, un gesto straordinario. Dopo aver riflettuto a lungo ed essersi consigliato con il cardinale protettore sull’opportunità e le modalità di una consacrazione dell’intera Società Salesiana al Sacro Cuore, ritenne venuto il momento di agire.[454] Nella circolare del 21 novembre 1900 scrisse ai Salesiani: «Ora intendo che ciascuno si consacri di nuovo, in modo tutto particolare, a codesto Cuore Sacratissimo; anzi desidero che ciascun direttore gli consacri interamente la casa cui presiede ed inviti i giovani a far essi pure questa santa offerta di sé stessi, che li istruisca sul grande atto che sono per compiere e dia loro ogni comodità affinché vi si possano preparare convenientemente».[455]

Proponeva di celebrare l’atto pubblico la notte del 31 dicembre 1900, all’inizio del nuovo secolo. E ne indicava la formula:

Gesù, siamo già vostri per diritto, avendoci Voi comperati col vostro preziosissimo Sangue, ma vogliamo anche essere vostri per elezione e consacrazione spontanea, assoluta: le nostre Case sono già vostre per diritto, essendo Voi padrone d’ogni cosa, ma noi vogliamo che esse siano vostre, e di Voi solo, anche per nostra spontanea volontà; a Voi le consacriamo: la nostra Pia Società già è vostra per diritto, poiché Voi l’avete ispirata, Voi l’avete fondata, Voi l’avete fatta uscire, per dir così, dal vostro Cuore medesimo. Ebbene, noi vogliamo confermare questo vostro diritto; vogliamo che essa, mercé l’offerta che ve ne facciamo, diventi come un tempio, in mezzo al quale possiamo dire con verità, che abita signore, padrone e re il Salvatore nostro Gesù Cristo! Sì, Gesù, vincete ogni difficoltà, regnate, imperate in mezzo a noi: Voi ne avete diritto, Voi lo meritate, noi lo vogliamo.[456]

Chiese anche che la solenne consacrazione fosse preparata da un triduo di preghiere e di predicazione, a partire dal giorno dei Santi Innocenti, 28 dicembre, anniversario della morte di san Francesco di Sales. Don Rua desiderava che l’atto coinvolgesse tutti: giovani, novizi, confratelli, superiori e il maggior numero possibile di Cooperatori. Ricordò che il papa aveva concesso per la notte del 31 dicembre di poter celebrare una messa solenne a mezzanotte, con l’esposizione del Santissimo. Era dunque necessario che l’assemblea si riunisse mezz’ora prima per l’adorazione eucaristica e, dopo un quarto d’ora tutti rinnovassero le promesse battesimali, quindi i confratelli ripetessero i loro voti religiosi. Poi si sarebbe fatta la consacrazione personale, quella della casa e quella di tutto il genere umano al Cuore di Gesù, secondo la formula preconizzata l’anno precedente. Contemporaneamente a Torino, don Rua e il Capitolo Superiore avrebbero consacrato l’intera Congregazione. In seguito si doveva celebrare la messa, dare la benedizione col Ss. Sacramento, cantare il Te Deum e recitare le altre preci previste dal papa e dai vescovi per l’occasione. Negli Oratori festivi la funzione poteva essere rimandata al mattino seguente.[457]

Come capo della Congregazione, don Rua desiderava una formula speciale, debitamente approvata. Il 6 dicembre scrisse a Leone XIII:

L’impulso dato dalla Santità Vostra alla divozione al sacratissimo Cuore di Gesù e l’ordine emanato lo scorso anno di consacrare tutte le diocesi e tutti i popoli a quel Divin Cuore fecero nascere in noi il desiderio di fare con tutta solennità una consacrazione speciale della Pia Società di S. Francesco di Sales, fondata dal nostro indimenticabile Padre don Bosco, e di tutte le opere e persone da essa in qualche modo dipendenti, nella notte che divide il secolo che muore dal novello secolo, notte in cui per la paterna bontà della Santità Vostra si potrà anche quest’anno celebrare la Santa Messa. Nella fiducia di far cosa gradita al cuor vostro ardente di divozione verso il Cuore Santissimo di quel Gesù di cui siete vicario, ci permettiamo di presentarvi la formula di tale consacrazione, affinché, accompagnata dalla vostra benedizione, gli torni più gradita e ci attiri in maggior abbondanza le grazie e i favori di cui abbisogniamo per lavorare con sempre maggiore alacrità a dilatare il Regno di nostro Signore Gesù Cristo e alla salute delle anime.[458]

La Santa Sede restituì la supplica a don Rua con l’approvazione: «Il Santo Padre ha benignamente lodata la pia proposta, e di tutto cuore l’ha benedetta». Così, il 31 dicembre 1900, mentre in tutte le case salesiane si procedeva alla consacrazione, don Rua, prostrato con gli altri membri del Capitolo Superiore dinanzi al Santissimo, esposto sull’altare di Maria Ausiliatrice, pronunciò con intensa partecipazione la formula speciale. Con essa consacrava al Divin Cuore persone, case, opere della Società Salesiana, l’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice, la Pia Unione dei Cooperatori e la gioventù affidata ai Salesiani e alle suore.[459]

L’atto di consacrazione è breve, faceva notare don Rua al termine della circolare, ma i suoi frutti dovevano essere duraturi. Per questo ritenne opportuno raccomandare ai Salesiani un certo numero di pratiche devote approvate dalla Chiesa e «dalla medesima arricchite di molte indulgenze». Suggerì dunque, nel suo devoto fervore, di solennizzare in tutte le case la festa annuale del Sacro Cuore; di celebrare una cerimonia particolare ogni primo venerdì del mese con la raccomandazione a ciascun confratello e a ciascun giovane di fare in quel giorno la «comunione riparatrice»; di ascrivere ciascun confratello alla «pratica dei Nove Uffici» (o nove Servizi al Sacro Cuore, che sono quelli dell’Adoratore, dell’Amante, della Vittima, del Discepolo, del Servitore, del Promotore, del Supplice, dello Zelante, del Riparatore). Invitò ogni comunità ad associarsi alla confraternita della Guardia d’onore. Suggerì di istituire nei noviziati e negli studentati l’Ora santa (nella notte tra il giovedì e il venerdì, in ricordo della preghiera di Gesù nel Getsemani). Non poteva certo immaginare che tutte quelle pratiche sarebbero cadute in disuso nel volgere di pochi decenni, al punto che persino il loro significato, illustrato nella lunga «Istruzione sulla devozione al Sacro Cuore di Gesù» che accompagnava la circolare,[460] sarebbe sfuggito del tutto alle future generazioni. Il tranquillo don Rua, come molti dei suoi contemporanei, era capace di entusiasmarsi quando si trattava di onorare il Cuore di Gesù.

La cerimonia del 31 dicembre 1900 apriva un secolo che avrebbe visto la Società Salesiana svilupparsi meravigliosamente, ma anche soffrire molto. E le sofferenze non tardarono a giungere. Il 1901 fu, per i Salesiani francesi, un tempo di «persecuzione».

 


25 – LE VICENDE FRANCESI

Il venticinquesimo anniversario dell’opera salesiana in Francia

La prima casa salesiana francese era stata fondata a Nizza alla fine del 1875. Col 1901 compiva venticinque anni di età. Il direttore, don Louis Cartier, ci tenva a celebrare il giubileo nei primi giorni di febbraio, con la presenza del Rettor Maggiore. Cartier pensava che, nella stessa occasione, don Rua avrebbe potuto celebrare le nozze d’argento dell’intera opera salesiana francese, allora molto fiorente. Il catalogo generale del 1900, ci informa che le ispettorie di Parigi e di Marsiglia contavano globalmente 18 case, 212 confratelli e 94 novizi.

Sfortunatamente le relazioni tra le due ispettorie non erano cordiali. In particolare, l’ispettore di Parigi, l’effervescente Giuseppe Bologna, mal sopportava l’ispettore di Marsiglia, il discreto e preciso Pietro Pierrot. Inoltre, il clima politico burrascoso, mentre era in elaborazione una legge sulle congregazioni religiose, sconsigliava ai Salesiani manifestazioni troppo vistose. In quel momento, ad esempio, l’origine italiana della Congregazione suscitava una certa animosità contro la casa di Dinan in Bretagna e, talvolta, anche a Parigi. Si poteva temere che la presenza di don Rua alla festa potesse essere intesa come una sorta di provocazione. Il 9 gennaio 1901, in una lettera a Cartier, don Bologna esprimeva forti riserve e annunciava che, da parte sua, non riteneva opportuno partecipare ai festeggiamenti. Allora vennero fatte pressioni sul Superiore Generale, il nostro don Rua.

La sua opinione, caratterizzata da un senso religioso raffinato e da una sana prudenza, tutt’altro che timorosa, è espressa in una significativa lettera a don Cartier del 19 gennaio:

Da varie parti della Francia mi si scrive relativamente alle feste giubilari di Nizza: chi mi dice che saranno un po’ troppo costose e che conoscendosi che si fanno tante spese si raffredderanno i benefattori verso di noi: chi dice che in questi momenti in cui si discute la legge sulle Congregazioni il far delle feste pare un controtempo; chi dice che sarebbe conveniente consultare il Nunzio di Parigi. Senza disprezzare queste osservazioni penso che le feste si potranno fare come tributo di riconoscenza a Dio ed anche verso i Benefattori, però converrà evitare quanto si può di far rumore specie sui giornali; sarà pur bene limitarci nelle spese; e se si ha da far venire qualcuno da lontano sarà opportuno che si cerchino tutte le possibili facilitazioni sulle ferrovie: limitando così le cose in guisa che si dia l’aspetto di semplici feste di devozione e di famiglia, spero che nessuno avrà a dir niente e che non occorra chiedere permesso e consiglio in proposito. […]

Ho fatto sentire ai due Ispettori il desiderio di averli entrambi con me a Nizza: spero mi daranno questa consolazione. Questo dico in confidenza te, che dimostri così lodevole desiderio di unione tra il Nord ed il Sud.

Il Signore ci assista: e Maria Ausiliatrice, che già varie volte in questi ultimi trent’anni favorì così visibilmente la Francia, degnisi proteggerla anche in questa grave circostanza. Don Bosco che amava tanto codesta nazione spero intercederà pur esso.

Tuo affezionato in Gesù e Maria

Sacerdote Michele Rua

P. S. Per tua norma io penso di condurre meco il nuovo consigliere professionale Sig. Don Bertello.[461]

Così, tra il 3 e l’8 febbraio, le feste si svolsero in molto decoroso e non ci si dovette rammaricare per conseguenze spiacevoli. Vi parteciparono quasi tutti i direttori delle case. Anche don Bologna, tornato a più miti consigli, si unì ai confratelli il 4 febbraio.

Don Rua arrivò a Nizza la sera del 2 febbraio. I festeggiamenti inziarono domenica 3, sotto la sua presidenza, con una giornata familiare che riuniva ex-allievi e allievi del Patronato Saint Pierre. Il bravo superiore fu estremamente discreto e rimase quasi nell’ombra durante le celebrazioni. Il suo nome non apparve nel programma delle manifestazioni pubbliche svolte tra il 5 e l’8, se non per la riunione dei comitati e degli amici dell’opera, che si tenne all’interno del Patronato nel pomeriggio del 5 febbraio. Le manifestazioni previste in città lo ignorarono.[462]

Nelle mattinate di martedì 5 e di mercoledì 6, don Rua parlò ai direttori delle case di Francia. Nel tempo restante si dedicava all’istituto. Salesiani, allievi ed ex-allievi apprezzavano il suo contatto caloroso, in cui riscoprivano don Bosco, sempre caro al loro cuore. L’ex-allievo che scrisse la cronaca dell’avvenimento lo ripete con insistenza:

Il motivo più grande della nostra felicità, era vivere vicino a don Rua, gustare la sua presenza, gioire della sua conversazione. Nella Società Salesiana sono stati riversati su di lui la venerazione e l’amore che si provava per don Bosco: un consiglio, una parola uscita dalle sue labbra, talvolta uno sguardo sono per il confratello salesiano o per il membro dell’associazione degli ex-allievi, l’incoraggiamento più forte. [...] Quando don Rua attraversava i cortili, faceva fatica ad aprirsi un varco in mezzo ai giovani allievi attorno a lui; facevano a gara a chi gli prendeva la mano, a chi riusciva ad avvicinarsi di più. Il Padre era felice di queste manifestazioni, che tuttavia gli sottraevano tempo prezioso, e solo le esigenze del regolamento o le istanze dei visitatori riuscivano ad allontanarlo da questo. [...]

Durante la giornata c’era un andirivieni interminabile davanti alla porta del venerato Padre: maestri e allievi erano felici di aprirgli i loro cuori. Molte persone venute da fuori fecero ricorso alla sua esperienza e al suo zelo sacerdotale, contenti di ottenere da lui una benedizione. Dopo la preghiera, don Rua diceva ai ragazzi la buonanotte in uso nella Società Salesiana. Gli orfanelli ascoltavano le sue parole con un’attenzione che nulla poteva distrarre. Lo si capiva dal loro atteggiamento immobile, dal loro sguardo fisso su don Rua: si percepiva che consideravano il buon Padre non come un predicatore ordinario, ma come l’interprete di don Bosco.

Ufficialmente le feste si conclusero la sera dell’8 febbraio. Don Rua lasciò l’Oratorio Saint Pierre di Nizza l’indomani mattina. Come spiega il cronista, «i giovani si disposero formando due file lungo le arcate ed egli passò in mezzo. Ebbero un’ultima volta la gioia di baciargli la mano; poi se ne tornarono alle loro occupazioni abituali».[463] Era l’ultima volta che don Rua poteva salutare pubblicamente i suoi figli di Francia.

La legge francese sulle associazioni

Però partiva da Nizza con il cuore piuttosto angosciato sul futuro dell’intera opera francese, di cui aveva appena celebrato il venticinquesimo anniversario. Già da un anno era visibilmente preoccupato. Che ne sarebbe stato se veniva data attuazione ai progetti del governo della III Repubblica sulle congregazioni religiose? Torino voleva trovare una soluzione giuridica preventiva alle misure ostili che gli sembravano imminenti. Il 26 giugno 1900, all’inizio delle vacanze scolastiche, don Rua invitò don Cartier ad andare a Torino in compagnia di due consiglieri laici, l’avvocato Gaston Fabre e il signor Vincent Levrot. Si sarebbero accordati con gli ispettori di Francia.[464] Ma, probabilmente illusi dagli amici politici della destra, gli ispettori Bologna e Perrot, ai quali si era aggiunto Charles Bellamy, superiore dell’Algeria, furono di diverso parere. Don Rua si piegò, almeno provvisoriamente, alla loro opinione. Così, il 19 luglio, scriveva un’altra lettera a Louis Cartier facendo il punto della situazione:

Carissimo Don Cartier, ti ringrazio della sollecitudine spiegata per l'affare delle imminenti leggi. Debbo però notificati che don Bologna, don Perrot e don Bellamy interpellati non furono d’avviso che si debba venir qua od altrove per trattar tale affare. Essi sperano che tali leggi avranno a subire tante modificazioni da divenir quasi innocue o da aprir la via a nuove scappatoie. Perciò non sarà forse necessario disturbar per questo codesti cari amici [Fabre e Levrot], se non si manifesterà qualche urgente bisogno. Ringraziali però per parte nostra...[465]

Visibilmente preoccupato, il 1° agosto tornava sulla questione della riunione torinese che, dopo tutto, poteva svolgersi in forma ristretta.[466] A giudizio di don Rua, la migliore scappatoia – che già era riuscita a don Bosco – consisteva nel rifiutare di lasciarsi assimilare ai religiosi. A rigor di logica, i Salesiani non facevano parte di una Congregazione religiosa, ma di una «Società di beneficenza». Costituivano un’associazione di ecclesiastici e di laici con scopi umanitari. Durante le inchieste condotte a Nizza, sarebbe stato preferibile presentarsi come «Société de prêtres et de bourgeois libres», faceva notare a don Cartier il 3 gennaio 1901, in un francese corretto ma ingannevole, poiché bisognava indovinare sotto il termine bourgeois l’italiano borghesi, cioè cittadini o civili.[467]

Mentre passavano i mesi, la legge del governo francese sulle associazioni prendeva forma. Uno dei progetti, presentato il 14 novembre 1899, distingueva due tipi di associazioni. In linea di massima i contratti di associazione potevano essere conclusi liberamente, per mezzo di una dichiarazione alla prefettura; ma le associazioni, denominate eufemisticamente «piccolo-borghesi», «comportanti la rinuncia ai diritti commerciali» sarebbero state interdette, salvo autorizzazione del governo.[468]

La legge fu promulgata dal Presidente della Repubblica Emile Loubet il 1° luglio 1901. Molto liberale verso la società civile, la legge diventava restrittiva solo nel lungo paragrafo terzo, destinato unicamente alle congregazioni religiose. Queste associazioni ponevano seri problemi allo Stato francese, in quel momento decisamente anticlericale. Vi si leggeva: «Nessuna Congregazione religiosa può formarsi senza un’autorizzazione conferita dalla legge, che determinerà le condizioni del suo funzionamento. Non potrà fondare nessun istituto se non per espresso decreto del Consiglio di Stato. Il Consiglio dei ministri potrà promulgare decreti che ordinano lo scioglimento di una Congregazione o la chiusura di qualsiasi istituto» (art. 13). Gli estensori della legge previdero che le congregazioni avrebbero cercato dei paraventi. Vent’anni prima tal genere di sotterfugi aveva avuto successo, a dispetto dei politici di sinistra. Così la legge si premuniva contro ogni scappatoia: «A nessuno è consentito dirigere, sia direttamente che per interposta persona, un istituto di insegnamento, di qualsivoglia ordine, né insegnare se appartiene a una Congregazione non autorizzata»; i trasgressori sarebbero stati puniti, gli istituti interessati avrebbero potuto essere chiusi (art. 14). «Ogni Congregazione formatasi senza autorizzazione sarà dichiarata illecita. Coloro che ne avranno fatto parte saranno puniti [...]. La pena applicabile ai fondatori o amministratori sarà raddoppiata» (art. 16). Un articolo dichiarava nulli tutti gli atti tra vivi o i testamenti, a titolo oneroso o gratuito, compiuti sia direttamente che per via indiretta, aventi per oggetto di permettere alle associazioni legalmente o illegalmente formate di sottrarsi alle disposizioni della legge (art. 17). Infine, secondo l’articolo 18, le congregazioni esistenti, non autorizzate in precedenza – era il caso della maggior parte delle società religiose, sia maschili che femminili, e in particolare dei Salesiani e delle Salesiane – avrebbero dovuto richiedere, nell’arco di tre mesi, l’autorizzazione per sussistere; in mancanza di ciò, i loro beni sarebbero stati messi in vendita legale, vale a dire confiscati e liquidati.

La tattica salesiana di fronte alla nuova legge

Le autorità salesiane, e don Rua in capo, avrebbero dunque dovuto decidere la condotta da tenere entro il 1° ottobre. I mesi di luglio, agosto e settembre 1901 furono critici per il Rettor Maggiore e gli ispettori francesi. Le decisioni potevano esere prese solo a Torino, sotto il controllo di don Rua. Non far nulla significava condannarsi a morire a breve termine. Dopo la promulgazione della legge, don Rua scrisse a Louis Cartier:

[...] Per ciò che riguarda la nuova legge sulle Congregazioni, converrà che tu prenda esatte informazioni da altre Congregazioni e da persone legali che conoscano a fondo la questione e poi venga qua subito dopo l'Assunta conducendo teco qualche buon amico che crederai più adatto a darci lume sull'affare spinoso […] Procura di venir ben preparato su tutti i punti e combina con don Perrot sul tempo per venire.[469]

 

Le decisioni si facevano urgenti, infatti l’eventuale domanda di autorizzazione avrebbe dovuto essere deposta al più tardi entro i primi di ottobre. Dopo due settimane, don Rua annunciava a Cartier che la riunione era anticipata al 29 luglio e appariva il nome del «caro amico»: «Vedi un po' di trovarti anche tu con l’Avv. Favre [Fabre] e chi d’altri ti parrà opportuno».[470] L’avvocato Gaston Fabre sarà il principale consigliere giuridico di Louis Cartier e, di conseguenza, dei Salesiani, sulla vicenda delle congregazioni durante la prima fase del dibattito.

Nell’estate 1901, si tennero a Torino due serie di riunioni sul problema, sotto l’egida di don Rua.[471] La prima, dal 31 luglio al 2 agosto, sotto l’influsso di personalità amiche di don Bologna, concluse che sarebbe stato necessario richiedere, a nome di tutte le case salesiane del paese (Algeria compresa), l’autorizzazione ad esistere nelle dovute forme, per una Congregazione di don Bosco la cui sede principale sarebbe stata a Parigi. In questo caso don Rua mostrava molta fiducia nei suoi figli francesi, ai quali permetteva di creare un’altra Congregazione diversa dalla sua. Ma, agli inizi di settembre, al momento della seconda riunione, le cose cambiarono.

In quel momento tutti i direttori delle case di Francia si trovavano a Torino per il nono Capitolo Generale. Si consultarono. Emerse un fatto nuovo: il direttore della scuola salesiana di Montpellier, Paul Babled, aveva ricevuto una lettera del vescovo di quella città, mons. de Cabrières (1830-1921), che gli sconsigliava la domanda di autorizzazione. Secondo lui, essa avrebbe causato, se fosse stata accettata, seccature di ogni tipo. Suggeriva la «secolarizzazione» dei salesiani francesi, provvedimento che aveva prospettato la stessa Congregazione dei Vescovi e dei Regolari in una lettera circolare ai superiori delle congregazioni, datata 10 luglio 1901. L’opinione di mons. de Cabrières aveva un certo peso per i Salesiani, soprattutto quelli del Sud della Francia, che da lui erano sempre stati favoriti. Con l’appoggio di Louis Cartier, la sua proposta, vista da tutti come vantaggiosa, ebbe la meglio al momento del voto: all’inizio di settembre i ventidue direttori presenti si dichiararono favorevoli alla secolarizzazione. Don Rua concesse il suo assenso, a condizione di un’approvazione romana. Louis Cartier si recò immediatamente a Roma e se ne tornò con tutte le autorizzazioni possibili del cardinale Parocchi, protettore della Congregazione Salesiana, e del cardinale Gotti, prefetto della Congregazione dei Vescovi e Regolari.

In assemblea i Salesiani francesi prendevano sei decisioni in vista della loro secolarizzazione. 1) Secolarizzazione: tutti i preti e tutti i Salesiani con ordini maggiori (suddiaconi e diaconi) avrebbero presentato domanda di secolarizzazione a don Rua, il quale l’avrebbe concessa. I coadiutori sarebbero stati considerati come dei salariati e avrebbero firmato ogni mese una ricevuta di stipendio (fittizio). Le suore avrebbero indossato abiti civili, modesti, ma non uniformi, per ragioni facili da intuire. Nelle loro case non autonome, cioè attigue alle opere salesiane, sarebbero state ufficialmente stipendiate e nelle case autonome, sarebbero state considerate ufficialmente istitutrici di scuole libere. 2) Noviziati: i due noviziati di Francia (Saint-Pierre des Canons e Rueil) sarebbero stati raggruppati in uno solo e i novizi inviati fuori dal paese. 3) Beni: gli immobili sarebbero sempre stati dipendenti da società civili, mentre i beni mobili sarebbero stati intestati ai rispettivi direttori delle opere. 4) Corrispondenza: le lettere destinate ai superiori o scritte da loro sarebbero state infilate in una doppia busta e spedite a indirizzi concordati. In tal modo pareva facile nascondere l’identità dei corrispondenti che diventavano anziché «padri» o «confratelli», semplicemente «signori», «amici» o «zii». 5) Il Bulletin Salésien avrebbe reso conto della secolarizzazione,[472] rassicurando però i Cooperatori sulla continuità dell’opera salesiana in Francia. 6) Infine, il Catalogo generale della Congregazione non avrebbe più detto nulla delle opere francesi. L’ostilità dei governanti costringeva i Salesiani alla clandestinità.

Ma ecco una nuova e grave disavventura: con una lettera datata 6 settembre 1901, il vecchio cardinale-arcivescovo di Parigi, François Richard (1819-1908) – colui che avrebbe dovuto accogliere nel suo clero don Giuseppe Bologna, provinciale di Parigi e direttore dell’opera parigina – sconsigliava la secolarizzazione a beneficio dell’autorizzazione. L’unanimità raggiunta alla vigilia si ruppe. Louis Cartier non si ricredette; il gruppo dei direttori dell’ispettoria del Sud si strinse attorno a lui per sostenerlo. Anche don Rua continuò a propendere per la secolarizzazione. Nell’ispettoria del Nord, Angelo Bologna, direttore dell’importante casa di Lille e fratello dell’ispetore di Parigi, fece altrettanto, distribuendo ai confratelli i rescritti romani che li secolarizzavano ufficialmente. Ma l’ispetttore del Nord che seguiva una politica di conciliazione con le autorità e voleva rimanere in buoni rapporti con il suo vescovo, si arrese alla formula del cardinale Richard e trascinò progressivamente in questa linea tutta l’ispettoria.

Rientrato a casa per dare l’ultimo ritocco alla sua richiesta di autorizzazione, volle a ogni costo presentare un fronte salesiano unito e, con una manovra dell’ultimo minuto, tenuta nascosta, inglobare il Mezzogiorno nella sua richiesta. Don Bologna tentò persino di forzare la mano a don Rua. Il 1° ottobre, nell’ante-vigilia del giorno in cui la domanda di autorizzazione doveva essere depositata, telegrafava a «Michele Rua, Torino: Domanda se l’autorizzazione deve essere presentata per tutte le case o solo per il Nord». Gli archivi salesiani hanno conservato questo telegramma con la minuta della saggia risposta del Superiore Generale: «Presentate la richiesta solo per il Nord». Don Rua non si ricredeva e rendeva così un immenso servizio all’ispettoria del Mezzogiorno che si sarebbe salvata. Questa specie di sconfessione non disarmò don Bologna, che – senza alcun successo – fece pressione sull’ispettore di Marsiglia. Le tracce del suo intervento, in cui figura il nome di don Rua, appaiono in una lettera che l’ispettote Pietro Perrot scrisse a Louis Cartier il 4 ottobre:

[...] Se vi ho consultato per telegramma oggi, è perché ho appreso da una lettera di don Bologna, arrivata ieri stesso alle 3 che chiedeva, con il permesso di don Rua, l’autorizzazione per il Nord e mi impegnava a fare altrettanto. Voi avete risposto negativamente e credo che abbiate avuto ragione. Ho consultato i direttori solo per scrupolo, visto che il tempo molto limitato non mi permetteva di convocare le persone. Noi non cambieremo nulla delle decisioni prese.

P. Perrot.

L’ispettoria di Parigi seguirà la sua strada. Da Torino don Rua non poteva far altro che osservare gli sviluppi della vicenda. La nuova Congregazione Salesiana, con i suoi diversi centri debitamente registrati, dipendenti tutti dall’ispettoria di Parigi, sembrò in un primo tempo ottenere un trattamento di favore. Mentre il governo sottometteva alla Camera dei deputati – più anticlericale – la maggior parte delle domande di autorizzazione e le suddivideva in blocchi per gradi peggiorativi (monaci insegnanti, monaci predicanti, monaci commercianti...), la richiesta di don Bologna fu dirottata al Senato con quella di cinque altre associazioni religiose. Emile Combes, divenuto presidente del Consiglio dei ministri, se ne incaricò personalmente il 2 dicembre 1902. Ma associò la richiesta salesiana con considerazioni calunniose sullo sfruttamento del lavoro minorile da parte di religiosi membri di una Congregazione straniera e sull’ideologia che essi instillavano ai loro allievi. Era convinto che i Salesiani fossero nocivi al commercio e all’industria privata, bisognava dunque rifiutare la loro richiesta di autorizzazione. I Salesiani (Louis Cartier e Giuseppe Bologna) protestarono con due brevi pubblicazioni per tentare di far cambiare tale opinione. Non ci riuscirono.

Poi l’affare dei Salesiani passò al senato. Malgrado le memorie favorevoli che avevano ottenuto dai loro ex-allievi e amici di Lille, Dinan, Oran e Parigi; malgrado un dibattito molto corretto che si prolungò per due sedute, il 3 e il 4 luglio 1903, e avrebbe dovuto far cambiare gli spiriti se fossero stati meno settari, il voto finale risultò contrario ai Salesiani. Il 4 luglio, novantotto senatori si dichiararono favorevoli all’applicazione della legge, dunque all’autorizzazione, ma centocinquantotto votarono contro. «Il senato non ha approvato», concluse il Journal Officiel. I Salesiani del Nord della Francia erano sconfitti. Durante l’estate sgomberarono tutte le case (Parigi, Lille, Dinan, Mordreuc, Rueil, Ruitz, Coigneux, Saint-Denis). Li troveremo all’estero, in qualche caso con un gruppo di orfani: in Svizzera, in Belgio, a Guernesey, in Italia, e anche nei territori di missione. Altri si rifugiarono nelle case del Mezzogiorno.

Queste case del Sud, i cui membri erano ufficialmente «secolarizzati» e, dal punto di vista legale, in non dipendevano più dall’amministrazione torinese, seguirono ciascuna la sua strada. Le piccole opere (Nizas, Montmorot) scomparvero abbastanza presto. Una di esse (Romans) riuscì tuttavia a farsi riconoscere dal potere civile sotto la copertura di un’amministrazione dichiaratamente «laica». Quanto alle case importanti – Nizza, Marsiglia, la Navarre e Montpellier – malgrado la costituzione di amministrazioni laiche, non riuscirono a sopravvivere che a prezzo di perquisizioni e citazioni in tribunale per ricostituzione illecita di congregazione religiosa, con pagamento di ammende, vendita di beni e altre vessazioni. Ma non si persero d’animo. Durante gli ultimi anni del rettorato di don Rua si trovavano sul territorio francese ancora alcune opere salesiane con veri religiosi e religiose, tutti ufficialmente secolarizzati.

Il nostro Rettor Maggiore non avrebbe potuto fare di più per le case. I problemi più seri gli vennero dagli ispettori Pietro Perrot e Giuseppe Bologna. Furono talmente complicati che conviene presentarli in un apposito capitolo. Così avremo anche modo di approfondire il metodo di governo di don Rua, personaggio chiave nelle loro vicende.


26 – LA CRISI DEGLI ISPETTORI FRANCESI

Il potere sfugge all’ispettore Pietro Perrot

Lo sconvolgimento della Congregazione Salesiana in Francia metteva i due ispettori Perrot e Bologna in una situazione inedita che avrebbe creato grande imbarazzo al Rettor Maggiore. Gli sviluppi, che paiono eccessivi, seguiti alla loro destituzione ci permettono di conoscere meglio il metodo di governo di don Rua, sempre pieno di dolcezza, saggezza e comprensione. Cominciamo dal Mezzogiorno, dove l’affare dell’ispettore Pierrot divenne a poco a poco esplosivo.[473]

Lo sfortunato ispettore di Parigi Giuseppe Bologna aveva ottenuto la nazionalità francese. Dopo al votazione fatale del luglio 1903, poteva dunque vivere in un appartamento di Parigi in qualità di ex-salesiano, per tentare di aiutare i religiosi francesi dispersi ormai ovunque, in Francia, a Guernesey, in Svizzera, in Belgio o in Italia. Non così per l’ispettore di Marsiglia Pietro Perrot, che con tutti i Salesiani italiani della provincia del Sud aveva dovuto rientrare in Italia, suo paese d’origine. Nel 1904, definitivamente esiliato dalla Francia, risiedeva a Bordighera, sulla costa ligure tra San Remo e Ventimiglia, dove, in un luogo chiamato Il Torrione, i Salesiani tenevano una scuola e avevano la cura di una parrocchia. Da là l’ispettore del Sud cercava di seguire i suoi. Ma don Rua comprese che il compito era diventato insostenibile e pensò alla sua sostituzione in territorio francese.

Nel 1904, la chiusura ufficiale della casa di Montpellier rese disponibile don Paul Virion, che ne aveva assunto la direzione dopo la morte di Paul Babled. Paul Virion (1859-1931) era un francese di origine alsaziana, prudente e buon amministratore. Leggiamo nel verbale della riunione del Capitolo Superiore, presieduto da don Rua, tenuta il 12 gennaio di quell’anno: «Il Capitolo decide di incaricare don Virion della visita ai confratelli del Sud della Francia, perché don Perrot per ora non può andare in Francia. Lo si avvisi di questa disposizione».[474] Il potere cominciava a sfuggire dalle mani di don Perrot. Cercò di riacciuffarlo riunendo attorno a sé i Salesiani obbligati all’esilio in Italia. Perché non imitare l’ispettore di Parigi che stabiliva il suo centro ispettoriale nella casa salesiana belga di Tornai, vicino alla frontiera francese? Il 25 giugno 1904, il verbale del Capitolo Superiore registrava la mossa: «Don Perrot propone che per l’ispettoria francese del Sud si destini una parte della casa di Bordighera, al fine di raccogliervi i confratelli che venissero dalla Francia; e che l'educatorio [la scuola] si trasportasse a Varazze», un collegio salesiano vicino a Savona. «Il Capitolo non approva». Si comprende il rifiuto di spostare una scuola, per accogliervi confratelli verosimilmente destinati a un’altra scuola con allievi francesi.

Tra il 23 agosto e il 13 settembre dell’anno 1904, doveva tenersi a Torino-Valsalice un importante Capitolo Generale (di cui riparleremo). Per la prima volta ogni ispettoria aveva eletto un delegato dell’ispettore, membro di diritto del Capitolo. In Francia, Angelo Bologna avrebbe tenuto compagnia a suo fratello, l’ispettore del Nord. Il Mezzogiorno aveva optato per Paul Virion. La scelta conveniva del tutto a don Rua, che gli scrisse a Strasburgo la lettera affettuosa che qui riportiamo:

Torino, 4-VIII-1904.

Carissimo don Virion,

ho appreso che siete stato eletto per accompagnare l’ispettore. Per l’occasione, mi sembra opportuno che passiate qualche giorno a Dilbeck vicino a Bruxelles per controllare i lavori di questo studentato [Virion era stato architetto di professione] e partiate poi con l’ispettore per venire [a Torino]. Qui si parlerà di Montpellier, di Marsiglia e si deciderà sull’avvenire.

Tutti i miei rispetti a vostra madre e ai nostri amici, sui quali imploro da Dio, come su di voi, ogni sorta di bene.

Il vostro amico affezionato,

Sac. Michele Rua.[475]

Don Rua preparava così don Virion a nuove responsabilità.

Don Perrot è esonerato dall’incarico

Don Perrot partecipò regolarmente al Capitolo Generale di Valsalice. Il 3 settembre fu convocato con don Bologna a una riunione del Capitolo Superiore. Si discusse se fosse il caso di chiudere le case della Francia del Sud. Il verbale è laconico. «Il vescovo di Montpellier acconsente che si ritirino dalla sua diocesi i sacerdoti Salesiani. Si prendono varie deliberazioni temporanee per collocare personale nelle varie case ancora esistenti».

Poteva l’ispettore Perrot mantenere ancora un incarico che faticava a svolgere? La maggior parte del Capitolo Superiore pensava che la cosa non fosse possibile. Questa posizione era caldeggiata da don Paolo Albera, direttore spirituale e predecessore di Perrot a Marsiglia. Dieci giorni dopo la chiusura del Capitolo Generale, il Consiglio Superiore si trovò di fronte alla proposta di «esonerare don Perrot Pietro dalla carica di Ispettore della Francia del Sud, poiché sono spirati i sei anni fissati dalle Regole». Il verbale continuava con un’osservazione che bisognerà tenere presente nel seguito della vicenda: «D. Rua vorrebbe che fosse riconfermato. Si passa ai voti segreti. Con quattro voti contro uno D. Perrot è esonerato dall’ufficio di Ispettore. Al suo luogo si decide di porre un semplice incaricato che tenga il suo luogo». Solo don Rua si era opposto alla proposta.

L’incaricato fu Paul Virion che, all’indomani del voto, riceveva un biglietto di presentazione a nome di don Rua e una nota con il timbro della Congregazione Salesiana. Il primo, destinato soprattutto alle Figlie di Maria Ausiliatrice, comunicava loro: «Dato che don Perrot ha concluso il suo mandato di ispettore, è stato incaricato don Virion a sostituirlo negli affari della nostra Pia Società e nella cura del personale di entrambi i sessi che risiede nell’antica Ispettoria del Sud della Francia». La nota invece, datata 27 settembre 1904, dichiarava che il Rev. Paul Virion era incaricato degli affari della Pia Società di S. Francesco di Sales e, come tale, raccomandato da don Rua alla benevolenza di Cooperatori e benefattori delle opere salesiane.[476] Bisognava soprattutto informare i Salesiani. Il 28 settembre don Rua, in una circolare esplicitamente destinata «ai Confratelli Salesiani residenti nella Francia del Sud», annunciava loro che la votazione per la «rielezione» di don Perrot ad ispettore gli era stata «sfavorevole» e che di conseguenza il suo mandato era terminato.[477]

La notizia non fece piacere all’esonerato perché, a suo parere, non veniva proposto nulla di soddisfacente in cambio. Si stancò di aspettare a Bordighera e decise di far sentire la sua voce a Torino. A partire dalla designazione dell’ incaricato don Rua fu bombardato dalle sue proteste. Si conservano dodici sue lettere al Rettor Maggiore per il solo periodo che va dal 20 ottobre al 30 dicembre. Ripetevano che egli avrebbe accettato soltanto un incarico di dignità equivalente a quella di cui l’avevano privato. La direzione di un’importante casa italiana non gli bastava, non se la sentiva di essere messo a capo di una spedizione missionaria in Estremo Oriente, ecc. Dopo la prima lettera, don Rua, che condivideva la sofferenza di don Perrot, fu pregato di non rispondergli più: se ne sarebbe fatto carico il segretario del Capitolo. E il 6 dicembre un verbale del Capitolo Superiore fece il bilancio degli scambi tra Bordighera e Torino:

[...] Don Perrot ha più volte scritto che desidera gli si dia una carica equivalente al grado che  aveva prima come per es.visitatore delle case delle suore della Spagna. Cosa che non gli si potè concedere. D. Rua propone la direzione della casa di Sampierdarena che non fu trovata corrispondente ai suoi desideri; l’assistenza a Napoli degli emigranti italiani, troppo faticosa per la sua salute; la direzione della missione di Cina, rispose che non è più giovane e termina minacciando di ricorrere a Roma. D. Rinaldi dice che hgli si proponga d’andare segretario di mons. Cagliero. D. Rua conchiude che glielo proporrà e poi faccia ciò che crede. Ciò però – aggiunge il redattore – fa vedere che non meritava realmente l’incarico che aveva.

Don Perrot si intestardì. Nel gennaio del 1905 partirono ancora quattro lettere da Bordighera per Torino: due indirizzate a don Rua e due al consigliere Celestino Durando. I suoi reclami innervosivano i capitolari. Nel verbale del 1° febbraio 1905 leggiamo: «Si incarica don Durando di scrivere a don Perrot che il Capitolo non ha più nulla da aggiungere a ciò che ha precedentemente scritto, che faccia ciò che ritiene preferibile». L’ex-ispettore tuttavia non tacque. Il 3, il 5 e il 24 febbraio, poi il 5 marzo, proseguì la sua campagna di riabilitazione con lettere a don Durando. Lo indignava il trattamento del tutto diverso accordato all’ispettore della Francia del Nord, don Bologna, che, malgrado il parere favorevole della maggioranza dei confratelli, aveva rifiutato la secolarizzazione e richiesto l’autorizzazione governativa per la sua ispettoria, perdendo in tal modo tutte le case. Anche lui era stato nominato nel 1898 e la scadenza del 1904 non gli era stata fatale, il suo fallimento non gli aveva fatto perdere né titolo né potere.

L’impetuosa difesa di don Perrot e il suo ricorso a Roma

Siamo nel 1905. Ora l’ispettore «esonerato» reclamava sul suo caso una perizia giudiziale elaborata da due teologi che, a suo modo di vedere, sarebbero stati di fatto i suoi avvocati. Erano Giuseppe Bertello e il teologo moralista Luigi Piscetta. Ottenne da essi un memoriale destinato a creare gravi imbarzzi per don Rua.

Perrot credeva di poter sostenere, di essere stato eletto ufficialmente ispettore solo il 19 marzo, data della conferma canonica del suo mandato per sei anni, dunque era vittima di un provvedimento ingiusto e poteva reclamare il suo reintegro o un posto equivalente. Il giudizio dei teologi, a suo avviso, gli era favorevole su alcuni punti fondamentali che così spiegava: «Non validità della prima nomina [quella del 1898], di conseguenza è valida solo quella del 1902. Necessità di un motivo grave per togliergli l’incarico. Obbligo per il Rettor Maggiore di difendere l’onore del confratello. Consiglio, ad suavius regimen [per un accordo in via amichevole], di fargli conoscere i motivi della sua deposizione».[478] La faccenda diventava spinosa. Don Rua evitò di decidere da solo la condotta da tenere. Il 5 marzo, un verbale del Capitolo definì con cura la posizione dei superiori:

In seguito alle lettere di D. Perrot del 24 febbraio e del 3 marzo il Capitolo incarica il pro-segretario di rispondere: a) ch’egli spontaneamente colla sua lettera del 5 febbraio propose una consulta teologica, ne formulò i quesiti ed espose il nome dei due teologi che desiderava si consultassero conchiudendo che: «Benché questo modo di procedere non mi offra che una guarentigia relativa, tuttavia me ne contento». I Superiori hanno eseguito a puntino i suoi desideri; b) che nella lettera di replica alla risposta data dai due teologi consultati aggiunge: «Ora l’ultima parola al Rev.mo Sig. D. Rua»; c) che il Sig. D. Rua non l’ha voluta dare da solo, ma col suo Capitolo, il quale lo invita a non pensare più all’Ispettorato o ad altro posto di uguale dignità e di rimettersi incondizionatamente all’ubbidienza dei suoi legittimi Superiori.[479]

Don Perrot rispose che non aveva mai disobbedito perché non gli era stato ordinato nulla. Con questa reazione si diede la zappa sui piedi. Il 10 aprile, il consigliere scolastico Francesco Cerruti fu incaricato di proporre (o piuttosto di imporre) a don Perrot la direzione della casa di Oulx, presso la frontiera francese.[480] L’obbedienza partì l’indomani 11 aprile. L’ispettore esonerato, che sognava un ritorno nella gerarchia della Congregazione, la considerò una finzione. L’Oratorio del Sacro Cuore di Gesù, fondato nel 1895 a Oulx, era una casa succursale di tre o quattro confratelli sperduta sulle Alpi. Dunque non si mosse e spedì una dopo l’altra due lettere di protesta a don Rua. Cosicché il 18 aprile, esasperato dalla sua resistenza, il Capitolo gli ordinò, tramite il pro-segretario Gusmano, di sottomettersi entro quindici giorni, vale a dire per l’inizio del mese di maggio.[481] Il poveretto si rassegnò, con la morte nell’anima. Il 4 maggio scriveva da Oulx per comunicare la sua sottomissione.  Ma non si era per nulla rassegnato e metteva in atto la minaccia di ricorso alla Santa Sede con l’invio alla Congregazione dei Vescovi e dei Regolari di una lettera, nella quale chiedeva di essere reintegrato in una funzione analoga a quella di cui era stato ingiustamente privato. La Congregazione romana ne prese atto. Per sfortuna dell’interessato, essa aveva idee molto semplici sull’obbedienza che i religiosi devono ai superiori in virtù dei voti. La casistica di Perrot non piacque. Il suo ricorso fu rispedito con una sola parola sufficientemente esplicita: remittatur (da respingere).

Tuttavia don Rua, che avrebbe preferito nella sua bontà prolungare il mandato dell’ispettore del Sud della Francia, prendeva sensibilmente le sue parti. La Congregazione romana aveva appena rinviato al mittente la sua querela quando, da Torino, giungeva un altro ricorso, accompagnato da una lettera del Rettor Maggiore e dalla consulenza Bertello-Piscetta. Questa contromossa dell’autorità alla quale si era appena dato ragione, che chiedeva si tornasse sopra un giudizio espresso in suo favore, irritò la Congregazione romana. Il dossier passò nelle mani del consultore Gennaro Bucceroni, che, essendo probabilmente l’autore del rinvio della prima querela, sintetizzò la sua soluzione al rappresentante dei superiori salesiani a Roma. Don Tommaso Laureri (1859-1918), presso il Vaticano, ricopriva il ruolo di sostituto del procuratore generale in carica Giovanni Marenco. Il consultore lo convocò e gli espresse il suo parere con una certa brutalità (stando al rapporto che noi conosciamo). Don Perrot era un pessimo religioso e aveva torto marcio; la Congregazione romana avrebbe risposto così a Torino. Il consultore faceva poi un predicozzo alla direzione salesiana, dunque a don Rua in persona. La sua debolezza eccessiva e la costituzione di un tribunale per giudicare la causa avevano sfavorevolmente impressionato la Congregazione romana. Don Laureri era invitato a dire al superiore: 1) di non deve più scrivere a don Perrot, perché così si compromette; 2) di non si dia più alcun incarico a questo confratello, per tutta la sua vita; 3) di non commettere più l’errore di far giudicare le lamentele dei confratelli da consultori Salesiani, ma il superiore prenda la sua decisione e lasci a chi lo desiderava la possibilità di ricorrere alla Congregazione dei Vescovi e dei Regolari.[482] Don Rua ricevette la lavata di capo in silenzio.

Non aveva certamente voglia di ripetere, in favore di don Pierrot, l’errore commesso nel 1901 nell’affare dei direttori-confessori. Del resto, prima ancora dell’ingiunzione romana di non affidargli alcun incarico di direzione, l’aveva già fatto nominare a Bordighera «confessore dei confratelli e aiuto nel lavoro parrocchiale», intimandogli di recarvisi entro quindici giorni. Come al solito, l’interessato tenne duro. Poiché l’obbedienza era stata firmata dal consigliere scolastico Francesco Cerruti, don Perrot ribatté che solo il Rettor Maggiore poteva comandare in tutta la Congregazione. Di colpo il Capitolo decise di non rispondergli che dopo il suo arrivo a destinazione. Alla fine di tre altre settimane, il nuovo confessore di Bordighera non si era ancora rassegnato. Aveva torto pieno, e la sua cocciutaggine faceva di lui un ribelle passibile di pene canoniche. Pesava su di lui il parere di padre Bucceroni. Nel corso delle sedute del 23-25 ottobre 1905, il prosegretario del Capitolo Superiore fu incaricato di informare sull’intera vicenda la Congregazione dei Vescovi e dei Regolari e di scrivere a don Perrot che doveva raggiungere il suo posto prima di Ognissanti. In mancanza di ciò, a partire dal 9 novembre, l’ex-ispettore della Francia del Sud non avrebbe più potuto celebrare la messa. Don Perrot teneva al suo «onore», che riteneva oltraggiato, ma era comunque un buon prete. Rispose al Capitolo che si sarebbe sottomesso, ma avrebbe spedito un terzo ricorso a Roma. Il 31 ottobre tornava a Bordighera.

Il seguito delle sue avventure non riguarda più la nostra storia. Scrisse e stampò un lungo memoriale giustificativo in cui asseriva di aver riconosciuto in don Albera e don Bologna i responsabili della sua destituzione irregolare nel 1904.[483] Gli anni passarono. Nel 1910, perse ogni speranza di essere reintegrato con l’elezione di Paolo Albera come Rettor Maggiore. Nel 1914, approfittando della guerra, ritornò in Francia, nella casa de La Navarre che aveva fondato nel 1878. Confessore stimato, morì serenamente il 24 febbraio 1928.

Don Bologna ricostituisce l’ispettoria della Francia del Nord

Ci occupiamo ora del collega di don Perrot, l’ispettore francese del Nord don Giuseppe Bologna, che visse una crisi analoga tra 1905 e 1906. Uomo attivo, sempre in fermento e fecondo di progetti, non si rassegnò mai alla scomparsa della sua ispettoria avvenuta nel luglio del 1903.

Disponeva di un appartamento a Parigi, in rue Montparnasse, e con l’assenso di Torino poté stabilire la sede ispettoriale nella casa belga di Tournai, presso la frontiera francese.[484] Pensava che le offerte dei benefattori francesi sarebbero tornate. La redazione (torinese) del Bulletin Salésien francese doveva farlo sapere ai lettori. Da qui derivò un litigio con il redattore responsabile che non si piegava alle sue ingiunzioni. Considerava come suoi non solo i novizi e i confratelli sparsi in Francia, ma anche quelli rifugiati in Italia, Belgio, Portogallo o Inghilterra. Il consigliere scolastico generale don Cerruti, che aveva l’incarico dell’insieme del personale, tollerò le sue decisioni nel corso degli anni scolastici 1903-1904 e 1904-1905, ma si irrigidì all’inizio dell’anno scolatico 1905-1906. Questo disordine istituzionalizzato gli dava molto fastidio. Lo fece sapere al Capitolo durante le riunioni scaglionate tra il 2 e l’11 ottobre 1905. Il verbale riassunse così il dibattito: «Don Cerruti domanda se D. Bologna Giuseppe dipende o no dai suoi superiori; osserva che fa tutto per distaccare i confratelli che ha sotto la sua dipendenza dai Superiori. Il Sig. D. Rua vorrebbe che andasse uno del Capitolo ad osservare tutto bene e riferire prima di prendere una decisione definitiva sul conto di D. Bologna».[485] L’ispettore della Francia del Nord, senza saperlo, rischiava di seguire la stessa sorte del suo collega del Sud.

Interrogato sulle sue recenti iniziative, si difese. Aveva impiantato senza permesso una stamperia a Parigi. Certo! Ma era per utilizzare le macchine della casa salesiana di Lille, ormai chiusa. Registrarono la sua spiegazione.[486] I mesi passavano e lui proseguiva, come credeva bene, nella ricostruzione della sua ispettoria a partire dalla casa di Tournai. Aveva bisogno di uomini. A suo avviso, ottanta confratelli dipendevano ancora da lui. Scrissse lettere ai francesi rifugiati in Italia, in Portogallo, forse anche altrove, per richiamarli al servizio nella loro ispettoria d’origine. Gli sembrava indispensabile avere un noviziato sotto il suo controllo, poiché, con grande rammarico, nel 1903-1904 non era stato consultato per le professioni e le destinazioni dei suoi novizi trasferiti in Italia. Dopo la soppressione di un noviziato riservato ai francesi in Avigliana e l’unione di ascritti francesi e tedeschi a Lombriasco, nel 1905 i postulanti francesi del Nord vennero dirottati verso il noviziato dell’ispettoria belga, stabilito a Hechtel. Là si trovavano bene, ma sfuggivano alla giurisdizione dell’ispettore di Parigi. Egli pensava che fosse necessario porre rimedio a questa mancanza.

Il 12 aprile 1906, mise don Rua al corrente del suo ultimo mirabolante progetto. Aveva appena riunito il suo Consiglio ispettoriale in occasione di una visita alla casa di Tournai. Solo don Pourveer, direttore di Guernesey, era assente. La discussione verteva sui principali interessi dell’ispettoria. Approfittando delle buone disposizioni di una ricca signora, i consiglieri presenti progettavano di affittare per 600 franchi l’anno una bella proprietà che comprendeva un’abitazione spaziosa e un grande giardino, situata a Froyennes a 25 minuti di cammino da Tournai, presso la frontiera francese. «Siamo d’avviso di richiamarvi e di mettervi i nostri novizi l’anno prossimo, cioè in settembre». E illustrava i vantaggi della situazione: un orto che avrebbe fornito verdura al noviziato e a Tournai, la possibilità di ospirarvi i «figli di Maria» (le vocazioni adulte), un parco tranquillo e ombreggiato, un tram sotto casa che in dieci minuti portava alla stazione locale e in venticinque minuti all’Oratorio Saint Charles di Tournai. La signora avrebbe favorito certamente i Salesiani, e si poteva sperare di più. Si sarebbe potuto costruire un grande edificio nella proprietà. Le attrezzature salvate da Lille avrebbero costituito l’arredamento. Non si doveva temere nessun nuovo carico economico. Le pensioni versate attualmente per i novizi d’Hechtel avrebbero aiutato a coprire le spese di Froyennes. Avere novizi «sotto mano» sembrava una necessità incontestabile all’ispettore don Bologna. La creazione di questo centro non avrebbe imposto nessuna procedura canonica particolare. Il noviziato di Rueil [soppresso nel 1903] sarebbe stato ufficialmente trasferito a Froyennes, ecco tutto! Il Consiglio prevedeva dieci novizi nel 1906-1907. Don Henri Crespel sarebbe stato un eccellente maestro, ecc. ecc. Don Bologna presentava e magnificava il suo progetto in un manoscritto di in sette paginette.[487]

Il Capitolo Superiore lesse la lettera nell’atmosfera diffidente che le sue iniziative, giudicate fantasiose, avevano suscitato. La sua volontà di creare in Belgio un noviziato per la sua sola ispettoria stava per essergli fatale. Don Rua si consultò in privato con il prefetto generale don Rinaldi e col direttore spirituale don Albera. Poi, il 22 maggio, il Capitolo Superiore valutò la risposta da dare. I meravigliosi vantaggi della situazione, così come li dipingeva don Bologna, non li entusiasmavano: «Alla proposta di D. Bologna di aprire un noviziato vicino a Tournai, il pro-segretario risponda che il Capitolo Superiore non ritiene conveniente; che continui a mandare i suoi novizi a Hechtel dove potranno meglio formarsi e gli attuali ascritti si trovano contenti». Il testo continuava con una frase minacciosa per il troppo intraprendente ispettore: «Don Rua invita il Capitolo a pregare e a vedere se non sia il caso di richiamare D. Bologna in Italia».[488]

La dolorosa destituzione di don Bologna

L’interessato era ben lontano dall’immaginare la tempesta che la sua ultima proposta aveva scatenato. Cinque giorni dopo la riunione torinese, dal suo appartamento parigino, dopo aver evocato i problemi giuridici e finanziari di Lille e di Dinan e aver annunciato che a Parigi si stava proponendo un Oratorio alla sola condizione di avere un prete adatto, annotava nel quinto punto di una lettera inviata a don Rua, che la concorrenza delle Oblate dell’Assunzione aveva reso necessaria la firma del contratto di locazione di Froyennes.[489]

La lettera del pro-segretario giunta nel frattempo non lo convinse a fare marcia indietro. Gli pareva che il Capitolo Superiore non fosse abbastanza informato sulla situazione dell’Ispettoria francese del Nord. Per spiegarla, il 1° giugno 1906 spedì un memoriale di tre lunghe pagine, distribuito in ventun punti e intitolato «Sull’ispettorato S. Denis. Francia del Nord. Noviziato». Era frutto delle sue riflessioni sull’assoluta necessità di disporre di un noviziato per la porpria ispettoria. Scriveva che, innanzitutto, l’ispettoria continuava a sussistere «di fronte alla Chiesa e alla Congregazione». In secondo luogo, aveva un noviziato canonicamente eretto per decreto del 20 gennaio 1902 e stabilito a Rueil, nella diocesi di Versailles. Trasferito in Italia, ad Avignana, questo noviziato era stato soppresso senza spiegazioni. Bisognava trovargli una sostituzione. Sicuro di sé terminava il memoriale con una frase temeraria: «21° - Le ragioni addotte nella lettera del Segretario del Capitolo tendenti al rifiuto dell’autorizzazione domandata sono insussistenti e provano solo che il Capitolo non è sufficientemente documentato per giudicare della convenienza o non convenienza in conoscenza di causa».[490] Con questa reazione poco diplomatica, don Bologna faceva una mossa falsa.

Il Capitolo Superiore non accantonò le sue obiezioni senza riflettervi. Il 12 giugno rinviò a una seduta ulteriore le delibere per l’amministrazione salesiana in Francia.[491] Ma i giochi erano fatti. La mannaia cadde il 19 giugno durante una seduta dedicata interamente al caso di don Bologna. Ecco il verbale di questa seduta decisiva.

Il Sig. D. Rua e D. Albera danno notizie come D. Bologna scriva ai confratelli francesi del Portogallo, dell’Italia e di altri luoghi invitandoli a ritornare in Francia e delle nuove opere che vorrebbe fare. Si richiama alla memoria la relazione fatta da D. Bologna, a nome anche del suo Consiglio, che è poco rispettosa verso il Capitolo Superiore e si decide: 

1. Che la casa di Tournai, appartenente all’Ispettoria Belga e ceduta temporaneamente a D. Bologna, ritorni di nuovo al Belgio.

2. Si nominerà Ispettore della Francia del Sud D. Virion Paolo, finora semplice incaricato dell’Ispettoria: la proposta a votazione segreta diede sei voti su sei.

3. Con sei voti su sei si stabilisce che D. Virion Paolo, Ispettore della Francia del Sud, sia temporaneamente incaricato della reggenza dell’Ispettoria del Nord.

Si aggiunge che, posto ciò, il Sig. D. Rua chiami a Torino D. Bologna, comunichi nel modo che riterrà opportuno la presa decisione e gli affidi quell’ufficio che crederà meglio, ma che converrebbe che nessuno dei Superiori dicesse le ragioni per cui fu tolto da Ispettore, limitandosi a dire che si credette meglio prendere pel bene della Congregazione tale decisione. Ciò eviterà non pochi inconvenienti».[492]

Giuseppe Bologna venne dunque destituito dall’incarico e sostituito da Paul Virion. La conclusione del verbale può sorprendere, ma ha una ragione. Le misure erano provocate dalla condotta scorretta di don Bologna, come si comprende dalla prime righe del verbale stesso. Ma i membri del Capitolo non avrebbero potuto svelarle a chiunque, soprattutto all’interessato. La motivazione del giudizio rimaneva dunque segreta. Torino temeva evidentemente un dibattito complicato, non soltanto con l’ispettore destituito, ma con il suo Consiglio, i suoi confratelli e i suoi amici di Francia. Ma c’era il rovescio della medaglia. Il silenzio, comodo per i superiori, avrebbe invece esasperato il povero don Bologna, obbligato a piegarsi a una punizione, per lui evidente, senza poterne spiegare il motivo a se stesso e agli altri. Farà la voce grossa per tre mesi.

Richiamato da don Rua a Torino, per essere informato delle decisioni prese il 19 giugno, don Bologna vi passò una decina di giorni nel mese di luglio. Il giorno 13 il Capitolo Superiore incaricava il consigliere scolastico don Cerruti e l’economo don Rocca di spiegargli che la casa di Tournai, di cui aveva fatto la sua sede ispettoriale, sarebbe ritornata all’ispettoria del Belgio. Inoltre i confratelli di origine francese, al momento disseminati in altre ispettorie, non dipendevano più giuridicamente da lui in alcun modo. I superiori non ritenevano opportuno sopprimere l’ispettoria della Francia del Nord. Ma, in quella congiuntura, non essendo più necessari due ispettori al paese, l’ispettore del Sud avrebbe retto anche l’ispettoria del Nord.[493] Quattro giorni più tardi, don Cerruti, rendeva conto al Capitolo del colloquio con don Bologna: ne deduceva che si sottometteva e che acconsentiva, anche se a malincuore, a ritirarsi dall’ispettoria della Francia del Nord. Don Rua, che aveva in mano alcuni appunti stilati da don Bologna dopo la conversazione con don Cerruti, non si mostrò così ottimista. Sperava tuttavia di convincere l’ispettore destituito. Piuttosto che una nomina come ispettore in Italia, pareva a don Rua che egli fosse disposto ad accettare una carica all’Oratorio di Valdocco.[494]

Don Bologna si ritenne deposto dall’incarico senza motivazioni esplicite e scrisse una protesta contro la destituzione. Reclamava una procedura formale che giustamente il Capitolo Superiore tentava di evitare. In questo caso il Capitolo volle mostrare la sua determinazione. Il verbale del 27 luglio annuncia: «Il Sig. D. Rua scriverà a D. Bologna Giuseppe che il Capitolo Superiore ha esaminato quanto egli ha scritto e che nonostante unanime ha deciso che D. Bologna, consegnato che abbia a D. Virion quanto di dovere, venga a Torino ove è aspettato per ottobre».[495]

A fine luglio don Bologna rientrò a Parigi deluso e irritato. I membri del Capitolo Superiore avevano rispettato la consegna di riservatezza che era stata loro ordinata. La cordialità dei colloqui ne aveva risentito. L’ispettore deluso non ritrovava più la calorosa atmosfera salesiana che sempre conosciuto a Torino. Quelli che abitualmente lo avevano rassicurato, consolato e tranquillizzato, ora lo tormentavano. Il 29 luglio scrisse in francese una lunga lettera di 15 pagine a don Albera:

Il Consiglio non sembra aver previsto le vaste conseguenze che comporta in questo momento il mio trasferimento. A Torino, mi sono accorto di essere ormai diventato un estraneo. Nei dieci giorni trascorsi alla porta degli uni e degli altri membri del Consiglio, non ho ascoltato di persona alcuna parola paterna. Nessuno mi ha rivelato apertamente il suo pensiero. Che avevo dunque fatto? Non domando favori, ma soltanto l’osservanza esatta di ciò che la Regola, il Regolamento e le Norme determinano e prescrivono. Ho un sacco di cose urgenti da fare il cui ritardo non saprei come giustificare e sarebbe pregiudizievole per molte persone. Se mi è ancora permesso di pregare, lo faccio con tutta la mia anima per chiedere che mi si voglia concedere la pace dell’anima lasciando le cose tali e quali almeno fino alla fine del mio sessennio.

Pensava dunque di essere stato riconfermato per sei anni nel 1904, anno della scadenza del primo sessennio iniziato nel 1898.

Di che cosa veniva accusato? Sarebbe diventato indegno, lui che si era così prodigato per la Congregazione? Che poteva dire ai confratelli? Non l’avrebbero assimilato forse a don Perrot, il ribelle di Bordighera?

Devo far credere, senza motivo, a tutti i nostri confratelli francesi, che mi trovi nelle condizioni di un indegno, come un’espressione di don Rua mi ha quasi lasciato intendere? – Abbiamo già smosso quel D. Perrot –. Non vorrei essergli paragonato e non posso lasciar credere di essere punito, avendo la coscienza di non essermi reso immeritevole, e se si crede il contrario, chiedo di essere convinto da un procedimento. Devono esserci avvisi preliminari; non li ho ricevuti e non credo di averli meritati. È mia ferma intenzione di non dare alcun cattivo esempio ad alcuno. Ecco perché tengo per me tutto ciò che scrivo e non parlo con nessuno di ciò che sono obbligato a scrivere.

Avrebbe dovuto pur giustificarsi un giorno o l’altro, almeno davanti al suo Consiglio, che, come gli comunicava un dispaccio, il 27 luglio stava per riunirsi «per il disbrigo degli affari in corso». Ma, per questa volta almeno, non avrebbe detto nulla. E si sarebbe sforzato di prendere una certa distanza di fronte agli avvenimenti: «Pensando alla situazione che si creerà per i Salesiani nell’arco di 10 o 15 anni, credo che la storia dovrà fare molte forzature per legittimare l’intervento attuale del Capitolo Superiore nella direzione delle cose relative alle ispettorie di Francia. Bisognerebbe lasciargli la loro piccola autonomia secondo le regole».

Quando aveva accennato alla «procedura», Torino immaginò che avrebbe fatto arrivare la sua lamentela a Roma. Ma Bologna non era Perrot. Non voleva addolorare nessuno. Faceva molto rumore, ma era profondamente buono e mise le cose in chiaro nella sua lettera a don Albera:

Se ho chiesto che si avii una procedura per farmi conoscere i motivi che hanno determinato la mia deposizione tamquam indignus, la intendevo all’interno della Congregazione e non ho mai nominato Roma. Vi ho già detto il mio desiderio di non procurare fastidi ad alcuno, ma ho anche il diritto di farmi difendere perché il cambiamento che mi si prospetta, a mio parere, non ha motivi sufficienti e, per me, ha tutta l’aria di una punizione, che non posso accettare senza giudizio.[496]

Faceva molta fatica ad accettare che Tournai, la sede ispettoriale da cui partivano le sue istruzioni ai confratelli francesi disseminati qua e là, fosse così bruscamente annessa alla provincia del Belgio. A suo parere era necessario far vivere le sue case, per le quali gli venivano richiesti dei chierici. Il 1° agosto scriveva a don Barberis: «Vi prego e vi supplico di restituirci quelli che rimangono ancora ad Ivrea. L’anno scorso vi avevo domandato Moitel; non me lo avete lasciato venire e poi, lo avete dato al Midi».[497]

Don Bologna, il 6 agosto 1906, spedì la sua protesta al Rettor Maggiore. Don Rua vi lesse tra le altre cose: «Essendo la casa di Tournai casa ispettoriale e le condizioni attuali le stesse di quelle del momento in cui essa fu assegnata all’Ispettorato, essa non può essergli tolta senza lasciare il tempo necessario per fare ricorso, cioè almeno tre anni dopo la diffida». Dato che il passaggio della casa alla provincia belga equivaleva per il suo personale a un cambio di patria, avrebbe avuto il diritto di esserne consultato. Se era «passato oltre» a questa esigenza, continuava don Bologna, lui stesso avrebbe trattenuto il direttore Patarelli e quattro altri preti francesi. Del resto c’era da temere un fuggi fuggi di questo personale. «Che ciascuno riconosca le sue responsabilità!», questo era il suo parere.

In quel momento, persuaso che la manovra tendesse a far sparire l’opera salesiana in Francia, non voleva nessun Virion al suo fianco prima del termine di un mandato che credeva dovesse prolungarsi fino al 1910. Cosa avrebbe pensato don Bosco di una tale opera di demolizione? «Inutile mandarmi don Virion o chicchessia prima della fine del mio mandato. Mi riterrei un criminale se non adoperassi tutte le mie forze a impedire di completare la rovina dell’opera di don Bosco in Francia. Sento ancora il nostro buon padre, a Marsiglia, esclamare: Che è difficile infrancesare una Congregazione. Don Bosco amava la Francia e la Francia ha reso dei servizi alla sua Congregazione. Don Bosco ha seminato e noi abbiamo irrigato il campo per 29 anni». La rivolta lo attirava, essendo la separazione dal centro del tutto prevedibile dopo gli atti dell’estate 1901 sulla secolarizzazione dei Salesiani francesi. «Ho la terribile tentazione di servirmi delle sue lettere di proscioglimento (sottinteso: dai voti religiosi) e delle lettere di secolarizzazione di Roma per prendere, a nostro nome, la cura delle opere che ci restano ancora in Francia e che abbiamo fatto tanta fatica a creare», scriveva a don Rua. Ma a questo punto si risvegliava in lui lo spirito del religioso leale. «Spero comunque che non mi si spinga fino a tal punto. Se ascoltassi il disgusto e l’indignazione per i procedimenti senza un briciolo di chiarezza e franchezza che sono stati impiegati per condurmi dove sono, temerei di commettere qualche sciocchezza». E terminava la lettera con questa invocazione: «Che l’Ausialitrice e don Bosco mi vengano in aiuto. - J. Bologna».[498]

La sua virulenza non diminuì durante le settimane di luglio-agosto 1906. Si appellò alle norme canoniche per avere spiegazioni sulla sua deposizione e sulla modifica delle ispettorie religiose. Gli sembrava che fosse stata ordita una sorta di complotto contro l’opera salesiana di Francia. «Lo scopo che sembra si voglia perseguire, è quello di distruggere l’opera salesiana in Francia – scriveva testualmente a don Rua il 17 agosto –. Noti questo. Siamo stati ricevuti a Avigliana, poi a Lombriasco, ma furtivamente si sono attribuiti l’autorità dell’ispettore, gli hanno tolto il personale che, fino a quel momento, dipendeva da lui. Don Albera ha compiuto un atto di autorità e tutta l’ispettoria è stata smembrata, e il colpo che si vorrebbe ancora infliggerle finirebbe con l’annientarla definitivamente. Sarebbe veramente un peccato». Denunciava l’accanimento del Capitolo Superiore. «Da dove sono venute tutte le opposizioni che si sono sollevate nel Capitolo Superiore?», domandava. E si rispondeva: «Dal fatto che ho insistito nel difendere gli interessi dell’Opera in Francia, non c’è nient’altro». I tredici paragrafi della sua lettera del 17 agosto al Superiore Generale erano tutti ugualmente duri. La concludeva in tono secco: «Oso sperare che vorranno trovare una giustificazione alla mia modo di reclamare la protezione delle norme della Chiesa, considerando che sembra mi abbiano trattato come se mi fossi reso indegno della Congregazione, cosa che non credo affatto. - J. Bologna».[499]

Torino leggeva e comprendeva le sue recriminazioni. Don Rua e don Albera, i principali interpellati che amavano questo valido collaboratore, soffrivano essi stessi del suo dolore. Questi uomini d’azione non tenevano un diario che all’occorrenza popotrebbe confidarci le loro pene. Ma, preoccupato del buon ordine generale, il Capitolo Superiore sosteneva il suo dovere di regolarizzare la situazione nella Francia del Nord. La questione di Tournai doveva essere sistemata prima dell’apertura del nuovo anno scolastico. In Belgio, l’ispettore Francesco Scaloni (1861-1926) voleva sapere come comportarsi. L’11 settembre, il Capitolo decideva che la casa di Tournai, che solo provvisoriamente e per ragioni particolari era stata separata dalla provincia belga, doveva essere reintegrata al più tardi il 1° di ottobre. «Ad ottenere che tutto sia eseguito nel miglior modo possibile si dice che vada sul luogo D. Albera e faccia anche capire a D. Bologna che i Superiori son fermi nella presa risoluzione».[500] Il direttore spirituale generale in effetti andò a Parigi nei giorni successivi. Don Bologna dirà che don Albera non gli aveva comunicato nulla di nuovo; ma da Liegi, dove proseguì il suo viaggio, con una lettera scritta di suo pugno gli fece sapere chiaramente, poiché il Capitolo Superiore glielo aveva imposto, che i suoi ricorsi contro la destituzione non avevano convinto nessuno.

Il 24 settembre la rassegnazione ebbe finalmente la meglio sull’animo dell’ex-ispettore. Con grande tristezza, l’«umile e miserabile» Giuseppe Bologna espresse la sua totale sottomissione al Superiore Generale. Non riusciva a capacitarsi che il provvedimento di destituzione fosse venuto da lui, infatti, scriveva, «tutto ciò che ho fatto, l’ho fatto su suo ordine». Checché ne fosse stato, se tale era la sua volontà, a partire dal 1° ottobre, si sarebbe comportato come un semplice confratello e non avrebbe esercitato più alcuna autorità nell’ispettoria della Francia del Nord. Tuttavia, fino alla fine dell’anno, avrebbe dovuto sistemare i suoi affari come più gli sembrava opportuno.[501] E Torino percepì l’eco del fermento che ribolliva forte in lui. Il 24 ottobre, don Rua si lamentò con il Capitolo che a Parigi don Bologna volesse vendere tutto con troppa fretta. Promise di scrivergli per chiedergli di lasciare al suo successore tutto come stava, «l’attivo e il passivo». «Che agisca come d’abitudine in altre circostanze quando un superiore è trasferito!», gli intimò il verbale del Capitolo Superiore.[502] Ci si preoccupava per la scomparsa di ogni presenza salesiana a Parigi. Lo testimonia una nota curiosa del Capitolo Superiore, scritta il 5 novembre 1906, sul salesiano Noguier de Malijay che aveva aperto un convitto per studenti. «D. Virion lo sorvegli», vi si leggeva.[503] Quest’ultima frase ci dice che in quel momento, a Parigi, il cambio di direzione era diventato effettivo. L’ispettore del Sud assumeva la «reggenza» della provincia del Nord.

Stoico, don Bologna si presentò a Torino il 1° gennaio 1907.[504] Gli fu assegnata una stanza vicino alla chiesa di Maria Ausiliatrice. Il 4 gennaio celebrò regolarmente la messa nel santuario. Dopo una breve uscita in città, lo si vide rientrare verso le dieci e trenta. Alle undici, fu trovato steso presso il tavolo di lavoro, lo sguardo spento, fulminato, si giudicò, da un attacco apoplettico. Non aveva ancora sessant’anni. Il redattore del Bulletin Salésien ci informa che «Don Rua e i principali superiori della nostra Società non poterono che piangere davanti alle spoglie di colui che avevano imparato ad amare da più di quarant’anni». L’opinione comune documentata dal Bulletin Salésien, attribuì la fine prematura di quest’uomo valoroso alle sue disavventure del 1903: il voto ostile del Senato francese, la chiusura delle case del Nord, la diaspora dei Salesiani e la confisca dei loro beni immobili. «Con supremo dolore, si vide vendere all’incanto queste case di lavoro e di preghiera, di cui ogni pietra aveva per lui una storia. Bisogna aggiungere che emozioni così forti e scosse tali avevano definitivamente intaccato il suo organismo e che la vera e propria causa del suo trapasso, è necessario chiederla a queste angosce che minacciarono senza far rumore la sua esistenza».

Don Rua, don Albera, don Rinaldi, don Cerruti, don Rocca, don Gusmano, membri del Capitolo Superiore che avevano letto o sentito il grido d’angoscia di don Bologna durante i mesi precedenti, non potevano condividere questa spiegazione troppo semplice. Sapevano che la sua destituzione e ciò che credeva (a torto) essere una volontà di demolizione sistematica della sua ispettoria proprio da parte di coloro che avrebbero dovuto sostenerla, l’avevano riempito di amarezza e gli avevano tolto la «pace dell’anima». In questo inizio d’anno 1907, andare a Valdocco non gli restituiva certamente serenità. La prova del 1903 non era riuscita a indebolirlo, fu la crisi del 1906, invece, ad aver avuto ragione della sua vita.

Il governo di don Rua

Il racconto delle disavventure degli ispettori Pietro Perrot e Giuseppe Bologna sotto il rettorato di don Rua ci fornisce preziose informazioni sul metodo di governo di quest’ultimo.

Il suo governo era collegiale. Per nulla autocratico, egli si affidava al Consiglio Superiore. I suoi collaboratori, autentici consiglieri, non si ritenevano mai obbligati ad obbedirgli. Gli capitò più volte di piegarsi di fronte al parere contrario della maggioranza, come nella vicenda di don Perrot, che difese strenuamente. È legittimo pensare che si fosse sottomesso controvoglia al silenzio sui veri motivi della destituzione di don Bologna, origine dei gravissimi tormenti dello sventurato, deposto senza comunicargli le motivazioni. Questo suo modo di governare era del tutto conforme all’idea che don Bosco aveva del Capitolo Superiore nella sua Società.

Il governo di don Rua era orientato al bene comune, al di là degli interessi particolari. L’affare di don Bologna ci indica che, malgrado le sofferenze che potevano causare i suoi provvedimenti alle persone che amava, gli stava a cuore soprattutto il bene generale. L’ex-allievo dei Fratelli delle Scuole Cristiane non amava il disordine. E gli eventi futuri gli avrebbero dato ragione. L’opera salesiana in Francia non soffrì per le sue decisioni nei riguardi di don Perrot e di don Bologna, anzi. Il saggio Paul Virion, nominato al loro posto – che ricoprì il ruolo di ispettore nelle province del Nord e del Sud fino al 1919 – preparò nella tranquillità (e nella sofferenza) la ripresa seguita alla prima guerra mondiale. L’opera fondata da don Bosco in Francia nel 1875, conoscerà nel Nord, a partire dal 1925, mezzo secolo di vera e propria rinascita.

Nella storia dei due sventurati ispettori il governo di don Rua si rivelò ad un tempo fermo, morbido, longanime, saggio e illuminato. Non indietreggiò mai. Mai alcun tentennamento. Procedeva dopo aver riflettuto a fondo e pregato. D’altra parte si può pensare che il direttore spirituale generale Paolo Albera, che conosceva bene la situazione delle ispettorie francesi, un mondo in cui era stato lui stesso ispettore dal 1881 al 1892, lo sostenesse e lo consigliasse. La sua fermezza non era inumana. Don Perrot e don Bologna non avevano l’impressione di essere bistrattati da lui personalmente. Bologna accusò il Capitolo, mai il Rettore. Tutt’al più, nel luglio del 1906, si dispiacque di non ritrovare un tono paterno in don Rua. Ma in questo caso il Rettore si conformava alla politica imposta dal suo Capitolo.

 


27 – I CAPITOLI GENERALI DEL 1901 E DEL 1904

Il nono Capitolo Generale (1901)

Le dolorose disavventure francesi coincisero con i due più importanti Capitoli Generali del rettorato di don Rua, che si tennero a Torino-Valsalice. Essi ebbero un ruolo decisivo nell’evoluzione della Società Salesiana, soprattutto il secondo. Ormai la Congregazione stava assumendo proporzioni tali da richiedere attenzioni e cure specifiche. Nel 1888 si contavano 773 professi e 276 novizi, suddivisi in 64 opere. Nel 1901, i professi erano 2916 e i novizi 742, in 265 opere. Nel 1904, i professi salirenno a 3223, i novizi a 764 e le case a 315.[505] Queste cifre richiedevano strutture e sistemi di formazione nuovi. Don Rua ne era consapevole.

Il nono Capitolo Generale si tenne dal 1° al 5 settembre 1901.[506] Riunì 154 capitolari. Qualcuno aveva messo in dubbio la validità degli atti prodotti dai Capitoli precedenti, inoltre alcune decisioni di questo Capitolo erano state rimesse al giudizio della Santa Sede. Così don Rua dovette attendere fino al marzo successivo per renderne conto ai confratelli in modo soddisfacente.[507] Nella nostra esposizione teniamo conto della circolare del 19 marzo 1902.

Al momento dell’assemblea preliminare, la sera del 1° settembre, don Rua presentò il decreto relativo al ministero delle confessioni, di cui si è parlato sopra (cap. 24). Con tale atto si sottometteva pienamente alle decisioni del Sant’Uffizio. Il 2 settembre fu sollevata la questione dell’opportunità di istituire i Capitoli ispettoriali e sulla composizione dei Capitoli Generali della Congregazione. Questo sarà uno dei problemi lasciati provvisoriamente in sospeso. Fino ad allora i Capitoli Generali si tenevano ogni tre anni e riunivano, oltre ai membri del Capitolo Superiore e agli ispettori, anche tutti i direttori delle case. Il Capitolo Generale auspicò che in futuro i Capitoli Generali si celebrassero ogni sei anni, con la partecipazione dei membri del Consiglio superiore, del procuratore generale della Società, degli ispettori e di uno, tutt’al più due, delegati eletti dai Capitoli ispettoriali. Alla fine del 1901, don Rua interpellò la Congregazione dei Vescovi e dei Regolari a questo proposito e la spuntò. Il 12 febbraio 1902 il procuratore don Marenco poteva spiegare al Capitolo Superiore che la Congregazione dei Vescovi e dei Regolari aveva accettato la proposta che il Capitolo Generale si svolgesse ogni sei anni e che, in ogni ispettoria, si celebrasse il Capitolo ispettoriale ogni tre anni.[508] Di conseguenza, la circolare del 19 marzo 1902 comunicò: «Nel Capitolo Generale del 1904, nel corso del quale si terranno le elezioni, prenderanno parte solo gli ispettori accompagnati da un confratello per ispettoria, eletto dai professi dell’ispettoria».

Ispettori e ispettorie assumevano così maggior importanza. La svolta era stata prospettata da parecchi anni. Già durante una riunione del 12 luglio 1897, don Rua faceva notare ai membri del Capitolo Superiore «che sarà necessario colle debite regole attribuire agli Ispettori e ai loro Capitoli l’accettazione delle nuove case poiché non può il Capitolo Superiore continuare  in mezzo a tanti affari gli esami delle domande, le quali continuano così numerose da cagionare perdite di tempo incalcolabili».[509] Era necessario decentrare. Don Rua approfittò della circolare del 19 marzo 1902 per notificare agli ispettori ciò che ora ci si aspettava da loro. Fu moltro chiaro ed esigente. «In primo luogo – scrisse – procurino essi, con mano ferma, di mantenere in ogni casa la perfetta osservanza delle regole e il vero spirito di don Bosco. Qui sta il cardine di tutto l’avvenire della nostra Società. Se gli ispettori non sono vigilanti, o sono deboli, in breve si introdurrà qualche disordine, l’ispettoria decadrà e tutta la Congregazione ne soffrirà detrimento. Ricordino che questa è forse la più grande responsabilità che essi abbiano avanti a Dio. Infine che nelle loro province, lavorino alla formazione di laureati in teologia, filosofia, lettere, scienze ecc. per ogni ramo di insegnamento e per la predicazione, senza aspettare che tutto gli debba arrivare da Torino». Iniziava la regionalizzazione della Società Salesiana.

La sera del 2 settembre il Capitolo Generale votò importanti decisioni sulla formazione dei chierici. Fino a quel momento, dopo la filosofia, la maggior parte di essi studiava teologia rimanendo nei vari collegi. Ora bisognava creare appositi studentati teologici per migliorarne la formazione. Si approvò la proposta: «Il Capitolo Superiore istituirà studentati di teologia, là dove lo giudicherà opportuno, al servizio di una o più ispettorie». Poiché, come notava la commissione incaricata del problema, con tale decisione le case sarebbero state private dell’importante aiuto fornito dai chierici, si propose che, al termine degli studi filosofici e prima della teologia, essi venissero inviati per tre anni a lavorare nelle singole opere. Il Capitolo diede il suo consenso. Don Rua poteva scrivere nel resoconto del 19 marzo 1902: «Fu deliberato che dopo il corso di filosofia i chierici facciano un triennio di lavoro pratico nelle case della nostra Pia Società, e dopo tale triennio si ritirino un quadriennio nelle case di studentato per attendere seriamente alla teologia, facendovi tutto il corso della dogmatica, sacramentaria, morale ecc.». E ne presentava la ragione: «Era una necessità sentita che i nostri chierici venissero ben formati nelle scienze sacre; ed era tanto più pressante il provvedere, in quanto che, anche da competenti autorità ecclesiastiche si erano già fatte osservazioni in proposito». Infatti la Congregazione romana dei Vescovi e dei Regolari e lo stesso Leone XIII avevano deplorato l’insufficienza della formazione teologica dei Salesiani.

In Congregazione talvolta si attribuiva la colpa di tutto ciò al Capitolo Superiore. Don Rua rispose in modo chiaro a quest’accusa la mattina del 3 settembre. Il suo discorso ai membri del Capitolo Generale merita di essere citato. Come sempre don Bosco gli serviva da modello:

Molte volte il nostro buon Padre esortava anche noi a evitare lo spirito di contraddizione, di critica, di riforma e volle inserire questa raccomandazione tra gli avvisi speciali che egli dà ai suoi figli: evitare il prurito di riforma. Tale raccomandazione ripeto io a voi. La critica verso i Superiori è fatale ad una comunità, specialmente se provenisse dai direttori o dagli ispettori. I sudditi rimangono disanimati dall’obbedienza, diffideranno dei Superiori, come di voi, ne andrebbe di mezzo la vostra stessa autorità. Non solo questa critica verso i Superiori si deve evitare, ma anche contro i propri colleghi e predecessori. Non si critichi il loro operato: informarsi del metodo da loro tenuto; non demolire o riformare fabbricati, se non dopo almeno due anni di constatata necessità. Evitare la critica verso i propri dipendenti. Questo è segno di superbia: pensiamo che essi pure hanno la ragione e gli occhi per vedere e giudicare; è contrario alla carità voler sempre imporre la propria opinione; guardarsi dal rimproverare non ascoltando che il proprio cattivo umore; nel caso prendere le debite informazioni. Don Bosco era poi mirabile nel lodare e mostrarsi soddisfatto dell’opera de’ suoi dipendenti: ciò serviva d’incoraggiamento al dovere e gli conciliava il loro affetto.[510]

Nella stessa mattinata si svolse un dibattito sugli studi universitari dei chierici. Una circolare della Congregazione dei Vescovi e dei Regolari, indirizzata a vescovi e superiori generali (21 luglio 1896), vietava ai chierici secolari e regolari la frequenza delle università prima di aver terminato gli studi filosofici e teologici. Le loro menti potevano essere negativamente influenzate dai libri, dai professori e dall’ambiente. Anche i Salesiani avrebbero dovuto sottomettersi. Ma come ottenere che i confratelli si rassegnassero a riprendere gli studi letterari o scientifici dopo sette anni di abbandono (trienio di filosofia e quadriennio di teologia)? Sarebbero mancati nei collegi salesiani i titoli accademici; si sarebbe dovuto ricorrere a professori esterni, con gravi spese e a svantaggio dello spirito e degli studi dei giovani. La commissione responsabile chiese dunque di approvare un articolo regolamentare così redatto: «I chierici provvisti dei titoli richiesti e giudicati capaci dai loro superiori possono, dopo il corso di filosofia, frequentare gli studi universitari e altri studi superiori». Bisognava dunque chiedere alla Congregazione dei Vescovi e Regolari la dispensa, resa necessaria dalle condizioni speciali della Società Salesiana. Alla questione così posta dalla commissione, su 146 votanti, 131 risposero sì, 9 no, 6 si astennero. Don Rua nelle settimane che seguirono, presenterà la richiesta ben argomentata alla Congregazione romana,[511] la quale, il 21 dicembre concederà per tre anni la dispensa auspicata, limitandola agli individui giudicati adatti all’insegnamento e con tutte le precauzioni necessarie.

In apertura della seduta serale del 3 settembre, don Rua parlò della gioia e della serenità che don Bosco infondeva nella comunità. Ecco perché tutti attorno a lui erano felici:

Come rassomigliarci a lui? Primo mezzo: esattezza nelle pratiche di pietà, senza la quale non possono regnare in noi né nelle nostre case la felicità e la carità. Sbaglierebbe chi confondesse la carità col lasciar correre troppo. Secondo mezzo: far osservare in modo piacevole ed amorevole le Regole. Terzo mezzo: mostrarsi premurosi anche nel promuovere il bene fisico dei propri dipendenti; prevenirli possibilmente nei loro bisogni in caso di tristezza, d’indisposizioni, ecc. Quarto mezzo: non essere troppo tenaci nelle proprie idee. Anche nelle adunanze sentire volentieri il loro parere e seguirlo quando non c’è pericolo di cattive conseguenze. Mostrare una certa qual morbidezza di carattere. Così si va avanti con pace, tranquillità ed allegria.[512]

Il mattino del 4 settembre don Rua fece alcune raccomandazioni sulla «carità fraterna». Riteneva necessario «aiutarsi vicendevolmente e sostenere, aiutare e diffondere le opere nostre e dei nostri confratelli». Portò anche qualche esempio concreto: diffondere le Letture cattoliche, ricorrere ai negozi salesiani per gli articoli da ufficio, pagare i propri debiti alle case salesiane, versare la quota dovuta alle case di noviziato.[513] Come premessa all’assemblea serale di quel giorno credette opportuno esprimere il suo parere sulla modalità di reclutamento dei Cooperatori e dei confratelli. Come già aveva fatto don Bosco, semplificava molto (troppo?) le cose per i Cooperatori.

L’Unione dei Cooperatori stava molto a cuore a Don Bosco e si studiava di diffonderla sempre più. Bisogna imitarlo in questo. Per far questo non è necessario interpellarli; basta mandare il Regolamento. Conosciuta qualche persona bene intenzionata, le si spedisca il diploma. Per non fare duplicati, domandare se si riceve il Bolletino, senza accennare ad obblighi, ma dire che si tratta solo di fare un po’ di bene, senza essere obbligati in coscienza». Bisogna aumentare il numero dei confratelli, continuava don Rua. «Primo mezzo: far stimare le cose della Società, parlare sovente di Don Bosco, delle missioni e di delle altre opere salesiane. Non allettare con false promesse, ma indurre a sentimenti generosi nell’abbracciare la vita religiosa, che è vita di sacrificio. Secondo mezzo: interrogare i parroci coi quali possiamo essere in relazione, per vedere se avessero sott’occhio qualche adulto atto ad essere coadiutore o famiglio; averne poi tutta la cura e con ciò far loro amare la nostra Società. Siamo perciò tutti interessari su questo.[514]

Ogni suo intervento nel corso di questo Capitolo Generale rivela lo spirito ordinato, classificatore, logico di don Rua e la volontà di seguire fedelmente le orme di don Bosco.

L’incoronazione di Maria Ausiliatrice (1903)

Il 17 maggio 1903 «sarà scritto a caratteri d’oro negli annali della nostra Congregazione», annunciava don Rua nella «lettera edificante» ai Salesiani del 19 giugno successivo.[515] In tal giorno infatti il cardinale Agostino Richelmy, su richiesta di don Rua, procedeva alla solenne incoronazione dell’immagine di Maria Ausiliatrice nel suo santuario torinese.[516] La devozione di don Rua a Maria Ausiliatrice era nota. Il 20 gennaio1900, per esempio, aveva scritto ai confratelli: «È dalla intercessione di Maria Ausiliatrice che dobbiamo sperare lume alla mente, forza alla volontà, vigore al corpo, prosperità nelle imprese, e tutti quegli aiuti anche temporali che siano necessari alle nostre case. Ella che ottiene tante grazie ai nostri Cooperatori quante non ne otterrà a noi suoi figli primogeniti, se la invocheremo e la onoreremo veramente da buoni figlioli?».[517]

L’idea dell’incoronazione dell’effigie di Maria Ausiliatrice era venuta a un sacerdote dell’Oratorio nel 1902. Don Rua la fece subito propria. L’impresa non era semplice: per questo particolare rito si richiedeva l’avallo di Roma. Il Rettor Maggiore decise di approfittare del giubileo di Leone XIII, che il 20 febbraio era entrato nel suo venticinquesimo anno di pontificato, avvenimento raro nella storia dei papi. I Salesiani volevano celebrare il giubileo con particolare enfasi. Ispirato da don Rua, il Bollettino Salesiano, lanciò la proposta a tutti i direttori e le direttrici delle varie opere salesiane di aprire tra i loro loro giovani una sottoscrizione che sarebbe confluita in un grande album da presentare al papa con l’obolo di S. Pietro. Nell’album sarebbero stati scritti i nomi dei sottoscrittori per un minimo di dieci centesimi. Ne risultarono due grossi volumi con 70.000 firme e una somma di 12.400 lire. Don Rua decise di presentare tutto personalmente a Leone XIII, accompagnato da una delegazione di giovani. In tale occasione gli avrebbe chiesto la facoltà di far incoronare l’effigie di Maria Ausiliatrice nel santuario di Valdocco.

Partì da Torino a fine dicembre 1902, in compagnia di quattro sacerdoti salesiani, due studenti e due artigiani, scelti dai compagni con scrutinio segreto. L’udienza fu accordata per il 5 gennaio 1903. Ai torinesi si aggregò il procuratore generale Giovanni Marenco con due giovani romani, che rappresentavano, uno l’Oratorio festivo e l’altro l’Ospizio del Sacro Cuore. Dapprima fu fatto entrare il solo don Rua. Espose al papa la ragione della sua visita, che era un omaggio giubilare a nome delle tre famiglie di don Bosco; parlò di un prossimo Congresso dei Cooperatori salesiani, per il quale chiese una benedizione speciale; infine consegnò la domanda dell’incoronazione. Poi vennero introdotti i suoi accompagnatori. Due giovani torinesi presentarono al papa gli album e l’obolo di San Pietro. E la conversazione si svolse in modo sereno. Con grande soddisfazione di don Rua, Leone XIII concluse con queste parole, riferite dalla cronaca: «Il vostro superiore ci dice che è stato fatto tanto bene con la Pia Unione dei Cooperatori, che, grazie ad essa, la fede si mantiene in molti paesi, soprattutto con la devozione all’Ausiliatrice. Per lo sviluppo di questa devozione ci è stata presentata una petizione che accogliamo favorevolmente. Noi abbiamo accordato il favore. Ci riserviamo soltanto di studiare come procedere all’attuazione». Uscendo, don Rua era gongolante.

La questione non andò per le lunghe. Il 17 febbraio arrivò un Motu proprio al cardinale Richelmy arcivescovo di Torino. Il papa decretava l’incoronazione dell’immagine e lo delegava a procedere, secondo il rito, in suo nome e con la sua autorità. Secondo don Ceria, il documento continuava con queste espressioni: «Allorché il diletto figlio Michele Rua, Rettor Maggiore della Pia Società Salesiana, a nome suo e di tutta la salesiana famiglia, ci fece calda e umile supplica perché noi, in quest’anno nel quale celebriamo felicemente il venticinquesimo del nostro Pontificato, volessimo incoronare quella veneratissima immagine, Noi che nulla abbiamo di più caro e di più dolce che il veder crescere ogni giorno più fra il popolo cristiano la pietà verso l’augusta Madre di Dio, abbiamo volentieri giudicato bene di accondiscendere alla domanda».[518] La notizia fu accolta con entusiasmo dalla popolazione. Un comitato di dame si incaricò di commissionare le corone a un gioielliere della città.

Tra il 14 e il 16 maggio, a Torino-Valdocco, si doveva tenere il terzo Congresso Internazionale dei Cooperatori salesiani. L’arcivescovo di Torino ne avrebbe avuto la presidenza d’onore, don Rua la presidenza effettiva. L’evento avrebbe fatto confluire in città una folla di amici e di benefattori di don Bosco.[519] La festa dell’incoronazione venne collocata nella giornata conclusiva del Congresso, il 17 maggio. Lasciamo a don Rua stesso il compito di descriverci quella giornata memorabile.

Dalle ore due del mattino cominciarono ad accorrere alla porta del Santuario i divoti pellegrini. Mai non si è vista una folla così numerosa nella chiesa, sulla piazza di Maria Ausiliatrice ed in tutto il quartiere di Valdocco; e, come si esprime il nostro Em.mo Cardinal Arcivescovo, uno è di tutti il pensiero, una è di tutti la brama, vedere la fronte dell’Augusta Regina del Cielo cinta di ricco diadema. Infine giunge quel momento tanto sospirato. S. E. il Cardinal Richelmy, delegato da Sua Santità a compiere la sacra cerimonia, prima in chiesa alla taumaturga immagine e poi nel piazzale sulla divota statua, impone con mano tremante la gemmata corona sul capo della Vergine Ausiliatrice, e con voce forte ma velata dalla commozione, dall’alto del palco, pronunzia le parole del rituale: Sicut te coronamus in terris, ita a Christo coronari mereamur in coelis [Come noi ti incoroniamo sulla terra, possiamo meritare di essere incoronati da Cristo nel cielo]. A quegli accenti non è possibile frenare la pietà e l’entusiasmo dei fedeli, che scoppia in fragorosi applausi, da ogni petto erompe il grido di Viva Maria Ausiliatrice! ed un coro di migliaia di voci intona la grandiosa antifona: Corona aurea super caput ejus [Una corona d’oro sul suo capo]. Che maraviglia se a tale dimostrazione di fede, di pietà e di amore per Maria, scorressero abbondanti le lacrime dagli occhi? Altro non posso dirvi, poiché le parole non valgono ad esprimere la gioia di quel momento, l’estasi soavissima in cui tutti i cuori sono assorti, il tumulto degli affetti, l’ardore delle preghiere che si innalzano alla dolcissima nostra Madre.

È finita la funzione dell’incoronazione, ma quell’onda sterminata di popolo non si disperde; essa vuole espandere la sua pietà verso la potente Ausiliatrice dei Cristiani, perciò invade il tempio a lei dedicato che risuona per tutto il giorno di canti e preghiere. In sul fare della sera i Torinesi ed i pellegrini si riversano nel quartiere di Valdocco per assistere alla solennissima processione in cui la statua di Maria Ausiliatrice incoronata è portata in trionfo per le vie della città, e per ricevere la benedizione del SS. Sacramento, che viene impartita dall’altare e dalla porta maggiore della chiesa seguita da nuovi fragorosi applausi e dal canto di laudi al SS. Sacramento ed alla gloriosa Regina. Già è notte avanzata e la folla continua a godersi lo spettacolo dell’illuminazione della chiesa, della piazza e di quasi tutta la città di Torino, e sembra non sapersi staccare da Maria Ausiliatrice. Per dieci giorni furono continui i pellegrinaggi dei divoti che venivano anche da lontane regioni a venerare la Vergine incoronata.[520]

Questa relazione commossa dell’avvenimento dimostra quanto l’incoronazione della Vergine Ausiliatrice abbia toccato il cuore del devoto don Rua.

Omaggi di don Rua a Pio X

Il 20 luglio 1903, tra il nono e il decimo Capitolo Generale, morì papa Leone XIII. Il 4 agosto successivo gli subentrò Pio X. Andandogli a rendere omaggio, con l’appoggio del card. Svampa di Bologna, don Rua tentò di ottenere un ammorbidimento del decreto del sant’Uffizio che proibiva ai direttori salesiani di confessare i loro dipendenti.[521]

Il 26 settembre il card. Svampa scrisse al card. Rampolla, protettore della Società Salesiana, una lettera così concepita, della quale diede copia a don Rua:

Non vi nascondo che in questi ultimi anni i Salesiani furono molto mortificati dal noto decreto del Santo Ufficio, che arrivò improvviso e in termini molto gravi, sconvolgendo non poco l’organismo disciplinare che fin dai tempi di don Bosco aveva regolato l’istituto. Don Rua, uomo di virtù non ordinaria, al quale ricorrevano fiduciosamente i figli per confidargli la propria coscienza, e che nelle frequenti visite alle case influiva salutarmente alla formazione degli animi mercè il tribunale della penitenza si vide improvvisamente privato della facoltà di confessare i propri sudditi: e così tutti i superiori (ossia direttori) per riguardo ai propri dipendenti. Questa misura fu presa senza sentire lo stesso don Rua, e senza tener conto della speciale indole dei Salesiani, nei quali i direttori (e con essi il preposito generale) hanno più che altro l’ufficio di Padri Spirituali, rimanendo ai prefetti, ai consiglieri e al Supremo Consiglio il compito delle parti di rigore e di punizione. Io fui testimonio dell’immensa pena provata dai Salesiani in questa penosa circostanza e dell’obbedienza esemplare con cui ottemperarono agli ordini perentori della Suprema.[522]

Il cardinale Rampolla promise di intervenire presso il papa.

Don Rua attese la fine di ottobre per recarsi a Roma e fu ricevuto da Pio X il 3 novembre. Aveva presentato al papa tre richieste che si possono così sintetizzare: a) che lui stesso, durante i viaggi, potesse confessare coloro che glielo chiedevano; b) che, in caso di necessità evidente, i direttori salesiani potessero confessare chi si rivolgeva loro; c) che, in caso di necessità, le Figlie di Maria Ausilitrice e le loro allieve potessero accostarsi a confessori salesiani. Durante un lungo faccia a faccia estremamente cordiale, il papa scrisse in basso al foglietto: Juxta preces; pro gratia. Ex aedibus Vaticanis, die 3 novembris 1903, Pius P.P. X, formula che significa che accordava le grazie richieste.[523]

In questo modo il papa ammorbidiva un po’ gli effetti del decreto del Sant’Uffizio, che per il resto non veniva affatto revocato. Bisogna aggiungere che don Rua si servì di questo privilegio con estrema discrezione e rifiutò di confessare i Salesiani che avevano preso l’abitudine di rivolgersi a lui.

Il decimo Capitolo Generale (1904)

Il decimo Capitolo Generale della Società Salesiana, convocato da don Rua il 6 gennaio 1904 a Torino-Valsalice per il successivo 23 agosto, fu preparato con cura particolare.[524] Avrebbe avuto come moderatore don Francesco Cerruti e per obiettivo principale l’elezione dei membri del Capitolo Superiore, il cui mandato si concludeva a fine agosto; inoltre si intendeva rivedere e ordinare le decisioni prese nei precedenti Capitoli.[525]

Per la prima volta nella storia della Congregazione, il Capitolo Generale sarebbe stato composto soltanto da ispettori e delegati delle ispettorie, non più dai direttori delle case. Questa novità implicava l’organizzazione preliminare dei Capitoli ispettoriali, entità giuridiche fino a quel momento sconosciute nel mondo salesiano. Don Rua dunque, quello stesso 6 gennaio, Firmò anche un fascicoletto di Informazioni e Norme sulla modalità di preparazione del Capitolo Generale.[526] Il documento stabiliva le regole riguardanti la composizione e lo scopo dei Capitoli ispettoriali. Sotto la presidenza dell’ispettore, avrebbero riunito tutti i direttori dell’ispettoria e un delegato per ogni casa, scelto dalle comunità. Il testo di don Rua determinava anche il ruolo di questi Capitoli: innazitutto, dovevano eleggere il delegato ispettoriale e il suo supplente al Capitolo Generale; in secondo luogo, per l’Italia, avevano il compito di nominare il maestro dei novizi e i membri della commissione incaricata dell’ammissione ai voti; infine dovevano formulare proposte da presentare al Capitolo Generale.

La preparazione del Capitolo Generale si svolse senza intoppi. Tuttavia, sulle trentacinque ispettorie allora istituite canonicamente, solo trentadue inviarono i loro rappresentanti a Torino: mancavano le ispettorie di Equador, El Salvador e degli Stati Uniti, i cui rappresentanti erano assenti per malattia o per ragioni di forza maggiore. Durante la seduta preparatoria, la sera del 23 agosto, don Rua suggerì che il primo atto dell’assemblea fosse l’invio di un telegramma di sottomissione filiale al santo Padre, per implorare la sua benedizione sui lavori capitolari. Il telegramma, redatto da don Bertello, fu spedito immediatamente.[527] Poi don Rua salutò paternamente i capitolari: «Il pensiero di don Bosco che fu veramente l’uomo di Dio e della carità, di quella carità che deve penetrare tutte le nostre discussioni, mi ha spinto a convocare questo Capitolo qui, a Valsalice, dove riposano le sue venerate spoglie». E raccomandò di trattare le varie questioni con calma e carità, senza offendere mai alcuno dei presenti o degli assenti, «certi che è stato mosso dalle migliori intenzioni».

Preliminarmente si decise anche sulla partecipazione attiva al Capitolo Gnerale dei vescovi Cagliero e Costamagna, che arrivavano dall’America del Sud. Così, dopo la verifica e la soluzione di alcuni casi dubbi, il numero globale dei capitolari raggiunse le sessantacinque unità.

Il 24 agosto si fecero le elezioni dei componenti del Capitolo Superiore, che riconfermarono tutti i membri in carica. Il giorno seguente il Rettor Maggiore comunicò la notizia ai Salesiani del mondo intero, raccomandando loro vivamente di continuare a pregare «per il felice risultato di uno dei fatti più importanti per la nostra Pia Società».[528] In effetti, il Capitolo si dedicava al difficile problema della classificazione delle delibere anteriori, distinguendole in articoli detti «organici», aventi valore costituzionale, e in articoli puramente regolamentari, problema che d’altra parte non poté essere condotto a buon fine. Si redasse, ad experimentum, un Regolamento dei Capitoli Generali, una nota regolamentare sulle Ispettorie o Province, un Regolamento per i Noviziati e gli Studentati filosofici e un Regolamento-Programma per gli Studentati teologici.[529] Il Capitolo venne terminò il 13 settembre, dopo 33 assemblee generali.

Don Rua intervenne frequentemente nel corso delle assemblee. Come dicono i testimoni, tutti lo ascoltavano religiosamente. Purtroppo di questi interventi, sempre brevi secondo il suo stile, ci sono rimaste solo le note schematiche dei segretari e quelle che egli stesso si appuntò giorno per giorno in un quadernetto autografo dal titolo Raccomandazioni fatte durante il Capitolo Generale X.[530] Ne citiamo qualcune, che ci sembrano maggiormente rappresentative delle sue preoccupazioni.

Don Rua intervenne nel pomeriggio del 25 agosto sull’uso della lingua italiana. Invitò i confratelli non italiani a studiarla, per tre ragioni: «a) perché questa è la lingua della Casa Madre, del nostro venerato padre D. Bosco e del Papa; b) perché sarà un mezzo per poterci intendere più facilmente nelle future adunanze del Capitolo Generale; c) perché questo faciliterà le relazioni dei sudditi coi Superiori Maggiori, non potendo sempre essi né visitarli personalmente né imparare la loro lingua. Insistere perché i superiori delle case all’estero, inculchino ai loro dipendenti che scrivano ai Supeiori Maggiori in italiano o in latino: da questo si possono eccettuare quelli provenienti dall’Italia, i quali ad addimostrare il loro profitto potranno pur scrivere nella lingua della nazione ove si trovano». Concluse dicendo che «questi erano pure i desideri del nostro venerato Padre e Fondatore».[531]

Il 26 agosto, in mattinata, raccomandò agli ispettori di accettare solo con molta prudenza le cappellanie e altri simili impieghi fuori casa. Li si accolga solo in mancanza di preti del posto capaci di assolvere tali funzioni, ma li abbandoni immediatamente qualora un sacerdote secolare sia in grado di occuparsene. Si eviteranno così le gelosie del clero locale e la negligenza negli interessi interni della casa salesiana. Durante la seduta del pomeriggio don Rua raccomandò ai capitolari di prendere in attenta considerazione le lettere mensili o quelle straordinarie del Capitolo Superiore ed anche tutti gli stampati da esso inviati alle case.

Il 31 agosto pomeriggio, don Rua intervenne diffusamente sulle Conferenze di S. Vincenzo de’ Paoli. La Società Salesiana deve molto a quelle istituzioni, notava: «Per esse entrarono i Salesiani in Francia e per esse furono e sono efficacemente aiutate molte opere salesiane in particolar modo nelle Americhe. Il nostro caro padre D. Bosco, poi, ne era affezionatissimo di quest’opera e di essa ci parlava con vero entuasiasmo. Mons. Davide dei conti Riccardi soleva dire che coloro che fanno la limosina giudiziosamente son pur sempre i Signori delle Conferenze, perché non hanno solo di mira il bene materiale ma anche e soprattutto lo spirituale, e non si contentano di fare una limosina, ma essi stessi visitano i poverelli di Cristo e s’interessano delle loro miserie. Raccomanda quindi agli Ispettori che se le prendano proprio a cuore e le diffondano ovunque».[532]

In quell’anno (1904), la questione modernista animava le discussioni degli intellettuali cattolici. Il 16 dicembre 1903 il Sant’Uffizio aveva messo all’Indice quattro libri del prof. Alfred Loisy. I sostenitori «moderni» del professore e i loro avversari conservatori si affrontavano sulla storicità dei vangeli. I progressisti mettevano in discussione le posizioni del papa e della sua curia, giudicata ottusa. In questo contesto comprendiamo perché, nel corso della seduta pomeridiana del 2 settembre, don Rua sia intervenuto sul rispetto dovuto al papa e alle autorità romane: «Raccomandò  in modo speciale agli Ispettori che nelle loro visite, in tutte le mute d’esercizi, nelle conferenze, sermoncini della sera, ecc., inculchino ai confratelli e giovani l’amore verso il Sommo Pontefice Vicario di Gesù Cristo e verso le Congregazioni Romane che ne sono l’organo. Il nostro venerato padre D. Bosco soleva dire: – Diffidate di coloro che vengono a parlarci contro il papa e le Congregazioni romane. Teneteli per nemici della Chiesa e delle anime – D. Bosco poi fu sempre ossequientissimo verso il S. Pontefice e dimostrò sempre questo rispetto verso il papa. Siamo dunque anche noi degni figli di un tanto padre».[533]

La mattina del 5 settembre, mentre si eleborava il regolamento degli ispettori, don Rua raccomandò loro di prendersi a cuore la formazione dei direttori: durante le visite, si intrattengano con i nuovi direttori tutto il tempo necessario; ricevano i loro rendiconti e dopo la conferenza regolamentare a tutto il personale della casa, parlino ancora separatamente con essi e diano i consigli opportuni con molta paternità. Cerchino soprattutto di infondere l’amore della santa regola e il rispetto scrupoloso delle più piccole osservanze. Rileggano insieme a loro il regolamento dei direttori e verifichino se lo osservano. Poi leggano anche gli altri regolamenti sui punti che li riguardano e facciano, a partire da quelli, le osservazioni più opportune per il bene della casa. Si informino se i direttori visitano regolarmente le classi e i laboratori, se controllano i registri. Si accertino che tengano ai confratelli le conferenze regolamentari e adempiano tutto ciò che è necessario nelle case salesiane. In particolare verifichino se i direttori si prendono sufficiente cura del personale: infatti il bene dei confratelli è il dovere principale di ogni direttore.

Don Rua tornò sull’argomento il pomeriggio del 5 settembre, questa volta rivolgendosi ai direttori: «Il direttore non sia troppo austero né troppo condiscendente. Alcuni credono falsamente che per guadagnarsi l’animo dei propri dipendenti sia necessario largheggiare con loro di passeggiate, merende, ecc. Si segua una via di mezzo e non s’introduca nessun abuso. Così sarà mantenuto lo spirito del nostro dolcissimo fondatore e padre».[534] Ritroviamo, in queste istruzioni, il don Rua «regola vivente» e il visitatore attento delle case affiliate quando era prefetto generale della Congregazione.

La Congregazione Salesiana era ormai divenuta internazionale. Il 6 settembre don Rua se ne preoccupò concretamente: «Collo scopo di mantenere meglio la pace e la tranquillità nelle case ed allontanare il malumore, incaricò specialmente gli Ispettori che impediscano le dispute di nazionalità. Non si vanti mai la propria nazione con disprezzo delle altre. In tutte c’è del bene e del male. Raccomandò poi che nelle nostre case non si fumi. D. Bosco non voleva proprio che si fumasse, perché diceva che con il fumo vengono poi altre cose. Così pure si moderi anche l’uso di prendere tabacco [da fiuto]. Chi avesse già contratto quest’abito, se non può assolutamente abbandonarlo, se ne serva in segreto. Soprattutto si eviti di offrirne ad altri».[535]

Il 9 settembre, prima di passare all’ordine del giorno, il regolatore diede la parola a don Stefano Trione sulla questione degli emigranti italiani. Don Trione concluse con due auspici: 1° accattivarsi la simpatia delle colonie italiane con la diffusione della lingua patria e l’istituzione di segretariati degli emigrati, di cappellani di porto ecc.; 2° istituire una commissione permanente dell’emigrazione. Don Rua plaudì alle proposte di don Trione, che nominò sul campo presidente dell’auspicata commissione, con l’incarico di sceglierne i membri in accordo con il Capitolo Superiore: «Desidero tanto, tanto che si lavori in favore di questi nostri italiani. Non bisogna scoraggiarsi, con la costanza si riesce a tutto: insegna [l’esempio di] don Coppo a New York. Il Signore forse ha disposto che i nostri poveri emigrati, insieme coi polacchi ed irlandesi, siano i seminatori e i conservatori della fede nelle vergini nazioni americane, e questo per mezzo dell’opera nostra fra gli emigrati. Raccomanda inoltre di avere cura degli emigrati delle altre nazioni».[536]

Quello stesso giorno don Rua si pronunciò contro le vacanze in famiglia. È solo dopo parecchi anni di assenza che l’ispettore può permettere al confratello di passare otto giorni, al massimo, in famiglia. Eccezionalmente, si potrà autorizzarlo a passarvi quindici giorni. L’ispettore prenda nota di queste autorizzazioni e si informi sugli abusi. Se è il caso, ne prenda atto e li corregga senza indugio.

Il lungo Capitolo Generale si concluse con un inno di riconoscenza per quanto si era riusciti a fare. Scriverà don Rua nella sua circolare: «da venti giorni eravamo riuniti e gli ispettori erano attesi con impazienza negli istituti da loro dipendenti, in particolare per gli esercizi spirituali. Tuttavia, tutti i membri del Capitolo Generale restarono a Valsalice fino alla sera del 13 settembre quando si cantò il Te Deum».

Le conclusioni del decimo Capitolo Generale

Don Rua attenderà fino al 19 febbraio successivo (1905) per consegnare ai confratelli i risultati del decimo Capitolo.[537] Si era dovuta attendere l’approvazione delle autorità romane. Don Rua si complimentò per la qualità dei dibattiti dell’assemblea: «M’è dolce conforto poter affermare che una calma imperturbata, una carità veramente fraterna ed un’esemplare accondiscendenza in caso di pareri diversi furono le note caratteristiche di quest’ultimo Capitolo Generale, onde uno dei membri più anziani ebbe a scrivermi che tali adunanze erano state veramente scuole di sapienza, di umiltà e di carità».

Nella circolare spiegò anche che il 3 settembre, alla presenza del cardinale Richelmy, era  stata fatta in forma solenne l’apertura della bara di don Bosco per la ricognizione prevista dai processi canonici, e la contemplazione dei suoi tratti aveva profondamente toccato i cuori dei capitolari. I capitolari temevano che l’autorizzazione non giungesse in tempo e così non si potesse rivedere il viso tanto amato di don Bosco, sepolto vicino alla sala delle conferenze. Ma ci fu che provvide, così quel giorno tutti i membri del Capitolo Generale ebbero l’opportunità di contemplare a loro agio le spoglie mortali di don Bosco. «Infatti – scriveva don Rua – il feretro venne trasportato nel gran salone al pian terreno del nuovo fabbricato. Quivi dopo essersi celebrate molte messe in suffragio dell’anima sua benedetta, verso le nove e mezzo, venne scoperta la bara, e gli occhi di oltre duecento persone si affissarono nella salma del nostro buon Padre, che per circa diciassette anni non avevano più visto. Fu trovato assai ben conservato; era intatta la pelle e la carnagione del volto e delle mani. Erano però scomparsi quegli occhi che tante volte ci avevano mirato con ineffabile bontà, e stava pure alquanto aperta la bocca per l’abbassamento della mandibola inferiore; del resto la figura di don Bosco conservava ancora quasi tutti i lineamenti di quella fotografia che era stata presa il giorno della sua morte. Ci rallegrammo senza dubbio per averlo trovato in tale stato, ma ad un tempo stesso ci afflisse non poco il vedere che la morte passando aveva pur lasciate tracce profonde in quelle venerate sembianze».

Secondo don Rua, il principale risultato del Capitolo consisteva nelle decisioni prese a riguardo delle ispettorie. Il 27 gennaio 1902 erano state istituite 31 ispettorie.[538] La Società salesiana, fino a quel momento fortemente centralizzata alle dipendenza del Capitolo Superiore, si regionalizzava a vantaggio di tutti. Don Rua notava nella sua circolare:

Con ragione fu considerato quale un gran progresso nella nostra Pia Società l’aver istituite le ispettorie che la Santa Sede ha canonicamente approvate. È immenso il bene che si spera dal trovarsi raggruppati insieme gli istituti di una stessa regione, e dall’essere i medesimi posti sotto la speciale sorveglianza di un Superiore che rappresenta il Rettor Maggiore. Ben persuasi dell’importanza di questa divisione, i membri del Capitolo Generale X fecero un loro studio particolare dei doveri degli ispettori e delle relazioni che debbono esistere fra loro e le case che ne dipendono. Ne risultò un breve regolamento che mi sono affrettato di spedire a ciascuna casa, anche prima di averne ottenuta l’approvazione dalla S. Sede, affinché serva per ora come guida, riservandoci ad introdurvi in seguito quelle modificazioni che la S. Sede giudicasse opportune. Pertanto converrà che in generale i direttori facciano ricorso agli ispettori ogni volta che abbisognassero di personale, di qualche soccorso pecuniario particolare, o incontrassero difficoltà colle autorità ecclesiastiche o civili. Non dubito che gli ispettori si daranno la massima premura di venir in aiuto ai loro dipendenti, e se talora non lo potessero fare, assicureranno almeno i loro direttori che faranno istanze presso il Capitolo Superiore per ottenere ciò che essi medesimi non possono dare. Agli ispettori parimenti si chiederanno quelle licenze che i singoli confratelli crederanno di dover domandare. Faccio i voti più ardenti perchè per parte degli Ispettori vi sia ogni impegno di praticare quella dolcezza ed affabilità di cui D. Bosco ci fu maestro, e per parte loro i confratelli si avvezzino a ravvisare nei superiori la persona di Gesù Cristo; per tal modo si stabiliranno tra superiori e dipendenti quelle intime e cordiali relazioni, che assicurano il buon governo della Congregazione e la pace di ciascun socio.[539]

Il decimo Capitolo Generale rese la Congregazione Salesiana più flessibile, più forte e sempre più attaccata a don Bosco. La decentralizzazione del governo fu l’opera più importante del rettorato di don Rua. Così la Congregazione sarà in grado di affrontare, con meno rischi, l’espansione in paesi di cultura non italiana.


28 - LA PACE SOCIALE

“Rerum novarum

Il periodo del rettorato di don Rua è caratterizzato dalla pubblicazione e dall’applicazione della celebre enciclica di Leone XIII Rerum novarum, datata 15 maggio 1891.

In quegli anni che chiudevano il secolo prendeva incremento l’industria, le città e le borgate operaie si moltiplicavano, mentre gli stati liberali stentavano a promulgare leggi sociali. La recessione degli anni 1885-1890 aveva messo in forte evidenza l’urgenza della cosiddetta «questione sociale»: la classe operaia stava prendendo coscienza della propria forza e si andava organizzando di conseguenza. Nel 1884 in Francia era stato finalmente autorizzato il sindacalismo. Il socialismo si stava sviluppando con la fondazione, nel 1890, della seconda Internazionale Operaia. Da parte loro i cattolici erano soprattutto preoccupati dalla questione politica: bisognava lottare per la restaurazione dell’Ancien Régime o era necessario accettare un regime liberale laico? Sul piano sociale molti si accontentavano di attenuare i difetti del liberalismo attraverso le opere di carità il «paternalismo» delle classi superiori. Indubbiamente don Bosco, grande predicatore della carità e dell’elemosina dei ricchi verso i poveri, e i suoi amici conservatori e «contro-rivoluzionari» erano rimasti fermi a questa visione statica della storia.

La promulgazione dell’enciclica Rerum novarum mise nuovo fermento nel mondo cattolico. Il testo si divideva in quattro parti: critica del socialismo; dottrina della Chiesa; ruolo dello Stato; importanza delle libere associazioni. Ne derivavano alcuni orientamenti fondamentali:

1) La società economica deve poggiare sul diritto alla proprietà privata, sulla libera iniziativa e sul mercato, al contrario del socialismo che aprirebbe «la via agli asti, alle recriminazioni, alle discordie: così le fonti stesse della ricchezza, inaridirebbero, tolto ogni stimolo all’ingegno e all’industria»; infatti, «la comunanza dei beni proposta dal socialismo […] nuoce a quei medesimi a cui deve recar soccorso» (n. 12).

2) Il capitalismo non può essere lasciato a se stesso: l’economia deve essere sottomessa all’etica. Bisogna rifiutare il semplice «lasciar fare, lasciar passare», il libero gioco delle pretese «leggi naturali», come se una «mano invisibile», cara a Adam Smith, assicurasse automaticamente il miglior risultato sociale. «L'operaio e il padrone allora formino pure di comune consenso il patto e nominatamente la quantità della mercede; vi entra però sempre un elemento di giustizia naturale, anteriore e superiore alla libera volontà dei contraenti» (n. 34). C’è una «giusta mercede», ed è la giustizia che deve dominare l’economia.

3) Prima incarnazione di questa disciplina morale è l’azione legislativa dello Stato, il cui intervento è soprattutto atteso dai più deboli. «Il ceto dei ricchi, forte per sé stesso, abbisogna meno della pubblica difesa; le misere plebi, che mancano di sostegno proprio, hanno speciale necessità di trovarlo nel patrocinio dello Stato» (n. 29).

4) Per evitare lo statalismo, bisogna tornare a un sistema di corpi intermedi. Nell’enciclica la presentazione di associazioni adattate al mondo contemporaneo è molto dettagliata. Tuttavia l’ordine corporativo non è presentato come obbligatorio: i cittadini hanno «il libero diritto di legarsi in società» e di «scegliere per i loro consorzi quell’ordinamento che giudicano più confacente al loro fine» (n. 42). E soprattutto, la scelta del sindacalismo resta aperta; infatti, scrive Leone XIII, «vediamo con piacere formarsi ovunque associazioni di questo genere, sia di soli operai sia miste di operai e padroni, ed è desiderabile che crescano di numero e di operosità» (n. 36).

Il Rettor Maggiore don Rua, era uomo di disciplina, non aveva nulla del rivoluzionario, ma tenne sempre a mente le lezioni di Leone XIII sulla tutela dei poveri lavoratori e sul giusto salario.

I lavoratori francesi pellegrini sulla tomba di don Bosco (1891)

Sotto l’impulso di Léon Harmel, la «Francia del Lavoro» volle subito scendere a Roma per ringraziare Leone XIII della sua enciclica sulla condizione operaia.[540] Proponendo il pellegrinaggio, il «bon Père» di Val des Bois aveva scritto nella circolare del 2 agosto 1891: «Non siamo forse commossi nell’udire il toccante appello di Leone XIII? Non siamo forse pronti a tutti i sacrifici per portare consolazione al suo cuore, per testimoniare di fronte al mondo la nostra obbedienza alla sua voce? Se qualcuno ci obietta la spesa, noi gli ricorderemo la scena di Maria Maddalena. Partiamo numerosi, andiamo da Gesù Cristo che vive nel suo Vicario. È lui che ci salverà con la giustizia e l’amore».

Léon Harmel, grande amico di don Bosco e di don Rua, previde per i pellegrini francesi diretti a Roma una tappa a Torino, sulla tomba di don Bosco. Il 1° settembre 1891 si era recato a Valdocco, ci dice la cronaca, per «stabilire in modo definitivo e preciso i particolari del pellegrinaggio dei sette treni di Parigi alla tomba di D. Bosco», che si trovava a Valsalice.

Tutto venne organizzato a puntino. Sotto i grandi alberi del cortile inferiore di Valsalice, un ristoratore di Torino aveva sistemato un «refettorio campestre», protetto dal sole e dalle intemperie per mezzo di una grande tenda. C’erano quattro lunghi tavoli apparecchiati, disposti perpendicolarmente alla tomba di don Bosco, davanti alla quale si era sistemato «il tavolo d’onore, che occupava tutta la parte anteriore delle file longitudinali». Era là che i pellegrini avrebbero potuto rifocillarsi nella loro sosta tra Parigi e Roma. «Molto tempo prima, ci dice ancora la cronaca, don Rua stesso si  volle occupare, e con una sollecitudine affatto paterna, di organizzare il meglio che si poteva un ricevimento degno di Leone XIII e della Francia. E ai 17 di settembre, giorno in cui era atteso il primo treno di Parigi, egli volle interrogare ciascheduno di coloro, ai quali aveva affidato l’esecuzione dei suoi ordini, affine di assicurarsi se nulla si era lasciato al caso. Infine, verso le 2, si recava a Valsalice, ove vide con piacere interpretati appieno tutti i suoi più piccoli desideri. I pellegrini potevano venire: tutto era pronto per festeggiarli».[541]

In effetti i 464 pellegrini di questo primo viaggio trovarono tutto organizzato alla perfezione: alla stazione di Porta Nuova prima, poi lungo il tragitto fino a Valsalice, al momento dell’accoglienza in musica da parte delle delegazioni operaie torinesi, che formavano sue ali sotto il porticato della casa e la funzione in cappella col canto del Magnificat … Nel luogo del pranzo, sopra il tavolo d’onore, un grande pannello annunciava: «Alla Francia del lavoro, i figli di don Bosco. Salute, riconoscenza, rispetto». Il pasto fu naturalmente intervallato da vari discorsi. Disponiamo soltanto di un riassunto piuttosto scarno dell’intervento di don Rua. Eccolo:

Ricordando che il lavoro e gli operai, considerati sotto il punto di vista cristiano, furono sempre il centro delle preoccupazioni sacerdotali di don Bosco, e che divennero la principale ragione di essere della sua Pia Società, don Rua si rallegra di vedere il fiore degli operai di Francia sulla tomba di don Bosco. La preghiera di operai venuti così da lontano, stringerà ancora di più i legami che uniscono alla Francia don Bosco e tutte le opere nelle quali egli lasciò l’impronta della sua fede. Don Rua prega in seguito i pellegrini di umiliare ai piedi del Sovrano Pontefice l’omaggio della profonda venerazione e della divozione senza limiti della Pia Società Salesiana verso della sua sacra persona. Egli termina invocando, presso di loro e dei loro fratelli italiani, il suo titolo di presidente onorario di una sezione dei Circoli Cattolici di Torino, per acclamare con tutta l’effusione del cuore: Evviva Leone XIII. Evviva il papa degli oparai![542]

Alle 17 tutto il gruppo ripartì verso la stazione. La banda suonò per la sfilata dei pellegrini, che fecero «una vera ovazione ai nostri giovani artisti».

Scene identiche si ripeterono al passaggio di altri treni di operai cattolici pellegrini a Roma, nel corso dell’autunno 1891. Il 15 ottobre, Léon Harmel era di nuovo a Torino-Valdocco per ringraziare i Salesiani della loro accoglienza ai pellegrinaggi operai. Come scrisse Il Corriere Nazionale il giorno successivo, nel suo discorso alla fine del pranzo organizzato nella casa-madre dei Salesiani, Léon Harmel ricordò  «che [gli operai francesi] arrivavano a Roma pieni di entusiastica gratitudine al ricordo dell’accoglienza affettuosa e fraterna di Valsalice».[543]

Le lezioni del Congresso di Bologna (1895)

L’enciclica Rerum novarum portò i suoi frutti al primo Congresso Internazionale dei Cooperatori salesiani, presieduto da don Rua, svoltosi a Bologna nel 1895.[544] In esso si dedicò un intero capitolo alla questione operaia, vista dal punto di vista dei «giovanetti operai», secondo la sensibilità tipica dell’ambiente salesiano. L’analisi della situazione, presentata in dieci considerazioni, riflette lo sguardo social-cattolico medio del tempo sulla condizione del ragazzo di famiglia operaia, in una società ancora prevalentemente artigianale, nella quale incominciava ad attestarsi la grande industria. Eccola in sintesi:

1° La prima e più efficace educazione dei piccoli è assicurata da madri cristiane in famiglie oneste e sane. 2° Ora, soprattutto nei grandi centri, molte abitazioni popolari non presentano più alcuna garanzia, né dal punto di vista igienico né da quello morale, sono abiette e «micidiali», in quanto uccidono il corpo e l’anima dei fanciulli. 3° D’altra parte le esigenze dell’industria moderna costringono le madri operaie ad abbandonare per l’intera giornata la casa per non mancare al lavoro collettivo in fabbrica, cosa che impedisce loro di dedicarsi al naturale compito educativo dei figli. 4° L’officina che il giovane lavoratore frequenta per impararvi il mestiere non può concorrere alla sua buona educazione, se chi la dirige non è «informato ai sentimenti santi e delicati della cristiana morale». 5° Il riposo festivo non è solamente un dovere, ma un diritto dei lavoratori. 6° La partecipazione del giovane operaio all’istruzione catechistica festiva in parrocchia è il «mezzo più sicuro per confermare la buona educazione ricevuta in famiglia». 7° Ormai è un fatto diffuso che la maggior parte dei ragazzi di ceto popolare, anche se hanno madri cristiane, quasi sempre abbandonano la pratica religiosa dopo la prima comunione, o perché corrotti da cattivi compagni o per tanti scandali di cui sono testimoni. 8° Questi giovani, e peggio quelli che non hanno avuto madri che si occupassero si loro o perché impedite dal lavoro o perché digiune di sentimenti cristiani, abbandonati a sé stessi e affidati a padroni che non sanno rispettare le loro anime, senza una sufficiente istruzione religiosa, dimenticano quel poco che hanno imparato da bambini, «crescono nell’ignoranza di Dio e dei loro doveri di cristiani e cittadini». 9° Di conseguenza coloro che formeranno la generazione del futuro, sono cristiani solo di nome, privi della luce e della speranza del cristianesimo, dunque fatalmente destinati a disprezzare le leggi più sante e più universali e ad ingrossare «quelle turbe che sono un pericolo ed una minaccia per la civile società». 10° Solo la carità cristiana, animata dallo spirito di sacrificio e di abnegazione, è in grado di scongiurare una tale sventura «colle pazienti cure e colle sante industrie».[545]

A partire da queste constatazioni, il Congresso formulava allora undici «voti», connotati da un certo tono paternalistico, allora naturale, più o meno ispirati all’enciclica. Eccoli nella loro versione integrale:

Il Congresso fa voti:

Che i Cooperatori Salesiani si colleghino a tutti gli uomini di cuore e di buona volontà per ottenere, dove è possibile, disposizioni legislative che moderino le esigenze delle grandi industrie, conciliando i soli veri interessi legittimi di queste coll’obbligo che hanno di rispettare i sacri diritti e doveri della maternità;

Che favoriscao le associazioni che abbiano per iscopo il miglioramento delle case operaie;

Che zelino e facilitino colla loro influenza il collocamento dei bambini negletti od abbandonati delle classi operaie nei presepi créches od asili d’infanzia, massime in quelli diretti da persone religiose, in quei casi in cui la prima buona educazione dei medesimi per mezzo della madre nel domicilio domestico è resa impossibile;

Che zelino il collocamento degli operai in quelle officine nelle quali si rispettano le regole della fede e morale cristiana;

Che i Cooperatori Salesiani padroni di officine o capi botteghe prendano interesse dei giovani artigiani loro affidati come se questi fossero loro figliuoli, e porgano loro l’esempio di una vita effettivamente cristiana;

Che ne curino perciò non solo l’istruzione tecnica ma anche l’educazione religiosa e morale e l’igiene del loro corpo;

Che promuovano l’osservanza del riposo e della santificazione del giorno festivo, appoggiando anche in ogni miglior modo le iniziative che all’uopo fossero prese da altri;

Che curino quindi la loro frequenza ai catechismi parrocchiali, agli Oratori festivi ed alle scuole cattoliche serali e festive, vigilando perché non manchino all’adempimento dei loro doveri religiosi;

Che lungi dal permettere loro occasione di scandalo col turpiloquio, bestemmia o gozzoviglie, loro inculchino colle parole e coll’esempio il rispetto di Dio e di se stessi, la fuga dell’ozio e l’amore al lavoro;

Che li facciano ascrivere fin da giovanetti alle società cattoliche di mutuo soccorso e di previdenza, e li abituino al risparmio, perché non manchino dei necessarii provvedimenti nei giorni delle infermità, della vecchiezza e della sventura;

Che finalmente, nel determinare la mercede od il salario ai loro lavoratori, si uniformino alle massime solennemente proclamate dal Sommo Pontefice Leone XIII nell’ammirabile sua Enciclica Rerum Novarum.[546]

Nulla di rivoluzionario in queste mozioni dal tenore moralizzante. Non appare la parola giustizia; predomina il senso di carità. Non si invoca neppure la proibizione di impiegare i fanciulli nelle fabbriche, né la riduzione dell’orario di lavoro, che era allora comunemente di dieci ore e mezzo e persino undici ore e mezzo al giorno. Solo la prima mozione lascia aperto uno spiraglio in questo senso. Quest’assemblea presieduta dal nostro don Rua fu comunque segno di una grande buona volontà in favore dei giovani operai, troppo spesso trascurati da padroni per nulla interessati dalla loro educazione.

La Società Nazionale del Patronato e Mutuo Soccorso per le Giovani Operaie

Durante quegli anni don Rua favorì la creazione, attorno a Cesarina Astesana (1858-1946), di una Società di Mutuo Soccorso delle Giovani Operaie Cattoliche.[547] Cesarina Astesana, celibe, cattolica convinta e intraprendente, si era preoccupata del destino delle sarte e delle altre lavoratrici di Torino. Gli orari delle sarte, erano molto flessibili, dipendevano dagli ordini e dalla scadenza delle consegne. Il lavoro si prolungava fino a notte e continuava nei giorni festivi, se la clientela lo richiedeva. La loro condizione morale e fisica la preoccupava molto. Con l’aiuto di alcune persone generose, Cesarina fondò un  Oratorio, andando incontro a una loro espressa esigenza. Don Rua, a cui si rivolse per consiglio, non si limitò a dare suggerimenti, ma le affiancò dei sacerdoti per la celebrazione della messa e per le conferenze. La conferenza più riuscita fu quella di don Stefano Trione nella chiesa di Santa Barbara. La chiesa risultò troppo piccola per contenere la folla accorsa. Il predicatore incantò il pubblico. Fu così che sul momento venne creata una Società di Mutuo Soccorso per le Giovani Operaie Cattoliche. Nell’estate successiva don Rua ottenne dalle Figlie di Maria Ausilitrice la disponibilità di due case: quella di Giaveno ai piedi delle Alpi e quella di Varazze sulla Riviera Ligure, affinché le giovani operaie potessero per alcuni giorni respirare l’aria di montagna e di mare.

Cesarina estese la sua azione anche fuori Torino. Cercava appoggi. Don Rua la aiutò. «Quanto alla signorina Astesana – scriveva – nel 1904 al direttore della casa di Firenze, puoi rassicurare l’eccellente marchesa Alfieri che è una persona degna di ogni fiducia, che sta lavorando a un’opera degna di molto interesse da parte dei buoni, quella di proteggere le giovani operaie assicurando loro il riposo domenicale, di impedire il loro sfruttamento con un lavoro troppo prolungato a svantaggio della loro salute fisica e morale, ecc.». Incoraggiata dal cardinale Richelmy, arcivescovo di Torino, e benedetta dal papa, l’opera si diffuse e si rafforzò a beneficio delle giovani operaie. Cesarina Astesana nelle difficoltà ricorreva a don Rua che non mancò mai di consigliarla e sostenerla. Nel 1901 nacque così la Società Nazionale del Patronato e Mutuo Soccorso per le Giovani Operaie, che nel 1906 contava 1505 patronesse e 15.168 operaie, Nel 1910, alla morte di don Rua il loro numero era triplicato.

Lo sciopero dello stabilimento Anselmo Poma (1906)

Tuttavia le indicazioni della Rerum novarum si facevano strada molto lentamente. I primi anni del nuovo secolo furono alquanto turbolenti nelle regioni industrializzate. I socialisti reclamavano, a ragione, la riduzione dell’orario di lavoro nelle fabbriche. Il Parlamento italiano discuteva sul lavoro femminile e infantile. Quando lo ritenevano necessario gli operai scendevano in sciopero. Ma il sindacato cristiano non si risolveva facilmente a piegarsi davanti alla loro forza. Sono significative a questo proposito in Torino le vicissitudini della manifattura tessile di Anselmo Poma, tra maggio e luglio 1906, in cui, per un certo aspetto, venne coinvolto anche don Rua.[548]

Anselmo Poma era un grande amico di don Rua. Nella periferia di Valdocco la sua fabbrica di cotone dava lavoro a centinaia di operai e operaie. Ci fu all’inizio una questione di orari, poi di salari. Nello stabilimento Poma, la giornata lavorativa durava undici ore e mezzo. Nel maggio del 1906 gli operai, appoggiati dalla Camera del lavoro della città con i loro sindacati, chiesero di ridurla a dieci ore, come in altre fabbriche. L’industriale accettò questa diminuzione, ma chiese in cambio di ridurre proporzionalmente i salari degli operai. Dopo vari tentativi infruttuosi per cercare di mantenerli allo stesso livello, il 22 maggio operai e operaie si misero in sciopero. Anselmo Poma, pur essendo un galantuomo, teneva molto alla sua autorità: rifiutò assolutamente di cedere alla forza. Gli scioperanti resistettero e si opposero a ogni ripresa del lavoro.

Don Rua cercò di dissuadere l’industriale dall'irrigidirsi, facendogli rilevare la ragionevolezza delle richieste degli operai. Ma egli pensava, che se fosse venuto a patto con i dipendenti, avrebbe perso il suo prestigio. Don Rua gli propose come soluzione di compromesso di affidare le trattative ai suoi figli. Amadei riporta una sua lettera a Pome del 29 maggio 1906:

Ottimo signor Poma,

molto mi sta a cuore l’affare che attualmente preoccupa la S.V. Onor.ma, e sempre mi informo come vanno le cose. Sento che il malumore nella sua massa operaia continua. Giovedì scorso [il 24 maggio, festa di Maria Ausiliatrice], come ebbi a dirle, mi accorsi che la sua salute ne soffre. Abbia pazienza; si allontani per alcuni giorni; vada fuori Torino. La S.V. ha figli intelligentissimi ed affezionatissimi, che la rappresenteranno benissimo; dia loro le istruzioni che crederà opportune: essi la terranno informata di quanto occorrerà. Intanto ella si tolga da questa baraonda. Gradisca i miei rispetti, e mentre dal Signore le imploro pace e tranquillità, mi creda suo affezionatissimo obbligatissimo servo ed amico

Sac. Michele Rua.[549]

Don Rua si teneva informato tramite don Rinaldi, suo prefetto generale, che, con molto tatto, serviva da intermediario presso l’industriale. Ma questi credette di non doversi conformare al suggerimento di don Rua. Aveva un bel ripetere ai lavoratori che il sistema dei salari sarebbe stato aggiustato dopo le operazioni amministrative indispensabili, essi non demordevano. Lo sciopero, più o meno violento, proseguì. Il 19 giugno un referendum lo approvò con la quasi unanimità dei lavoratori. Elementi sovversivi si erano infiltrati nella massa operaia e soffiavano sul fuoco. Rifiutavano le soluzioni pacifiche e spingevano allo scontro. La Camera del lavoro, dominata dai socialisti, li spalleggiava. Nelle assemblee gli spiriti si infiammavano. Lo stabilimento fu letteralmente assediato. Gli elementi forti erano pronti a cacciare a colpi di pietre quelli che volevano riprendere il lavoro.

Tuttavia i colloqui tra Anselmo Poma e don Rua proseguirono. Don Rua persuase l’industriale a lanciare un appello alle donne, corredato di buone promesse, perché riprendessero il lavoro. In 650 risposero, incoraggiate e sostenute da Cesarina Astesana. Si aggiunsero 150 operai. Una vera e propria battaglia di giorno e di notte s’ingaggiò allora tra i lavoratori e gli scioperanti. Le lavoratrici non scioperanti si accamparono all’interno dello stabilimento. Amadei descrive le peripezie della resistenza. La Camera del lavoro sovvenzionava gli scioperanti e li spingeva alla lotta ad ogni costo. Sull’altro fronte il padrone non cedeva e inviava denaro a don Rua per sostenere le operaie chiuse in fabbrica. Domenica 8 luglio il curato della parrocchia vi andò a celebrare la messa e l’industriale vi assistette.

Nello stesso tempo i lavoratori della città, solidali con i loro compagni, minacciavano di organizzare uno sciopero generale. A questo punto i dirigenti socialisti si preoccuparono delle possibili complicazioni e si dissero pronti a chiedere la ripresa, a condizione che la decisione sembrasse presa dalla Camera del lavoro stessa. Si arrivò così a metà luglio senza aver fatto alcun passo né da una parte né dall’altra. Ma, grazie alla mediazione di don Rua, si profilò finalmente una soluzione. Il 17 luglio, il giornale (di destra) Il Momento pubblicava una sua lettera, accompagnata da una dichiarazione di Anselmo Poma.

Don Rua si indirizzava così al direttore del giornale: «Nell’intento di far tornare la calma negli animi lungamente esasperati e far cessare uno stato di cose tanto dannoso alla classe operaia, mi rivolsi al signor Anselmo Poma perché volesse manifestare le sue intenzioni riguardo le sue operaie. Ne ebbi la risposta che qui le comunico. Fidente di potere con la pubblicazione della medesima facilitare lo scioglimento da tutti desiderato di queste dolorose vertenze, la prego di darle posto nel suo prezioso giornale. Sicuro che la S.V. condividerà meco questo umanitario sentimento, mi prego professarmi con tutta la considerazione, ecc.».

Seguiva la lettera di Anselmo Poma: «La Ditta nella ripresa del lavoro non può esimersi per necessità dello stato in cui è ridotto lo stabilimento, quasi completamente sconcertato, dallo scegliere gradatamente quegli operai che le posson convenire. Le concessioni fatte a piena soddisfazione degli operai che attualmente lavorano, in corso fin dall’8 luglio, sono estensibili a quanti si potranno riprendere. Con tali concessioni si ha evidentemente un aumento sulle tessitrici, ritorcitrici e parte delle spolatrici, di circa il 5 per cento sulle tariffe passate».

Il giorno dopo don Rua indirizzava un’altra lettera al direttore del Momento, annunciando di avere ottenuto che la ditta riassumesse tutti gli operai, tenendo conto evidentemente delle norme morali sempre richieste nelle accettazioni. Rimanevano sospesi appena 200 telai, 100 tessitrici e 100 riparatrici, ma si sperava di riattivarle nello spazio di qualche mese. Infine nessuno degli operai tornati al lavoro con un contegno corretto sarebbe stato respinto per aver partecipato alla lotta. Il Momento aggiungeva queste considerazioni: «E noi che abbiamo sempre difeso la causa della libertà e della giustizia, combattendo a viso aperto tutti i tentativi di sopraffazione, non abbiamo che a compiacerci di una soluzione che ristabilisce l’armonia tra un grande industriale e i suoi operai, e consacra a un tempo il trionfo dell’opera paterna di quel venerando sacerdote ch’è don Rua e la sconfitta della Camera del Lavoro e dei suoi violenti rappresentanti».[550]

Fu così che il 19 luglio Anselmo Poma poté assistere al corteo di altre 900 operaie che tornavano nello stabilimento dopo una sosta di quasi due mesi. Il 21 luglio tutti i telai erano in movimento perché tutte le operaie erano rientrate, ad eccezione di quelle che avevano trovato impiego altrove.

Don Rua cercò in diverse circostanze, nel corso del suo rettorato, di difendere e onorare la classe operaia. Aveva un ideale di società certamente gerarchizzata, come allora era di rigore, ma unita dall’accordo di tutti con tutti. Nella sua visione i rapporti umani dovevano essere regolati da una giustizia sempre improntata alla carità.

 


29 – LE FIGLIE DI MARIA AUSILIATRICE

La direzione delle Figlie di Maria Ausiliatrice

Fino al 1906 l’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice rimase, nei termini stabiliti dalle sue Costituzioni, «sotto l’alta ed immediata dipendenza del Superiore Generale della Società di S. Francesco di Sales, cui danno il nome di Superiore Maggiore» (titolo II, art. 1). Certo, l’Istituto era governato e diretto da un Capitolo Superiore, composto dalla Superiora Generale, da una vicaria, da una economa e da due assistenti, ma «dipendentemente dal Rettor Maggiore della Congregazione Salesiana» (titolo VI, art. 1).

Don Rua era dunque il Superiore Generale dell’Istituto e doveva vegliare sul suo buon funzionamento materiale e spirituale. Madre Caterina Daghero (1856-1924), Superiora Generale dalla morte di santa Maria-Domenica Mazzarello (1881), assolveva benissimo al suo compito. L’Istituto era saggiamente governato e si sviluppava lodevolmente. Come si era fatto ai tempi di don Bosco, la Madre Generale ricorreva sempre a don Rua in caso di difficoltà. Si faceva consigliare per l’aperura delle case e la creazione di missioni; con il suo aiuto stipulava le convenzioni con autorità civili ed ecclesiastiche e con le diverse amministrazioni.

Questo sistema rispettava la giurisdizione dei vescovi. Non ne ostacolava l’esercizio. Scrupoloso in materia, don Rua procedeva sempre con estrema delicatezza. Don Ceria cita giustamente come esempio una lettera indirizzata da don Rua nel 1901 all’ispettore dell’Argentina, Giuseppe Vespignani. Vespignani gli aveva chiesto come comportarsi a riguardo dei problemi delle suore con l’arcivescovo di Buenos Ayres e delle autorizzazioni che bisognava richiedere. Don Rua gli rispose: «Il modus tenendi che io ti suggerisco, si è quello di trattare alla semplice col Rev.mo Arcivescovo, ottenere da lui le autorizzazioni che crede di concedere, assecondarlo rispettosamente in ciò che esige ed evitare ogni questione. In questo medesimo modo ho già risposto anche ad altri. Noi siamo in aiuto dei vescovi; le Figlie di Maria Ausiliatrice sono in aiuto nostro e fanno per le giovanette ciò che i Salesiani fanno per i giovanetti; e poiché esse devono essere informate allo spirito del loro e nostro Fondatore e Padre, credo che gli Ecc.mi Vescovi solo vorranno assistere esse e noi nel fare un po’ di bene alla povera gioventù, principale oggetto delle nostre cure. Quindi procura di andare avanti con semplicità e prudenza, con molta deferenza all’autorità dei Vescovi; chè questo credo sarà il miglio modo da tenere».[551]

L’Istituto continuò così a ingrandirsi sotto l’egida salesiana, che lo metteva al riparo dai pericoli, dalle incertezze, dagli abbandoni e dai problemi economici. Si è potuto scrivere che questo sostegno permanente e benevolo ha costituito di fatto il «perno della sua esistenza».[552] La direzione salesiana non aveva in nulla ostacolato il libero funzionamento dell’organismo interno. Anzi, aveva coadiuvato a produrre i migliori risultati. Le statistiche sono eloquenti. Nel 1881, quando Madre Daghero divenne superiora, l’Istituto contava 202 professe e 77 novizie, distribuite in 32 centri. Nel 1906, anno della separazione tra le due congregazioni, le professe erano salite a 2354, le novizie erano 312 e le case 272. Don Rua, Superiore Maggiore delle suore, considerava la cura spirituale del ramo femminile della Società Salesiana come uno dei suoi compiti principali. Incoraggiava le suore con frequenti visite alla Casa-madre di Nizza Monferrato in occasione di vestizioni e di professioni, con la sua partecipazione agli esercizi spirituali nella stessa casa, tenendo almeno la predica di chiusura. Nel corso dei suoi spostamenti in Italia, in Spagna, in Francia o in Belgio visitava i loro Oratori festivi, le loro scuole, i loro asili. Le associava ai Salesiani per le annuali cerimonie tenute nel santuario di Maria Ausiliatrice in occasione delle spedizioni missionarie verso l’America. Infine si rendeva presente con sostanziose lettere circolari, che costituiscono per i posteri la documentazione più sicura del suo insegnamento (le note delle cronache, infatti, soprattutto quelle trasmesse da Amadei, sono poco attendibili). Si possono ritrovare in queste circolari le intenzioni, le idee e i sentimenti di don Rua nei riguardi delle Figlie di Maria Ausiliatrice.

Le lettere circolari di don Rua alle Figlie di Maria Ausiliatrice

Il Fondo Don Rua nell’Archivio Salesiano Centrale conserva 35 lettere circolari da lui inviate alle Figlie di Maria Ausiliatrice.[553] Erano in gran parte occasionali. La loro lettura è istruttiva per comprendere la sua cura nel tenere informato l’Istituto. Così, ad esempio, il 24 agosto 1888, don Rua presenta alle suore il loro nuovo libro di preghiera; il 1° febbraio 1890, racconta l’udienza accordatagli da Leone XIII il 22 gennaio; il 6 giugno dello stesso anno, le avvisa dell’apertura del processo di beatificazione di don Bosco, suggerendo le orazioni da recitare mattino e sera per il buon esito; il 29 giugno 1891, le ringrazia degli auguri inviati in occasione della festa del Rettor Maggiore; il 21 novembre, spiega come festeggiare il giubileo dell’Opera Salesiana l’8 dicembre successivo; il 19 marzo 1892 le avvisa che in agosto si terrà il loro terzo Capitolo Generale; il 25 marzo 1894 firma la prefazione delle «delibere» dei loro Capitoli Generali, un documento – scrive – che le direttrici dovranno studiare e commentare con le consorelle; il 16 luglio 1897, si dilunga sul venticinquesimo anniversario della nascita dell’Istituto (1872); il 15 ottobre 1897, comunica le grazie accordate dalla Santa Sede per la celebrazione di tale anniversario; il 10 gennaio 1899, ricorda il decimo anniversario della morte di don Bosco; il 31 gennaio avvisa dell’imminente apertura del loro quarto Capitolo Generale, con l’elezione del Consiglio Superiore; il 21 novembre 1899, annuncia che il defunto procuratore generale in Roma, Cesare Cagliero, è stato sostituito dal loro direttore generale Giovanni Marenco e Clemente Bretto prenderà il suo posto come direttore generale dell’Istituto; il 22 febbraio 1903, parla della solenne incoronazione di Maria Ausiliatrice che si terrà a Torino nel maggio successivo, grande evento per tutta la famiglia salesiana; il 22 gennaio 1905, annuncia l’apertura del loro quinto Capitolo Generale nel corso dell’estate; infine il 29 settembre 1906 le ringrazia per gli auguri e le preghiere in occasione della festa di S. Michele. Come si vede, don Rua accompagnava le sue Salesiane negli avvenimenti significativi della loro vita comunitaria.

Don Rua curava soprattutto l’annuale strenna alle Figlie di Maria Ausiliatrice. Per gli anni 1889 e 1891 non ne ho trovato documentazione. Nel 1890 esiste solo una circolare (6 gennaio) di 4 pagine, sulle buone o cattive letture, destinata soprattutto alle insegnanti.[554] Ma, a partire dal 1892, le strenne del Rettor Maggiore diventarono sistematiche. In un primo momento, tra il 1892 e il 1901, si presentavano sono in forma di prefazione agli elenchi annuali, pubblicati in gennaio. Ma poiché, da buon maestro spirituale, sentiva il desiderio di confidarsi più diffusamente, così dal 1902 al 1905, le strenne vennero stampate come fascicolo a parte, per essere distribuite all’inzio del nuovo anno. Ognuna di esse ruota intorno a un tema centrale. Ci scuserete se le presentiamo, ma esse sono documento interessante delle principali preoccupazioni di don Rua riguardo alle Figlie di Maria Ausiliatrice.

Nel 1892, il Rettor Maggiore parla della meravigliosa espansione dell’Istituto, segno della protezione divina. Nel 1893, sottolinea quanto sia necessaria la carità all’interno di ciascuna comunità, che deve costituire «una piccola famiglia». Nel 1894, mette in evidenza l’unione indispensabile tra le superiore e le consorelle. Nel 1895, sostiene che gli Oratori festivi «nell’Istituto devono essere considerati come uno dei mezzi principali e più efficaci per promuovere il bene ed esercitare la carità verso il prossimo». Nel 1896, prende spunto dal drammatico incidente ferroviario del Brasile, in cui avevano trovato la morte mons. Lasagna, il suo segretario, madre Teresa Rinaldi e le sue compagne, per raccomandare: «Siate pronte, infatti il Figlio dell’Uomo verrà quando meno ve l’aspettate», e «Facciamo del bene finché ne abbiamo il tempo». Nel 1897, la lettera annuale è un’esortazione a osservare con cura la «santa Regola» e le delibere capitolari, «dono prezioso che il Signore vi fa […], vostra guida sul cammino della perfezione religiosa […], legame d’unione tra voi tutte». Nel 1898, riprende un discorso di don Bosco alle prime suore nel 1872 sul distacco dalla propria volontà, la franchezza con le superiore, la modestia religiosa. Nel 1899 (annunciando la pubblicazione nel 1898 del primo volume delle Memorie biografiche) invita le consorelle ad impregnarsi delle «amabili e splendide virtù» di don Bosco. Nel 1900, per l’anno santo, le esorta a purificare e a santificare la propria anima evitando ogni peccato deliberato e seguendo attentamente la santa Regola. Nel 1901, presenta un’argomentata esortazione a vivere nella santità durante il nuovo secolo, riempiendo il proprio cuore dell’amore di Gesù Cristo e del desiderio di imitarlo. Nel 1902, don Rua si dilunga sulla santa allegria, tipica dello spirito di don Bosco, una gioia che, non soltanto rende felici, ma facilita il servizio di Dio. Nel 1903, esorta le suore ad imitare le virtù del Sacro Cuore di Gesù, che diceva di se stesso: «Sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29). Nel 1904, si dilunga sulla vita di fede, con pagine costellate di citazioni bibliche, esortando le Figlie di Maria Ausiliatrice a pensare a Dio durante tutta la giornata. Infine, nel 1905, dedica la strenna alla pazienza, virtù spesso mal compresa, che dev’essere nutrita di carità. Nel 1906, mentre era in corso il processo di scissione, don Rua pensò che non fosse opportuno scrivere la solita strenna.

Tutte queste circolari sono impregnate di affetto paterno. Don Rua le indirizzava alle sue «buone», «care», «carissime» e persino «dilettissime» «in Gesù Cristo» Figlie di Maria Ausiliatrice. E le firmava: «vostro affezionatissimo in Gesù Cristo», e persino (il 31 dicembre 1903): «Affezionatissimo padre in Gesù Cristo». Il tono era infatti quello di un padre che parla a figlie che porta nel proprio cuore.

Il contenuto di queste circolari, era molto concreto, raggiungeva le suore nelle loro attività quotidiane di insegnanti, di educatrici di ragazze o di bambini, di infermiere, di cuoche, di guardarobiere, di econome negli asili o nei collegi, e persino nelle lontane missioni americane. Esse stesse si ritrovavano negli insegnamenti di don Rua sulla vita religiosa e sulla vita comunitaria con le sue umili esigenze. L’orientamento spirituale delle lettere era nettamente escatologico. Al termine della vita terrena, si profila sempre la salvezza o la perdizione eterna:

Conosciamo che questo è appunto il fine per cui fummo creati, di conoscere Dio: ut cognoscant Te (Gv 17,3), amarlo: diligens Dominum Deum (Dt 6,5), e servirlo: illi soli servies (Mt 3,10); che a questo si riducono i divini precetti: hoc est maximum, et primum mandatum (Mt 22,38), che per nessuna altra ragione noi esistiamo; che se ad altro noi mirassimo urteremmo contro la divina volontà, contro i bisogni stessi della nostra natura intelligente. Sbaglieremmo interamente la nostra vita e dovremmo un giorno esclamare: ergo erravimus! (Sap 5,6). Conosciamo che come ci esporemmo a tremendi castighi divini, in ignem aeternum (Mt 25,41), che ci colpirebbero per l’eternità, se noi ci opponessimo alla volontà di Dio, così la vita nostra, se viene cordialmente trascorsa nel divino servizio, ha per sé le promesse più attraenti di una celeste felicità in seno a Dio: ego… merces tua magna nimis (Gn 15,1), ove le vicissitudini di questa misera terra più non turberanno il nostro cuore: neque luctus, neque clamor, neque dolor erit ultra (Ap 21,4), dove lo spirito nostro, sospeso in una estasi d’amore, godrà le ineffabili dolcezze del paradiso: mecum eris in paradiso (Lc 23,43), e contemplando Dio in sé medesimo: facie ed faciem (1Cor 13,12), e gustando esuberantemente la sua ineffabile soavità: quoniam suavis est Dominus (Sal 33,8), noi saremo in eterno immersi e confermati nella felicità di Dio, che è in se stesso felice di un’infinita ed incomprensibile felicità.[555]

Nella vita spirituale della religiosa, la virtù occupa un posto centrale. È attraverso di essa, sia che si tratti della pazienza, dell’abnegazione, della religione, della fede e soprattutto della carità, che la Figlia di Maria Ausiliatrice progredisce nella santità e si apre le porte della vita eterna. Per esempio, il 24 agosto 1888 presentando alle suore il nuovo libro di preghiera, don Rua descrive la virtù religiosa e le sue esigenze in modo molto efficace:

Poiché mi si presenta l’occasione, vi esorto caldamente, o mie buone Figliuole in Gesù Cristo, che mettiate in pratica la raccomandazione fattaci dal nostro Divin Salvatore, di sempre pregare e di non mai stancarci (Lc 18). Ma voi mi domanderete: Come possiamo noi sempre pregare? – Vi rispondo coi sacri interpreti e coi maestri di spirito dicendo, che specialmente in tre maniere noi possiamo sempre pregare. Primieramente coll’acquistare l’abitudine, ossia la virtù e lo spirito della preghiera; perché in quel modo che si dice, per es., caritatevole una persona, la quale ha contratto l’abito, la facilità, la prontezza di fare atti di carità, e li pratica sempre quando se ne presenta l’occasione, così chi ha la virtù, ossia la disposizione di pregare ogni volta che deve o che può, si dice meritamente che è sempre in preghiera, come vuole il Signore, perché Egli tien conto della buona volontà. L’abitudine poi e lo spirito dell’assidua preghiera si acquista col pregare sovente, allora soprattutto quando la santa Chiesa e la Regola lo esige.

Parimenti si adempie il precetto del sempre pregare col frequente uso delle giaculatorie così caldamente raccomandate da tutti i maestri di spirito, e con cui innalziamo la mente ed il cuore a Dio e ci uniamo con Lui.

Finalmente si osserva la divina raccomandazione della continua preghiera, facendo ogni nostro lavoro ed azione con diligenza e per amor di Dio, come ci esorta l’apostolo S. Paolo (1Cor 10,31). Ond’è che il Venerabile Beda scrive: Sempre prega, chi opera sempre secondo il piacere di Dio. E S. Basilio dice: Chi opera sempre bene, prega sempre; e si opera sempre bene, quando si ha retta intenzione di dare gloria a Dio.[556]

Don Rua sapeva dunque mostrarsi dolcemente esigente verso le sue «care figlie». Forse anche un po’ troppo meticoloso, per i nostri gusti, come quando, nella parte conclusiva della strenna 1904 sulla vita di fede, invita le suore a vivere tutta la giornata tra il cielo e la terra. Dio dev’essere il primo pensiero, a Lui vanno consacrate le prime prime ore del giorno. Non solo: nelle occupazioni quotidiane deve risuonare sovente «il nome di Gesù e quello dolcissimo della sua Vergine Madre» e le consorelle non si salutino «se non invocando Gesù» nei loro cuori; oppure, sentendo scoccare le ore, immediatamente portino alla loro mente «un ricordo della vita di Maria SS. ed un pensiero a Gesù».

Certo, tali consigli, osservati alla lettera da anime scrupolose, avrebbero potuto suscitare comportamenti artefatti, estranei allo spirito di don Bosco. Ma, nelle stesse pagine, don Rua si mostra più realista, facendo notare alle suore che i muri delle loro case, ornate di quadri religiosi, e le pie immagini che abbelliscono i loro libri, sono sufficienti ad elevarle naturalmente verso Dio. L’abito stesso che portano ricorda loro che sono state separate dal mondo «per essere tutte di Gesù». Il crocifisso della professione religiosa «vi dice quale dev’essere la vostra vita». In conclusione, «come potrei io supporre che di continuo non abbiate un pensiero di fede, se di fede sempre vi parla ciò che vedete, ciò che sentite, ciò che fate, ciò che siete voi medesime?».[557]

Don Rua non si accontentava dunque di governare da lontano l’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice. Era attento ad infondere in loro una spiritualità, «un’ascetica tipicamente salesiana», secondo l’osservazione fatta da suor Maria Esther Posada in una comunicazione su «La formazione delle Figlie di Maria Ausiliatrice tra 1881 e 1922», presentata a Vienna durante il seminario europeo del 2003. L’Istituto rimarrà a lungo segnato da quest’ascetica caratteristica.

Si profila la separazione

Ma verrà il giorno in cui don Rua dovette accettare la dolorosa separazione. Il 29 settembre 1906, espresse semplicemente i suoi ringraziamenti per gli auguri in occasione della festa di S. Michele, alle «ottime» Figlie di Maria Ausiliatrice. Gli aggettivi affettuosi care, carissime, dilettissime, erano spariti.[558] Quell’anno infatti aveva dovuto rinunciare al titolo di Superiore Maggiore dell’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice. Conformemente alle disposizioni romane, l’Istituto non faceva più parte della Società Salesiana. Da quel momento in poi sarebbe stato del tutto autonomo.

Dopo la scomparsa dei direttori confessori nelle proprie case, si trattò di una seconda grave ferita a quell’eredità di don Bosco che don Rua avrebbe voluto trasmettere intatta ai successori. Ma, come ha sottolineato don Ceria, il nostro Rettore non si comportò allo stesso modo nei due casi. Nell’affare dei direttori-confessori, mentre era in corso il provvedimento romano, si adoperò fino all’ultimo per frenarne o attenuarne l’applicazione, salvo poi piegarsi docilmente davanti alla volontà romana, tanto da non tollerare più alcuna scappatoia. In questo caso invece, si mantenne a debita distanza, lasciando alle suore la cura di agire come meglio credevano. Certo, come si vedrà, i Salesiani sostennero le suore. Egli stesso senza dubbio soffrì della piega che aveva preso l’applicazione del regolamento romano, ma mantenne la calma, invitandole a una perfetta e religiosa sottomissione.

Ecco le peripezie di questa storia, relativamente complessa. Checché se ne dica oggi, le Figlie di Maria Ausiliatrice non presero mai l’iniziativa della separazione, anzi. La vicenda va ricondotta ad una precisa scelta della Santa Sede. Alla fine del XIX secolo, Roma tendeva a rendere le congregazioni femminili indipendenti dalle analoghe congregazioni maschili. La moltiplicazione delle congregazioni di suore con voti semplici spinse la Santa Sede a adottare misure di regolamentazione. Il 28 giugno 1901, la Congregazione dei Vescovi e dei Regolari promulgò un decreto che elencava le norme alle quali avrebbero dovuto adeguarsi tali congregazioni, per ottenere l’approvazione delle loro costituzioni. Il documento iniziava con le parole Normae secundum quas. L’articolo 202 stabiliva che una congregazione femminile di voti semplici non poteva dipendere da una congregazine maschile della stessa natura; questo era il caso dell’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice. Il procuratore salesiano a Roma si mise in allarme. Immaginò che i voti delle suore fossero canonicamente nulli. Il verbale del Capitolo Superiore del 30 luglio 1901 ci informa: «Si legge una lettera di D. Marengo il quale, avuto colloquio col cardinale ….. ci avverte che canonicamente i voti delle nostre suore sono nulli e quindi [espone] la necessità di fare approvare da Roma il loro Istituto e le loro Regole, in modo che restino sotto la nostra direzione. C’è anche pericolo che siano staccate da noi».[559] Don Rua si sforzò allora semplicemente di regolarizzare la situazione esistente. Il 1° ottobre 1901 una circolare del prefetto generale Filippo Rinaldi, a nome del Rettor Maggiore, comunicava a ispettori e direttori le direttive riguardanti le Figlie di Maria Ausiliatrice: le loro case dovevano essere completamente separate da quelle dei Salesiani; il loro confessore non poteva in nessun caso essere il direttore dell’opera salesiana in cui risiedevano o chi avesse qualche ingerenza materiale con loro; qualora si confessassero in una chiesa pubblica, il loro confessore ordinario doveva essere cambiato o riconfermato dopo un triennio, d’accordo col vescovo e, se salesiano, d’accordo anche col Rettor Maggiore.[560]

Poi la questione prese avvio. Nel 1902, il cardinale Gotti, prefetto della Congregazione dei Vescovi e dei Regolari, chiese a don Rua un rapporto dettagliato sulla situazione dell’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice, cioè un esemplare delle loro Costituzioni, le «delibere» dei Capitoli Generali e l’approvazione da parte degli Ordinari. Domandò anche informazioni sulla loro origine e lo scopo perseguito, sul personale e la sua retribuzione, sulla loro situazione materiale e finanziaria. Tutto fu eseguito puntualmente. Le suore vi aggiunsero persino un catalogo delle attività svolte in ciascuna casa. Nel 1904, il cardinale Ferrata, nuovo prefetto della Congregazione, ripeté la stessa richiesta. Poi, il 10 maggio 1905, tramite lettera al procuratore don Marengo, si ingiunse all’Istituto, a nome del papa, di modificare le Costituzioni per renderle conformi al decreto Normae secundum quas.

Il 14 maggio, il procuratore trasmise la lettera a don Rua. Dopo dieci giorni fu convocato dall’Uditore della Congregazione, che dopo aver fornito alcune spiegazioni, si disse incaricato di comunicare che venivano riconosciute le benemerenze dei Salesiani verso l’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice e la validità dei benefici e abbondanti risultati ottenuti, ma che non era più possibile continuare nella forma in cui l’Istituto era sorto e in cui si trovava. Infine gli affidò l’incarico ufficiale da parte della Sacra Congregazione di modificare le Costituzioni dell’Istituto nel senso voluto dalle Normae secundum quas.[561]

Il 25 maggio, don Rua scese a Roma, passando per Pisa e Livorno. Il 28 voveva presiedere alla festa del venticinquesimo anniversario dell’opera salesiana romana, giorno in cui si sarebbe solennizzata Maria Ausiliatrice. Ne approfittò all’inizio di giugno – secondo don Amadei[562] – per intrattenersi con il cardinale Ferrata sul problema della possibile separazione dell’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice dalla Società Salesiana. In quell’occasione il cardinale si sforzò di tranquillizzarlo, dicendogli che si trattava essenzialmente di una separazione materiale.

L’allerta nell’estate 1905

Le settimane passavano e si imponeva ormai l’applicazione pratica delle Costituzioni modificate. Nello stesso tempo emersero alcuni problemi per i Salesiani e per le suore. I verbali delle riunioni dal Capitolo Superiore salesiano permettono di ricostituire dettagliatamente la vicenda. Il problema venne chiaramente delineato nella riunione del 21 agosto 1905, presieduta da don Rua con la presenza del direttore generale dell’Istituto Clemente Bretto:

Don Bretto scrive che si dovrà far presto l’acquisto di una proprietà per le suore e desidera che il Capitolo Superiore gli suggerisca la via da tenere. A questo proposito vari capitolari notano che l’assunto è assai grave; dicono che delle case attualmente abitate dalle Figlie di Maria Ausiliatrice parte sono esclusiva proprietà dei Salesiani, che non potranno o non converrà cedere; parte sono bensì proprietà dei Salesiani, ma donate per le F.M.A. o acquistate con danaro o parte di danaro delle F.M.A., e queste si potranno o converrà cederle; parte infine sono proprietà esclusiva delle F.M.A. Si disse che D. Rinaldi prepari una lista ben dettagliata ed intanto da ciò si prese occasione per dire che l’Istituto delle F.M.A. è parte importante dell’Opera di D. Bosco, che bisognerebbe perciò star attenti a non snaturarlo nel fare la riforma imposta. Cercare anzi tutti i mezzi perché conservi lo scopo, l’indole e lo spirito infusole dal suo Fondatore e che bisognerebbe far comparire questo senz’altro da questi verbali, che i Salesiani non lasciarono passare inosservato affare di tanta importanza. Qualcuno osserva che ciò spetta al solo Rettor Maggiore. D. Rua soggiunge: «Ebbene, io vi chiamo a parte e domando il vostro aiuto per poter compiere meglio che sia possibile quest’opera». Il Capitolo accetta e si dà incarico al pro-segretario di apprestare una copia delle Costituzioni preparate da D. Marenco, perché possano studiarle. Il Sig. D. Rua desidererebbe anche che D. Marenco desse lettura al Capitolo della lettera con cui fu incaricato di far il detto lavoro.[563]

Il problema delle Figlie di Maria Ausiliatrice tornò una decina di giorni più tardi. Durante il consiglio del 2 settembre, il procuratore Marenco tracciò, nei termini che conosciamo, l’origine del compito che gli era stato assegnato dalla Congregazione dei Vescovi e Regolari.

Ciò posto, il Capitolo Superiore che aveva lette le nuove Costituzioni preparate da D. Marenco, fatti alcuni appunti su vari articoli che potrebbero essere eliminati o modificati, ispirandosi all’idea di evitare di ripetere nelle Costituzioni ciò che è prescritto da decreti particolari e non obbligatorio ad inserirsi nelle Costituzioni, osserva che bisognerebbe far notare che questa Congregazione delle F.M.A.:

- Nel suo passato: fu opera di D. Bosco che pensò con essa di far colle fanciulle e colle giovani, ciò che fanno i Salesiani coi fanciulli e giovani e ciò con un disegno armonico e completo. Che l’Istituto riconosce in D. Bosco il Fondatore e Padre. Che D. Bosco morendo lo raccomandò al suo successore, il quale ha esercitato finora un ministero di paterna sorveglianza senza incagliare il libero funzionamento dell’organico interno e che ciò ha dato buon risultato, come si vede dallo sviluppo maraviglioso e dalle commendatizie di vari vescovi e dal Breve di Leone XIII.

- Nel suo presente: le parecchie migliaia di fanciulle si consacrarono a Dio nell’Istituto colla persuasione e fiducia di essere assistite dalle paterne cure del successore di D. Bosco. Cure ed appoggio divenuto, per la consuetudine, quasi necessario alla vita dell’Istituto, e senza dubbio un numero grande delle case, specie delle missioni, verrebbero meno senza questo appoggio. Nella direzione spirituale data generalmente dai Salesiani si è proceduto sempre in conformità ai canoni e d’accordo coi vescovi: l’interruzione potrebbe tornare a scapito anche del buon nome dei due istituti.

- Pel suo avvenire: pur essendo pienamente disposti a far quanto prescrive la S. Sede, si esprime il desiderio che a conservare la tranquillità nelle Figlie di M. A. e a fomentarne il bene spirituale e materiale si lasci al successore di D. Bosco quest’autorità paterna finora esercitata oppure una simile o maggiore come delegato della S. Sede.

Si conclude dicendo che ogni cosa sia semplicemente manifestata al prossimo Capitolo Generale delle F.M.A., e che esse facciano quanto crederanno opportuno, ma non si dimentichi ciò che dice il Bathandier, assai pratico in questi affari, che spesso il buon esito dipende dal far conoscere le cose come veramente stanno e non come si credono, nel saperle esporre ed adoperarsi nei termini consentiti.[564]

L’annuncio alle Figlie di Maria Ausiliatrice

Quando iniziarono a circolare voci di una eventuale separazione dai Salesiani, le suore furono prese da grande apprensione. Don Rua aveva deciso di non parlarne prima del loro quinto Capitolo Generale, che doveva tenersi in settembre a Nizza Monferrato.[565] Prevedendo le reazioni, propose al direttore generale Clemente Bretto di riunire le componenti del Capitolo Generale durante il corso di esercizi spirituali preparatori e di presentare loro, con massima prudenza, la nuova situazione dell’Istituto. Clemente Bretto lo fece il 4 settembre. L’effetto dell’inattesa comunicazione si coglie nella lettera inviata a don Rua, il giorno successivo, dalla segretaria generale a nome della Superiora Caterina Daghero e delle Capitolari. Vi si diceva, tra l’altro: «L'annuncio di una possibile sottrazione delle Figlie di Maria Ausiliatrice alla dipendenza dal successore di don Bosco, benché dato con caritatevole e prudentissima tattica, provocò in tutta l’assemblea una indicibile costernazione». Seguiva una supplica destinata a evitare la frattura e riassunta nel grido: «Oh, caro Padre, non ci abbandoni!». Affinché ciascuna potesse manifestare un’opinione personale, era stata indetta una votazione segreta, se si volesse o no continuare nell’obbedienza a don Bosco e al suo successore legittimo. Tutte avevano risposto di sì.

L’8 settembre, don Rua si recò a Nizza per aprire il Capitolo e presiederlo, conformemente alle Costituzioni dell’Istituto. Nel corso della seduta di apertura, parlò della lettera e della votazione, dicendosi commosso e consolato dall’una e dall’altra, ma aggiunse subito: «Tuttavia, noi obbediamo alla santa Chiesa! Se fosse vivo, don Bosco vorrebbe che noi obbedissimo alla santa Chiesa, anche qualora ci chiedesse qualche cosa di diverso da ciò che lui aveva stabilito». Durante il Capitolo, il procuratore presentò alle capitolari il testo delle Costituzioni da lui modificato, invitandole a dare il loro parere sui cambiamenti introdotti. Constatare che la separazione stava concretizzandosi, le addolorò enormemente. Lo dissero al procuratore.

Tornato a Roma, don Marenco riferì alla Congregazione dei Vescovi e Regolari l’impressione prodotta dalla lettura del suo progetto e i desideri che alcune capitolari avevano espresso per iscritto. Il suo rapporto fece tale impressione che fu autorizzato a introdurre nel testo i desideri espressi, aggiungendone i motivi su un foglio a parte. La nota si chiudeva in questi termini: «Allo scopo di conservare nell’Istituto l’unione, la regolarità e lo spirito del fondatore, il Rettor Maggiore dei Salesiani, successore pro-tempore di don Bosco di santa memoria, continuerà ad esercitare verso il medesimo una direzione e una vigilanza paterna, la quale non derogherà menomamente ai diritti che, a norma dei sacri Canoni, competono agli Ordinari».[566]

Ma i Salesiani non dovevano farsi illusioni. Non era sufficiente la semplice separazione dei beni delle due congregazioni: si imponeva una separazione totale, precisò il cardinal Ferrata in una conversazione con don Stefano Trione. Diversamente sarebbe stato preso un provvedimento severo.[567]

La separazione dei beni dei due Istituti

Il 25 novembre 1905, con una circolare rigorosamente riservata agli ispettori, dopo aver riassunto la questione, don Rua ricordava che la Congregazione dei Vescovi e Regolari aveva ordinato al Capitolo Superiore di procedere alla «separazione amministrativa e disciplinare delle due opere». Precisava che la separazione totale dei beni avrebbe richiesto spese enormi, se immediata; per tal motivo, in accordo con la Congregazione romana, si era deciso di procedere «poco alla volta». Alcuni asili di proprietà dei Salesiani erano già stati ceduti alle Figlie di Maria Ausiliatrice. Spiegava poi come procedere nelle case salesiane in cui risiedevano suore addette alla cucina, alla lavanderia e alla biancheria: si sarebbe dovuto assumere personale maschile oppure sarebbe stato necessario trovare nelle vicinanze una residenza per le suore, che consentisse loro di assicurare il servizio senza essere alloggiate in casa. In tal caso, per attuare la separazione amministrativa, bisognava retribuirle in modo appropriato.

Per consentire la separazione disciplinare, continuava don Rua, le Figlie di Maria Ausiliatrice avevano diviso le loro case in varie ispettorie rette da proprie ispettrici. Di conseguenza, anche le direttrici che in qualche modo dipendevano dai Salesiani, dovevano rivolgersi direttamente alle rispettive ispettrici e, attraverso di loro, al proprio Capitolo Superiore. Se si fossero posti altri problemi, si sarebbe dovuto attendere il parere della Congregazione romana, poiché «non si intende scostarsi nemmeno di poco dalle sacre prescrizioni.[568]

I ricorsi a Roma delle Figlie di Maria Ausiliatrice

Allora, su consiglio dei Salesiani, le Figlie di Maria Ausiliatrice tentarono un’azione propria. Il 4 dicembre don Rua lesse al Capitolo una lettera della Madre Generale che, a nome del Consiglio e di tutto l’Istituto, implorava chiaramente in modo formale che non fossero mutate le condizioni di fondazione da parte di don Bosco e supplicava di non abbandonarle. Non chiedevano di dipendere da una Congregazione maschile, nel caso specifico dalla Società Salesiana, ma unicamente dal successore di don Bosco. Si propose loro di andare a Roma, per consultare un avvocato, a lui esporre i loro desideri e seguirne i consigli.[569]

Non si fecero pregare. Qualche giorno più tardi, il 13 dicembre, il Capitolo apprendeva che la Madre Generale era arrivata a Roma per tentare di convincere la Congregazione dei Vescovi e Regolari della necessità di restare legate al rettor Maggiore.[570] A dire il vero Madre Daghero, la segretaria Vaschetti e suor Marina Coppa, una delle consigliere, si erano imposte tre compiti a Roma: procedere a una revisione minuziosa del testo delle nuove Costituzioni da sottoporre al giudizio della Congregazione; preparare un lungo memoriale da consegnare ai cardinali di quella Congregazione, accompagnato da un esemplare stampato delle Costituzioni; far visita a Cardinali e altri prelati interessati, per spiegare le condizioni reali dell’Istituto. Nel memoriale intendevano illustrare e motivare i loro desideri, che noi già conosciamo.

Il 15 dicembre l’assistente Marina Coppa, scriveva a don Rua l’esito di un colloquio che avevano appena avuto con il cardinale Vivés, membro della Congregazione dei Vescovi e Regolari. «Don Bosco vi fondò, questa è la vostra forza; ma oggi la Chiesa applica altre disposizioni pel governo delle congregazioni femminili. […] È un fatto che voi fate del gran bene, siete apostole nel mondo, e se non foste state ben dirette non vi sareste estese così prodigiosamente». Il cardinale aveva cconcluso il colloquio sorridendo: «Ma don Bosco continuerà ad aiutarvi dal paradiso: dicono che i fondatori vedono come in uno specchio dal cielo quanto avviene quaggiù nelle loro Congregazioni; quindi egli si adopererà affinché tutto sia in conformità del volere di Dio e per il bene».[571]

Dato che le tre superiore si sentivano sole e visto che il postulatore Marenco aveva molto da fare, il 18 don Rua decise di inviare con urgenza don Bertello per aiutarle.[572] Questa notizia le confortò. Il 19 la segretaria Luisa Vaschetti scriveva al direttore generale Clemente Bretto: «Ho sentito dire che domani sarà qui il Rev.mo Sig.  D. Bertello, Deo gratias! Come si sente che abbiamo dei Superiori che ci vogliono bene davvero! Io per me, ogni volta che ci penso, mi sento rinascere la vocazione per farmi Figlia di Maria Ausiliatrice dell’Istituto fondato da Don Bosco, dove spero di perseverare fino all’ultimo respiro».[573]

Poi le suore tentarono di ottenere l’appoggio dello stesso Pio X. La mattina del 7 gennaio 1906 il papa ricevette in udienza privata Madre Daghero e le sue assistenti. L’estrema amabilità del santo Padre aprì il cuore della superiora che gli manifestò i timori comuni, ascoltati con molta attenzione. Il papa si mostrò soddisfatto delle spiegazioni e ripeté loro quattro o cinque volte di stare tranquille. Poiché certe sue espressioni sembravano lasciar intendere che avrebbero potuto continuare ad avere il loro superiore salesiano, una di esse chiese il permesso di comunicare alle suore di Torino questa notizia che le avrebbe consolate nello loro estrema afflizione: «No, disse il papa, non dite niente; pregate e state tranquille». Consegnarono allora al papa la supplica redatta in settembre dal loro Capitolo Generale. E al momento di congedarsi, videro che sfogliava il documento.[574] Le nuove Costituzioni furono consegnate alla Congregazione dei Vescovi e Regolari il 12 gennaio. Le suore dovevano solo attenderne il verdetto.

Nel frattempo, anche il consigliere scolastico generale Francesco Cerruti, che si trovava a Roma per regolare alcuni problemi con il ministero italiano della Pubblica Istruzione, il 1° aprile, durante un’udienza pontificia, tentò di difendere la posizione delle Figlie di Maria Ausiliatrice e raccolse buone parole. Ma alla fine, tutti quei passi per ottenere un ammorbidimento si rivelarono inutili. Le Costituzioni delle Figlie di Maria Ausiliatrice vennero corrette in modo da essere strettamente conformi al decreto Normae secundum quas. Il 26 giugno, la Congregazione ordinò di comunicare le ultime modifiche al Superiore Generale dei Salesiani e di consegnare, a lui e all’arcivescovo di Torino, le nuove Costituzioni corrette su ordine del papa. La lettera a don Rua, datata 17 luglio, diceva:

Rev.mo Padre.

Si trasmettono, qui unite, alla P.V. le Costituzioni dell’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice, corrette, per ordine del Santo Padre, da questa Sacra Congregazione dei Vescovi e dei Regolari; e le si partecipa essere volere di Sua Santità che tali Costituzioni siano esattamente osservate nel detto Istituto, considerandosi come abrogate tutte le precedenti Costituzioni e Deliberazioni Capitolari, in quanto con esse non concordino. Altro esemplare delle stesse è già stato trasmesso all’E.mo Arcivescovo di Torino col mandato di comunicare alla Moderatrice del suddetto Istituto le relative disposizioni del Santo Padre. Il sottoscritto Cardinale è lieto di poter in tale incontro assicurare la P.V. della speciale benevolenza del S. Padre per la benemerita Congregazione Salesiana di Don Bosco; e con distinta stima si afferma della P.V.

D. Card. Ferrata, Prefetto.[575]

Le suore non poterono far altro che sottomettersi piangendo. Il 20 agosto, la Madre Generale dovendo scrivere a don Rinaldi per una questione amministrativa, ne approfittò per sfogarsi: «Siamo vissute fin qui come figlie alle disposizioni dei nostri venerati Superiori, godendo del loro paterno affetto, del loro benigno compatimento, tante volte quante ne avevamo bisogno, ed ora… Ora è sopraggiunta la prova: ma proprio nelle crudezze di questa prova noi abbiamo veduto che il cuore dei nostri Superiori non è cambiato, che anzi ha aumentato di tenerezza e di compassione verso queste povere figlie della Madonna e di Don Bosco. Questo pensiero è conforto, è balsamo all’animo nostro rassegnato sì, ma profondamente costernato».[576]

La separazione effettiva

Don Rua si era ritirato sin da luglio dalla gestione dell’Istituto. Il 29 settembre colse l’occasione della festa di S. Michele Arcangelo per annunciare il nuovo statuto alle Figlie di Maria Ausiliatrice. Per sdrammatizzazione la situazione scelse di esprimersi con una certa bonomia e in un tono disteso.

Torino, Festa di S. Michele Arcangelo

29 settembre 1906

Ottime Figlie di Maria Ausiliatrice,

Vi sono vivamente riconoscente per gli auguri che mi avete fatto in varie circostanze dell’anno e specialmente delle preghiere e comunioni che per me offrite al Signore Ed io in questo mio giorno onomastico intendo farvi un regalo col darvi il lieto annunzio che fra poco riceverete dalla vostra Rev.ma Superiore Generale le Costituzioni dell’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice fondato da D. Bosco. Esse furono rivedute nel vostro quinto Capitolo Generale tenuto l’anno scorso e modificate dalla S. Congregazione dei Vescovi e Regolari in conformità delle delle norme emanate dalla stessa Congregazione il 28 giugno 1901.

Essendo l’Istituto delle Figlie  di M.A. notabilmente cresciuto, la S. Sede lo prese in benevola considerazione come quelli che son per ricevere la pontificia approvazione e che dipendono direttamente dalla stessa S. Sede.

Vogliate dunque ricevere le nuove Costituzioni colla massima venerazione e come un attestato dell’interessamento che per voi ha il Vicario di Gesù Cristo; studiatele e soprattutto praticatele per divenire buone religiose secondo le sante viste della Chiesa e mantenetevi nello spirito del nostro Padre Don Bosco, che era tutto rispetto, ubbidienza, affetto al Sommo Pontefice ed agli altri Pastori, come facilmente potrete rilevare dai suoi scritti e dai suoi esempi. E tanto più sarete degne sue figlie se, ad imitazione di lui, aggiungerete cordiale osservanza, ardente carità e vivo zelo per la gloria di Dio e la salute delle anime.

Sempre disposto, insieme agli altri Superiori dei Salesiani, ad aiutarvi in quanto potrete avere bisogno di appoggio e di consiglio, imploro dal Signore le più abbondanti benedizioni sul vostro Istituto e su ciascuna di voi e mi professo

Vostro in Gesù e Maria

Sac. Michele Rua.[577]

Qualche giorno dopo, durante la seduta del 3 ottobre, il Capitolo Superiore salesiano si occupò della separazione. Sarebbero state inviate istruzioni dettagliate alle case. Inoltre, secondo il verbale, si sarebbe spiegato alla Madre Generale che il Rettor Maggiore, conformemente ai desideri della Santa Sede, avrebbe gradito il ritiro delle suore da tutte le case dove non fossero sufficientemente separate dai Salesiani o, almeno, che la superiora ottenesse direttamente da Roma le autorizzazioni necessarie o qualche dilazione per potersi adeguare alle norme. Don Rua inviava poi comunicazione della sua completa sottomissione al cardinale Ferrata, prefetto della Congregazione dei Vescovi e Regolari. La lettera è un ottimo esempio delle sue relazioni epistolari con i dignitari ecclesiastici:

Eminenza,

Con la lettera N. 17358/15 di V. Em., in data 17 luglio 1906, ma consegnatami più tardi, ricevetti le Costituzioni dell’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice, corrette per ordine del S. Padre. Ora seppi dalla Rev.da Superiora Generale del detto Istituto che il 22 settembre p.p. da S. Em. il Cardinale Arcivescovo di Torino le veniva comunicato un altro esemplare delle medesime Costituzioni, come l’Em. V. aveva accennato.

Credo che non sarà necessario che moltiplichi parole per accertarla che i figli di Don Bosco eseguiranno scrupolosamente e di gran cuore non soltanto ciò che vuole il S. Padre, ma anche ciò che Egli mostrasse di desiderare.

Cogliendo intanto l’occasione che mi si presenta, rinnovo i sensi della mia profonda venerazione per l’Em. V. e, mentre le bacio in ispirito la sacra porpora, ho l’onore di potermi professare

Dell’Em. V.

Umil.mo ed ubbid.mo servitore

Michele Rua

Rettor Maggiore della Pia Società di S. Francesco di Sales.[578]

Il 15 ottobre 1906, da Nizza Monferrato, Madre Daghero comunicò alle Figlie di Maria Ausiliatrice le nuove regole, raccolte in un piccolo libretto intitolato intenzionalmente Costituzioni dell’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice fondate da D. Bosco. Ormai solo più questa memoria delle origini le avvicinava ai Salesiani. La superiora non lo disse esplicitamente, ma risultava dal documento che don Rua cessava di essere il loro Superiore Generale.[579]

Il 21 novembre, don Rua indirizzò agli ispettori e ai direttori disposizioni chiare per mettere a punto la separazione tra Salesiani e Figlie di Maria Ausiliatrice. Dopo una breve introduzione, il Rettor Maggiore condensò le norme in otto punti debitamente numerati, come era solito fare:

1° Esse, come le altre congregazioni femminili, non devono dipendere da alcuna Congregazione di uomini, bensì dalla loro Superiora Generale assistita dal proprio Capitolo, sotto la vigilanza diretta della Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari e degli Ordinari a norma delle nuove loro Costituzioni e dei SS. Canoni.

2° Esse devono avere un’amministrazione e contabilità affatto distinta e separata; e però dove esse prestano la loro opera per la cucina o biancheria, devono essere stipendiate come qualunque altra Congregazione che prestasse simili servizi.

3° Ove per tali lavori, Salesiani e Suore avessero case vicine, debbono avere ingresso separato e nessuna comunicazione fra le loro abitazioni; anzi ove a tale riguardo sorgesse dubbio che vi fosse qualche irregolarità, l’Ispettore preghi l’Ordinario a verificare e all’uopo suggerire il da farsi.

4° Devono considerarsi come di loro proprietà le case di loro abitazione; per queste esse devono sopportare tutti i pesi d’imposte, riparazioni ecc. Quanto alla legale cessione si andrà facendo a misura che si renderà agevole, non potendosi fare tutto in una volta a causa dell’enorme spesa di trapasso che s’incontrerebbe. Per le nuove case, di cui venissero ad abbisognare in avvenire, ne faranno esse acquisto a nome proprio.

5° Però avendo le Figlie di Maria Ausiliatrice coi Salesiani comune lo spirito e il Fondatore, fra esse e noi vi sarà grande carità, riconoscenza e rispetto; ma senza alcun diritto di superiorità o dovere di sudditanza.

6° Quanto allo spirituale esse dipendono dai rispettivi Ordinari, a cui spetta nominare i Confessori, Direttori ecc. I Salesiani potranno occuparsi della loro direzione solo quando siano incaricati od autorizzati dall’Ordinario della Diocesi dove esse dimorano. Quello che qui si dice riguardo alla direzione spirituale delle Figlie di Maria Ausiliatrice, va inteso pure per qualunque altra Congregazione femminile.

7° Dell’opera dei Salesiani, prestata colle debite autorizzazioni, come se ne valgono altre Religiose, così possono valersene anche le Figlie di Maria Ausiliatrice specialmente per essere aiutate a mantenersi nello spirito del nostro comun Padre don Bosco. Ma quando le Figlie di Maria Ausiliatrice avessero da approfittarsi dell’opera de’ Salesiani, converrà che esse stesse ne facciano dimanda all’Ordinario.

8° I Superiori Salesiani coll’esempio e colla parola inculchino ai loro dipendenti che non si rechino presso a Comunità religiose femminili se non per ubbidienza e col permesso regolarmente ottenuto, non si fermino oltre il necessario e si comportino sempre nel modo più edificante.

Nutro fiducia che praticando queste norme ne risulterà sempre più gloria a Dio e vantaggio alle anime, il che il nostro venerato Padre c’insegnò a cercare in ogni nostro affare, in ogni nostra azione.

Degnisi la Vergine Maria, di cui oggi si celebra la festa della Presentazione al Tempio, renderci sempre più degni di presentarci e servire nella casa di Dio mediante il fervore nella pietà e la purezza delle anime nostre.

Pregatela, di grazia, pel

Vostro aff.mo in G. e M.

Sac. Michele Rua.[580]

I numeri 5, 6 e 7 regolavano le nuove relazioni tra Salesiani e Salesiane, ora tenute a dipendere dalle gerarchie locali. Ma vi si percepiva il fermo desiderio di don Rua che le Figlie di Maria Ausiliatrice continuassero a custodire il loro bene più prezioso: lo spirito delle origini, lo spirito di don Bosco.

Per ora le Figlie di Maria Ausiliatrice non avevano ottenuto di più. La guida paterna del successore di don Bosco, che avrebbero tanto desiderato mantenere, non era stata concessa. Ma esse furono tenaci e don Rua non le dimenticò nelle molteplici prove. Accontentiamoci di accennare agli eventi dei mesi di settembre e ottobre 1907. Nel settembre del 1907, le Figlie di Maria Ausiliatrice tennero a Nizza Monferrato il loro primo Capitolo dopo la separazione. Lo presiedette il vescovo di Acqui. Elessero le superiore, poi chiesero la partecipazione dei Salesiani. Don Marenco arrivò il 18 e don Rua il 26 per la chiusura. Il suo discorso sviluppò la preghiera: «O Signore, insegnami la bontà, la disciplina, la scienza». E le capitolari firmarono una dichiarazione di filiale devozione a don Bosco e a don Rua a nome di tutto l’Istituto.[581] Un mese più tardi, il 24 ottobre, nella chiesa di Maria Ausiliatrice don Rua rivolgeva il suo incoraggiamento a un gruppo di Salesiane che si disponevano a partire per le missioni: «Andate a lavorare nel vostro campo d’apostolato, ma soltanto per la gloria di Dio e il bene delle anime», raccomandava loro in sostanza. E due giorni dopo, una trentina di Figlie di Maria Ausiliatrice si univano a cinquanta missionari Salesiani per la cerimonia tradizionale di addio nella stessa chiesa. Infine, il 27, don Rua rivolgeva ancora un discorso particolare alle Salesiane di Torino: «Lavorate per la maggior gloria di Dio».[582]

Undici anni dopo la separazione, il 19 giugno 1917, le suore ottenevano un decreto dalla Santa Sede grazie al quale il Rettor Maggiore dei Salesiani era nominato delegato apostolico presso le Figlie di Maria Ausiliatrice. L’amministrazione dell’Istituto sarebbe rimasta autonoma e i diritti dei vescovi sarebbero stati salvaguardati, ma ogni due anni, il Rettor Maggiore o un suo delegato avrebbero dovuto visitare le case delle Figlie di Maria Ausiliatrice paterno consilio. Madre Daghero era ancora in carica. Nel corso dell’udienza concessale il 14 gennaio 1919, Benedetto XV le chiese che cosa pensava del decreto. «Voi avete corrisposto al mio più profondo desiderio, Santissimo Padre», essa rispose.[583] Infatti appagava alla lettera il desiderio di guida paterna auspicato dalle capitolari nel settembre 1905. Le Figlie di Maria Ausiliatrice avrebbero rivissuto, per quanto limitatamente, il tempo felice in cui don Rua le seguiva e le consigliava nella loro mirabile espansione.

 


30 - L'ESPANSIONE SALESIANA NEL PASSAGGIO DI SECOLO

In Tunisia

Don Rua non si accontentò di moltiplicare la presenza dei Salesiani nel continente americano. Ebbe l’audacia di creare nuove opere anche in Africa e perfino in Asia.

L’Algeria aveva visto arrivare i Salesiani nel 1891. Allora il cardinale Lavigerie si era rammaricato che don Rua avesse preferito Orano a Cartagine in Tunisia, malgrado una promessa che don Bosco gli aveva fatto a Parigi nel 1883. Nel 1894 il successore, Clément Combes (Lavigerie era morto nel 1892) ottenne senza difficoltà l’insediamento dei Salesiani a La Marsa (1895), nei dintorni di Tunisi, poi nella stessa Tunisi (1896).

Le pratiche furono sbrigate in modo rapido. L’11 agosto 1894, il Capitolo Superiore accettava l’offerta del nuovo arcivescovo.[584] Una convenzione stipulata il 7 dicembre successivo tra l’arcivescovo di Cartagine e don Rua, stabiliva nel primo articolo: «L’Arcivescovo di Cartagine affida ai Salesiani di don Bosco la direzione dell’Orfanotrofio agricolo attualmente situato a La Marsa, Tunisia».[585] L’Istituto Perret, dal nome del suo fondatore, il lionese Perret, era una casa angusta, capace di ospitare solo una decina di orfani, ma disponeva di un vasto terreno. L’arcivescovo chiese che vi fossero inviati un sacerdote e due collaboratori ecclesiastici o laici, che si impegnava a retribuire «a conto della diocesi». E avrebbe versato annualmente quattrocento franchi per ogni orfano «affidato dalla diocesi» (art. 3). Il 31 dicembre, il direttore designato Antonio Josephidis (1861-1919), accompagnato dal coadiutore Serafino Proverbio, partì dalla Sicilia per Tunisi e La Marsa. Il direttore era un uomo intraprendente. Accolse ben presto una ventina di altri giovani, ottenne dal Capitolo Superiore l’autorizzazione per costruire locali più spaziosi e venne il giorno in cui, nel 1898, a Valdocco, mons. Combes accettò la proposta di don Rua di creare a La Marsa anche un corso di scuole secondarie. Nasceva così un’opera che farà germogliare belle vocazioni salesiane, tra le quali si distinguerà Louis Mathias, futuro arcivescovo di Madras (1887-1965).

In seguito ad altra convenzione tra l’arcivescovo e don Rua (4 marzo 1896), i Salesiani si installarono nella stessa Tunisi, dove si videro affidare la cappella Sainte-Lucie, punto di partenza della Parrocchia del Rosario con i suoi fiorenti oratori.[586] Le suore salesiane invece assumevano la direzione di un’opera femminile a La Manouba, non lontano da La Marsa.

Nel corso di un riuscito viaggio in Tunisia, tra 23 e 30 marzo 1900, don Rua potrà felicitarsi del successo di queste recenti fondazioni nel paese.[587]

L’Associazione Nazionale italiana ad Alessandria d’Egitto

Passando dalla Tunisia all’Egitto, ci troviamo di fronte a un organismo presente in tutto il Vicino Oriente, sul quale don Rua fece affidamento, col rischio di italianizzare apertamente le opere salesiane nella regione. L’Associazione Nazionale per soccorrere i Missionari Italiani Cattolici – questo era il nome ufficiale – aveva allora per segretario un dotto egittologo di nome Ernesto Schiaparelli. L’Associazione Nazionale, creata da personalità dichiaratamente cattoliche, favorite dal governo italiano, era stata riconosciuta come ente morale con regio decreto del 12 novembre 1891. Il riconoscimento le dava libertà d’azione sul versante politico.

Si era cominciato a parlare dell’invio dei Salesiani in Egitto almeno dal 1887, come testimonia una lettera del cardinale prefetto di Propaganda Fide, Giovanni Simeoni, in data 26 febbraio 1887.[588] Ad Alessandria c’era una comunità numerosa di Italiani e di Maltesi. La precoce corruzione di molti giovani affliggeva gli osservatori più sensibili, soprattutto i Francescani che auspicavano la creazione di una scuola salesiana di arti e mestieri per la formazione umana e cristiana della gioventù. Ernesto Schiaparelli faceva parte di questo numero. Nel 1890, scriveva a don Durando: «Vi sono ora in Alessandria di Egitto delle centinaia di fanciulli abbandonati, di ogni nazionalità e religione, ma specialmente italiani e maltesi, cattolici, pei quali l’imparar un mestiere e il ricevere un po’ di educazione vorrebbe dire la loro salute in questo mondo e nell’altro».[589] E assicurava ai Salesiani il sostegno dell’Associazione Nazionale.

Nel 1895, don Antonio Belloni, di passaggio in Italia, fu incaricato da don Rua di trovare in Alessandria d’Egitto un terreno adatto alla scuola salesiana di arti e mestieri già progettata. Don Belloni mise gli occhi su uno spazio edificabile del quartiere Bab-Sidra. L’affare fu complicato dalla concorrenza francese di una scuola dei Fratelli delle Scuole Cristiane. Ma i Salesiani ottennero l’appoggio di mons. Guido Corbelli, delegato apostolico d’Egitto e d’Arabia e, in questo modo, della Santa Sede. Alla fine venne siglato un accordo, che merita di essere riportato per intero, dato che, promuovendo l’italianizzazione delle opere salesiane – non senza una ragione tattica, infatti risparmiava loro ogni dipendenza francese –, condizionerà per certi aspetti il loro futuro in tutto il Vicino Oriente. Il documento, intitolato Convenzione fra il Reverendo Superiore Generale della Congregazione dei Salesiani e l’Associazione Nazionale per soccorrere i Missionari Cattolici Italiani, stabiliva:

Oggi addì 1° marzo 1897, fra il sottoscritto Rev.mo Sig. D. Michele Rua Superiore Generale della Congregazione Salesiana ed il sottoscritto Prof. Ernesto Schiapparelli, quale Segretario Generale e rappresentante dell’Associazione Nazionale per soccorrere i Misionari Cattolici Italiani, è stato convenuto quanto appresso.

L’Associazione Nazionale si obbliga a pagare l’affitto del locale dell’Istituto Professionale di arti e mestieri e le spese tutte occorenti per l’insediamento e mantenimento del sopraddetto Istituto. A sua volta il Rev.mo Signor Superiore della Congregazione Salesiana prende obbligo di provvedere il personale idoneo per detto istituto che l’Associazione Nazionale intende istituire in Alessandria d’Egitto.

1) In detto Istituto per tutti gli alunni sarà obbligatorio lo studio della lingua italiana.

2) Come esterni saranno ammessi fanciulli di ogni nazionalità e religione.

3) Saranno commemorati i giorni anniversari della nascita di S. Maestà il Re e la Regina d’Italia, e il giorno dello Statuto.

In ogni altra cosa l’Istituto godrà piena autonomia.

La presente convenzione ha la durata di un anno, decorrendo dal presente giorno, e s’intende rinnovata indefinitivamente di anno in anno, se non venga disdetta da una delle parti, non meno di tre mesi prima della sua scadenza annuale.

Confermano quanto segue:

Il Superiore Generale della Congregazione Salesiana

Sac. Michele Rua

Il Rappresentante dell’Associazione

E. Schiapparelli.[590]

Don Ceria commenterà nel 1943 i vantaggi (almeno provvisori) di questa soluzione che metteva l’istituto salesiano sotto il controllo dell’Associazione Nazionale Italiana: «Negli istituti così amministrati dall’Associazione i religiosi addetti non compaiono come missionari, ma semplicemente come insegnanti, e l’Associazione ha la rappresentanza delle scuole sia verso  le autorità Apostoliche, sia verso il Governo locale e le autorità consolari italiane. Perciò i religiosi vivono in una condizione di autonomia da tutte le autorità consolari, limitandosi verso il Consolato italiano al puro atto di ossequio, che è doveroso per ogni buon cittadino».[591]

Il nostro storico non prevedeva tuttavia che fosse così vicino il momento in cui i Salesiani presenti non sarebbero più stati soltanto italiani e soprattutto che tutta la regione avrebbe rivendicato la sua autonomia politica e culturale.

Costantinopoli e Smirne

Quache anno dopo, don Rua si accordò con l’Associazione Nazionale per creare simultaneamente due fondazioni in Turchia, una a Costantinopoli, l’altra a Smirne. La convenzione per Costantinopoli fu firmata congiuntamente da don Rua e dal professor Schiaparelli il 20 luglio 1903. Don Rua si impegnava ad aprire a Costantinopoli, nel settembre di quell’anno, una scuola elementare per ragazzi, alla quale si sarebbe aggiunta l’anno successivo una sezione di arti e mestieri, e gradualmente altre classi come più paresse conveniente. L'Associazione avrebbe versato, prima del 15 di settembre, un’indennità di 7000 lire per le spese di sistemazione, avrebbe fornito il materiale scolastico e avrebbe assicurato il sostegno materiale e morale.[592]

Il 26 giugno precedente, tramite Schiapparelli, l’Associazione Nazionale aveva proposto a don Rua, per il mese di ottobre, due scuole di ragazzi aperte a Smirne dal governo italiano nel 1878. Esse andavano a rotoli «per non esservi curata l’educazione cristiana». L’Associazione se ne incaricava negli stessi termini delle scuole d’Egitto e di Tripoli.[593] Don Rua e il suo Capitolo si affrettarono a dare una risposta positiva al segretario Schiaparelli, cosicché il verbale della riunione del Capitolo Superiore del 21 agosto 1903 annotava: «partiranno i Salesiani per settembre e prenderanno le scuole di Smirne».[594]

Ma non tutto andò per il meglio in Turchia. Il 21 agosto 1905, il Capitolo Superiore registrava una lamentela inviata dal console italiano a Schiaparelli. Si diceva poco soddisfatto del lavoro dei Salesiani a Smirne: si aspettava di più. Visto che le lezioni sarebbero riprese il 5 settembre, si telegrafò ad Alessandria perché don Cardano si recasse a Smirne per due o tre settimane allo scopo di avviare le classi e i laboratori. Il Capitolo era anche invitato a riflettere sul direttore da mettere a capo dell’opera.[595]

Da parte sua l’Associazione Nazionale faticava a onorare gli impegni finanziari assunti per la scuola di Smirne, come testimoniano i documenti degli anni successivi, soprattutto un Promemoria riguardante la casa di Smirne, non firmato, ma datato 17 febbraio 1906. Il suo tono è piuttosto irritato: il passivo dell’opera ammonta a 35-40 mila lire, di conseguenza si impone la chiusura, almeno temporanea, del corso commerciale, il più costoso, nell’ipotesi che l’Associazione mantenga l’assegno annuale di seimila franchi, «appena sufficiente (e forse neppure) per sostenere la Scuola Popolare della Punta»; questa misura non deve apparire «ingiusta», non lo è, secondo il Promemoria, perché l’Associazione Nazionale per prima non ha rispettato la convenzione, trascurando l’articolo sul materiale scolastico e sopprimendo le spese per l’acqua, il gas e il petrolio da riscaldamemento.[596]

L’Associazione Nazionale e le opere salesiane di Palestina

Nel frattempo, il prof. Schiaparelli e il nostro Rettor Maggiore puntavano la loro attenzione sulle opere salesiane di Palestina, le uniche del Vicino Oriente a non essere ancora interessate dall’Associazione Nazionale. La congiuntura politica, in quel principio di secolo, favoriva un cambiamento del sistema dei protettorati. Il governo francese, divenuto anticlericale, stava abbandonando senza nostalgie il suo antico protettorato sui cattolici e sulle missioni cattoliche della regione. Dunque sarebbe stato sufficiente far passare le case di Betlemme, Beitgemal, Cremisan e Nazaret sotto il protettorato italiano, per rendere possibile un contratto che le unisse ai beneficiari dell’Associazione Nazionale per soccorrere i Missionari Cattolici Italiani. L’affare fu trattato a Costantinopoli e a Roma.[597] L’Italia si sarebbe accordata con la Francia attraverso i rispettivi ambasciatori. Siccome era necessario l’assenso della Santa Sede, presso la quale l’Italia non aveva rappresentanza diplomatica, l’Associazione si fece carico delle procedure. Così il 9 settembre 1904 don Rua firmava, congiuntamente con Schiaparelli, una convenzione che vale la pena di citare, per le future ripercussioni sul personale salesiano arabo di Palestina.

Premesso: 1° che, come risulta dagli atti registrati presso il R.° Consolato d’Italia in Gerusalemme, gli immobili di Betlemme, Cremisan, Beitgemal e Nazaret con tutto quanto vi è contenuto già appartenenti al compianto Canonico Belloni, suddito italiano, sono passati in proprietà, salvi i diritti di Propaganda, di vari individui privati, tutti sudditi italiani; 2° che per tali circostanze, gli immobili stessi e gli istituti che vi sono insediati si devono trovare politicamente sotto il naturale e diretto Protettorato del R.° Console d’Italia; fra il Rev.mo Sig. D. Michele Rua, Superiore dei Salesiani, in rappresentanza della Comunità stessa, e il Prof. Ernesto Schiapparelli, Segretario dell’Associazione Nazionale per soccorrere i missionari cattolici italiani e in rappresentanza della medesima, si è addivenuto alla seguente convenzione:

Articolo 1°. Il Rev.mo Sig. D. Michele Rua colloca tutti gli Istituti Salesiani della Palestina sotto il Protettorato esclusivo dei RR. Consoli di Italia.

Articolo 2°. Lo stesso Sig. D. Rua si obbliga: a) ad aggiungere all’istituto di Betlemme un corso tecnico-commerciale; b) a riconoscere come obbligatorio l’insegnamento della lingua italiana, che colla lingua del paese sarà lingua ufficiale degli Istituti, e usata dagli alunni nella conversazione e dagli insegnanti nell’insegnamento di tutte le materie; c) a innalzare la bandiera nazionale in tutti i detti istituti, in luogo centrale ed eminente, in tutti i giorni festivi e nel compleanno delle LL. Maestà i Sovrani d’Italia.

Articolo 3°. Ai direttori dei detti Istituti è espressamente riservata piena autonomia nell’indirizzo religioso, morale, educativo, disciplinare e didattico; ma essi si onoreranno delle visite e dell’intervento dei Delegati dell’Associazione per constatare i buoni risutati dell’insegnamento e delle visite e dell’intervento dei RR. Consoli, segnatamente nelle circostanze solenni.

Articolo 4°. L’Associazione da parte sua, a titolo d’incoraggiamento, si obbliga: a) ad assegnare ai detti Istituti, complessivamente un sussidio annuo di Lire dodicimila (12.000), pagabili in rate trismestrali di lire tremila (3.000); b) a fornire il materiale scolastico italiano strettamente necessario agli istituti stessi.  

Articolo 5°. La presente convenzione andrà in vigore il 15 ottobre 1904, e si intenderà rinnovata di anno in anno indefinitivamente, se non venga disdetta da una delle parti tre mesi prima della sua scadenza normale.

La presente convenzione è redatta a Torino addì nove settembre 1904 in due originali che vengono firmati da ambe le parti.

Sac. Michele Rua, Rettor Maggiore della Pia Società di S. Francesco di Sales.

Ernesto Schiaparelli, Segretario Generale A.N.[598]

In riferimento ai punti sulla proprietà italiana delle case salesiane di Palestina e sull’obbligo di utilizzare la lingua italiana nella conversazione e nell’insegnamento, si potevano prevedere molte resistenze nell’eterogeneo ambiente palestinese. Ma Torino aveva intenzione di ignorarle. Per il momento, nel 1904, all’annuncio del contratto, il direttore di Betlemme, don Carlo Gatti, che non apprezzava il cambiamento di protettorato e aveva una buona intesa con il consolato francese, presentò le dimissioni.[599] Quanto a quello di Nazaret, Athanase Prun (1861-1917), che era francese e aveva un certo temperamento, rifiutò ogni dipendenza italiana e tentò di rientrare sotto il protettorato francese, cosa che porterà Schiaparelli a tagliare di un quarto il suo sussidio annuale alle case di Palestina.[600]

Alcuni anni più tardi, sotto il rettorato di don Albera, le tensioni saliranno a causa del movimento arabista. I discepoli arabi di don Belloni ricorderanno ai superiori che essi non erano italiani e si rifiuteranno di catechizzare i loro piccoli compatrioti in una lingua che comprendevano male o per nulla. Si giunse al punto che, nel 1917-1918, al tempo dell’ispettore Luigi Sutera (1869-1948), che non li amava, mentre era in corso la guerra tra Turchia e Italia, essi prenderanno il potere a Betlemme. I Salesiani italiani di Beitgemal e di Betlemme allora soffriranno molto e in qualche caso verranno anche denunciati dai loro stessi confratelli. La ribellione araba, sarà severamente domata al termine della guerra, nel 1919, dal visitatore Pietro Ricaldone, e provocherà il passaggio di una parte dei preti Salesiani arabi nel clero del Patriarcato latino.

Don Rua, inconsapevolmente, rendeva un servizio alla causa dell’italianità, destinata più tardi a svilupparsi orgogliosamente sotto Mussolini tra le due guerre mondiali. E i Salesiani, che si erano dati la zappa sui piedi con la convenzione del 1904 con l’Associazione Nazionale italiana, falliranno la loro auspicata inculturazione nel Vicino Oriente.[601]

I Salesiani in Cina

Durante i primi anni del XX secolo don Rua fece entrare i Salesiani anche in Estremo Oriente, in Cina, nell’enclave portoghese di Macao, e in India, a Mylapore presso Madras (oggi Chennai).

Nell’ambiente salesiano degli anni 1890, c’era la diffusa convinzione che don Bosco, nell’ottobre del 1886, parlando delle missioni in Cina con don Arturo Conelli (1864-1924), lo avesse designato a recarvisi un giorno.[602] L’interessato ne aveva parlato a un amico Gesuita della Civiltà cattolica, padre Francesco Zaverio Rondina, che gli aveva proposto di preparare l’opinione pubblica all’arrivo dei Salesiani con l’invio a Macao e Hong Kong di una documentazione su don Bosco e sulla sua opera. Così, la stampa locale avrebbe pubblicato alcuni articoli.[603] Don Rua incoraggiò don Conelli a soddisfarlo.[604] E questi spedì a padre Rondina le biografie di don Bosco scritte da Charles d’Espiney e Albert du Boÿs, una pubblicazione di mons. Spinola, e qualche circolare di don Rua.

L’innesto riuscì. Dopo nove anni, il nunzio apostolico a Lisbona Andrea Ajuti, arcivescovo titolare di Damietta, trasmetteva a don Rua la seguente richiesta del vescovo di Macao, mons. José Manuel de Carvalho, datata 2 aprile 1899: «Mi manca un Orfanotrofio per il sesso mascolino, dove s’insegnino arti e mestieri, a fine di poter vedere, se per tal mezzo mi riesca di attrarre ragazzi poveri, i quali essendo ivi educati, possano conseguire la grazia della conversione alla nostra Santa Religione. A quest’effetto ho pensato all’Istituto di Don Bosco. Vengo pertanto a ricorrere all’aiuto e protezione di V.E. per questa mia impresa, chiedendole lo speciale favore di ottenere dal Superiore Generale dell’Istituto due o tre fratelli per cominciare, perché i mezzi non sono molti. E quando V.E. mi autorizzerà a farlo, allora m’indirizzerò a lui per metterci d’accordo sulle condizioni con cui essi desiderano venir qua».[605]

Non era possibile prevedere un’opera salesiana ridotta a due o tre coadiutori, sarebbe stato contrario alle Costituzioni, osservò don Rua: si imponeva la partecipazione di un sacerdote perlomeno. Ma fu d’accordo sul principio. Il 20 giugno 1899, il nunzio rispondeva che mons. de Carvalho – probabilmente di passaggio a Lisbona – accettava di aggiungere ai coadiutori dell’orfanotrofio almeno un sacerdote e qualche chierico.[606] Don Conelli sembrava ormai designato per condurre la spedizione cinese. Don Rua gli mandò a dire il 4 dicembre: «Se tu credi, tra il serio e lo scherzevole fa’ sentire a S. Em. il card. Vanutelli la designazione fatta da D. Bosco di te per la prima casa salesiana in Cina e le attuali trattative per Macao».[607] Ma il vescovo di Carvalho morì (1904).

Il successore, mons. João Paulino de Azevedo e Castro, che aveva avuto occasione di ammirare i laboratori salesiani di Lisbona, era informato dei passi fatti di mons. de Carvalho. Da Macao scrisse a don Rua – in portoghese – il 17 aprile 1904: «Accetto pienamente il progetto convenuto tra il Rev.mo Superiore Generale e il mio predecessore di cui sono a conoscenza grazie alla S.V. Rev.ma in occasione del suo recente passagio per Lisbona. L’opera sarà composta da orfani cinesi destinati ad apprendere qualche mestiere. Unito ad essa ci sarà un convitto di ragazzi figli di Europei o Portoghesi di Macao che in gran parte si orientano al commercio. Questi riceveranno educazione ed istruzione nel convitto e andranno nel Seminario per la scuola e i corsi commerciali, accompagnati da un assistente. […] Perché il convitto e i laboratori possano inziare a funzionare sotto la direzione dei Salesiani mi pare che siano necessari, per lo meno, un direttore, tre prefetti e tre maestri d’arte: sartoria, calzoleria e arte tipografica. Questo è il personale che mi pare indispensabile [...]». E il vescovo esprimeva il desiderio che uno degli assistenti fosse capace di insegnare musica e di dirigere una fanfara.[608]

Don Rua preparò tutto, ma attese un documento formale prima di lasciar partire i suoi missionari per la Cina. Infine a Macao, il 29 dicembre 1905, mons. de Azevedo redasse un progetto di convenzione in dodici punti, valido per sette anni. Don Rua avrebbe inviato almeno un direttore, un assistente e quattro fratelli laici per la direzione e l’amministrazione di un orfanotrofio (art. 1). L’insegnamento sarebbe stato impartito sia nelle scuole che nei nei laboratori (art. 3). Il direttore scelto da don Michele Rua avrebbe avuto piena libertà nella disciplina interna dell’istituto (art. 4). Le spese erano a carico del vescovo (art. 6). Quest’ultimo avrebbe ottenuto dal governo viaggi gratuiti (art. 9).[609] La spedizione ormai organizzata doveva essere guidata da don Conelli, che attendeva da vent’anni l’evento. Ma sfortunatamente questi si ammalò all’inizio di gennaio e fu obbligato a restare in Italia. Così il 17 gennaio 1906 i missionari per Macao si imbarcavano a Genova sotto la direzione di don Luigi Versiglia (1873-1930).

Arrivato a destinazione, il primo compito di Versiglia era quello di concludere la convenzione come rappresentante di don Rua. Approvò i dodici articoli e li firmò congiuntamente con il vescovo il 20 febbraio 1906.[610]

Sfortunatamente don Versiglia avrebbe dovuto ben presto rinunciare ad alcune speranze, forse perché la situazione politica del Portogallo, di cui Macao era colonia, stava progressivamente precipitando. Infatti, col pretesto di sedare le sommosse causate dai repubblicani sotto il regime screditato del re Carlos I (1889-1908), il paese tra il 1906 e il 1908 fu sottomesso alla dittatura di João Franco. Il 1° febbraio 1908, Carlos I e il principe ereditario vennero assassinati; il secondogenito Manuel II, salì al trono all’età di 16 anni. Si possono immaginare le tensioni politiche e nazionaliste suscitate da questi avvenimenti nella piccola colonia cinese. Qui «tutto per il Portogallo», scriverà don Versiglia il 22 novembre 1908 nel rapporto a don Rua di cui noi terremo conto.

Le cose erano iniziate bene. Il 6 maggio 1906, in una lettera a don Rua, don Versiglia si era compiaciuto per l’apertura di un «Oratorio festivo».[611] «La nostra opera prospera», aveva annunciato il vescovo di Macao a don Rua, il 16 novembre.[612] Ma, dopo l’euforia degli inizi, la situazione dei Salesiani a Macao si era deteriorata. Il vescovo aveva introdotto nella struttura dell’orfanotrofio un comitato agli ordini del governo, come spiegava don Versiglia nel 1908. Contrariamente alla convenzione, i Salesiani non erano più liberi. Don Versiglia suggeriva di modificare la convenzione e intraprendere una vera e propria missione nella regione. Per questo, chiedeva a don Rua tre chierici che imparassero il cinese e fossero destinati a una missione propriamente detta in Cina. Bisognava, in questo progetto, ottenere l’appoggio della Congregazione della Propaganda Fide e della Società Nazionale per soccorrere i Missionari Italiani Cattolici. D’altra parte, sospettava che il vescovo attendesse la scadenza settennale del contratto per congedare i Salesiani italiani. Conveniva uscire per tempo da quel vicolo cieco dov’erano finiti per errore.[613]

Gli avvenimenti politici fecero precipitare le cose. In Portogallo, il re Manuel II, che aveva rinunciato al regime dittatoriale, fu ben presto rovesciato da un colpo di stato militare. Il 5 ottobre 1910 i rivoluzionari proclamarono la Repubblica. Una Costituente sciolse le congregazioni religiose, ruppe l’intesa tra Chiesa e Stato, annunciò l’insegnamento laico obbligatorio nelle scuole, concesse il diritto di sciopero… Di conseguenza nella metropoli e nelle colonie iniziò la cacciata dei religiosi dai conventi. I Salesiani di Macao, espulsi nel 1911, se ne andranno in direzione di Hong Kong. Ma la Provvidenza vigilava. Con quella disavventura, il sogno missionario di don Versiglia poteva finalmente realizzarsi. I Salesiani si stabilirono in territorio cinese, nella regione di Heung-Shan, tra Macao e Canton. Finalmente iniziava la vera opera missionaria dei Salesiani in Cina.

L’opera salesiana in India

L’introduzione dei Salesiani in India agli inizi del 1906, precisamente a Mylapore, vicino a Madras, è il risultato di una lunga serie di trattative tra il vescovo del luogo e don Rua.[614]

Il 6 dicembre 1898, il vescovo di Mylapore Antonio José de Souza Barroso scriveva (in francese) una lunga lettera a don Rua per avere i Salesiani nella sua diocesi. Lo faceva in maniera abile, evocando le intenzioni di don Bosco sulle Indie: «Conosco i Padri Salesiani di cui ho avuto occasione di apprezzare le opere. Don Bosco desiderava ardentemente fondare una casa nelle Indie. [...] Mi prendo dunque la libertà, Reverendo e caro Padre, di invitarvi ad aprire un orfanotrofio a Bandel, sulle rive dell’Hoogly: là ho una bella chiesa e un antico monastero molto grande, con dei terreni che metto interamente a vostra disposizione; ho l’impressione che Bandel risponderà mirabilmente alle esigenze dei vostri istituti per i giovani indigeni, come Beitgemal in Palestina. In secondo luogo, ho un collegio frequentato da 300 allievi di ogni religione e, a fianco, un seminario per la formazione di giovani europei e soprattutto nativi destinati al clero della diocesi: ve ne offro anche la direzione».[615]

Da un’annotazione manoscritta di don Rua in testa alla lettera apprendiamo che egli rispose al vescovo il 6 febbraio 1899: «Ci venga concesso qualche anno di tregua e poi tratteremo volentieri». Ma, nel momento in cui riceveva la risposta, mons. di Barroso l’11 aprile annunciò a don Rua che era stato trasferito alla diocesi di Porto in Portogallo e che avrebbe trasmesso la promessa al successore. Questi si chiamava Theotonio Manuel Ribeiro Vieira de Castro. Aveva un motivo personale per rivolgersi ai Salesiani: «L’anima apostolica di Don Bosco vuole davvero una o più fondazioni nell’India. Quando nell’agosto 1885, terminati i miei studi a Roma, io passai da Torino e andai a una vostra casa di campagna per ricevere la benedizione del vostro santo Fondatore, egli, posandomi la mano sul capo, mi disse che benediceva le mie opere. E quale opera benedirà più di un’opera così necessaria ed opportuna per cooperare alla salvezza eterna di 300 milioni d’infedeli che popolano le Indie?».[616]

Per iniziare le pratiche necessarie alla fondazione di un orfanotrofio salesiano nella sua diocesi, mons. Ribeiro cominciò con l’inviare a Torino uno dei suoi sacerdoti, L. X. Fernandez, che il 3 aprile 1901 si presentò a don Rua con un biglietto in latino.[617] Nella sua solita prudenza, don Rua rispose in quattro punti nella stessa lingua: 1° «Scribat nobis Episcopus» [ci scriva il vescovo]; 2° Si conceda ai Salesiani una tregua di quattro anni per preparare il personale; 3° Si provveda al viaggio di sei persone fino a Mylapore e almeno una volta al loro ritorno; 4° Si preveda, oltre all’abitazione per i Salesiani e i loro allievi, il necessario per essi per cinque anni.[618] Don Rua non voleva cacciare i suoi missionari in avventure senza uscita. Ma la risposta di don Rua al vescovo andò persa e l’affare si protrasse a lungo. Cosicché l’anno seguente, mons Ribeiro chiese al «patriarca» di Goa Antonio Sebastião Valente, di passaggio a Roma, di intervenire presso il procuratore salesiano don Marenco, il quale riferì a don Rua l’8 aprile 1902.[619] Il 30 aprile don Rua, imperturbabile, ripeté le sue condizioni. Ciò indusse il vescovo di Mylapore a scrivergli il giorno di Natale una lunga lettera che reiterava la sua proposta di un orfanotrofio, precisandola. «Dopo aver considerato tutte le circostanze, ho scelto fra le Missioni della mia diocesi, quella di Tanjore per il luogo del nostro orfanotrofio Salesiano. Ma se, quando i figli di Don Bosco arriveranno nell’India, crederan migliore un altro luogo della diocesi, dal canto mio non vi sarà difficoltà». E presentava in dettaglio i vantaggi della città di Tanjore.[620]

Gli scambi epistolari si susseguirono, tra il vescovo a cui urgeva raggiungere il suo scopo e don Rua ben deciso a non inviare i suoi missionari in India prima del 1905. Alla fine il 19 dicembre 1904 la convenzione venne firmata a Torino dalle due parti in causa, il Rettor Maggiore e mons. Ribeiro, in viaggio ad limina. Vi si percepisce la preoccupazione di proteggere il più possibile i Salesiani contro i rischi di un espatrio senza redditi propri, in capo all’Asia. Se ben aiutati, tuttavia, avrebbero avuto le mani libere nel loro lavoro. Leggiamo l’interessante testo della Convenzione:

Si conviene:

1) Il Superiore dei Salesiani invierà alla diocesi di Meliapor almeno sei persone per la direzione ed amministrazione di un orfanotrofio maschile con annesse scuole di arti e mestieri.

2) Il Vescovo provvederà pel viaggio gratuito (in prima o in seconda classe) di andata per sei persone e pel loro ritorno di una volta almeno e per la spesa di quei cambi che durante i primi cinque anni si dovessero fare per salute e altro ragionevole motivo.

3) Il Vescovo provvederà durante i primi cinque anni, non soltanto la casa, il vitto e le vesti ai Salesiani ed ai loro alunni, ma eziandio farà tutte le spese necessarie all’Istituto.

4) Quantunque quest’Istituto sarà sotto la giurisdizione del Vescovo diocesano tuttavia il direttore nominato dal Superiore, avrà piena libertà nella direzione, amministrazione e disciplina interna dell’Istituto.

5) L’accettazione degli alunni spetta tanto al Vescovo come al Direttore, badando però che gli alunni siano sani, vaccinati e di età non inferiore agli otto anni e non superire ai quindici.

6) Il Direttore però potrà licenziare quei ricoverati che giudicasse non atti per l’orfanotrofio ma ne darà avviso al Vescovo.

7) I Salesiani cercheranno d’imparare il Tamul e l’Inglese che sono le lingue più in uso nella diocesi.

8) Il Direttore ed il Vescovo cercheranno di mettersi sempre d’accordo in tutte le cose per l’edificazione dei preti e degli indigeni e pel bene delle anime e vantaggio dell’Istituto.

9) Le parti si riservano d’introdurvi dopo due anni di esperimento quelle modificazioni che paressero opportune.

Torino, Oratorio Salesiano

Li 19 Dicembre 1904

Firmati:

Theotonio Vescovo di Meliapor

Sac. Michele Rua Rettor Maggiore dei Salesiani di D. Bosco.[621]

La spedizione missionaria, composta di tre sacerdoti, un chierico, un coadiutore professo e un altro aspirante, aveva come superiore don Giorgio Tomatis (1865-1925). Si imbarcò a Genova il 18 dicembre 1904. Per essa don Rua aveva implorato una benedizione speciale del papa. Questi fece rispondere dal Segretario di Stato Merry del Val: «Il Santo Padre invia speciale benedizione al sacerdote Giorgio Tomatis e ai compagni che con lui stanno per recarsi alle Indie ed augura che Iddio non solo li prosperi nel lungo viaggio, ma anche ne renda fruttuose le fatiche, affinché la nuova missione renda ognor più benemeriti della Chiesa i figli di Don Bosco».[622] Sbarcati a Bombay il 6 gennaio 1905, arrivarono a Tanjore il 14.

Così nacque in India un’opera missionaria destinata, con il passare degli anni, ad assumere un’ampiezza straordinaria. Era il secondo insediamento riuscito in Estremo Oriente per opera del nostro don Rua. Il suo rettorato fu, per lo sviluppo mondiale della sua Congregazione, tanto decisivo per l’Asia quanto quello di don Bosco per l’America del Sud.


31 – L’ANNO 1907

La causa di beatificazione di don Bosco

Il 1907 fu per don Rua l’anno di una grande gioia turbata nel contempo da una terribile prova.

La causa di don Bosco, che gli stava tanto a cuore, raggiunse una tappa decisiva. Il lettore ci permetterà di ritornare al 1888, per comprendere fino in fondo la vicenda. Di fatto la procedura di una causa di beatificazione e di canonizzazione è complessa, somiglia, per così dire, a una corsa ad ostacoli. Don Rua, aiutato a Roma dal cardinale protettore e i dai procuratori salesiani, riuscì a superare la prima fase. Nel 1907 potrà annunciare alla Congregazione che «Don Bosco è Venerabile». Ma dopo aver penato diciannove anni per arrivare a quel primo risultato significativo.[623]

All’inizio, fu necessario ottenere l’approvazione dell’arcivescovo di Torino per aprire il processo diocesano di beatificazione e di canonizzazione, che avrebbe avviato la procedura. Don Rua cominciò coll’inviare, il 16 luglio 1889, una lettera collettiva ai vescovi del Piemonte e della Liguria sulla reputazione di santità e i miracoli di don Bosco.[624] Per incoraggiarli, il 16 agosto mandò loro una seconda lettera che documentava parecchie guarigioni umanamente inspiegabili, ottenute per intercessione di don Bosco.[625] Alcuni vescovi risposero in modo elogiativo. Cosicché il 6 settembre egli potè far sottoscrivere ai quarantanove membri del Capitolo Generale, allora riuniti a Valsalice, una richiesta molto documentata al cardinale Alimonda per la rapida apertura del processo. Allegò al documento le lettere pervenutegli dai vescovi. La petizione dei capitolari diceva: «Noi speriamo che la Em. V. vorrà accogliere benignamente questa nostra domanda. La nostra speranza è animata dal vedere che anche i Rev.mi Vescovi del Piemonte e della Liguria, i quali furono in grado di ben conoscere le virtù eminenti e le grandi opere del Servo di Dio, sono del nostro avviso, e nutrono lo stesso desiderio, come l’Em. V. può rilevare dalle lettere che le presentiamo». La supplica, accompagnata da una lettera di don Rua, venne consegnata al cardinale di Torino solo il 31 gennaio 1890, probabilmente per poter raccogliere, nel frattempo, un maggior numero di lettere episcopali.[626] Il cardinale rispose favorevolmente l’8 febbraio, ma chiese un po’ di tempo, forse per timore di qualche opposizione nell’episcopato. Tutto si risolse l’8 maggio, quando egli stesso accennò al problema in occasione di un’assemblea generale dei vescovi delle province di Torino e di Vercelli. La petizione dei Salesiani fu approvata all’unanimità, anzi, alcuni vescovi (Manacorda e Richelmy) si fecero notare per il loro entusiasmo in favore di don Bosco. Lo stesso giorno il cardinale Alimonia decise di aprire il processo informativo.

L’affare così preparato fu avviato rapidamente. Il 2 giugno 1890, don Rua nominò postulatore della causa Giovanni Bonetti; e questi il 3 giugno presentò la sua postulazione all’arcivescovo. Si doveva istituire un tribunale. L’arcivescovo vi rifletteva da tempo e lo costituì immediatamente.[627] La sua composizione poteva soddisfare don Rua. Il compito di promotore della fede (o avvocato generale, detto dal popolo «avvocato del diavolo»), era stato affidato al canonico Michele Sorasio, benevolo nei riguardi dei Salesiani, e non al canonico Emanuele Colomiatti, notoriamente accanito avversario della canonizzazione di don Bosco. Questi avrebbe dovuto accontentarsi di agire di nascosto, inviando una lettera a Roma al cardinale Caprara. Il 6 giugno don Rua, commosso e visibilmente inquieto, scrisse ai Salesiani una lunga circolare sull’apertura del processo di beatificazione del Fondatore, chiedendo a confratelli e allievi di implorare ogni giorno in pubblico o in privato la luce dello Spirito Santo e la protezione di Maria Ausiliatrice sull’eminentissimo arcivescovo di Torino, sul tribunale che aveva scelto, sul postulatore della causa, sui testimoni chiamati a deporre, affinché, assistiti dal cielo, nulla dicessero o facessero, nulla omettessero in contrasto coi decreti emanati dalla Santa Chiesa su questo genere di questioni.[628] Le trappole della procedura lo angosciavano.

Le prime due sedute del processo si tennero la mattina del 4 e del 27 giugno. Nel corso della seconda seduta, don Bonetti presentò al tribunale una serie di articoli, di cui è bene conoscere la storia, infatti avrebbero orientato le deposizioni dei testimoni.

Già a partire dalla morte di don Bosco, don Rua aveva chiesto a Bonetti di sintetizzarne vita e virtù in vista di una possibile canonizzazione. Bonetti, aiutato efficacemente dall’archivista Gioachino Berto, aveva prodotto quattro quaderni con più di ottocento articoli (o paragrafi). Su consiglio di Cesare Cagliero, procuratore salesiano a Roma, Bonetti li sottopose all’avvocato romano Ilario Alibrandi. Nel 1890, il lungo testo fu opportunamente ridotto e gli articoli vennero portati a 406. La prima parte di questi raccontava la vita di don Bosco e metteva in luce la sua reputazione di santità. La seconda presentava i fatti a documentazione dell’eroismo con il quale egli aveva praticato le tre virtù teologali (fede, speranza e carità), le quattro virtù cardinali (prudenza, giustizia, fortezza e temperanza), le virtù proprie allo stato religioso (povertà, castità e obbedienza), così come le principali virtù morali, soprattutto la pietà e l’umiltà (quest’ultima aggiunta su consiglio di Alibrandi). Gli articoli tendevano a dimostrare la presenza di queste virtù nella vita di don Bosco, soprattutto quando, nel corso della sua faticosa esistenza, si era trovato ad affrontare difficoltà familiari e sociali, malattie fisiche, tentazioni e vessazioni diaboliche, incomprensione dei parenti, dei collaboratori, degli amici, dei superiori, delle autorità civili e religiose. Si concludeva affermando che tutto in don Bosco dimostrava la perfetta corrispondenza alla grazia, la costanza nel bene e l’eroicità della «virtù», termine inteso nel senso più ampio. La lettura di questi articoli dovette fare grande piacere a don Rua, pronto a intervenire personalmente in qualità di testimone nel processo.

Le deposizioni al processo informativo

I ventotto testimoni raccolti da don Bonetti furono si presentarono al tribunale durante la terza seduta (23 luglio 1890), tutti riuniti nella cappella del seminario arcivescovile.[629] C’era un vescovo (mons. Bertagna), otto sacerdoti diocesani più o meno titolati, nove sacerdoti Salesiani (con don Rua in testa), due coadiutori salesiani e otto laici (commercianti, agricoltori e un semplice muratore). Al termine delle audizioni i testimoni saliranno a quarantacinque, di cui sei scelti ex officio (d’ufficio), e un altro, il sacerdote diocesano Giovanni Turchi, convinto a unirsi al gruppo dai Salesiani, preoccupati per la piega presa dalla vicenda dei libelli anti-gastaldiani attribuiti a don Bosco.[630]

Don Rua venne chiamato a testimoniare solo all’inizio dei cinque lunghi anni del processo informativo. Nel frattempo, morto il postulatore Giovanni Bonetti (5 giugno 1891) fu sostituito dal prefetto generale Domenico Belmonte (1843-1901). Il tribunale ascoltò don Rua nel corso di trentotto sedute, scaglionate tra il 29 aprile e il 10 luglio 1895.[631] Egli rispose dettagliatamente alle domande sul ministero pastorale di don Bosco giovane prete, sulla fondazione della Società Salesiana, sulla sua espansione, in particolare sulle missioni americane: tutte situazioni di cui era stato testimone diretto e spesso anche attivo protagonista. Alla ventunesima e ventiduesima domanda, non indugiò a dimostrare l’eroicità delle virtù teologali e cardinali del Fondatore, come si nota fin dalle prime frasi di ogni sua risposta. La sua fede? «Durante i trentasei anni in cui vissi al fianco di D. Bosco, vidi sempre in lui la massima esattezza e delicatezza nell’osservanza dei comandamenti di Dio e della Chiesa» (Positio, 436). La sua speranza? «La sua confidenza in Dio si manifestava nella circostanza di intraprendere opere difficili e grandiose» (Positio, 478). La sua carità verso Dio? «Il Servo di Dio si distinse in tutte le virtù; ma ben si può dire che la carità fu in lui, in modo speciale, luminosa» (Positio, 503). La sua carità nei riguardi del prossimo? «Animato com’era dall’amor di Dio, non poteva non essere acceso di carità verso il suo prossimo. Lo accennai come angelo tutelare a salvezza dei suoi compagni […] Fatto sacerdote, la sua vita divenne un tessuto continuo di opere di carità» (Positio, 555).

Interrogato sulla prudenza di don Bosco, don Rua rispose: «Aggiungo ancora poche cose intorno all’eroica prudenza del Servo di Dio. Nel trattare con qualsiasi classe di persone, la sua amabilità era pei ricchi, come pei poveri; e si faceva grande studio di non rimandare mai alcuno malcontento» (Positio, 595). Rispondendo alle domande sulla virtù della giustizia affermò: «Manifestava pure rispetto verso le autorità civili e governative, mentre non mancava del rispetto dovuto al capo dello Stato» (Positio, 630). A proposito della sua forza morale dichiarò: «Ammirevole ed eroica fu la fortezza di D. Bosco nel frenare le proprie passioni, nel sopportare fatiche, incomodi, tribolazioni; nell’intraprendere e sostenere le più ardue imprese», e il nostro testimone ne dava numerose prove (Positio, 667). La temperanza di don Bosco era, secondo don Rua, orientata dal suo amore alla purezza. (Positio, 716-723). Quanto all’umiltà testimoniò: «Riceveva con grande umiltà i suggerimenti dai suoi allievi, e prendeva in buona parte le loro osservazioni e direi perfino le correzioni. Ricordo...» (Positio, 759-765). Dopo aver raccontato la vita del Fondatore, don Rua aggiunse: «Nell’esporre le virtù che il Servo di Dio esercitò pel corso della sua vita, ho più volte accennato che le ammirai esercitate in modo eroico; tuttavia parmi opportuno aggiungere come lo vidi costante nella pratica delle medesime, in guisa da potersi dire che andò crescendo nella perfezione coll’avanzarsi degli anni, anziché smettere alcunché nel fervore» (Positio, 369).

Dopo di lui, tra il 7 e il 23 ottobre 1895,  testimoniò don Giovanni Turchi e i Salesiani, don Rua per primo, scopriranno quanto sarà determinante la sua testimonianza sulla vicenda dei libelli antigastaldiani. Infatti, pur senza un riconoscimento formale, quanti ne leggeranno la deposizione comprenderanno che don Turchi era l’autore degli sciagurati opuscoli, che il canonico Colomiatti continuava ad attribuire a don Bosco.[632]

La deposizione di don Rua, per quanto sobria, è una delle più sostanzione del processo e occupa ben 273 pagine della copia pubblica. Fu superato solo da Gioachino Berto (387 pagine) e Giulio Barberis (283 pagine), che però risultano molto ampollosi.[633]

Il 1° aprile 1897 l’arcivescovo di Torino Davide Riccardi presiedette la seduta di chiusura del processo informativo. Era durato sette anni, a causa di interruzioni dovute a vari decessi seguiti da nuove nomine. Nella circolare del 6 agosto 1907 don Rua scrisse: «I giudici diedero prova di molta dottrina nel raccogliere le deposizioni di numerosi testimoni, e cosa degna di esser ben considerata, lungi dall’essere annoiati dalla lunghezza e gravità del lavoro, se ne mostravano ogni giorno più entusiasti».[634] Nell’aprile 1897, don Belmonte poté consegnare alla Congregazione dei Riti a Roma la voluminosa pratica istituita a Torino.

A Roma la causa di don Bosco seguì il suo corso. Il 30 agosto del 1897, don Rua nominò postulatore don Cesare Cagliero, che era anche il suo procuratore presso la Santa Sede. Con decisione del 25 ottobre 1898, la Congregazione dei Riti ordinò la consegna di tutti gli scritti del Servo di Dio. La prescrizione venne ripresa a Torino dall’arcivescovo Riccardi e da don Rua stesso, in una lettera ai Salesiani dell’8 dicembre.[635] L’esame degli scritti si svolse dal 1902 al 1904, sotto il patrocinio del dotto cardinale Luigi Tripepi, molto favorevole alla causa. Il censore designato non trovò nulla da ridire, anche nell’apologia antigastaldiana, la più contrastata dal canonico Colomiatti, intitolata Esposizione agli Eminentissimi Cardinali (1881): si concluse che don Bosco si era limitato a difendersi, seppure in tono piuttosto aspro.[636]

Il 18 novembre 1901, don Rua fu il primo dei testimoni chiamati a deporre sull’assenza di culto reso a don Bosco (Super cultu numquam praestito).[637] Non c’era alcuna difficoltà a riconoscere quanto fosse stata grande la reputazione di santità, anche durante la sua vita mortale. Era questa ad attirargli la venerazione delle folle, soprattutto negli ultimi grandi viaggi. Ma non gli era mai stato reso culto pubblico, né nella camera mortuaria né presso la tomba a Valsalice. Don Rua non era neppure a conoscenza di una qualche forma di culto pubblico davanti ai suoi ritratti nei luoghi in cui erano esposti.

Opposizioni e repliche - Don Bosco è venerabile

La fase cruciale del processo arrivò nel 1907. Mons. Alessandro Verde, promotore della fede, si era distinto nel 1905 e 1906 per l’efficace durezza delle osservazioni sulle cause di Anna Maria Taigi e del padre minimo Bernardo Clausi. Nel marzo 1907, designato per esaminare la causa di don Bosco, presentò le sue Animadversiones (Osservazioni), destinate a sollevare obiezioni al proseguimento del progetto di beatificazione.[638] In sostanza mons. Verde denunciò una certa duplicità di don Bosco, a partire da una presunta affermazione di don Cafasso che si leggeva nella prefazione della biografia scritta dal dottor d’Espiney. La sua argomentazione era condensata nella formula: «Don Bosco è un mistero», attribuita al Cafasso. Sfortunatamente per mons. Verde (e per la memoria di don Bosco), tutto il brano era frutto di una costruzione oratoria di Louis Cartier, vero autore di quella prefazione. L’unica osservazione veramente del Calasso era forse l’altra espressione citata da Cartier : «Lasciatelo fare».[639] Comunque, mons. Verde ripercorse la vita di don Bosco, che tutti ritenevano sostenuta dalla grazia divina, per dimostrare che la reputazione di santità era fondata su sogni e profezie presentati ad arte. In realtà il suo comportamento abituale non era quello che ci si aspetterebbe da un santo. Egli appariva piuttosto come un uomo a caccia di successo e mosso da un sottile orgoglio. I Salesiani si erano dati da fare per magnificarlo e orchestrare la sua pretesa santità.[640]

Per fortuna dei Salesiani, la replica prevista venne affidata a un giovane e brillante sacerdote, don Carlo Salotti (nato nel 1870), grande ammiratore dello stile educativo salesiano, che aveva personalmente sperimentato. Secondo questo avvocato, tutta la costruzione delle Animadversiones tendeva a deformare i fatti, tacendo le circostanze significative ed esagerarando la loro importanza e portata. Sin dall’infanzia del piccolo saltimbanco, germogliò in lui il senso della preghiera e della carità zelante verso i compagni. I suoi sogni, a cominciare da quello dei nove anni, erano rivelazioni celesti. La sua estrema cautela nel raccontarli è prova della prudenza che lo animava precocemente. Nessuna chiacchera in lui, ma una voluta insistenza affinché i suoi successi fossero considerati come il risultato della fede e dell’intercessione di Maria. Nessuna ostentazione di penitenze corporali, ma una gioiosa offerta di sé nelle interminabili confessioni dei giovani e nelle molteplici collette in città, in Piemonte, nell’Italia, nell’Europa, durante viaggi spossanti e senza alcun fine turistico. Dunque era opportuno presentarlo come esempio luminoso a tutta la società cristiana e in primo luogo ai sacerdoti, lui che, giovane sacerdote, era stato presentato dal venerabile Giuseppe Cafasso come apostolo di Torino; lui che in seguito diede, tra genti molto diverse, prove abbondanti di zelo apostolico e che, con i suoi confratelli, si consacrò totalmente alla sana formazione della gioventù.[641]

Il contesto si faceva sempre più favorevole. Il cardinale Luigi Tripepi morì il 29 dicembre 1906. Il postulatore salesiano Marenco, cercò inutilmente di sostituirlo con i cardinali Rampolla, Gotti e Cretoni. Infine, come scrisse a don Rua il 7 gennaio 1907, trovò nel capuccino José Calasanz Vivés y Tuto, un cardinale disponibile e persino entusiasta.[642] Costui, nominato Ponente (responsabile) il 23 febbraio 1907, si mise subito al lavoro, come dimostrano le Animadversiones e la Responsio del marzo e aprile seguenti. «Il cardinale Vivés y Tuto è impegnatissimo – scrisse allora don Marenco a don Rua –. Credo che mai abbiamo avuto un Ponente tanto benevolo ed impegnato».[643] Finalmente si arrivò a una conclusione durante la seduta della Congregazione dei Riti del 23 luglio. Alla domanda sull’opportunità di introdurre la causa di beatificazione e di canonizzazione di don Bosco, il voto dei cardinali e dei loro consulenti risultò affermativo. L’indomani Pio X firmava il documento, che avrebbe recato la data del 28 luglio 1907. Marenco, pieno di gioia, ne scrisse a don Rua il giorno stesso della firma del papa: «Allora si potranno suonare tamburi e campane».[644]

Il decreto Supremus humanae familiae che ratificava l’introduzione della causa «per la  beatificazione e canonizzazione del ven. servo di Dio Giovanni Bosco, sacerdote fondatore della Pia Società Salesiana», firmato dal cardinale prefetto Serafino Cretoni, poneva la sua vita e la sua opera nella scia dei santi sacerdoti educatori dei tempi moderni:

Iddio supremo autore e reggitore dell’umana famiglia, come negli altri tempi, così nei nostri provvede con particolare cura alla cristiana società, sovvenendola con opportuni aiuti e rimedi, per mezzo di uomini singolari, illustri per luminosa e operativa virtù, i quali, percorrendo il loro camino, parvero comunicare a tutti il proprio spirito e il proprio ardore salutare e vitale. Fra costoro, nel secolo testé trascorso, la Divina Provvidenza mandò a presidio ed ornamento della sua Chiesa il sacerdote Giovanni Bosco, il quale seguendo fedelmente le orme di quegli uomini stanti, i quali furono Giuseppe Calasanzio, Vincenzo de’ Paoli, Giovanni Battista de La Salle e di altri somiglianti, con la Pia Società Salesiana da lui istituita e con varie altre opere, si consacrò interamente a procurare la salvezza delle anime e specialmente ad educare la gioventù nella pietà, nelle lettere e nelle arti, facendosi tutto a tutti per far tutti salvi.[645]

In questo documento non si faceva alcuna allusione a doti taumaturgiche, né durante la vita né dopo la morte di don Bosco; risultava semplicemente che tutta la sua vita e l’insieme delle opere da lui promosse dovevano essere considerate come una sorta di «teofania», riservata alla Chiesa in tempi difficili, come scrive con acume e spirito critico Pietro Stella.[646]

Don Marenco telegrafò subito la notizia il 24 luglio, poi si recò a Torino per consegnare di persona il documento a don Rua. Il nostro Rettore esultò. Il documento sanciva la «venerabilità» di don Bosco. Il 6 agosto, traboccante di gioia, diramò ai Salesiani una circolare tutta dedicata all’avvenimento.

Don Bosco è Venerabile! Quando mi toccò notificare con mano tremante a tutta la famiglia salesiana la morte di don Bosco, io scriveva che quell’annunzio era il più doloroso che avessi mai dato o potessi dare in vita mia; ora invece la notizia di Venerabilità di don Bosco è la più dolce e soave che io possa darvi prima di scendere nella tomba. A questo pensiero un inno di gioia e di ringraziamento erompe dal mio petto. Se vedemmo per tanti anni il nostro buon padre accasciato sotto il peso di indicibili pene, sacrifici e persecuzioni, com’è consolante vedere la Chiesa Cattolica intenta a lavorare per la glorificazione di lui anche in faccia al mondo! Se mai ci avesse sorpreso qualche dubbio che la nostra Pia Società fosse opera di Dio, ora il nostro spirito può riposare tranquillo dal momento che la Chiesa col suo infallibile magistero chiama Venerabile il nostro Fondatore. Quanto dobbiamo essere grati al Sommo Pontefice Pio X, che si degnò proporre la causa di D. Bosco allo studio della S. Congregazione molto più presto che non si soglia fare pur trattandosi di personaggi morti in odore di santità! Il cardinale Vivés y Tuto, Ponente della causa di don Bosco, porgendo le sue congratulazioni alla Pia Società Salesiana per la Venerabilità di don Bosco parlò di lui in modo da strapparci lacrime di gioia e da farci stimare come uno specialissimo favore della Provvidenza l’essere suoi figliuoli...[647]

I fatti di Varazze

Lo sforzo di don Rua per mantenere la calma, evidente a chi legge la circolare del 6 agosto, ha dello straordinario se si considera la sua sofferenza morale negli ultimi giorni di luglio causata dai fatti di Varazze. Quello non era, purtroppo, il primo scandalo denunciato dalla stampa. Il 21 maggio 1906, nel corso della riunione del Capitolo Superiore, don Baratta era entrato bruscamente in sala per informare che la casa di Intra aveva ricevuto l’ordine del Provveditore agli studi di evacuare tutti i collegiali entro quarant’otto ore.[648] Era la conseguenza di una storia di pedofilia che la stampa aveva reso pubblica. La causa intentata contro il chierico S. O. sarà giudicata il 25 maggio 1908, con la condanna dell’imputato a undici mesi di prigione.

L’affare di Varazze, invece, fondato su false testimonianze, prese tutt’altre dimensioni.[649] Don Ceria ne parla come di una vera e propria impresa diabolica, destinata a demolire la Congregazione Salesiana. Mi attengo al suo racconto, consapevole che certi dettagli marginali, per esempio i titoli dei giornali o le frasi degli interrogatori, potrebbero essere frutto dello spirito fecondo di don Amadei, primo narratore della vicenda. Ma la struttura dell’insieme, che troviamo nel memoriale di denuncia della calunnia, e gli interventi degli avvocati sono certamente esatti. Raccontiamo le prime giornate che ci ragguagliano sull’origine di una storia particolarmente sordida.

Il 29 luglio 1907, giorno successivo alla conclusione dell’anno scolastico, verso le sette del mattino, nella cappella del Collegio civico di Varazze, gestito dai Salesiani, una ventina di allievi stavano recitando le preghiere e assistevano alla messa attendendo il momento di ritornare alle loro famiglie. Improvvisamente uscì dalla sacrestia un gruppo di funzionari e agenti di polizia, entrò in presbiterio fino alla balaustra, senza rispetto per il carattere sacro della cerimonia, e ordinò al pubblico di smettere di pregare e uscire immediatamente. I collegiali vennero separati dai Salesiani e condotti dai poliziotti in refettorio, mentre i Salesiani furono raccolti in una classe. Il direttore, don Carlo Viglietti, incuriosito da quei movimenti insoliti, accorse e si imbattè nel sotto-prefetto di Savona che gli disse: «Cose gravi, cose gravi reverendo. Qui si commettono nefandezze incredibili».[650] Dopo la colazione gli allievi, a gruppi, vennero condotti alla caserma dei carabinieri per essere interrogati in presenza di una donna e di un ragazzo, di cui parleremo. I poveretti non sapevano proprio cosa rispondere.

Nel tardo pomeriggio, nella stessa caserma dove i Salesiani erano stati condotti, Viglietti, interrogato dal Provveditore agli studi di Genova, poté finalmente rendersi conto di che si trattava. Prese subito appunti, cosa che ci permette la certezza dell’obiettività.

Domandò di cosa si accusassero i Salesiani. «Ma la messa nera, la messa nera! – rispose il Provveditore – La messa nera!? Ma io non so che cosa voglia dire messa nera. – Non faccia l’ingenuo! Dica su, è vero o no che si faceva la messa nera nel collegio? – Ma permettetemi di chiedervi che mi si spieghi di che cosa si tratta». Fu chiamato il vicequestore che entrò indispettito e lesse su un piccolo taccuino una mezza pagina di sconcezze. Poi, interrompendo la lettura, si mise a urlare: «Ma io non debbo dare soddisfazione a costui; non leggo niente. La messa nera, lei lo sa, e non faccia il semplice, vuol dire che di notte tutti loro in casa, giovani e superiori, nudi, ballavano con tutte le suore. Del resto, lei sa benissimo. E poi le processioni dei fanciulli interni ed esterni, tutti nudi, con monache e frati, dentro e fuori di casa, bruciando statue e immagini di Vittorio Emanuele II e di Garibaldi. E lei sa delle violenze usate ai giovani da’ suoi preti, e basta». Ciò detto uscì sbattendo la porta. «Ebbene, riprese il Provveditore, confessa ora? – Sono costretto per la verità, rispose Viglietti, a negare ogni cosa. Noi non conosciamo nessuna suora; nessuna suora mise mai piede in casa nostra. Messa nera imparo adesso che cosa sia. Sono nefandezze inconcepibili. Nulla di simile, stia certo, è mai, mai successo in collegio. – Ma gli anni scorsi … gli anni scorsi … – Solo da ottobre sono a Varazze. Ma anche pel passato non credo sia successo nulla di tutto questo. E quanto alle violenze sui giovani, io conosco il mio personale e rispondo di tutti i Salesiani, e nessuno io credo capace di simii atti, nessuno. Del resto mi presentino un solo giovane che accusi un Salesiano di queste cose. – Ma neppure il Calvi ? Neppure il Disperati e il Crosio? –  Neppure! – Ma badi che ci sono le querele … Badi che lei stasera sartà arrestato … – Non so che dire, signor Provveditore, nego tutto. – E allora vada pure, io l’abbandono alla sua sorte».[651]

L’indomani 30 luglio, i Salesiani vennero lasciati in pace. Ma le perquisizioni e gli interrogatori toccarono alle Figlie di Maria Ausiliatrice, alle suore Immacolatine, alle suore della Neve, ai Cappuccini, all’arciprete e ad altri ancora, tutti denunciati per aver partecipato alle orge delle messe nere celebrate per nove mesi, nel collegio, da novembre a luglio. L’Istituto Santa Caterina, diretto dalle Figlie di Maria Ausiliatrice, in mattinata  fu visitato dalla polizia, che raccolse in parlatorio le suore e ventinove allieve non ancora partite per le vacanze. Quattro suore e una sola allieva furono indicate da un ragazzo condotto dai poliziotti (il ragazzo di cui stiamo per parlare) per aver preso parte alla messa nera del 23 aprile, verso le nove. Credettero subito, come parecchi ragazzi, che «messa nera» volesse dire messa da morto, che a quei tempi veniva sempre celebrata con paramenti neri, e, naturalmente, ammisero di sapere di che cosa si trattava. Allora un agente si spiegò brutalmente. Inorridite, le suore presentarono subito i loro alibi. La ragazza, invece, un’adolescente grandicella, rispose in modo arrogante ai poliziotti.

Nel frattempo veniva consegnato al direttore don Viglietti l’ultimo numero del Cittadino, il foglio anticlericale di Savona, con titoli e titoletti come questi: «La scoperta di turpitudini nel Collegio Salesiano di Varazze. Frati e monache compromessi. Gravi scandali. La chiusura del Collegio». Il giornale commentava l’inchiesta della polizia: «Pare che ne siano risultate cose incredibili, enormi, mostruose, inaudite negli annali dei collegi retti da frati e da monache».[652]  Non era che l’inizio della campagna denigratoria.

Una donna in età matura, vedova di un console, Vincenzina Besson, e un ragazzo quindicenne, Carlo Marlario, un trovatello che Vincenzina dava a credere fosse suo figlio Alessandro, avevamno architettato nell’ombra l’intrigo. Carlo Marlario era allievo esterno dell’Istituto Civico. Un giorno, per interposta persona, Vincenzina Besson, fece pervenire alle autorità un taccuino di origine misteriosa, attribuito al ragazzo. Era quello di cui Viglietti aveva dovuto subire la lettura di un estratto durante l’interrogatorio. Il taccuino conteneva una sua storia così costruita dalla vedova Besson. Il ragazzo avrebbe scoperto che venivano commesse infamie di ogni genere nel collegio. La presunta madre, invece di ritirarlo, volle che continuasse a frequentare la scuola, che assistesse alle oscenità e le raccontasse una dopo l’altra nel suo taccuino. Quando l’anno scolastico stava per concludersi, il taccuino partì alla volta di Roma. Là se ne fece una copia che si trovava ora a Varazze. Don Ceria ritiene che le sue pagine presumevano una cultura pornografica e una conoscenza della terminologia medica poco verosimile per un ragazzo di quindici anni. Tuttavia, la sera del 30 luglio, il confronto con il direttore Viglietti, davanti al procuratore del Re e a un giudice istruttore del tribunale di Savona, fu sorprendente. Viglietti annotò nel diario: «Da principio mi fece l’impressione di uno che recitasse la lezione studiata e lo dissi. Ma poi ho provato l’impressione che questo disgraziato fanciullo fosse invaso da un demonio». In effetti, lo sentiva dire con precisione i luoghi, nominare le persone, rispondere alle obiezioni, descrivere le messe nere con tale abbondanza di particolari da rimanere assolutamente sconcertato.[653] La querela dei Salesiani che denunceranno la calunnia tornerà spesso sulla qualità della lunghissima deposizione del ragazzo: «È un portento di chiarezza e di precisione. Non un lapsus. Non una stranezza di linguaggio, non una lacuna di memoria, non un’incongruenza di frase».[654] Se Carlo Marlario aveva imparato una lezione, l’aveva fatta sua alla perfezione.

La notizia era esplosiva e fece rapidamente il giro d’Italia. I grandi giornali moltiplicarono le edizioni. La curiosità del pubblico andava crescendo di giorno in giorno. I titoli erano costruiti in modo da attirare l’attenzione: «Turpitudini inaudite a Varazze. Un porcaio a Varazze. Inaudite  nefandità nel Collegio dei Salesiani a Varazze. Gli scandali neri. La messa nera ovvero le gioie del paradiso. I brutti scandali di Varazze. Rivelazioni di laidezze pretesche. La liturgia nera».[655] Quel genere di informazioni, di cui, con un minimo di spirito critico, si sarebbe potuto intuire l’inconsistenza, provocò anche manifestazioni violente e talvolta selvagge in varie città. Per esempio a La Spezia, la plebaglia si mise a girare per le strade, fischiando e urlando contro i preti, prendendosela con le chiese, scontrandosi con la polizia, tanto che venne proclamato «lo stato d’assedio». A Sampierdarena, ad Alassio, a Savona, a Faenza, a Firenze e altrove, i collegi salesiani vennero presi di mira da gruppi di esaltati. I disordini si estesero a città in cui non esistevano scuole salesiane, come Livorno o Mantova.[656] Circolò anche la voce che i carabinieri avessero arrestato e imprigionato un chierico e un vecchio coadiutore di Varazze. In parlamemto gli anticlericali invocavano l’abolizione degli istituti tenuti da religiosi e religiose.

Il 2 agosto, un decreto prefettizio ordinava la chiusura provvisoria del collegio di Varazze. Il 3 agosto un decreto analogo interessava l’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice. Evidentemente i Salesiani, in un primo momento storditi dalla valanga di ingiurie, incominciarono a reagire come meglio sapevano. Incoraggiati dai loro amici, ex-allievi e Cooperatori, decisero di denunciare a loro volta la calunnia e chiedere giustizia. La popolazione di Varazze li sosteneva e si scagliava contro la vedova Besson. Il 3 agosto, i Salesiani aiutati da avvocati del foro di Torino presentarono una querela per calunnia e diffamazione. E l’onda iniziò a calmarsi.

Ma le procedure giudiziarie richiedono tempo. Il decreto del ministro di Grazie e Giustizia che autorizzava la riapertura del collegio di Varazze arrivò soltanto il 26 novembre 1907. Poi, nel giugno 1908, il tribunale di Savona riconobbe la totale inconsistenza delle accuse mosse contro i Salesiani. Passarono altri due anni e, il 2 agosto 1910, lo stesso tribunale giudicò fondata la loro querela per calunnia e diffamazione pubblica. I Salesiani credevano che alcuni massoni avessero manipolato i due accusatori, in particolare un medico di Varazze che, secondo la vedova Besson, le aveva suggerito di far scrivere da Carlo Marlario un memoriale di tutte le indecenze a cui avesse assistito o che gli fossero raccontate dai compagni.[657] Ma l’inchiesta supplementare si impantanò nel 1912.

Don Rua nella tormenta

Ritorniamo a Torino per concentrarci su don Rua. A fine luglio 1907, quando scoppiò lo scandalo, era ammalato.[658] Le persone che andavano a fargli visita lo mettevano al corrente degli avvenimenti. Malgrado il suo immenso dolore, mantenne una calma e una serenità eroiche. Pregava e faceva pregare. Talvolta chiedeva i giornali della parte avversa, ne ascoltava impassibile un estratto e si limitava a esclamare: «Vedete ciò che hanno il coraggio di scrivere». E si diceva certo che quel castello di assurdità sarebbe presto crollato. Si raccoglieva: «Bisogna pregare».[659]

Ma attorno a lui gli ex-allievi si diedero da fare. La sera del 2 agosto, il Circolo Don Bosco di Torino votò una violenta protesta contro la scellerata campagna orchestrata ai danni dei Salesiani e la passività delle forze dell’ordine in tale circostanza. Quando, l’indomani, il suo presidente ne mostrò il testo a don Rua, questi lo ringraziò, ma aggiunse: «Non è troppo forte?». Pensava che i funzionari avessero creduto di fare il loro dovere e che non si potesse giudicarli. Il presidente sbalordito dovette sorbirsi una bella predica sulla carità e sul precetto evangelico di amare il prossimo come se stessi (Gc 2,8). Ma il telegramma era già stato inviato...[660]

Lo stesso giorno, un altro ex-allievo, Giovanni Possetto, non leggendo in alcun giornale notizie di una reazione difensiva da parte dei Salesiani e temendo che non si facesse nulla, si precipitò a Torino per parlare con don Rua. Del suo colloquio ha lasciato una relazione minuziosa, di cui ricorderemo il tono generale e qualche elemento.[661] Possetto trovò don Rua seduto vicino alla scrivania, coperta di carte e di lettere, con una gamba rigida e fasciata distesa su una sedia posta a fianco. Era pallido, più che pallido, terreo, emaciato, con gli occhi gonfi e arrossati che trattenevano una lacrima in procinto di cadere sospesa agli angoli. La loro vivacità era scomparsa. Tutto il suo viso d’asceta corrispondeva agli occhi. «Povero don Rua, mai e poi mai l’avevamo visto così depresso, così addolorato». Disse di sentirsi incapace a fronteggiare il torrente di infamie scaricato sulla Società Salesiana. D’altra parte questo era il suo castigo, un debito che doveva pagare per aver osato accettare l’incarico che occupava. Tutto ciò che ci capita di bene o di male è sempre opera della volontà divina. Si rifugiava nel pianto e nella preghiera, implorando Dio che scaricasse soltanto su di lui il peso di quella prova. Solo un miracolo avrebbe potuto venire a capo delle calunnie che intaccavano la sua Società. Possetto si sforzò di confortarlo. Bisognava scuotere le autorità. Tutta l’istituzione salesiana era attaccata. Le infamie diffuse ferivano il suo onore. Aiutati che il ciel t’aiuta! Certo, bisognava confidare nell’aiuto di Dio, ma era necessario muoversi subito con una vibrante protesta al prefetto, poi chiedere un’inchiesta in tutte le case salesiane. Il povero don Rua moltiplicava le obiezioni, parlava di rassegnazione e diceva di non voler irritare ulteriormente gli avversari provocandoli con quell’inchiesta. Il colloquio durò a lungo. Alla fine don Rua si lasciò persuadere. «No, no, esclamò, portae inferi non praevalebunt» [Le porte degli inferi non prevarranno].

Oggi non riusciamo ad immaginare le proporzioni dello scandalo scatenato a Varazze e le sue ripercussioni fino in Sicilia e ai confini del paese, non solo, ma nel mondo intero. Leggiamo ciò che scrisse don Rua ai Cooperatori, nella lettera annuale sul Bollettino Salesiano del gennaio 1908: «Sono note anche a voi le infami calunnie che nella scorsa estate si cercò di accumulare sul nome dei figli di D. Bosco, le quali (con grave scandalo chi sa di quante anime!) trovarono un’eco fulminea in tutto il mondo».[662]

Inseriamo qui, a titolo informativo, una protesta che, secondo Angelo Amadei, don Rua avrebbe telegrafato al ministero dell’Interno a proposito dei disordini di La Spezia. Non ci rimane nessuna minuta del documento. Il nostro storiografo, che non consultava gli archivi del governo italiano, la ricostruì liberamente, come segue.

Sua Eccellenza il Ministro dell’Interno. Roma.

Notizie pervenutemi da Spezia mi mettono in grande angustia per la sicurezza personale dei Superiori e allievi di quell’Istituto salesiano, minacciato da una plebaglia selvaggia. È doloroso che un istituto benefico, posto quasi nel centro di una grande città, istituto nel quale sono ricoverati numerosi figli del popolo, debba passare giorni di angosciosa trepidazione per opera di malviventi e non trovi la necessaria difesa nelle autorità. Contro questo stato di cose io ricorro alla sollecitudine di Vostra Eccellenza ed invoco la protezione, alla quale ha diritto ogni cittadino.

Sac. Michele Rua.[663]

Ad ogni modo, a partire dal 5 agosto, don Rua si riprese. I verbali del Capitolo Superiore lo dimostrano. Ma non sotto forma di proteste indignate, come si potrebbe immaginare. Adottò un tono piuttosto dimesso, analogo a quello tenuto nel colloquio con Giovanni Possetto. Conosceva bene le inevitabili debolezze dei suoi figli. I verbali ci svelano i suoi veri sentimenti in quei giorni tormentati. Il 5 agosto don Rua, dopo aver ricordato «il punto critico in cui ci troviamo, forse il più critico che abbia attraversato la Congregazione, facendo astrazione dalla malignità degli uomini, [aggiunse che] vi vuol scorgere un avvertimento dal Cielo, dal Ven. D. Bosco e vorrebbe aprofittare per sempre meglio purificare le nostre case eliminando gl’indegni ed allontanando l’offesa di Dio, ultimo scopo dell’opera di D. Bosco. Il Sig. D. Rua propone anzitutto si vada molto a rilento e con tutta precauzione nell’accettare al noviziato, alla professione e dalle sacre ordinazioni».[664]

Per conoscere meglio il personale delle case, era necessario avviare un’ispezione generale. Secondo il verbale furono prese quattro decisioni:

1. Allontanare dal consorzio dei giovani quei tali (siano essi sacerdoti, chierici o coadiutori – professi, ascritti o famigli) che si sono gravemente macchiati per moralità o sevizie.

2. Dare altra occupazione a quei Direttori che non sono atti a disimpegnare il loro ufficio soprattutto per la direzione dei confratelli e la sorveglianza dei giovani.

3. Ridurre il numero degli Ispettori per poter così aver maggior copia di buoni Direttori e confessori, di cui si sente grande bisogno.

4. Indire entro l’anno 1907-1908, quasi contemporaneamente, una visita generale a tutte le case della Congregazione a fine di avere sott’occhio il vero stato morale, disciplinare, economico dell’intera Congregazione. [...] Il Sig. D. Rua aggiunge che quando vi sono accuse di immoralità bisogna che i superiori locali vadano bene a fondo della gravità della mancanza e che riferiscano subito e bene, acciò si possa prendere quelle decisioni stimate opportune, tra le quali egli accenna quella di far deporre l’abito talare quando il colpevole fosse un chierico non ancora in sacris.[665]

In seguito il Capitolo Superiore dedicò al problema tre riunioni, l’8 e il 9 agosto, che furono oggetto un unico verbale:

In queste tre sedute il Capitolo si occupò principalmente nel designare quei soggetti che, a suo giudizio, dovevano essere esclusi dalle case salesiane e nel segnalare agli Ispettori quei confratelli che debbono essere segregati dal consorzio dei giovani o bisognosi di speciale sorveglianza, come pure nell’indicare quei direttori delle case d’Italia che un altr’anno dovranno avere altra occupazione, perché non atti a disimpegnare il loro ufficio, soprattutto per la direzione dei confratelli e la sorveglianza dei giovani. Si tracciano alcune norme agli Ispettori, cose tutte dette nella lettera riservata del Sig. D. Albera in data 12 c.m. Gli Ispettori d’Italia furono invitati al più tardi pel 22 a recarsi a Torino per un più completo affiatamento col Capitolo. Agli altri si raccomandò che esponessero per iscritto le loro idee ed i loro progetti pel buon andamento delle case delle rispettive ispettorie cui sono preposti.[666]

Di fatto, il 23 e 24 agosto gli ispettori d’Italia passeranno uno dopo l’altro di fronte al Capitolo Superiore.

Il 29 settembre, festa di San Michele, si fece a Valsalice una magnifica celebrazione in onore del venerabile don Bosco, presso la tomba. Un messaggio autografo di Pio X, indirizzato «al diletto don Rua Superiore Generale», consolò definitivamente il Rettor Maggiore dei soprusi subiti nelle terribili settimane di luglio-agosto.[667] I Cooperatori della Sicilia fecero stampare un indirizzo di tre pagine, esplicitamente datato 29 settembre 1907: A D. Michele Rua. Omaggio di stima, di venerazione e di protesta contro gli insulti lanciati alla Congregazione Salesiana (Torino, Tip. Salesiana, 1907).[668] E don Rua chiese di inserire nel Bollettino Salesiano di ottobre un’«importante dichiarazione» in cui si affermava essenzialmente che l’Istituto civico di Varazze, diretto dai Salesiani, come l’Istituto Santa Caterina della stessa città, diretto dalle Figlie di Maria Ausilitrice, erano del tutto innocenti nei riguardi delle infamanti accuse contenute nel famigerato diario di un ragazzo. La dichiarazione si concludeva così: «E poiché: 1° è falsa l’accusa che vi si commettessero inconcepibili nefandità, denominate messe nere; 2° è falsa l’accusa che uno degli insegnanti tenesse lezioni nella scuola in abito indecente; 3° è falsa l’accusa che si sia recato sfregio all’effigie del Sovrano e del genarale Garibaldi, quei due istituti furono costretti per tutela della propria onorabilità a sporgere querela per diffamazione e calunnia contro gli accusatori».[669]

L’ondata delle calunnie anti-salesiane calò nuovamente.

La condanna del modernismo

Non ci risulta che ci sia stato alcun genere di ripercussione sulla Società Salesiana della repressione antimodernista, culminata nel 1907 con il decreto Lamentabili sine exitu del 17 luglio, in cui si condannavano 65 proposizioni del modernismo biblico e teologico, e con la promulgazione dell’enciclica Pascendi del 10 settembre, che tracciava gli orientamenti del movimento dottrinale e riformista. I quadri dirigenti della Congregazione e i suoi insegnanti erano troppo fedeli alla Santa Sede per lasciarsi seriamente tentare dal modernismo dottrinale sviluppato in Francia e in Italia all’inizio del secolo. La Storia sacra e la Storia ecclesiastica di don Bosco erano ancora in uso. Tuttavia, il 1° novembre 1906, una lettera circolare di don Rua chiese a ispettori e direttori di vigilare e lottare contro le tendenze moderniste.[670] Notiamo che nel corso del decisivo secondo semestre 1907, le circolari del Rettor Maggiore e del prefetto generale abbondano di raccomandazioni pratiche di ogni tipo (sulle vacanze dei confratelli fuori dalle case salesiane; sulle vacanze abusive degli allievi a Natale e in estate; sulla tenuta degli archivi delle case; sul regolamento degli Oratori festivi; su quello degli esercizi spirituali, ecc.), ma ingnorano del tutto il termine e le tendenze del modernismo. Dalla documentazione disponibile emerge soltanto una misura emanata dal Capitolo Superiore il 16 settembre, all’indomani della Pascendi. Leggiamo nel verbale: «Si delibera di far stampare nel testo latino ed italiano le 65 proposizioni condannate sul Modernismo e precedute da una lettera del Sig. D. Rua e mandarne copia a tutti i sacerdoti o studenti di teologia della Congregazione».[671] La sottomissione della Società Salesiana alle istruzioni romane doveva essere esemplare in tutto. Facendo eco a quella direttiva, qualche mese più tardi il consigliere scolastico don Cerruti chiederà ai direttori e agli ispettori di studiare e diffondere il Catechismo sul modernismo di Jean-Baptiste Lemius, operetta particolarmente severa contro la nuova «eresia».[672]

Nel frattempo, forse in seguito a voto fatto durante la bufera di Varazze,[673] don Rua cominciò a programmare un lungo pellegrinaggio nel paese di Gesù. Dal momento dell’assunzione dell’incarico, l’anno 1907 era stato per lui il più glorioso e il più doloroso di tutti. Ottenendo per il Fondatore il titolo di venerabile, aveva coronato un’impresa iniziata all’indomani della sua morte e perseguita con tenacia per diciannove anni. Il grave complotto di luglio-agosto non era riuscito a gettare fango sulle istituzioni di cui egli era responsabile, la Congregazione Salesiana e l’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice che gli stava molto a cuore. La congiura era stata sventata. Dunque sentiva il dovere di ringraziare la Provvidenza, che gli aveva permesso di superare tempi estremamente ardui per il suo corpo e il suo spirito. Nello stesso tempo il pellegrinaggio gli avrebbe permesso di partecipare in prima persona all’indispensabile ispezione generale delle case salesiane sparse nei vari continenti.

 


32 – SETTE MESI DI FATICHE E DI GIOIE

La visita straordinaria alle case della Congregazione

I primi mesi del 1908 furono ricchi di emozioni per il nostro don Rua. Tre avvenimenti li caratterizzarono: l’organizzazione di una visita straordinaria alle case salesiane, un viaggio in Oriente e il processo informativo diocesano di Domenico Savio.

L’idea di una visita straordinaria in tutte le case della Congregazione era venuta a don Rua nel subbuglio sorto attorno ai «fatti» di Varazze, come risulta dalla riunione del Capitolo Superiore del 5 agosto 1907. Il progetto maturò e prese corpo all’inizio dell’anno seguente.

Saggiamente, don Rua si spiegò in una circolare ai Salesiani datata 18 gennaio 1908, interamente dedicata alla visita straordinaria. Bisognava evitare di allarmare i Salesiani. Perciò si rifugiò dietro al dettato delle Regole. Le Costituzioni gli chiedevano di visitare una volta all’anno di persona o tramite un delegato tutte le case della Congregazione. Fino a quel momento aveva viaggiato molto e gli ispettori l’avevano correttamente supplito. Ma niente avrebbe potuto sostituire un visitatore straordinario, libero da legami di affetto o di interesse con l’opera e i confratelli, il quale ispirando piena fiducia ad ognuno, sarebbe stato nelle migliori condizioni per prendere atto di tutto e riferire. Il nostro Rettore ci tenne a precisare che non si trattava di un’inchiesta poliziesca. Al contrario si disse persuaso che, qualora i visitatori da lui delegati avessero constatato qualche miseria – poiché «noi tutti siamo figli di Adamo» – avrebbero avuto anche la consolazione di rendersi conto del gran bene che si faceva nelle case, grazie allo zelo e all’attività dei confratelli preposti alla loro direzione.[674]

Bisognava creare lo strumento addatto alla visita e conferirgli la solennità appropriata. Nel corso delle sedute capitolari del 13, 14 e 15 gennaio, si decise che le visite sarebbero iniziate nel mese di marzo successivo. Il Capitolo compilò le istruzioni ai visitatori. Le ispettorie furono suddivise in dieci gruppi (che diventeranno undici) e se ne designarono i rispettivi visitatori. Essi, convocati a Torino (ad eccezione dei visitatori d’America), avrebbero prestato giuramento nelle mani del Rettor Maggiore, mentre gli assenti sarebbero stati rappresentati da un delegato. Il Capitolo Superiore prese visione della lettera di don Rua datata 18 gennaio e del questionario che i visitatori dovevano compilare.[675]

La cerimonia dell’invio in missione si svolse davanti ai membri del Capitolo Superiore il 30 gennaio, alle dieci del mattino, nella piccola cappella di don Bosco nell’Oratorio. Don Rua la presiedette in cotta e stola. Erano presenti sette visitatori tra quelli nominati; li accompagnavano quattro confratelli in rappresentanza dei quattro visitatori assenti. Si cantò l’Ave Maris Stella e il Veni Creator. Don Rua commentò la circolare del 18 gennaio. Il pro-segretario del Capitolo lesse la lettera di nomina e di presentazione di ciascun visitatore. Dopo alcuni avvisi paterni del Rettor Maggiore, i visitatori e i delegati prestarono giuramento in latino: «Invoco Dio a testimone, che eseguirò fedelmente l’incarico che mi è stato comunicato e manterrò il segreto». Tutto si conclue verso le undici, con la preghiera rituale dell’Agimus.[676] Don Rua inaugurava in tal modo un atto molto importante del suo rettorato. Sperava che la Congregazione sarebbe uscita dalla visita straordinaria purificata dalle scorie che la deturpavano, di cui era molto preoccupato. Era convinto che tutto avrebbe coadiuvato «alla maggior gloria di Dio e al bene delle anime», scopo essenziale della Congregazione affidata alla sua responsabilità.

Con questi sentimenti scrisse una lunga circolare in data 31 gennaio 1908, intitolata Vigilanza. Certamente, il torrente di infamie rovesciato dalla stampa sulla Congregazione, durante le terribili settimane di luglio e agosto, proveniva dal maligno. Nulla, assolutamente nulla lo giustificava. Ma se ne poteva trarre anche un monito salutare: «I fatti accaduti l’anno scorso sono altrettanti avvertimenti che il Signore ci invia perché noi siamo più attenti ai pericoli che si incontrano nella missione delicata e non sempre facile di educatori della gioventù». Raccomandava dunque che si evitasssero parzialità, amicizie particolari, carezze, anche se ispirate da equilibrato affetto. E raccontava la storia incredibile di due fratelli mandati dal padre in un collegio salesiano espressamente per tentare i maestri. Fortunatamente avevano incontrato degli ottimi educatori, si erano accostati ai sacramenti ed erano stati trasformati nel giro di poche settimane. Giunto il tempo delle vacanze, al momento della partenza, il maggiore era andato a trovare il superiore per ringraziarlo e, piangendo, gli aveva confessato la manovra ordita dall’indegno padre, «uomo senza religione e senza moralità», che avrebbe voluto trascinare i Salesiani davanti alla giustizia, fare un processo ai religiosi e ai preti e ottenere in risarcimento una bella somma di denaro. L’educatore non è mai abbastanza prudente.[677]

Don Rua in viaggio verso l’Oriente

Don Rua si disponeva allora a partire per un lungo viaggio in Oriente. Il 20 gennaio 1908 gli era stato consegnato un passaporto per l’Europa, la Turchia asiatica e l’Egitto.[678] Progettò di attraversare l’Europa centrale fino all’Asia Minore e alla Palestina e di tornare passando dall’Egitto e dall’Italia del Sud. L’economo generale Clemente Bretto (1855-1919), visitatore straordinario per l’Oriente, l’avrebbe accompagnato e avrebbe così assolto alla sua missione particolare. Nella mente del Rettor Maggiore il viaggio, che durerà dal 3 febbraio al 20 maggio, aveva due obiettivi principali: innanzitutto una migliore conoscenza della situazione salesiana, e poi un contatto diretto con i luoghi santi. Doveva essere, come fa intendere nella sua circolare conclusiva, l’occasione per la visita attenta delle case salesiane e un pio pellegrinaggio in Oriente.[679]

Seguiamolo nel suo itinerario più direttamente salesiano.[680] Lasciò Torino il 3 febbraio e, passando per il Veneto, fece tappe più o meno prolungate, tutte degne di interesse, nelle varie case salesiane dislocate sul territorio dell’impero Austrio-Ungarico, specialmente in Slovenia (Lubiana e Radna). Col compagno di viaggio attraversò la Serbia e la Bulgaria in ferrovia sull’Orient Express e giunse a Costantinopoli la domenica 16 febbraio. Durante il tragitto, nello scompartimento in cui era confinato, don Rua soffrì molto perché non poteva stendere le gambe malate.

Costantinopoli, Smirne, Nazaret

Erano entrati nell’impero ottomano e don Bretto si trovava sul territorio dell’ispettoria orientale di cui aveva la responsabilità come visitatore. Le tappe del viaggio si prolungarono, tutte connotate da elementi comuni: applausi e discorsi, saluti alle autorità religiose e alle autorità consolari italiane, visite ai benefattori e alle case di diversi ordini e congregazioni, ma soprattutto un’attenzione tutta particolare ai nove centri salesiani della regione. Così a Costantinopoli, dove si fermarono dal 16 al 24 febbraio, don Rua, ospite della casa salesiana, si preoccupò di visitare il delegato apostolico, l’ambasciatore d’Italia e sette istituti religiosi: Domenicani, Lazzaristi, Fratelli delle Scuole Cristiane, Gesuiti, Conventuali, Cappuccini e Figlie della Carità di S. Vincenzo de’ Paoli. Lungo il percorso si mostrerà anche attento a prendere contatto con le chiese locali.

Qui ci concentriamo sulle case salesiane e sui ricordi significativi di don Rua; il lettore ci perdoni se ignoriamo il dettaglio di numerosi scali intermedi. La sera del 24 febbraio, i nostri due viaggiatori, via mare, lasciarono Costantinopoi per Smirne, dove, come sappiamo, i Salesiani gestivano due opere: una scuola commerciale e una scuola popolare con annesso Oratorio. Vi soggiornarono dal 25 febbraio al 6 marzo, e si concessero una visita ad Efeso, dove don Rua voleva venerare il ricordo del Concilio ecumenico del 431. Scriverà: «Tra i ruderi di quel tempio ove fu condannato Nestorio e fu solennemente proclamata Maria Madre di Dio, sentii i miei occhi riempirsi di lacrime, e supplicai, con tutto il fervore di cui ero capace, la nostra Madre Celeste di continuare a coprirci col suo manto e di concedere a tutti i Salesiani la grazia di essere zelanti promotori della sua divozione e propagatori delle sue glorie».[681]

Il 3 marzo, martedì grasso, gli oratoriani di Smirne organizzarono per i visitatori un pomeriggio molto divertente con una sfilata burlesca e una gioiosa commedia. Il 6 marzo, da Smirne, prima in battello, poi treno, infine in vettura a cavallo, si avviarono a Tiberiade, attraverso Beirut e Damasco. Attraversarono il lago su un’imbarcazione. Don Rua confiderà ai confratelli: «Ebbi la fortuna di solcare su d’una barchetta le onde di quel lago di Genezareth, su cui il Divin Salvatore aveva camminato a piedi asciutti, di cui aveva sedato con l’onnipotenza della sua parola una orribile tempesta, che aveva attraversato tante volte nella barchetta di Pietro. Mi parve allora di assistere alla pesca miracolosa. Nel mettere piede a terra mi immaginai eziandio di vedere la sponda gremita di gente che ascoltava avidamente la parola del Divin Maestro che parlava dalla barca. E qui commosso ho rivolto il mio pensiero a tutti i miei cari figliuoli, e feci voti ardenti perché si conservino ben afferrati alla barca di Pietro, poiché solamente con lui possiamo arrivare al porto di salute».[682]

Così sabato 14 marzo don Rua e don Bretto giunsero a Nazaret, dove si fermarono una settimana. Inizialmente l’orfanotrofio Gesù Adolescente di Nazaret (1899), era stato installato in locali poco adatti, sulle alture della città, dove i Salesiani possedevano un vasto terreno. Il direttore Athanase Prun si era immediatamente adoperato per costruire una grande casa, divenuta interamente agibile nell’ottobre del 1905. Vicino ad essa doveva elevarsi la bella basilica di Gesù Adolescente. La prima pietra era stata benedetta recentemente, il 20 settembre 1907.

A Nazaret, Don Rua non perse nemmeno un secondo, come apprediamo dalle relazione di don Bretto. Dedicò la sua prima giornata alla visita accurata del nuovissimo orfanotrofio, esaminò i lavori della chiesa che procedevano rapidamente e diede uno sguardo anche al sito del vecchio edificio. Gli allievi avevano preparato un ricevimento, del quale li ringraziò in italiano. Non ci capirono nulla. Così, per la buonanotte, fece ricorso a un interprete. Le altre giornate furono soprattutto dedicate alle visite al clero e ai religiosi. Don Rua volle anche recarsi dal Caimakam (governatore) della città, che pur essendo di rito ortodosso, chiese a don Rua di benedire la famiglia e la casa. Poi egli stesso si affrettò a ricambiare la visita ricevuta recandosi all’orfanotrofio, accompagnato dalle principali autorità locali a cui si aggiunse il comandante militare di Giaffa che era di passaggio a Nazaret. I ragazzi, molto onorati, eseguirono i migliori brani di musica del loro repertorio. Conversarono fino al tramonto. A questo punto i musulmani del seguito si ritirarono un momento sotto i portici per le loro preghiere rituali. Il comandante militare non poté nascondere la sua ammirazione per don Rua: «È veramente un santo!», osservò.[683] Anche le emozioni di don Rua erano di natura religiosa. Confesserà: «Non posso tacere che nei giorni passati nel nostro orfanotrofio di Nazaret, ogni volta che mi trovava in mezzo a quei cari giovinetti che con tanto affetto mi prendevano la mano, la baciavano e poscia la portavano alla loro fronte, mi pareva di vedere Gesù quando era della loro età. Spesse volte nel mio cuore lo ringraziai per averci chiamati a fare un poco di bene ai suoi concittadini».[684]

Nazaret costituiva la prima tappa del pellegrinaggio nei luoghi santi. Il Rettor Maggiore non volle trascurare nulla, prima di tutto la città. Visitò a più riprese il santuario dell’Annunciazione e vi celebrò la messa. Venerò le rovine di una basilica costruita in passato su quella che si crede essere stata la casa della Sacra Famiglia. Successivamente fece visita al rudere in cui la «tradizione» situa il laboratorio di San Giuseppe, alla «fontana della Vergine» dove Maria attingeva l’acqua per la casa, alle rovine di una vecchia sinagoga, alla cappella del Tremore, luogo in cui Maria sarebbe accorsa sentendo che stavano per precipitare Gesù dalla cima di un monte, e anche alla Mensa Christi, grande blocco di pietra sul quale la feconda tradizione locale vuole che Gesù abbia cenato con gli apostoli dopo la risurrezione.

Non lontano da Nazaret si trova il monte Tabor, ove una tradizione incerta situa la Trasfigurazione del Signore. Nel pomeriggio del 16 marzo don Rua e don Bretto, in compagnia del direttore don Rosin e dell’ispettore Pietro Cardano, si recarono ai piedi del monte. Di là li condussero alla casa custodita dai Francescani dove avrebbero dovuto trascorrere la notte. Furono ricevuti con grandi attenzioni. Il mattino successivo, dopo la celebrazione della messa, i pellegrini salirono verso la cima del monte. Un francescano faceva loro da guida. Avevano a disposizione animali da soma, ma don Rua volle fare la strada a piedi. Quando la salita diventò più ripida, accettò soltanto di sedersi di traverso su un asinello della scorta, con il rischio di ruzzolare ad ogni istante.[685] Il gruppo raggiunse la cima, presunto luogo della Trasfigurazione, ed essi videro le rovine delle antiche basiliche distrutte dalle vicissitudini dei secoli passati. In mezzo a ad esse, su una spianata, era stato collocato un altare dove gli dissero che talvolta veniva celebrata una messa durante i grandi pellegrinaggi. I pellegrini non si saziarono di contemplare il magnifico panorama che si estendeva sotto i loro occhi meravigliati: il grande e il piccolo Ermon, i monti Gelboé, la pianura di Esdrelon, in fondo alla quale intravvidero le montagne di Samaria. Ammirando lo scenario ricordarono alcuni racconti biblici, come la risurrezione del figlio della vedova di Naim e la pitonessa di Endor, o eventi storici come le crociate, Saladino e Napoleone. Ordinariamente don Rua non si entusiasmava molto. Ma don Bretto ci assicura che quella volta avrebbe esclamato: «Venire a Nazaret e non fare la salita del Tabor è proprio un peccato».[686]

Nell’opera di Nazaret, don Rua preparò gli animi alla festa di san Giuseppe, che si celebrò il 19 marzo. Fece raccontare da don Prun come dieci anni prima, agli inizi dell’orfanotrofio, il santo aveva fatto un grande regalo. Il 3 marzo di quell’anno si era sul punto di licenziare gli allievi per mancanza di denaro. Il direttore aveva invitato i giovani a pregare san Giuseppe. Dopo pochi giorni giunse una lettera assicurata, datata 3 marzo, con la quale venivano offerti diecimila franchi per pagare i debiti e cinquemila per continuare l’opera.[687] La festa di san Giuseppe fu celebrata in modo intimo e intenso.

Betlemme, Gerusalemme, Cremisan, Beitgemal, Haifa

Dal giorno seguente, 20 maggio, i pellegrini partirono diretti a Gerusalemme e a Betlemme. Un viaggio pittoresco e movimentato, che inizialmente si dovette fare a cavallo. Pe dei cavalieri inesperti era quasi impossibile evitare le cadute. Don Rosin che l’accompagnava racconterà: «Don Rua, incoraggiato a montar a cavallo, che non v’era altro mezzo di trasporto, non s’arrese che dopo molto cammino ed unicamente per compiacerci. Disgrazia volle che il cavallo inciampasse e gettasse a terra, con nostro spavento, il povero cavaliere, che sbattendo colla testa sul terreno, riportò sulla fronte una piccola ammaccatura. Rialzossi tosto sorridendo, protestandoci di non essersi fatto alcun male, ma non volle più rimontare in sella».[688]

Lentamente arrivarono a Naplusa, pernottarono nella parrocchia del patriarcato latino e il giorno successivo, 22 marzo, affittarono una vettura colla quale, traballando in continuazione su quelle strade mal tenute, finalmente arrivarono a Gerusalemme. Li aspettavano alla scuola italiana, dove vi si trattennero una notte soltanto.

Il 23 marzo l’orfanotrofio salesiano di Betlemme riservò a don Rua un’accoglienza sensazionale. Era stato eretto un arco di trionfo sulla strada che portava all’istituto. Da ogni parte una schiera numerosa di abitanti e di allievi acclamava il successore di don Bosco. In un batter d’occhio la chiesa si riempì. Don Rua ringraziò la folla in italiano e impartì la benedizione del Santissimo Sacramento. Betlemme fu la sua sede durante le quattro settimane che trascorse nella regione.

Per non perderci in una cronaca dettagliata, noiosa per chi non ha dimestichezza coi luoghi e i notabili locali, citiamo solo qualche dettaglio legato a don Rua. «Il 24 marzo – scriverà nella lettera ai Salesiani del successivo 24 giugno – grazie alla bontà dei padri Francescani, ebbi la fortuna di celebrare a Betlemme la messa nella grotta della Natività, e vi assicuro che pregando in quel luogo non solo il cuore s’infiamma di amore per quel Dio che si umilia fino a farsi uomo per la nostra salute, ma sente pure un gagliardo impulso ad imitarlo nell’umiltà e nella povertà».[689]

Proseguiamo con un «miracolo» che rientra nella «leggenda aurea» del nostro eroe, devotamente tramandata dalle suore salesiane. Il 28 marzo don Rua celebrò la messa a Gerusalemme nella cappella delle Figlie di Maria Ausiliatrice. Amadei raccontò l’avvenimento testimoniato da suor Felicina Vaccarone – alla quale lasceremo ogni responsabilità:

Saputo che si sarebbe degnato di visitare il nostro istituto, si radunarono tutte le ragazze della scuola e i bambini dell’asilo nel lungo corridoio di entrata. Appena fu tra noi, le ragazze gli lessero un bell’indirizzo, dandogli il benvenuto. Il buon Padre rivolse loro parole di incoraggiamento e di congratulazione per l’esatta pronuncia della bella lingua italiana, e diede loro buoni e santi consigli, eccitandole al bene. Indi si volse al rev. Signor don Bretto e dissegli: "Ora bisognerebbe avere qualche cosa da dispensare a queste buone ragazze". Don Bretto sorrise, poi mise la mano in tasca ed estrasse un piccolo cartoccio che conteneva non più di trenta mentini, e lo presentò qual era a don Rua. Il venerato Padre, vedendo così poca roba per tanta gente, con la sua grande umiltà e confidenza in Dio disse: "Ebbene, cominciamo a distribuire, e la Provvidenza… ci verrà in aiuto…". Chi lo direbbe? Le ragazze coi bimbi dell’asilo erano un 200 e i mentini bastarono per tutti, dandone 5 o 6 a ciascuna. Finita la scolaresca, il buon Padre disse: "Voglio darli anche alle suore... "; e così fece: li distribuì a tutte noi che eravamo dodici, ne ebbe abbastanza, e ricordo benissimo che all’ultima, che era suor Agatina Tomaselli, diede i mentini e anche la carta: e così finì la miracolosa distribuzione, la quale fu visibile a tutti. Di questo fanno testimonianza le suore e le ragazze che furono presenti. Allora l’indimenticabile don Bretto si volse a noi suore, e disse: "È un vero miracolo, non c’è nulla a ridire!".[690]

Don Rua fu molto attento a non trascurare la ragione principale del suo pellegrinaggio in Terra Santa: «Finalmente il 30 marzo, coll’anima trepidante per la commozione, celebrai la messa sul S. Sepolcro. Fu allora che ho ringraziato il Signore di aver fatto trionfare la nostra Pia Società contro le calunnie dei nostri nemici e d’averne anzi ricavato immenso vantaggio per le opere nostre. In quel augusto tempio ho rinnovata la consacrazione della nostra Congregazione al S. Cuore di Gesù, e pregai a lungo perché tutti i suoi membri perseverino nella loro vocazione e che neppur uno abbia a perire».[691]

Don Rua dedicò gli ultimi giorni di marzo e i primi giorni di aprile a visitare con cura le case salesiane di Cremisan e di Beitgemal, ampiamente provviste di terre coltivabili. Come aveva l’abitudine di fare nelle ispezioni alle opere italiane, lasciò una serie di impegni numerati, che testimoniano le sue principali preoccupazioni, insieme spirituali e materiali.[692]

A Cremisan, verificò gli inconvenienti dell’obbligo di usare la lingua italiana nella vita quotidiana nelle case di Palestina, che, ricordiamolo, egli stesso aveva voluto. Scrisse, dunque, sollecitato dal visitatore don Bretto, una lista di impegni:

1° Alla mattina orazioni in arabo.

2° All’esercizio della buona morte conferenza ai giovani in arabo.

3° Esercitare i preti nella predicazione, con l’alternativa festiva [in arabo].

4° Stabilirvi il noviziato dei Coadiutori e scegliere un buon maestro dei novizi.

5° Mandarvi da tutte le case d’Oriente gli studenti di latino con vocazione.

6° Diligentare il vino e l’acquavite ed aumentarne la produzione.

7° Imboscare buona parte della proprietà.

8° Promuovere la coltura frumentaria, fruttuaria e ortilizia.

9° Aver di mira di arrivare a far fronte coi propri prodotti a tutti i commestibili e combustibili, eccetto l’illuminazione, e col vino a tutte le altre spese.

10° L’ispettoria impianti bene la tenuta dei necessari registri, facendo curare specialmente la contabilità e l’amministrazione.

Di fatto, il vino di Cremisan sarà presto famoso in tutta la Palestina e più tardi in Israele.

Don Rua e don Bretto si fermarono a Beitgemal dal 1° al 5 di aprile. Le consegne materiali e spirituali (che secondo Amadei vennero trasmesse un mese dopo ad Alessandria all’ispettore don Cardano), furono molto dettagliate: ventuno riaguardavano gli aspetti materiali e, suppongo, fossero formulate da don Bretto; undici erano di ordine amministrativo e spirituale, riservate al direttore e al prefetto. Queste rispecchiano le preoccupazioni di don Rua sul governo delle case salesiane e sull’idea che egli aveva dei compiti del direttore salesiano.

Per Beitgemal, per il direttore e il prefetto.

1° Ricordisi il direttore che il suo uffizio è più spirituale che temporale, perciò stia attento a non lasciarsi assorbire dagli affari materiali, a danno degli spirituali.

2° Procuri due prediche ogni giorno festivo, una al mattino, l’altra alla sera.

3° Faccia ai confratelli due conferenze mensili e riceva i rendiconti mensilmente.

4° Procuri anche alle Suore una conferenza mensile all’esercizio della buona morte.

5° Veda se e quali riparazioni occorrono all’abitazione delle suore.

6° Faccia scuola di teologia a N.N. almeno tre volte la settimana.

7° Colle sue buone parole e con paterna familiarità incoraggi i coadiutori e i famigli, informandosi delle loro aziende e lasciandoli spiegar la loro attività ecc.

8° Il prefetto dovrebbe aver cura di tutta la contabilità e registrazione, ma nelle condizioni attuali, dovendo sovente uscire, converrà che divida tale importante occupazione col direttore.

9° Tuttavia non si abbandoni interamente alle cure materiali; assista alle pratiche di pietà della comunità, e si riservi almeno un po’ di tempo per alcuni studi sacri.

10° Nella gestione materiale si faccia aiutare quanto può da qualche coadiutore fido e capace.

11° Sorvegli che non si adoperi il sistema repressivo, avvisando chi vi si abbandonasse.

In queste osservazioni fa nuovamente capolino il don Rua visitatore delle case piemontesi negli anni 1872-1876.

Cito un testo significativo, che il Bollettino Salesiano ha omesso, forse su richiesta di don Rua. L’11 aprile, si celebrò solennemente il decreto di venerabilità di don Bosco nella casa di Giaffa, affidata ai Salesiani dall’Associazione Nazionale per il soccorso ai missionari italiani. Alla messa solenne, presieduta da don Rua, seguì immediatamente un ricevimento. Il vice console Alonso volle pronunciare un discorso in lingua araba. L’ispettore delle scuole turche, molto impressionato, fece un grande elogio dell’opera salesiana e alla fine don Rua ringraziò i presenti con tale semplicità che all’uscita, secondo il cronista Bretto, il suo atteggiamento apparve «così salutare che la gente andava esclamando: Abbiamo veduto un santo e abbiamo sentito cose che non ci saremmo aspettati».[693]

Giunse la settimana santa (12-19 aprile). Don Rua seguì tutte le funzioni a Betlemme o a Gerusalemme. Egli stesso volle presiedere la «lavanda dei piedi» di tredici ragazzi dell’orfanotrofio di Betlemme. Il venerdì santo a Geruslemme partecipò alla Via Crucis organizzata dai Francescani sulla tracciato della Via Dolorosa. Obbligato a restare in piedi per lunghe ore, nell’inevitabile calca, le sue gambe malate lo fecero duramente penare. Lo comprendiamo dal racconto dettagliato di don Bretto.

È uno spettacolo grandioso: migliaia e migliaia di pellegrini cristiani, non sempre tutti cattolici, seguono devotamente il Padre Francescano che ad ogni stazione fa un breve sermoncino commovente e poi si recita la solita preghiera.

Disgraziatamente però la funzione è di solito disturbata dai soldati turchi che attraversano anche parecchie volte la massa dei devoti cristiani, come per affermare la loro padronanza di quei luoghi. Di fatto quest’anno eravamo ancora radunati nella via davanti al cortile turco ove sta la prima stazione che una sfilata di soldati con bandiere e una musica turca ci obbligò a pigiarci contro i muri. Passavano, passavano portando i loro moschetti carichi, molti a cavallo col fucile semi alzato, altri colla lancia innestata e coll’asta posata sopra il piede, ve n’erano di tutte le fogge di vestire e della pelle dal bruno al nero scuro, e dietro veniva a cavallo il capo della loro religione di residenza a Gerusalemme.

Passata appena quella sfilata, cominciò la processione, ma fatte alcune stazioni, passando dall’una all’altra con grande difficoltà per la gran calca, ecco che mentre il Padre predicava si ode la tromba annunziante una grossa pattuglia di soldati che passavano. E il Padre pregarci tutti che volessimo far largo senza dare il minimo segno di impazienza; passarono e dopo ci rimettemmo in cammino per la Via Dolorosa.

Il povero Sig. D. Rua era da noi attorniato e difeso dalle spinte che venivano da tutte le parti; ma poveretto deve pur essersi stancato assai, giacché alla sera lo vedemmo che quasi più non si poteva reggere. Ad un punto della Via Crucis, dove le vie sono strette e la processione deve ritornare su se stessa, udimmo un tafferuglio insolito e un vociare di gente che ci fece temere di qualche parapiglia, ma il contegno energico di qualche frate francescano e di alcune guardie rimise la calma e proseguimmo fino al Calvario, dove vi sono parecchie stazioni, tutte nella Basilica del S. Sepolcro.

L’ingresso qui divenne ancor più difficile. La grande massa si accalcava in quel punto, e noi che ci industriammo a mantenere il Sig. D. Rua quasi sempre a poca distanza dal Padre Predicatore perché sentisse bene, volemmo procurare a lui e a noi anche là questa soddisfazione, quindi ci spingemmo con fatica su per le scale che salgono ripide al luogo del Calvario. Poi colla stessa fatica e una grande precauzione discendemmo in fretta per accedere al luogo dell’ultima stazione al S. Sepolcro.[694]

La cerimonia di quel venerdì santo fu un’autentica Via Crucis per il nostro don Rua. Dvoto qual’era, certamente se ne rallegrò in cuor suo. Con la domenica di Pasqua, 19 aprile, celebrata a Betlemme, si  concluse il pellegrinaggio propriamente detto sui luoghi santi. Il giorno successivo iniziò il viaggio di ritorno in Italia, via mare. Lo sintetizziamo, poiché la relazione, soprattutto nella versione ampliata offerta dal Bollettino (preoccupato di soddisfare, citandole, tutte le opere e tutte le personalità incontrate), è molto abbondante.

Il 20 aprile, don Rua e don Bretto si imbarcarono a Haifa per Alessandria d’Egitto, dove i Salesiani dirigevano una fiorentissima scuola italiana. Tra il 21 e il 30 aprile, si procedette alla visita minuziosa dell’opera. Nel frattempo, il 24 aprile, il prefetto generale don Rinaldi inviava da Torino agli ispettori e ai direttori una lunga circolare sul viaggio del Rettor Maggiore in Oriente, Asia Minore e Terra Santa.[695] In tal modo tutta la Congregazione poteva accompagnare il suo Rettore.

Il 30 aprile il battello Orione partì da Alessandria alla volta di Messina in Sicilia. Sbarcarono il 3 maggio, dopo una traversata molto tormentata a causa della tempesta. Don Rua visitò le case salesiane dell’isola. Il 5 maggio fu a Siracusa, di qui si imbarcò per Malta e La Valletta, dove si inaugurava un nuovo istituto salesiano (Sliema), occasione per diversi festeggiamenti. L’8 maggio lo ritroviamo in Sicilia e martedì 12 sul continente, in Calabria. In seguito passò a Bari, a Foggia, a Macerata (17 maggio), poi a Loreto, a Bologna (19 maggio) e infine ad Alessandria (20 maggio). Quel giorno visitò le Figlie di Maria Ausiliatrice della città, che furono testimoni pietose della sua estrema fatica: «Le labbra secche, si sarebbe detto un crocifisso». Quella sera rientrò all’Oratorio di Torino dove, dopo la funzione del mese mariano, impartì la benedizione col SS. Sacramento e intonò un Te Deum di riconoscenza al Signore per aver portato a termine il suo viaggio, il più lungo di tutta la sua vita. Il 24 maggio, nella circolare a ispettori e direttori, il prefetto generale don Rinaldi poté annunciare che il Rettor Maggiore, «reduce dal suo lungo viaggio di visita alle nostre case di Oriente», ringraziava «cordialmente i cari confratelli per le preghiere con cui si compiacquero di accompagnarlo durante questi mesi» e augurava loro di «passare santamente l’imminente mese del S. Cuore di Gesù».[696]

Impressioni di viaggio

Don Rua dedicò la lettera circolare del 24 giugno al viaggio in Oriente. Si disse contento, supercontento (mi arrischio ad usare questo aggettivo moderno). Non solo il pellegrinaggio ai luoghi santi lo aveva appagato, come abbiamo appena visto, ma gli aveva offerto modo di constatare ovunque che le calunnie mirate a distruggere la Congregazione nei mesi precedenti non avevano lasciato alcuna traccia. Dovunque elogi, in nessun luogo l’ombra di una riserva. Prima di passare alle impressioni provate sui luoghi santi, insistette a lungo sulla soddisfazione per l’opera dei suoi figli in quelle lontane contrade.

Anzitutto mi somministra materia da scrivere la visita che io feci a molte nostre case che si trovavano sul mio passaggio. In ciascuna di esse ho procurato di trattenermi quanto era necessario per formarmi un giusto concetto delle opere a cui attendono i nostri confratelli, delle difficoltà che incontrano nel non sempre facile loro apostolato, e dei frutti che ricavano o sperano ricavare dalle loro fatiche. Ora da quanto ho visto co’ miei occhi, udito colle mie orecchie e, direi, toccato colle mie mani, mi torna di gran conforto il poter conchiudere che il Signore continua a benedire la nostra Pia Società, e che non cessa di servirsene quale strumento per la salute di moltissime anime.

Gli elogi erano stati ovunque abbondanti: in Austria-Ungheria, in Asia Minore, in Terra Santa, in Egitto, a Malta, in Sicilia, e in tutta la penisola italiana. «Le calunnie e le persecuzioni dei tristi contro i loro antichi superiori e maestri ben lungi dall’allontanarli [gli ex-allievi] da noi, segnarono un consolantissimo risveglio di affetto e di riconoscenza e li spronarono ad unirsi ed a mostrarsi sempre più fedeli agli insegnamenti ricevuti». Notiamo che l’Associazione degli ex-allievi salesiani, nacque proprio nel 1908.

Ma si affrettò ad aggiungere che tutte le lodi andavano rivolte a don Bosco:

Confesso che per parte mia avrei amato che si fosse omesso quanto riguarda direttamente la mia povera persona, ed unicamente si pubblicasse ciò che torna a maggior gloria di Dio e al bene delle anime. Ma nessuno meglio di me è convinto che quanto si fece e si fa in onore di don Rua, non è che un riflesso dell’affetto e venerazione che si ha per don Bosco; e però non mi credetti in dovere d’impedire tali accenni. Anzi per quel che riguarda specialmente questo ultimo mio viaggio mi par doveroso approvarli e lasciare che anche queste dimostrazioni di stima siano recate a conoscenza dei nostri Cooperatori [allusione agli articoli successivi del Bollettino], perché esse fanno pur meglio conoscere quanto insieme con don Bosco sia apprezzata anche in lontane regioni l’opera sua principale, cioè la nostra Pia Società. [...] Ebbi evidentissima prova, ne’ miei ultimi viaggi, del gran conto in cui è tenuta la Congregazione Salesiana dalle autorità ecclesiastiche e civili, dagli ordini religiosi, dai più ragguardevoli cittadini. [...] Nella persona del Rettor Maggiore in ogni luogo si volle onorare tutta quanta la nostra Pia Società; colle ovazioni, coi complimenti, colle accademie fatte a me, oltre la venerazione a don Bosco, si intese esternare la gratitudine che si professava a tutti i Salesiani. Ed è per questo che in quel momento scompariva la mia umile persona, era esaltata la nostra Congregazione ed acclamato il suo Venerabile Fondatore.[697]

A distanza di un secolo, queste pie e affettuose contorsioni forse non ci convincono. Di fatto, ovunque si voleva vedere e ascoltare proprio il santo successore di don Bosco. Era troppo evidente. E i lettori del Bollettino nel 1908 lo sapevano, malgrado i tagli fatti nel racconto del viaggio.

Il processo di beatificazione e canonizzazione di Domenico Savio

Il 4 aprile 1908, mentre era in corso il pellegrinaggio in Palestina, a Torino si aprì il processo informativo di beatificazione e canonizzazione di Domenico Savio. Don Rua sarebbe stato citato come uno dei testimoni privilegiati,[698] insieme ad altri cinque: i canonici Giovanni Battista Anfossi e Giacinto Ballesio, i Salesiani Cagliero e Cerruti, il laico Carlo Savio, contadino di Mondonio. Si sarebbero poi aggiunti quattro testimoni d’ufficio: il Salesiano don Francesia, i parroci don Piano, don Pastrone e don Vaschetti.

Nel gruppo dei testimoni, don Rua era, senza dubbio, il più informato. Intervenne nel corso di sette sedute, scaglionate tra il 23 giugno e il 20 luglio del 1908. Troviamo le sue risposte nel Summarium di 243 pagine incluso nella raccolta intitolata Positio super introductione causae beatificationis et canonizationis Servi Dei Dominici Savio.[699] Don Rua non risparmiò elogi al suo antico compagno d’Oratorio. Gli era stato vicino dal momento in cui era entrato a Valdocco, nell’ottobre 1854, fino alla sua partenza definitiva, la vigilia della morte nel marzo del 1857. Dopo cinquant’anni, le virtù del condiscepolo, sulle quali veniva interrogato, continuavano a suscitare la sua fervida ammirazione. La fede di quel ragazzo era di una «semplicità» estrema. «Il Servo di Dio era guidato in ogni sua azione dalla speranza della ricompensa eterna». «Io sono persuaso che il Servo di Dio non commise mai peccato mortale e direi pure peccati veniali deliberati». Gli capitò più volte di andare in estasi davanti al Santissimo Sacramento o all’altare della Vergine Maria. Il suo zelo per la salvezza delle anime sconfinava nell’eroismo. Era stato eroico nella pratica della giustizia, della prudenza, della fortezza, della temperanza, della castità, dell’umiltà e dell’obbedienza. Era veramente un santo. D’altronde, dopo la morte, i compagni incominciarono immediatamente ad invocarlo chiedendo la sua intercessione, ed eminenti ecclesiastici auspicarono la sua canonizzazione. Don Rua citò anche alcune guarigioni conseguite grazie a lui: «Ho sentito raccontare molte grazie ottenute per intercessione del Servo di Dio; alcune le ho scritte io stesso sotto dettato dei graziati, e si trovano nell’Appendice della biografia scritta dal Ven. D. Giovanni Bosco, e di queste grazie ottenute per intercessione del Servo di Dio, alcune hanno del prodigioso».[700]

Quelle lunghe sedute davanti al tribunale diocesano, incaricato di istruire la causa di beatificazione di Domenico Savio, furono, insieme con l’annuncio della visita straordinaria e con il viaggio in Oriente, il terzo avvenimento del 1908, che rese memorabili per il nostro don Rua quei sette mesi faticosi, ma consolanti. La visita straordinaria alle case salesiane, annunciata in gennaio, aveva prodotto risultati rassicuranti. Il lungo viaggio attraverso l’Europa Centrale, l’Asia Minore, la Palestina, l’Egitto e l’Italia Meridionale aveva confortato il suo cuore. Ora, il processo per la causa di Domenico Savio, gli permetteva di rivivere momenti privilegiati della giovinezza.


33 – LA CONSACRAZIONE DELLA CHIESA DI S. MARIA LIBERATRICE

La chiesa di Maria Liberatrice a Roma

Come don Bosco ventun anni prima, così don Rua, prima di morire, si recò un’ultima volta a Roma per la consacrazione di una chiesa affidata ai Salesiani. Nel maggio 1887, don Bosco assisteva all’inaugurazione della chiesa del Sacro Cuore, per la quale aveva molto sofferto. Nel novembre 1908, don Rua partecipò alla consacrazione della chiesa di S. Maria Liberatrice, in un quartiere problematico della città.[701]

Pio X, a partire dall’ottobre 1904, aveva dato evidenti segni di apprezzamento per i Salesiani, in un primo tempo con una pioggia di indulgenze plenarie o parziali accordate ai Cooperatori,[702] poi (gennaio 1905) con la cessione gratuita della chiesa di San Giovanni della Pigna, destinata a diventare la sede della Procura generale salesiana.[703] Lo stesso anno, quasi come contropartita, il papa affidava alla Congregazione il completamento della costruzione di un’altra chiesa in Roma. Nel recente quartiere periferico del Testaccio, territorio controllato dalla malavita cittadina – la «Cina romana» come si diceva – i Salesiani avevano aperto una scuola e un Oratorio festivo che cominciavano a portare frutti,[704] ma la popolazione si sentiva religiosamente abbandonata: nessun luogo di culto per gli adulti, nessuna presenza visibile della Chiesa. Bisognava creare una parrocchia. Leone XIII aveva stanziato un fondo per iniziare i lavori. «Si incominciarono a gettare le fondazioni circa vent’anni orsono», spiegò don Rua ai Cooperatori nella lettera del gennaio 1906. Ma il progetto si era arenato. Pio X risolse la questione in radice. Tolse la costruzione al Vicariato di Roma e la affidò ai Salesiani. Nel 1905, il cardinale vicario ricevette l’ordine d’intraprendere le trattative con don Rua. I lavori ripresero immediatamente «secondo i piani dell’architetto Mario Ceradini», scriveva don Rua. Era sicuro che i Cooperatori gli avrebbero facilitato il compito.[705] La parrocchia sarebbe stata dedicata a Maria Liberatrice. Avrebbero fatto così rivivere il nome di un antico edificio religioso scomparso collocato nel Foro romano.

I lavori non andarono per le lunghe. Verso la fine del 1907, i muratori arrivavano già al cornicione. Si presentò allora un’occasione che servì da stimolo alla generosità dei Cooperatori: nel settembre 1907 iniziavano le feste del giubileo sacerdotale di Pio X. Don Rua chiese di accelerare i lavori per poter offrire la chiesa in omaggio al papa in occasione del suo cinquantesimo di ordinazione. «Ma per ultimare la nuova chiesa nel termine proposto, è assolutamente necessario che tutti mi veniate in soccorso prontamente», scriveva ai Cooperatori nel gennaio del 1908.[706]

L’appoggio personale del papa gli sarebbe stato prezioso. Il 25 settembre 1907, scriveva a Pio X: «La Pia Società Salesiana e la Pia Unione dei Cooperatori salesiani, volendo associarsi alle solenni manifestazioni di filial devozione, con le quali il mondo cattolico si prepara a festegggiare l’auspicatissimo Vostro Giubileo sacerdotale, hanno in animo di offrire a Vostra Santità interamente compiuta ed aperta al divin culto la chiesa di Santa Maria Liberatrice, in costruzione al Testaccio in Roma, prima che spiri l’anno giubilare. Manca ancor molto, è vero, al compimento di questo ardentissimo voto, ma sono certo che diverrà una lieta realtà, se la Santità Vostra si degnerà impartire l’Apostolica Benedizione a tutti i Cooperatori salesiani, che concorreranno all’ultimazione dell’importantissimo tempio». Il papa inviò volentieri la sua benedizione a tutti i Cooperatori, con i più vivi ringraziamenti per il loro contributo.[707]

Don Rua fu esaudito. I lavori vennero affrettati. Nel maggio del 1908, i muri della chiesa e della casa parrocchiale erano terminati. Il Comitato centrale dei festeggiamenti giubilari aveva fissato per il 16 novembre, giorno del ventiquattresimo anniversario dell’ordinazione episcopale di Giuseppe Sarto, il culmine delle celebrazioni romane. Era dunque auspicabile che tutto fosse pronto per quella data. Si decise di fissare la cerimonia di consacrazione della chiesa di S. Maria Liberatrice il 15 novembre. Don Rua intendeva scendere a Roma qualche giorno prima.

All’Oratorio i giovani, incoraggiati dai superiori, pregavano e offrivano comunioni per implorare un buon viaggio e un felice ritorno al loro padre. Tutti sapevano infatti quanto la salute di don Rua fosse divenuta precaria. Tra luglio e settembre, aveva voluto partecipare attivamente a una serie di esercizi spirituali per i Salesiani: a Valsalice, a Sampierdarena, a Nizza Monferrato, di nuovo a Valsalice, a Foglizzo e una terza volta a Valsalice, poi a Ivrea, a Lanzo e infine a Lombriasco. Ormai la sua gamba piagata lo faceva soffrire tremendamente.

In settembre poco mancò che si annullasse il viaggio a Roma, a seguito di un incidente accaduto durante gli esercizi spirituali di Lanzo. In quell’occasione don Rua aveva voluto rivedere il santuario di Sant’Ignazio, sulle alture del vicino monte Bastia, dove don Bosco l’aveva più volte condotto nella sua giovinezza. Gli anziani amano questo genere di ritorni al passato. Volle salirvi a piedi. Lassù pregò, parlò ai chierici Missionari della Consolata che erano in vacanza nella casa, evocando i ricordi antichi. Poi iniziò la discesa. Un buon sacerdote del luogo che lo accompagnava, lo prese per braccio, ma lungo la scorciatoia perdette all’improvviso l’equilibrio e colpì con i suoi scarponi chiodati la tibia di don Rua. Egli fu sul punto di perdere conoscenza, ma si riprese e, nascondendo il dolore atroce, riprese la discesa. La sera, in collegio, togliendosi i calzini, si accorse di aver perso molto sangue. Si curò da solo per un mese, fino a quando don Rinaldi lo convinse di sottoporsi a un consulto medico. Gli fu imposto riposo assoluto, in caso contrario nessun viaggio a Roma. Il 1° ottobre, don Rua presiedette la riunione del Capitolo Superiore riunito nella sua camera.[708] Riceveva i visitatori in ufficio, seduto sul divano, con la gamba tesa. Tutto l’Oratorio sapeva della sua malattia. Quando il 9 novembre, alla vigilia della partenza, presenziò alla distribuzione dei premi agli artigiani, fu accolto da un battimani interminabile, come attesta la cronaca locale.[709]

In viaggio verso Roma

Finalmente, il 10 novembre, don Rua poté partire per Roma, a piccole tappe, in compagnia di don Francesia. Si fermò prima a Sampierdarena, poi a Livorno e a Colle Salvetti. Giunse a Roma sabato 14. Durante le varie fermate, don Francesia avrebbe preferito che lo si lasciasse tranquillo, ma senza successo. Don Rua non si risparmiava mai. Le udienze si susseguivano. «D. Rua è logoro – scriveva il compagno da Livorno, il giorno dopo la partenza – e non lo si può nascondere; ma grazie a Dio resiste con tranquillità a queste improbe fatiche delle visite e delle conferenze».[710] Infatti ovunque passava, don Rua voleva parlare ai confratelli. E mai in modo leggero.

Si racconta che a Livorno abbia previsto il futuro di due ragazzini. Si era racato in visita alla famiglia del Cooperatore Riccardo De Ghantuz Cubbe. Gli presentarono due bambini, uno di nome Giovanni, di cinque anni e l’altro Raffaele, di quattro anni. Il maggiore era talmente interessato alle cerimonie religiose che i genitori gli avevano fatto costruire un piccolo altare, sul quale era tutto intento a fare il prete. Sua madre gli aveva confezionato paramenti adatti alla sua piccola taglia. Papà e mamma vedevano in lui i segni evidenti di una vocazione al sacerdozio. Si affidarono a don Rua, il quale avrebbe detto, indicando Giovanni: «Questo qui, no», e a proposito di Raffaele: «Quello là, sì!». Il padre che teneva un taccuino con la cronaca dei piccoli avvenimenti familiari, annotò alla data dell’11 novembre 1908: «Don Rua non conosce la vivacità di Raffaele». In seguito gli interessi liturgici di Giovanni scomparvero, mentre Raffaele entrò nel 1921 nel noviziato dei Gesuiti e venne ordinato sacerdote il 26 luglio 1934.[711] Don Rua aveva visto giusto.

A Colle Salvetti, gli allievi organizzarono una piccola «accademia» in suo onore, e don Rua partecipò al loro esercizio della buona morte.

La consacrazione della Chiesa

In Roma, i nostri due viaggiatori alloggiarono presso la Procura salesiana di San Giovanni della Pigna. L’indomani mattina, don Francesia sorprese don Rua che serviva la messa del procuratore nella chiesa vicina. Quel giorno, 15 novembre, era domenica. Il nostro Rettore si affrettò a visitare la chiesa di Santa Maria Liberatrice. Gli operai si erano dati da fare, ma non avevano potuto terminare. Era impossibile, anche perché alcune parti dell’altar maggiore, provenienti da Milano, non erano ancora arrivate. Si ignorava persino dove fossero. La consacrazione fu dunque rinviata al 29 novembre, prima domenica d’Avvento.

Non pensiamo che don Rua approfittasse della tregua per riposarsi. Il 16 assistette alla cerimonia giubilare in San Pietro. Il procuratore gli aveva fatto riservare un buon posto presso agli stalli dei canonici, accanto all’altare papale. La cerimonia durò tre ore. Don Francesia ebbe, per un attimo, l’impressione che Pio X avesse riconosciuto don Rua e si fosse girato verso di lui in modo significativo. Forse. In ogni caso il nostro Rettore soffriva. «Mi fanno pena i suoi occhi, scriveva don Francesia, che si vanno facendo più cisposi, e non può nascondere che gli diano molestia, col chiuderli più sovente e col doverli ripulire».[712] Alla Procura affluivano visitatori altolocati, infatti il giubileo di Pio X attirava a Roma molta gente.

Per farlo riposare un poco, si propose a don Rua di visitare i castelli romani, dove i Salesiani tenevano alcune case. Arrivò in serata a Genzano, e i novizi gli fecero la sorpresa di un’accoglienza con le fiaccole accese alle porte della città. Don Rua diede la buona notte. Il segretario Francesia si stupì di trovarlo ancora «fresco come una rosa». Ma lo stupore del direttore fu molto più grande. Leggiamo quanto raccontò don Andrea Gennaro al processo di canonizzazione: «Il giorno 18 novembre 1908 a Genzano di Roma, Don Rua mi chiama in camera sua dopo le orazioni della sera. Ci vado; entrato si siede e mi prega di togliergli le scarpe e le calze, perché non riesce a fare ciò da solo. Mi pongo quasi in ginocchio più per venerazione che non per necessità di tale operazione. Tolte le scarpe tiro giù la prima calza. Alla vista di quella gamba nera e stecchita mi commuovo ed esclamo piangendo: – Oh! D. Rua! che gambe ha lei! – Ma   Don Rua mi fa togliere svelto l’altra calza, e dandomi con tutta dolcezza la buona notte mi licenzia. Ho avuto l’impressione che le vene varicose di cui soffriva gli avessero ridotto in così malo modo le gambe».[713]

Benché l’edificio non fosse del tutto pronto, la cerimonia della consacrazione della grande e bella chiesa di Maria Liberatrice ebbe luogo il 29 novembre. Don Rua scrisse nella circolare del 31 gennaio seguente: «Non saprei esprimere a parole la gioia purissima che gustai, la domenica 29 novembre scorso, assistendo alla consacrazione del nuovo tempio, eseguita da S. Em. il cardinal Respighi Vicario di Sua Santità. Volgendo attorno lo sguardo, e vedendo la popolazione del Testaccio accorrere alla nuova chiesa io godeva immensamente di poter dire che coi nostri sacrifici avevamo contribuito a procurar loro i mezzi di vivere da buoni cristiani».[714] E illustrò il suo pensiero riportando una lunga citazione dalla Civiltà Cattolica, incluso un cenno critico al socialismo, molto raro nei suoi scritti, in cui evitava accuratamente ogni allusione politica:

Il titolo glorioso dell’antica chiesa, che ricordava nel foro romano il trionfo di Maria sul vecchio paganesimo, è ora rinnovato al Testaccio per volere dello stesso Sommo Pontefice. Così Maria Liberatrice domina sovrana, là di fronte all’Aventino, sul nuovo popoloso quartiere che le si stende d’intorno, denunziando il suo trionfo materno sopra il paganesimo moderno qual è appunto il naturalismo socialista, che in mezzo a quel popolo di operai ha cercato e cerca con ogni sforzo di mettere il suo centro. All’ombra di Lei si svolgerà benefica ed efficace l’opera dei figli di D. Bosco, sostenuta dalla carità cristiana, con oratorii, circoli,  scuole, ed altre simili istituzioni opportune ai luoghi ed ai tempi. E così pure all’ombra di Maria Liberatrice, crescerà libero dall’incredulità e dal vizio il laborioso popolo del Testaccio, e si verrà sempre meglio educando a sostenere le lotte per l’onestà e la fede contro quei miseri traviati che si affannano a scristianizzare e imbarbarire nel disordine, nell’empietà e nell’anarchia quell’estremo lembo della città di Roma.[715]

Notava inoltre che, nell’udienza pontificia del 10 dicembre, Pio X si era interessato a tutte le cose salesiane, si era rallegrato con la Congregazione per aver condotto a buon fine la costruzione della grande chiesa del Testaccio, aveva espresso le sue migliori speranze sull’apostolato dei Salesiani in favore di quella porzione del suo gregge e aveva efficacemente incoraggiato il sacerdote che ne sarebbe stato parroco. All’uscita dall’udienza, il devoto Rettor Maggiore portava con sé una formula di benedizione tutta speciale, che il papa aveva scritto di suo pugno: «Deus omnipotens adimpleat omnem benedictionem suam in vobis» [Dio onnipotente vi ricolmi di ogni sua benedizione]. Nel suo entusiasmo don Rua affermò che con essa il papa «non solo implorava un’abbondante benedizione su tutta la nostra umile Società, ma vi aggiungeva ancora una preghiera perché la medesima tornasse veramente piena ed efficace».

In quei giorni non perse tempo. Dopo Roma, scese verso il Sud, nelle case salesiane di Caserta, Castellamare, Napoli e Portici. Benché rapide, le sue visite sollevavano l’entusiasmo dei giovani e delle folle. Il suo accompagnatore don Francesia azzardò un’oservazione: «Oggi don Rua scatena l’entusiasmo di don Bosco, e la venerazione che gli si riserva è quella che circonda un uomo di straordinaria virtù». Come don Bosco, gli capitò persino di moltiplicare le ostie, se vogliamo dar credito alla deposizione del vescovo salesiano mons. Federico Emanuel al suo processo apostolico di canonizzazione:

Essendo io direttore del collegio salesiano di Caserta, nell’anno 1909, nel mese di dicembre, egli volle visitare la mia casa. Si disposero gli alunni per la comunione generale nella messa che doveva celebrare D. Rua. Il catechista, ossia il direttore spirituale, dimenticò di far consacrare le ostie. Al momento della comunione estrasse la pisside, e vi trovò solo poche particole. Rimase confuso e umiliato, ma D. Rua gli disse: – Non turbarti – e cominciò a distribuire la Comunione. Comunicò tutti i duecentotrenta alunni e rimasero ancora nella pisside delle particole di cui non saprei precisare il numero. Finita la messa, vietò nel modo più assoluto al catechista sac. Pietro Squarzon di parlare del fatto con chiunque. Ma il catechista confidò a me il fatto in via tutta segreta, e anch’io non ne parlai con nessuno.[716]

Il disastro di Messina

Qull’anno 1908, così pieno di gioiosi avvenimenti, si concluse in una immane tragedia per i suoi figli siciliani.[717] La sera del 22 dicembre don Rua rientrò con discrezione a Torino. La mattina del 28 dicembre un violentissimo terremoto, seguito da un potente maremoto, scosse le coste della Sicilia e della Calabria. In pochi secondi le città di Messina e Reggio, ed anche parecchi paesini intorno ad esse, vennero rasi al suolo con un totale di duecentomila vittime. Tutte le comunicazioni erano state interrotte, le prime notizie di gran lunga inferiori alla realtà, si diffusero in Italia e nel mondo intero solo la mattina del 29. Don Rua, come aveva fatto don Bosco per il terremoto della Liguria, telegrafò subito all’arcivescovo di Messina, al cardinale arcivescovo di Catania, ed anche ai prefetti delle due città devastate:

Trepidante sulla sorte dei miei confratelli ed allievi della Calabria e della Sicilia, penso propiziare sopra di essi la bontà di Dio, aprendo nuovamente le porte dei miei Istituti ai giovanetti orfani pel terremoto. Telegrafai a Catania all’Ispettore Salesiano Dott. Bartolomeo Fascie, perché si metta a disposizione di V. E. ed Ecc.mo Prefetto per provvedere ai più urgenti bisogni dei giovanetti sofferenti, sicuro di compiere opera di fede e di patriottismo.[718]

Il 30 dicembre nessuna notizia precisa era ancora giunta a Torino. Don Rua, costretto a rimanere in camera per i gravi problemi alle gambe, non poteva accorrere di persona sui luoghi del disastro. Inviò don Bertello, già ispettore della Sicilia, con don Calogero Gusmano e il coadiutore Tagliaferri. Finalmente, la sera del 31 arrivò un telegramma, spedito da Catania il 29, che rendeva conto di numerose vittime nel collegio salesiano di Messina. Era la sera in cui per tradizione si comunicava a tutta la comunità la strenna per il nuovo anno. Malgrado le pessime condizioni di salute, don Rua volle scendere nel salone del teatro per parlare ai suoi e annunciare la strenna e l’orazione giaculatoria che l’accompagnava. Don Amadei, che era presente, ricorda che, commentando la strenna, pareva una vittima rassegnata ad ogni tribolazione voluta o permessa dalla Divina Provvidenza. Poi passò alla lettura del telegramma tra la commozione generale. L’accento, il tremolio delle mani e di tutta la persona, il vivo dolore che sentiva nell’intimo del cuore, fecero una dolorosa impressione su tutti i presenti, che andarono a dormire pregando per lui.

Gli allievi di Valdocco chiesero a don Rua di far celebrare una messa solenne per i loro compagni di Messina. La circolare del 2 gennaio 1909 ai Cooperatori e alle Cooperatrici di Torino comunicava questa iniziativa, aggiungendo: «anche i Salesiani, a lenimento del proprio dolore, desiderano fare altrettanto in suffragio dei loro confratelli e Cooperatori. Il secondo uffizio funebre avrà luogo martedì mattina, 5 corrente, alle ore 10, nel santuario di Maria Ausiliatrice. Credo di far cosa buona mandandone l’annunzio alla S. V. benemerita con invito a parteciparvi, per implorare il riposo eterno agli indimenticabili estinti».[719]

In quei giorni arrivò una lettera espressa di don Bertello, che spiegava la spaventosa realtà del collegio di Messina, ritenuto in un primo tempo capace di resistere alla scossa: «Sono morti e restano sepolti sotto l’edificio i confratelli sacerdoti: Pasquali Giuseppe, Pirrello Vincenzo, Claris Dario, Urso Antonio, Lo Faro Arcangelo, Rapisarda Mauro; i chierici Manzini Mario, Venia Giuseppe e il coadiutore Longo Giuseppe. Inoltre sono morti 38 allievi ed anche i famigli Marotta Antonio, Marotta Salvatore, Pirrello Francesco, Zuccarello Alfio. Ci sono molti feriti, ma nessuno grave».

Il 4 e 5 gennaio 1909, le cerimonie previste ebbero luogo nel santuario bardato a lutto. La salute malferma di don Rua gli impedì di cantare la messa solenne, come avrebbe desiderato. Durante l’intero rito rimase inginocchiato presso il catafalco, con il corpo e il viso segnati dalla sofferenza. Povero don Rua, nel 1907 una raffica di calunnie si era abbattuta su di lui, nel 1908 una catastrofe naturale funestava in extremis un anno che era riuscito finalmente a tranquillizzarlo. Affaticato, consumato dal male, all’approssimarsi dei settantadue anni, l’età che aveva don Bosco quando lasciò questa terra, si disponeva serenamente a seguirlo. Si percepiva che la fine era vicina, mentre veniva preparato il suo giubileo sacerdotale per l’estate del 1910.


34 – L’ULTIMO ANNO DI DON RUA

Prepararsi alla morte

La sera del 19 gennaio 1909, don Luigi Rocca, economo generale della Società Salesiana, veniva chiamato al capezzale di un’ammalata in corso Regina Margherita, non lontano dall’Oratorio. Dopo aver amministrato i sacramenti a quella signora, lo videro uscire un po’ vacillante. Allora la famiglia si affacciò alla finestra per seguirlo con lo sguardo fin sulla strada. Ma non lo videro comparire. Aprirono dunque la porta e lo trovarono lì per terra aggrappato alla ringhiera delle scale. Era stato colpito da una congestione cerebrale. Trasportato all’Oratorio, morì poco dopo.

Don Rua non poté esimersi dal concludere la lettera del 31 gennaio 1909, incentrata sulla chiesa di Maria Ausiliatrice, con una serie di considerazioni sull’esercizio della buona morte. La morte aveva colpito improvvisamente allievi e confratelli siciliani ed ora, altrettanto repentinamente, aveva rapito don Luigi Rocca, all’età di soli 55 anni. Sapeva che i suoi religiosi erano sempre pronti per il grande passo verso l’eternità. Ma a suo avviso queste erano prove della necessità di fare regolarmente e bene l’esercizio mensile della buona morte. Don Bosco ci teneva moltissimo: «Il venerabile don Bosco fin dal principio dell’Oratorio introdusse l’uso di far ogni mese l’esercizio della buona morte. Ad un sacerdote che si meravigliava della buona condotta di tanti giovani che vivevano nell’Oratorio, don Bosco disse: essi sono buoni perché fanno ogni mese l’esercizio della buona morte. Questa pratica è il sostegno della nostra casa. Noi ricordiamo com’egli con una certa solennità l’annunziasse nel sermoncino della sera alcuni giorni prima; ci par ancora di vederlo, inginocchiato sui gradini dell’altare, recitare con noi le tenerissime preghiere con cui si chiede la grazia di morir bene». Dopo aver richiamato un articolo delle Costituzioni e una disposizione degli «articoli organici», concludeva seriamente: «Ond’è che non può dirsi veramente Salesiano colui che trascura un mezzo così efficace ad ottenere la nostra salvezza».[720]

La prospettiva della morte incombeva ormai sullo stesso don Rua, che sempre più debole, cominciava a pensare all’eredità che il successore avrebbe ricevuto. L’infermiere Giuseppe Balestra attesta che le sue sofferenze aumentavano, le gambe si gonfiavano terribilmente, erano cosparse di ulcere e faceva fatica a camminare. «Per sollevarlo, Balestra applicava su una o due piaghe delle pezze molto calde. Questo rimedio gli faceva poco effetto. Bisognava che stesse a letto, o sul sofà a gambe distese, e questo lo faceva con rincrescimento quando non ne poteva più. Stando in piedi o seduto la gonfiagione andava crescendo».[721]

Tuttavia trovò ancora la forza di scrivere una lunga lettera ai confratelli in occasione dell’anniversario della morte di don Bosco, il 31 gennaio 1909. In essa fece notare come l’opera del venerabile Fondatore sopravvivesse e si sviluppasse malgrado i profeti di sventura e le manovre dei nemici che si erano ripromessi di farne un «mucchio di rovine». Tuttavia, aggiungeva con lucidità, «è ben vero che noi non abbiamo sempre corrisposto bene alle grazie ricevute; purtroppo ci si possono rimproverare molti e gravi difetti. Chissà quante volte avremmo meritato che Iddio volgesse altrove i suoi sguardi, e cercasse altri migliori strumenti per ottenere la sua gloria; ma egli infinitamente ricco di misericordia, in vista dei meriti del nostro Venerabile Padre, continuò a benedirci, sostenerci e consolarci. Vediamo ogni giorno avverarsi le predizioni di don Bosco riguardo al numero de’ suoi figli ed alle loro imprese».[722]

A conti fatti don Rua, avvicinandosi all’età in cui don Bosco aveva lasciato questa terra, si disponeva a partire con l’anima in pace.

I confrateli attorno a lui si organizzavano per celebrare solennemente il suo giubileo sacerdotale. Era stato ordinato sacerdote il 29 luglio 1860, dunque, il giubileo si sarebbe dovuto celebrare il 29 luglio 1910. Si progettava di distribuire i festeggiamenti durante il secondo semestre del 1910. Furono designati ufficialmente i membri della commissione centrale incaricata dell’organizzazione. Tutta la Congregazione venne coinvolta.[723] La festa ebbe inizio a Valdocco il 29 luglio 1909: messa di don Rua all’altare di Maria Ausiliatrice, banchetto in teatro, buonanotte del Rettor Maggiore a tutta la comunità di Valdocco.[724] Fu stampata un’immaginetta con la fotografia di don Rua «a ricordo del faustissimo 29 luglio 1909, in cui sorgendo l’anno cinquantesimo dall’ordinazione sacerdotale del Rev.mo Don Michele Rua, i superiori e gli alunni dell’Oratorio Salesiano di Valdocco, dopo essersi affettuosamente prostrati ai piedi della Vergine Ausiliatrice, esultanti con lui si sedevano a mensa, bene augurando alle sue nozze d’oro».[725] Il 30 agosto 1909, egli presenziò a Valsalice la quinta assemblea generale dei direttori diocesani della Pia Unione dei Cooperatori salesiani, di cui parleremo in seguito.[726]

La vita ordinaria di don Rua ammalato

Sarebbe un grosso errore immaginare che don Rua rimanesse inattivo a causa dei dolori che lo tormentavano. La lunga lettera annuale ai Cooperatori uscì puntuale nel gennaio 1909. In essa rassicurava i lettori che il Signore continuava a benedire l’opera salesiana, come dimostravano le nuove opere aperte nel Vecchio e nel Nuovo Continente. Esortava i suoi Cooperatori a sostenere le missioni salesiane in continua crescita.[727] Negli anni precedenti la lettera annuale informava anche sulle opere delle suore salesiane. Ora, nonostante la separazione, don Rua non volle dimenticarle. Dopo la lettera ai Cooperatori, sul Bollettino Salesiano del gennaio 1909 fece inserire un articolo intitolato: «L’istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice nel 1908». L’articolo, certamente voluto e forse anche scritto da don Rua, attestava che, malgrado la separazione ufficiale, l’Istituto continuava ad essere il ramo privilegiato della famiglia salesiana.

Oltre alle lettere circolari a Cooperatori e Salesiani, sempre ben circostanziate, don Rua, fedele alle proprie abitudini, moltiplicò le lettere individuali. Solo un piccolo numero di esse è stato consegnato agli archivi di Roma, tuttavia tra le lettere del 1909, ne troviamo cinque indirizzate a don Evasio Rabagliati, ispettore in Colombia, otto a don Giuseppe Vespignani, ispettore in Argentina, dieci a don Arturo Conelli, ispettore dell’Italia centrale, otto a don Pietro Cardano, ispettore del Medio Oriente, cinque a don Giuseppe Gamba, ispettore in Urugyuay-Paraguay. Le sue lunghe lettere a don Isacco Giannini, direttore della colonia agricola palestinese di Beitgemal, datate 25 gennaio e 7 luglio 1909, attestano l’interesse eccezionale che don Rua riservava a quell’opera, visitata l’anno precedente.[728] In luglio e in agosto indirizzò tre lunghe lettere a don Antonio Malan, ispettore nel Mato Grosso, nel cuore del Brasile, sul modo di trattare con gli indigeni, di prepararli al battesimo ecc.[729]

Malgrado le sofferenze fisiche, don Rua si spostava ancora. Tra il 16 e il 18 marzo predicò alle suore Giuseppine di Torino il triduo preparatorio alla festa patronale di S. Giuseppe. Le tematiche erano semplici e concrete: 1° giorno: Lavorare, fare il proprio dovere sul modello di S. Giuseppe; 2° giorno: Pregare, bisogna pregare sempre, secondo il modello di Maria; 3° giorno: Sacrificarsi, sapersi sottomettere alle superiore. Modelli: Giuseppe, Maria e Gesù.[730] Il 20 marzo a Nizza Monferrato celebrò la conclusione degli esercizi spirituali delle Figlie di Maria Ausiliatrice. Incentrò il suo discorso sulle tre lettere «PUÒ», Pietà, Umiltà, Obbedienza: un procedimento mnemotecnico che gli era familiare.[731] Il 21 marzo fu organizzata un’accademia «in onore di don Bosco e del suo degno successore». Ci è stato conservato il lungo discorso di circostanza.[732] Una riflessione caratteristica di don Rua conclue la festa: «Tanti encomi e tanti elogi io non conosco di meritarli, ma li accetto perché sono seguiti dalla promessa che pregherete per me, che ne ho molto bisogno. Desidererei essere una copia di don Bosco, e mentre ne sto leggendo la vita, la confronto con la mia, e me ne trovo umiliato, e devo dire che sono una brutta copia di don Bosco. E non lo dico per umiltà, ma perché è così; e pregate affinché io possa divenire una vera copia!».[733]

Don Rua volle partecipare alle cerimonie della settimana santa nell’Oratorio. Il giovedì santo, 8 di aprile, nonostante le sue infermità, lavò di persona i piedi a dodici ragazzi, che poi invitò al suo tavolo. Partecipò tra il 15 e il 24 maggio alla novena in preparazione alle festa di Maria Ausiliatrice, ma lasciò a diversi cardinali e vescovi l’onore di presiederle e di predicare. La tradizionale «festa della riconoscenza» del 23 e 24 giugno, pur svolgendosi secondo lo schema abituale, prese un tono più solenne del solito. Il barone Antonio Manno annunciò la composizione del comitato per il giubileo di don Rua, presieduto dal cardinale Richelmy. I festeggiamenti giubilari propriamente detti erano previsti per il 24 giugno 1910. Non si sarebbe atteso il 29 luglio, anniversario dell’ordinazione. Sembra che l’interessato abbia esclamato: «Voi farete la festa, ma senza il santo!».[734] Il 25 giugno, una lettera inviata ai Salesiani dalla commissione centrale, firmata dal prefetto generale don Rinaldi, esponeva nel dettaglio le manifestazioni giubilari: mostre, concorsi, invio di lettere e fotografie a don Rua, ecc.[735]

Secondo una l’antica consuetudine, il 24 di ogni mese, don Rinaldi trasmetteva agli ispettori e ai direttori le istruzioni del Rettor Maggiore e dei singoli membri del Capitolo Superiore. Il fatto che queste circolari siano tutte accuratamente numerate, com’era nello stile di don Rua, attesta la loro autenticità come anche le preoccupazioni amministrative e soprattutto religiose del loro autore. Permetteteci di sintetizzare, a titolo di esempio, quelle che vanno dal mese di gennaio al mese di luglio 1909. Esse dimostrano quanto il Rettor Maggiore, ormai quasi invalido, continuasse ed essere vicino ai suoi figli sparsi in tutto il mondo. Va notata, in particolare, la sua preoccupazione quasi ossessiva per i Cooperatori salesiani.

Il 24 gennaio, don Rinaldi scrive che il Rettor Maggiore: 1) annuncia che, dopo l’immane disastro di Messina, un’altra disgrazia ha colpito la Congregazione, la morte per apoplessia dell’economo generale don Luigi Rocca; 2) raccomanda di avere grande cura dei confratelli coadiutori e di accettare buoni famigli che abbiano le qualità necessarie per poter diventare eccellenti coadiutori; 3) suggerisce a ispettori e direttori di rileggere e mettere in pratica le deliberazioni dei Capitoli Generali relative ai Cooperatori salesiani; 4) invita ispettori e direttori a rispondere a ciascuno dei membri del Capitolo Superiore che scrivono nella circolare mensile.

Il 24 febbraio, don Rua: 1) annuncia la nomina di don Giuseppe Bertello alla carica di economo generale; 2) comunica che a Torino è terminato il processo ordinario diocesano per la causa di beatificazione di Domenico Savio; 3) stimola dalle case d’America una risposta alla sua circolare del 27 dicembre 1908 sull’adesione alla federazione Italica Gens per la cura degli emigrati italiani; 4) raccomanda alle case non italiane, specialmente ai noviziati, lo studio della lingua italiana; 5) chiede agli ispettori di rendere conto delle conferenze regolamentari ai Cooperatori salesiani; 6) invita i direttori che hanno potuto rispondere alle lettere circolari perché sprovvisti dei formulari a richiederli al proprio ispettore; 7) loda i direttori che non solo leggono pubblicamente le lettere circolari, ma ne fanno argomento di conferenze comunitarie.

Il 24 marzo: 1) augura buone feste pasquali ai Salesiani e ai loro allievi; 2) raccomanda ai direttori di prendersi cura dei chierici tirocinanti; 3) chiede che, durante il mese mariano, sacerdoti e chierici tengano brevi sermoni in onore della Madonna.

Il 24 aprile, il Rettor Maggiore: 1) esorta i Salesiani a curare il mese di Maria e radicare nel cuore degli allievi la devozione all’Ausiliatrice; 2) invita i direttori a rileggere la circolare mensile del gennaio 1904, riguardante i privilegi relativi alla festa di Maria Ausiliatrice; 3) ricorda la conferenza ai Cooperatori solita a farsi in questa occasione.

Il 24 maggio, don Rua: 1) raccomanda di trascorrere santamente il mese del Sacro Cuore: Ad Jesum per Mariam; 2) ricorda gli avvvisi degli anni precedenti riguardo ai bagni, seguendo le raccomandazioni di D. Bosco; 3) contesta la teoria molto diffusa che riserva l’assistenza ai soli chierici, mentre i sacerdoti dovrebbero dedicarsi unicamente al santo ministero, «sarebbe fatale allo spirito della nostra Piea Società e ai buoni risultati del sistema educativo»; 4) Invita a non visitare le mostre in cui sono fossero dipinti contrari alla moralità; 5) annuncia l’apertura a Torino del processo apostolico di don Bosco.

Il 24 giugno: 1) ringrazia per gli auguri ricevuti in occasione della festa di san Giovanni Battista, giorno in cui si celebra l’onomastico di don Bosco e si festeggia il Rettore Maggiore; 2) raccomanda il potenziamento degli Oratori festivi durante le vacanze; 3) annuncia che la sottoscrizione salesiana per le vittime del terremoto di Messina è servita a raccogliere lire 21.466 e 17 centesimi; 4) esorta gli ispettori negligenti a spedire il rendiconto delle visite ispettoriali; 5) invita gli ispettori a tener conto della circolare del 3 luglio 1906 sul personale delle case.

Il 24 luglio, don Rua: 1) invita nuovamente gli ispettori a consegnare i resoconti delle visite alle case; 2) esorta ispettori e direttori a invitare agli esercizi spirituali i giovani e i famigli che danno speranza di vocazione; 3) augura a tutti buone vacanze e fruttuosi esercizi spirituali per il bene temporale e spirituale della Società.[736]

Infine Don Rinaldi, il 24 agosto 1909, scrive una lettera ai Salesiani per ricordare le raccomandazioni di don Rua sul silenzio e il raccoglimento durante gli esercizi spirituali che si facevano nelle vacanze.[737] Come si vede, il nostro buon Rettore non cessò di vegliare sulla buona salute spirituale dei suoi.

Le deposizioni di don Rua al processo apostolico di don Bosco

Don Rua fu il primo dei testimoni citati al processo apostolico di don Bosco, che si aprì a Torino il 26 maggio 1909. Le sue deposizioni, sempre accurate e fortemente argomentate, furono scaglionate tra l’11 giugno (sessione IV) e il 20 novembre (sessione XXXV), in 31 sedute, sospese per un periodo di vacanza tra il 17 luglio (sessione XIX) e il 4 ottobre (sessione XX).[738]

Tra la sessione IV e la sessione XII, come aveva fatto nel corso del processo informativo, egli ripercorse minuziosamente la vita avventurosa di don Bosco, conosciuto all’età di otto anni e affiancato fino al mometo della morte nel 1888, ad eccezione degli anni 1863-1865, quando era stato nominato direttore di Mirabello. Raccontò la sua formazione scolastica, ostacolata dal fratellastro Antonio, gli studi nella scuola pubblica e nel seminario di Chieri, il periodo trascorso al Convitto ecclesiastico di Torino. Affermò che il Servo di Dio si era sempre mostrato apostolo zelante, soprattutto nei riguardi dei compagni d’infanzia e dei giovani che incontrava. Narrò delle sue visite e delle sue confessioni nelle carceri.

Durante le sessioni VII-X evocò con dovizia di particolari la storia della Società di chierici e laici, destinata a costituire progressivamente la Congregazione di S. Francesco di Sales, la nascita dell’istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice e della Pia Unione dei Cooperatori salesiani, opera sostenuta dal papa Pio IX. Don Rua non dimenticò l’Opera dei Figli di Maria, per le vocazioni adulte. Nel corso delle sessioni  XI e XII ricordò come, per difendere il papa defraudato, don Bosco si fosse dato molto da fare, e per questo motivo avesse dovuto soffrire persecuzioni e persino aggressioni; nel 1867 avvisò il papa delle minacce di Garibaldi; difese l’infallibilità pontificia ben prima della sua promulgazione nel Vaticano I. Ricordò poi che già nella giovinezza il Venerabile aveva pensato di annnunciare di persona il Vangelo agli infedeli, ma non potendo realizzare il suo sogno, a partire dal 1875 decise di inviare i suoi missionari in America del Sud; nel suo zelo, avrebbe voluto inviarli anche negli Stati Uniti, in Africa e in India.

Dalla XIII alla XIX sessione, don Rua testimoniò sull’eroicità delle virtù teologali e morali di don Bosco; sulla costante unione con Dio; sulla particolare devozione eucaritica; sulla sua venerazione per la Parola di Dio; sulla devozione a Maria, la pratica delle virtù inerenti allo stato ecclesiastico, la fiducia nella divina Provvidenza, malgrado i continui ostacoli da superare. Infine parlò della sua conformità incessante alla volontà di Dio, fino alla malattia finale e alla morte. Aggiunse che egli si affidava sempre alla volontà del Signore prima di prendere decisioni gravi; che la sua vita fu una continua opera di misericordia spirituale e materiale e che non gli si poteva rimproverare alcun attaccamento al denaro.

Dopo l’interruzione delle vacanze, le sessioni XX-XXIII furono dedicate alle virtù cardinali. Don Rua testimoniò che don Bosco era dotato di un carattere ardente, decisamente inclinato ad amare il prossimo. Ma la sua forza spirituale era eroica: lo dimostrò nel tenace perseguimento della propria vocazione. In ogni momento della vita, in mezzo a contraddizioni di ogni tipo, egli manifestò una profonda umiltà ed un vero e proprio amore per la povertà e la castità. Con la sessione XXIV, l’inchiesta si concentrò sui doni soprannaturali. L’argomento tornò nelle sessioni XXV e XXVI. Si parlò del dono delle lacrime, della profezia, della conoscenza delle anime, delle visioni e delle guarigioni ottenute mentre era in vita. La sessione XXVII fu dedicata ad una rapida indagine delle opere pubblicate da don Bosco e terminò con il ricordo della sua morte. Nella sessione XXVIII si parlò dei funerali e della reputazione che egli fosse un santo e persino un taumaturgo, fama diffusa mentre era ancora vivente non solo a Torino e in Italia, ma un po’ ovunque nel mondo. La sessione XXIX toccò temi che contrastavano con l’ammirazione generalizzata che si aveva nei riguardi di don Bosco: si affrontarono infatti le interpretazioni degli avversari che sostenevano avesse perso la testa e lo accusavano di appropriazione di eredità... Don Rua mostrò che i principali attacchi di cui era stato oggetto erano causati dal suo zelo per la difesa del papa e della Chiesa, non da mancanze nel comportamento suo o in quello dei discepoli. Si passò poi alle domande relative ai miracoli attribuiti a don Bosco dopo morte. Ci si dilungò sul tema durante le sessioni XXX-XXXII. Don Rua elencò i nomi dei miracolati e descrisse con precisione le malattie di cui soffrivano. Non restava che confermare e firmare le deposizioni, cosa che avvenne nel corso delle sessioni XXXIII-XXXV.

Le deposizioni circostanziate di don Rua sono molto preziose per lo storico. Egli infatti godeva di un’eccellente memoria e sapeva dosare accuratamente le parole, come si può vedere dalle annotazioni marginali inserite al momento della rilettura delle deposizioni. Beninteso, poteva anche cadere in errore, come accadde per la pretesa risurrezione provvisoria del giovane «Carlo», che don Rua attribuiva a don Bosco, mentre si trattava di un aneddoto che il prete di Valdocco aveva raccontato attingendolo dalla biografia di san Filippo Neri.[739] Nei racconti di guarigioni don Rua rifletteva l’opinione comune, attenta al prodigioso. Ma queste sono inezie rispetto a una testimonianza solida e ben fondata, ammirevole in una persona anziana e malata come lui.

 


35 – IL TRAMONTO

L’estate faticosa del 1909

Durante l’intervallo delle varie sessioni del processo apostolico di don Bosco, don Rua si dava da fare come poteva. Il 30 luglio concluse a Valsalice gli esercizi spirituali dei chierici e dei giovani; il 13 agosto andò a celebrare la messa dalle Dame del Sacro Cuore a Valsalice.[740] Il 16 agosto si rivolse ai nuovi aspiranti, riuniti a Valsalice. Il suo discorso partì dall’acrostico BOSCO, cioè Bontà, Orazione, Studio, Castità e Obbedienza.[741] Il 21 agosto si recò a Nizza Monferrato dalle Figlie di Maria Ausiliatrice, ove celebrò la messa e disse alcune parole d’incoraggiamento, ma si rifiutò assolutamente di impartire direttive, lasciando capire che non voleva fare «alcun passo che potesse anche solo sembrare in antitesi colle disposizioni della superiore autorità della Chiesa» sulla separazione tra il loro Istituto e la Società Salesiana. Pur dimostrando una certa disponibilità, non sostenne in alcun modo i tentativi sistematici della Superiora Generale madre Daghero «per avere un consigliere salesiano in ogni ispettoria» delle Figlie di Maria Ausiliatrice.[742]

Il 30 agosto don Rua presenziò presso la tomba di don Bosco a Valsalice alla quinta assemblea generale dei direttori diocesani della Pia Unione dei Cooperatori salesiani. Era stato incoraggiato a organizzarla da una lettera di Pio X, Diletto figlio, del 25 agosto precedente.[743] Fu un’assemblea molto importante sulla modernizzazione necessaria dell’Oratorio salesiano, tema caro al nostro Rettore. La società civile era cambiata rispetto alle origini dell’Oratorio. Ora un socialismo antireligioso cambiava le carte in tavola. Non si poteva più ridurre l’Oratorio alla sola funzione ricreativa e religiosa. L’assemblea espresse il desiderio che l’azione degli Oratori fosse integrata «con opere di indirizzo economico e sociale, rispondenti efficacemente ai bisogni della gioventù, di modo che essa trovi nell’Oratorio e nelle opere annesse quella istruzione sociale ed assistenza morale e materiale che viene loro offerta da circoli ed istituzioni anticristiane». La mozione finale elencava, non senza ambizione, alcune di tali opere: «1) circoli di cultura; 2) conversazioni sociali; 3) scuole professionali; 4) segretariati del lavoro; 5) ufficio d’iscrizione alla Cassa Nazionale di previdenza; 6) assicurazioni operaie popolari; 7) conferenze d’igiene professionale; 8) istruzioni sulla legislazione del lavoro; 9) iniziazione alle Conferenze di S. Vincenzo de’ Paoli; 10) preparazione ai Circoli militari; 11) assistenza dei giovani operai emigranti secondo il sistema di Kolping». Saggiamente la mozione rimarcava: «curando nel tempo stesso il completamento della parte ricreativa ed istruttiva con tutte le attrattive della didattica moderna, (ad es. con cinematografi, proiezioni fisse ecc.)».[744] Nella mente di don Rua, l’Oratorio era un vero e proprio centro di formazione della gioventù.[745]

Il 9 settembre, don Rua chiuse gli esercizi spirituali dei Salesiani a Lanzo. Il 15 fu a Foglizzo, dove si rivolse agli studenti di teologia e ai nuovi professi. Il 24 settembre parlò ai sacerdoti di Ivrea. Il 28 ottobre, nella chiesa di Maria Ausiliatrice, durante la cerimonia di addio a quaranta nuovi missionari, presieduta dal cardinale Richelmy, don Rua potè dare il suo consueto abbraccio ai partenti. I testimoni affermano che quasi non ci si accorgeva che avesse un dolore terribile alle gambe.[746]

Tra settembre e novembre, le molteplici riunioni del Capitolo Superiore si tennero sotto la presidenza di don Rua, ma nella sua stanza. In effetti i suoi mali si erano aggravati.

Il declino

A metà novembre, a San Benigno dove i membri del Capitolo Superiore si erano riuniti per esaminare le relazioni dei visitatori straordinari e programmare la preparazione remota al Capitolo Generale del 1910, don Rua ebbe un cedimento. Mercoledì 23 non poté celebrare la messa in cappella. Dovette rifugiarsi in infermeria. Ciò non gli impedì di tenere un lezione spirituale al novizio che lo assisteva, a partire dalla vita di san Clemente romano che si festeggiava quel giorno.[747] Il 24 novembre, la cronaca ci rivela l’attenzione con cui i suoi seguivano le vicende del Rettor Maggiore: «Oggi D. Rua compie 72 anni, cinque mesi e  15 giorni, l’età di D. Bosco [al momento della morte]. I giovani quindi prima di pranzo lo ricevono con applausi. Leggono un augurio. D. Rua ringrazia e ripete che preghino non che si prolunghi la sua vita, ma che possa passare santamente quella che gli rimane».[748]

Era spossato e lo stesso giorno dovette rientrare a Torino. Uscì di casa appoggiato al braccio di don Albera. Per salutarlo, i giovani, in fila e in silenzio, si misero in ginocchio. Li salutò dalla vettura. Rientrato all’Oratorio, fu costretto a rimanere nella stanza e passare le giornate, con le gambe distese sul vecchio sofà, ma sempre con la tonaca indosso. Ormai i piedi gonfi gli impedivano di mettere scarpe o pantofole.[749]

Le conclusioni della visita straordinaria

Tuttavia restava attivo. Le conclusioni formulate a partire dalla visita straordinaria di tutte le case salesiane da lui ordinata nel 1908, vennero presentate al Capitolo Superiore il 22 gennaio 1910. Erano severe: carenza di personale, soprattutto di personale qualificato; mancanza di buoni direttori; scarsità di buoni confessori; lacune nella formazione del personale, in particolare dei coadiutori; presenza di soggetti indegni dannosi per i confratelli; necessità di cambiare gli ispettori e i direttori inadatti, ecc.[750]

Qualche settimana prima, il 1° dicembre, don Rua aveva firmato un’importante circolare a ispettori e direttori, che raccoglieva le sue osservazioni personali dopo una lettura parziale di quella documentazione.[751] La lettera, a prima vista, appariva rassicurante. Secondo don Rua, i rapporti dei visitatori testimoniavano ancora una volta che l’«umile Congregazione Salesiana» (ci teneva all’aggettivo), benedetta dal Signore, sostenuta da Maria Ausiliatrice, sviluppatasi per le preghiere e i meriti del suo venerato Fondatore, continuava a fare un gran bene in tutto il mondo. Le calunnie di Varazze e di Marsala, le persecuzioni seguite alle rivoluzioni di Barcellona o in Colombia provavano solo che il nemico, sconfitto da una parte, l’assaliva dall’altra. «Chissà che cosa medita oggi contro di noi? Ma noi non abbiamo nulla da temere infatti Dio è con noi». Ciò detto, don Rua avanzava un’osservazione di ordine generale, che avrebbe ispirato il seguito del suo documento: si è constatato che nelle case rette da un superiore dotato di qualità necessarie per il suo incarico, animato da vero e ardente zelo, fedele imitatore del suo venerabile padre e fondatore don Bosco, fiorisce la pietà, regna una grande purezza di costumi, si assiste con ammirazione ad un progresso continuo negli studi, si respira un’atmosfera impregnata del profumo delle più insigni virtù. Malauguratamente i rapporti della visita straordinaria attestavano che tali perle erano piuttosto rare. La triste constatazione spingeva don Rua ad elencare una serie di consigli e di esortazioni destinate soprattutto ai principali responsabili delle case.

1) Don Rua li esorta a confrontare la propria condotta con il testo delle Costituzioni. «Il momento più adatto per questo esame» è l’esercizio della buona morte. Le relazioni dei visitatori rivelano che alcuni direttori delle case si dispensano facilmente dalle pratiche di pietà imposte dalla Regola, soprattutto dalla meditazione e dalla lettura spirituale. Altri non solo «trascurano la soluzione mensile del caso di morale, ma nonostante tante raccomandazioni non si curano di fare le due conferenze mensili tanto necessarie per mantenere vivo lo spirito di D. Bosco nei loro confratelli». Come possono poi «restare tranquilli in coscienza quei direttori che non ricevono il rendiconto dei loro dipendenti?». Questo disordine deplorevole è forse all’origine della perdita di tante vocazioni, mentre tali direttori perdono il loro tempo nella lettura dei giornali, accettano facilmente impegni fuori casa o fanno visite frequenti non necessarie all’esterno. «Almeno valesse a correggere la loro negligenza questo richiamo che loro manda il povero Rettor Maggiore dal letto dove da settimane lo ritiene la sua infermità».[752]

2) Non basta che i direttori osservino le Costituzioni, dovono farle osservare anche ai propri dipendenti. «Guai al superiore negligente! S. Bonaventura non si perita di affermare che egli pecca contro Dio di cui profana il potere, contro i suoi confratelli che lascia abituare nelle loro sregolatezze, contro la propria coscienza nella quale accumula oltre le proprie le mancanze de’ suoi sudditi». Don Rua si dilunga specialmente sulla pratica del voto di povertà, al quale aveva già dedicato una sostanziosa circolare il 31 gennaio 1907.[753] «Quanto rincresce che certi direttori non siano più diligenti e coraggiosi nel far praticare la povertà. S’impedisca con fermezza che i confratelli tengano denaro e lo spendano nei loro minuti piaceri […]. È doloroso il vedere dei confratelli trascinarsi appresso, nel cambiar casa, tutto un corredo di libri e di oggetti che chiamano loro proprii». L’accoglienza favorevole riservata alla lettera del 1907 aveva fatto sperare che tal genere di abusi finisse. Ahimè! I rapporti delle visite lo hanno amaramente disingannato: «Mi consolo però pensando che voi veglierete con maggior cura perché i miei desideri siano appieno soddisfatti».

3) Don Rua denuncia un altro abuso che potrebbe sembrare strano ai giorni nostri: «Si direbbe che siano entrati nella Pia nostra Società degl’individui che di nient’altro si danno pensiero, che di procurare materiali vantaggi alle loro famiglie». Essi non prendono a cuore gli interessi della Congregazione, ma cercano di avere dai superiori un sussidio sempre più consistente per sovvenzionare le famiglie. Per questo invita gli ispettori a indagare «se i postulanti e i novizi entrino in Congregazione per il vero unico fine di salvare l’anima loro, e non per procurarsi una vita comoda e giovare alla loro famiglia. Informatevi anche dello stato della famiglia del postulante, e qualora si trovi aver essa bisogno di sostegno da parte del figlio, lo si esorti piuttosto a prendere altra via e non farsi Salesiano. Soprattutto vegliate  perché non siano ordinati sacerdoti coloro qui quaerunt quae sua sunt, non quae Jesu Christi [che cercano i propri interessi, non quelli di Gesù Cristo]».

4) Si dilunga poi sulla disinvoltura di certi sacerdoti nella celebrazione della messa: «Permettetemi di ricordarvi che voi ispettori e direttori avete come i prelati lo stretto obbligo di correggere i vostri dipendenti che celebrano male o con fretta indecorosa o non fanno la debita preparazione e ringraziamento». Prosegue ricordando alcune considerazioni di S. Francesco di Sales, che scrisse  nell’Introduzione alla vita devota: «Il santo Sacrificio della Messa è il centro della religione cristiana, il cuore della devozione, l’anima della pietà, un mistero ineffabile che svela l’abisso della carità divina, per cui Iddio si unisce realmente a noi, ci comunica generosamente le sue grazie e favori».

5) Raccomanda di far osservare l’articolo 780 dei Regolamenti che «vieta ai nostri alunni di mettersi le mani addosso, di tenersi l’un l’altro per mano o passeggiare tenendosi a braccetto». Ma non basta. Gli ispettori e i direttori veglino perché nessun salesiano si permetta simili familiarità con gli allievi. «Trattate qualche volta  nelle conferenze della necessità per noi Salesiani di mortificare il senso del tatto. Vietate a tutti d’accarezzare i fanciulli di stringere loro le mani, di passaggiare avvincolati con loro, di palpeggaire loro le guancie o il mento e specialmente di farli sedere sulle ginocchia». Questi gesti «potrebbero condurre a gravi disordini contro la moralità, e dare pretesto ai nostri nemici di calunniarci ed attribuirci intenzioni che non avevamo. Il venerabile don Bosco, che pur amava con tanto affetto i giovani, non si credette mai lecito di attirarli a sé con tali mezzi e rimproverava con molto zelo chiunque operasse altrimenti».

6) Don Rua conclude la circolare esortando i Salesiani a non comportarsi più da «fanciulli» ma da persone mature, da «robusti operai della vigna del Signore». Ciascuno assolva al suo dovere con la massima diligenza, «come se da lui solo dipendesse l’onore dell’intiera Congregazione». Ciascuno si renda capace di «operare molto bene, specialmente a favore della gioventù», facendo tesoro «di ogni mezzo per progredire nella scienza e nella virtù». Nessuno faccia pace con i propri difetti. «Tutti nel parlare, nel lavorare e nel nostro contegno mostriamoci degni del nome di Salesiani e di figli di don Bosco». Ispettori e direttori diano alle comunità «quel colore di serietà che ci è indispensabile», procurando «con dolce fermezza che si osservino le Costituzioni e i Regolamenti», nella lettura a tavola, nelle uscite di casa, nella regolarità delle pratiche di pietà, compresi i periodi di vacanza, ecc.

In appendice alla circolare, don Rua si complimenta con coloro che nelle case salesiane  promuovevano la buona stampa.

Forse don Rua era consapevole che quella lettera sarebbe stata il suo testamento spirituale. Era fondata sui rapporti della visita straordinaria del 1908, che gli avevano permesso di percepire nell’insieme la situazione reale delle case salesiane sparse per il mondo. Ne aveva fatto il confronto con i regolamenti redatti dai Capitoli Generali e con l’ideale di religioso che coltivava dentro di sé. Segregato nella propria camera, con le gambe malate, don Rua cercava ancora di raggiungere personalmente tutti i suoi figli e li supplicava di mostrarsi degni discepoli di don Bosco. Tale era stato fin dal principio lo scopo del suo rettorato.

Le ultime settimane di don Rua

La lettera annuale di don Rua ai Cooperatori uscì puntualmente il 1° gennaio 1910.[754] Il 4 gennaio, don Rua accettò di scendere sotto i portici di Valdocco e farsi fotografare con il tricorno in testa e le spalle coperte dalla mantellina.[755] «A ben guardarlo – osservava don Ceria – mostra nel volto stremato e consunto un’aria insolitamente abbattuta; gli occhi, sebbene vi brilli ancora il vigor dell’anima, appaiono soffusi da un velo sottile di languore; le labbra vorrebbero abbozzare l’abituale sorriso, ma fan vedere soltanto la contrazione muscolare, manca la vivacità che dovrebbe animarle».[756]

Ormai don Rua non poteva più recarsi per la messa nella chiesa di Maria Ausiliatrice, ma celebrava nella piccola cappella di don Bosco, presso il suo ufficio. Quella celebrazione lo affaticava molto, per cui – particolare insolito per lui tanto devoto – era costretto a fare il ringraziamento seduto su una poltrona davanti all’altare. Una mattina, al termine dell’eucaristia, chiamò il fedele infermiere Balestra e gli disse: «Ho le vertigini. Aiutami a tornare in camera». Il 14 febbraio il dottor Battistini, medico ordinario dell’Oratorio, riscontrò una debolezza cardiaca allarmante e gli consigliò di astenersi dal celebrare e di riposarsi per quattro o cinque giorni. L’indomani volle comunque dire la messa. Sarà l’ultima. Mercoledì 16, dal letto, assistette all’eucarista celebrata da don Francesia nella cappellina. A mezzogiorno si alzò, ma dopo un’ora dovette rimettersi a letto. Era esausto e disse al salesiano Balestra: «Prendi la posta e portala a don Rinaldi, digli che se ne occupi lui, perché io non ce la faccio più». Tuttavia, adagiato sui cuscini, ricevette ancora coloro che desideravano vederlo. A ore fisse, faceva meditazione e lettura spirituale, con Balestra che gli leggeva i testi in uso nella comunità.

I medici diagnosticarono una «miocardite senile», che stremava inesorabilmente le forze del suo corpo. Ma lo spirito rimaneva vigile e benevolo nei riguardi di chi lo visitava. Infatti in quesi giorni al suo capezzale sfilavano cardinali, notabili ecclesiastici o laici, membri delle famiglie patrizie e anche gente comune. Quelli che conoscevano la sua virtù, lo vedevano inalzarsi a un livello spirituale straordinario.[757] Il 14 marzo, sentendo che la fine si approssimava, chiese che si facesse l’inventario degli scaffali e dei cassetti della sua scrivania. L’indomani chiamò Balestra e gli dettò il programma giornaliero che desiderava osservare. Eccolo:

Orario ad esperimento

5: Sveglia

5.20: Messa e Comunione e ringraziamento

6.15: Meditazione

6.45: Riposo – Dalle 8 alle 9 visita dei medici e colazione con qualche udienza

9: Rimedio [medicamenti] – Qualche udienza di esterni, secondo convenienza e possibilità, e riposo

12: Pranzo e un po’ di conversazione

14: Riposo

15.30: Preghiera, lettura e qualche diversivo

16: Rimedio

18: Riposo e qualche diversivo

20: Cena, orazioni e disposizioni per la notte.[758]

Già prima di stabilire quel regolamento, le sue giornate iniziavano secondo un programma consolidato. Alle ore 5, Balestra batteva leggermente le mani e diceva Benedicamus Domino, al che don Rua rispondeva Deo gratias. Doveva prepararsi alla messa. Perciò si lavava e indossava la veste talare, mentre il letto veniva ricoperto da un lenzuolo bianco. Quando non gli fu più possibile indossare la veste, si coprì con un grande scialle nero per ricevere degnamente la santa Comunione e i visitatori. Alla fine dovette accontentarsi di un ampio foulard. Ci teneva molto al decoro. Quindi apriva il messalino e, quando la campanella annunciava l’inizio del santo sacrificio, faceva il segno della croce e rispondeva al celebrante insieme al serviente, molto attento allo svolgimento del rito.

Il 20 marzo la Chiesa entrava nella settimana santa. Il volto e le mani di don Rua iniziarono a gonfiarsi. Se ne accorse, cosicché il mercoledì santo (23 marzo) chiese il santo Viatico per l’indomani. L’eucaristia gli fu portata dal prefetto generale don Rinaldi, preceduto processinonalmente dai confratelli dell’Oratorio che tenevano in mano ceri accesi. Prima di ricevere l’ostia, don Rua fece segno di voler parlare. Lo sollevarono sui suoi cuscini e parlò con una voce a bbastanza forte da essere udito nelle stanze vicine. Le sue espressioni sono state ricostruite:

In questa circostanza mi sento il dovere d’indirizzarvi alcune parole. La prima è di ringraziamento per le continue vostre preghiere: tante grazie, il Signore vi rimuneri anche per quelle che farete ancora.

Un’altra parola voglio dirvi, perché non so se avrò occasione di parlarvi altre volte tutti insieme raccolti, vi raccomando che la presentiate anche agli assenti. Io pregherò sempre Gesù per voi. Spero che il Signore esaudirà la domanda che faccio per tutti quelli che sono in casa ora ed in avvenire. Mi sta a cuore che tutti ci facciamo e conserviamo degni figli di don Bosco. D. Bosco al letto di morte ci ha dato un appuntamento a tutti: Arrivederci in Paradiso! È questo il ricordo che egli ci lasciò.

D. Bosco ci voleva tutti i suoi figli; per questo tre cose vi raccomando:

1) Grande amore a Gesù sacramentato;

2) Viva devozione a Maria SS. Ausiliatrice;

3) Grande rispetto, obbedienza ed affetto ai Pastori della Chiesa e specialmente al Sommo Pontefice.

È questo il ricordo che anch’io vi lascio. Procurate di rendervi degni di esser figli di D. Bosco.

Io non tralascerò mai di pregare per voi. Se il Signore mi accoglierà in Paradiso con don Bosco, come spero, pregherò per tutti delle varie case e specialmente di questa.[759]

Per amor di completezza, notiamo come più tardi, il 1° aprile, don Rua chiese espressamente a don Rinaldi di aggiungere alle raccomandazioni del 24 marzo, che considerava un testamento spirituale, un’osservazione significativa sulle sue labbra: «Ai confratelli raccomanda quanto dissi il giorno che ricevetti il santo Viatico e ricorda loro che sarà nostra fortuna l’essere stati fedeli nel mantenere le tradizioni di D. Bosco e l’aver evitato le novità».[760] Commentando le sue parole, il cardinale Maffi dirà nel discorso commemorativo: «Brevi parole, ma che rivelano tutto il mistero e il mondo di un’anima, che dicono un programma segretamente, sinceramente caro e seguito, che della luce vera e piena, quella delle agonie, illuminano ciò che di don Rua fu lavoro incessante e continuo sospiro».[761]

Nessun estraneo era stato ammesso alla cerimonia, tranne il devoto professor Rodolfo Bettazzi, ardente difensore dell’Azione Cattolica e apostolo della moralità. L’aveva chiesto come un grandissimo favore. Poi firmò il registro dell’anticamera e scrisse: «Felice di aver assistito al Viatico di un Santo». Un nipote venuto da Roma e i nipoti residenti a Torino, che gli avevano fatto visita più volte, non osavano disturbarlo. Don Rua li fece avvicinare uno dopo l’altro per dire loro qualche buona parola e salutarli con un arrivederci in Paradiso!

La morte di don Rua

Il 27 marzo, giorno di Pasqua, verso le ore 21 e 30, si manifestarono i sintomi di una leggera embolia. Don Rua perse conoscenza. Il medico assicurò i superiori allarmati che i sintomi erano passeggeri, infatti il malato tornò in sé e recuperò la parola. Ma le forze l’abbandonavano sempre di più. Don Rinaldi allora gli propose di ricevere l’Unzione degli infermi. Rispose immediatamente: «Volentieri, volentieri!». Gli mostrò il suo piccolo rituale e lo pregò di leggergli tutti i riti e le preghiere prescritte per l’amministrazione del sacramento. L’indomani don Albera gli conferì l’Unzione, in presenza di tutti i membri del Capitolo Superiore. Si constatò in lui, come già in don Bosco, quell’effetto benefico sul fisico che molto spesso segue all’amministrazione del sacramento: il malato provò un vero sollievo, che pareva un miglioramento generale.

Abbiamo letto nel programma giornaliero dettato a Balestra, la parola «rimedio». Don Ceria ritiene che si trattasse della cura per le gambe che erano tutte una piaga. Dio sa come lo facevano soffrire. Tuttavia, nel corso della malattia, non lo si udì mai proferire un lamento. A chi gli chiedeva se soffriva molto, rispondeva di solito con grande calma: «No, no!», e talvolta: «Un po’»!

La diagnosi del medico si faceva di giorno in giorno più allarmante. La sua miocardite peggiorava. Non riuscì più ad alimentarsi, cosicché sabato 2 aprile don Rinaldi annunciò a tutte le case che si stava avvicinando la fine.[762] Nell’anticamera alcune persone avrebbero ancora voluto avvicinarlo. Ma erano tenute alla larga dall’energico don Stefano Pagliere. Ma talvolta don Rua faceva segno di lasciar entrare qualcuno. Fu, a quanto sembra, il caso di Giovanni Possetto, l’amico venuto a trovarlo quando era scoppiato lo scandalo di Varazze. Don Rua gli strinse leggermente le mani: «Ho sempre un gran debito, mi disse con voce che pareva un mormorio, si ricorda? Fu qui, in questa stessa stanza; io ho sempre pregato per lei e per la sua famiglia ed ora che sto per lasciarla definitivamente voglio ancora dirle che quando sarò di là riunito al nostro buon Padre invocherò sempre sovra di lei la celeste benedizione. Addio, nostro buono e fedele amico».[763]

Il 1° aprile, nella chiesa di Maria Ausiliatrice, si era inziato un triduo di preghiera per don Rua, davanti al Santissimo esposto. La sera dell’ultimo giorno, prima della benedizione, pare che Francesia rivolgendosi ai giovani e ad altri presenti abbia detto: «O Gesù, dacci il nostro padre, il nostro amico, il nostro benefattore. Una tale grazia, Vergine Santa, sarebbe per tutti la perla più splendida della vostra corona!». La sera del 4 aprile, don Rua chiamò il suo confessore, che subito accorse: «Prendi il rituale e leggi le preghiere della raccomandazione dell’anima». I superiori, avvertiti, interruppero la riunione e arrivarono immediatamente. Inginocchiati ai piedi del letto, rispondevano alle litanie. Don Rua, da parte sua, seguiva tranquillo e sereno.

Poco dopo, la calma l’abbandonò ed entrò in un’agitazione spirituale che ricordò a don Piscetta, che era presente, quella di Gesù al Getsemani: «Padre, se è possibile, allontana da me questo calice». Don Rua chiese ai presenti di pregare il Signore che allontanasse da lui la morte o la rendesse meno spaventosa. «Perché – diceva – temo di presentarmi al giudizio di Dio, ho paura di non sopportare l’agonia». Naturalmente don Albera cercò di rassicurarlo e di confortarlo. E la crisi passò.

Il mattino di martedì 5 aprile, nalla cappella accanto alla camera, si susseguirono otto sacerdoti a celebrare la messa. Alla colletta aggiungevano l’orazione per un moribondo. Don Rua seguì attentamente la seconda di quelle messe, celebrata dal suo confessore don Francesia. La devozione con cui ricevette la comunione, l’ultima della sua vita, colpì chi vi assisteva. Verso le ore 10, chiese che gli leggessero la meditazione. Gli risposero che non doveva affaticarsi, ma accettare la volontà di Dio. Si rassegnò solo in parte. Dopo aver recitato il Veni sancte Spiritus, volle che gli si enunciassero almeno i titoli dei diversi punti della meditazione del giorno e le risoluzioni finali. Poi si raccolse per una decina di minuti.

Manteneva ancora lo spirito lucido, pregava. Ma a tratti perdeva conoscenza. In serata cominciò a riconoscere a fatica le persone. Venuta la notte, perse completamente la vista. Pare che l’agonia sia iniziata verso le ore 22. Di tanto in tanto domandava se era giunta l’ora della morte. Verso mezzanotte si addormentò.

Il 6 aprile, alle ore una e trenta del mattino, si scosse. Don Francesia gli suggerì alcune giaculatorie che sembrarono rianimarlo. Quando udì quella che don Bosco gli aveva insegnato da ragazzo: «Dolce Cuore di Maria, fate che io salvi l’anima mia», sussurrò con un filo di voce: «Sì, salvare l’anima … è tutto … è tutto … salvare l’anima». Da quel momento non proferì più parola. Entrò lentamente in coma. Dopo la levata della comunità, i giovani dell’Oratorio cominciarono a sfilare davanti al suo letto per baciargli la mano. Vennero anche le Figlie di Maria Ausiliatrice. Il corteo durò più di un’ora. Terminò alle nove e trentasette minuti. Allora, senza un lamento, senza un movimento, quasi senza che gli astanti se ne accorgessero, il cuore cessò di battere e il suo povero corpo rimase senza vita. I presenti caddero in ginocchio, mentre il sacerdote, seguendo il rituale, invocava i santi e gli angeli perché gli venissero incontro, accogliessero la sua anima e la presentassero al trono dell’Altissimo.

I funerali di don Rua

Era un santo! Tutti nell’Oratorio si commmossero fino alle lacrime. Era naturale. Ma presto il dolore fu sostituito dalla certezza di avere acquistato un’altro protettore in pradiso, un vero santo, un grande santo. La notizia corse di bocca in bocca, in casa e fuori dall’istituto. La popolazione cominciò ad affluire per rendere omaggio alla salma, esposta nella chiesa di S. Francesco di Sales. Il corpo, rivestito con la talare, la cotta e la stola, era adagiato su un piccolo catafalco, con un crocifisso tra le mani. I primi a venire furono naturalmente i torinesi.[764]

Sul viso di tutti si leggeva ammirazione e reverenza.[765] Volevano vederlo e toccarlo in segno di venerazione. Questo pio pellegrinaggio assunse proporzioni straordinarie il giorno successivo, 7 aprile, dopo che la stampa ebbe diffuso la notizia della morte di don Rua. In piazza Maria Ausiliatrice si assisteva a un andirivieni di calessi e «automobili», mentre una marea di gente si dirigeva verso l’Oratorio e la chiesa di S. Francesco di Sales. «Tutti volevano far toccare alla salma corone, medaglie, catenelle, libri, immagini, fazzoletti, ed allo stesso fine molte signore consegnavano ai chierici ed ai sacerdoti addetti al pietoso ufficio i loro anelli, molti signori gli orologi e vari studenti di Università il libretto delle loro firme».[766] L’8 aprile giunse il momento di metterlo nella bara. Poi il feretro venne trasferito nel santuario di Maria Ausiliatrice. Là continuò il corteo.

La mattina del 9 aprile, nella chiesa tutta parata a lutto, iniziarono i funerali con una messa in «canto piano» (gregoriano), celebrata dal vescovo salesiano mons. Giovanni Marenco, accompagnato da mons. Pasquale Morganti, arcivescovo di Ravenna, grande amico di don Rua, e dal domenicano mons. Angelo Francesco Scapardini, vescovo di Nusco. Don Rua aveva sempre amato il canto gregoriano. Il catafalco era modesto, senza fiori né corone, solo sei ceri, ma la cerimonia fu grandiosa ed insieme molto raccolta. Le diverse associazioni legate ai Salesiani vollero essere presenti con i rispettivi stendardi. La famiglia reale fu rappresentata dalla principessa Letizia Bonaparte. «Mai si vide tanta folla e tanto raccogliemento». Quando la cerimonia terminò, non solo il santuario, ma i cortili interni dell’Oratorio e la vasta piazza della chiesa «presentarono l’aspetto di una festa straordinaria». Nel pomeriggio un interminabile corteo precedette e seguì il feretro di don Rua per le strade di Valdocco. Si calcola che centomila persone assistessero accalcate sui bordi delle strade all’ultimo passaggio di don Rua nella città che l’aveva visto nascere e spendersi senza riserve, con ammirazione di tutti. Il giornale Il Momento, nell’edizione di sabato 9 aprile, scriveva:

Per la sepoltura di Don Rua la cronaca vince colla sua gradiosità ogni nota di commento. Intorno alla bara dell’umile sacerdote si sono trovate tutte le rappresentanze ufficiali delle più alte autorità civili, ma dietro i cordoni militari che trattenevano a stento la folla in chiesa, come in piazza, come per i corsi, era tale una immensa onda di popolo quale non si ricorda d’aver vista eguale da lungo tempo. E il significato più commovente della funzione era proprio in quelle migliaia e migliaia di persone che portavano un tributo di memoria, di riconoscenza, di affetto, di ammirazione, di venerazione. Succedere a Don Bosco non era facile impresa, ritenere ancora, dopo un quarto disecolo, intensificata tutta la simpatia che il nome di Don Bosco trascinava dietro di sé irresistibilmente, non poteva che essere la vittoria di una persona umile e grande come era stato il padre. Ieri, lo slancio spontaneo di Torino verso Don Rua, è stata la più nobile, la più eloquente, la più commossa dimostrazione che si potesse immaginare. Le campane che suonavano la sua sepoltura, cantavano a larghe note l’inno del suo trionfo.[767]

Il 9 aprile un carro funebre trasferì il feretro dalla chiesa di san Francesco di Sales al Seminario delle Missioni Estere di Valsalice, la casa salesiana dove riposava da ventidue anni la salma di don Bosco. Dopo un’ultima benedizione esequiale, la bara di don Rua fu collocata in un loculo, scavato a fianco della tomba di don Bosco.

Il direttore dell’Oratorio, don Secondo Marchisio, diede l’ultimo addio al Rettore defunto: «A nome di tutti i figli dell’Oratorio, e di quelli ancora che sono sparsi per tutto il mondo, io depongo, o Padre venerato, sulla tua bara il saluto estremo dell’amore. Noi prendiamo oggi, qui, sopra la tua tomba, l’impegno solenne di mantenerci sempre fedeli ai grandi insegnamenti a te e a noi lasciati dal Venerabile Don Bosco e che si compendiano nel motto preghiera e lavoro! È questo il fiore che i figli depongono sulla tomba del padre».[768]


EPILOGO

Verso la beatificazione

Alla morte di don Michele Rua, come si è visto, coloro che lo avevano conosciuto o semplicemente avvicinato, Salesiani o no, lo definirono un santo, convinti della sua santità, come se la Chiesa si fosse già pronunciata. Pietro Fedele, storico dell’Università di Torino, disse al successore Paolo Albera, che se si fosse stati nel Medioevo, Valdocco non avrebbe celebrato una messa da Requiem, ma avrebbe cantato immediatamente la messa in onore di san Michele Rua, canonizzato a voce di popolo.[769] Ma la Chiesa del XX secolo, almeno fino all’avvento di Giovanni Paolo II, procedeva con i piedi di piombo in materia di beatificazione e di canonizzazione.

L’idea di introdurre la causa di beatificazione, ventilata già nel 1910, non tardò ad attuarsi. Il 2 maggio 1922, il cardinale Agostino Richelmy costituì a Torino il tribunale ecclesiastico per il processo ordinario o informativo. Furono convocati venti testimoni diretti e due testimoni d’ufficio. Si susseguirono 226 sedute, fino al 20 novembre 1928.[770] Nel 1931 il cardinale Giuseppe Gamba avviò l’esame degli scritti di don Rua, compito facile, dal momento che egli non aveva pubblicato quasi nulla. Nel 1936 il successore, Maurilio Fossati, istituì un processo particolare (de non cultu) per assicurarsi che nessun culto pubblico fosse stato reso al povero don Rua.[771] Il «Decreto per l’introduzione della causa di Beatificazione e Canonizzazione del Servo di Dio don Michele Rua, sacerdote della Pia Società di S. Francesco di Sales», fedele discepolo di don Bosco, il cui spirito «si posò sopra di lui, come quello di Elia sopra Eliseo», venne firmato a Roma il 15 gennaio 1936.[772] Annunciava l’imminente apertura del processo apostolico, che iniziato il 10 novembre 1936, con ventiquattro testimoni, di cui quattro d’ufficio, si concluse il 4 maggio 1938, dopo 174 sessioni.[773] Poi giunse la guerra che rallentò tutto. L’eroicità delle virtù di don Rua, così evidente ai lettori dei documenti processuali, venne riconosciuta per decreto della Congregazione dei Riti solo il 21 aprile 1953.[774] Bisognava ancora regolare la questione dei miracoli attribuiti alla sua intercessione: solo la garanzia della loro autenticità avrebbe permesso di proclamarlo beato. Trascorsero altri diciassette anni per ottenere finalmente il «Decreto sui miracoli» (19 novembre 1970).[775] Si era all’epoca di Paolo VI, certamente benevolo con i Salesiani. La beatificazione di don Rua fu celebrata a Roma il 29 ottobre 1972, cinquant’anni dopo l’apertura del processo informativo di Torino.[776]

Il fedele discepolo di don Bosco

Dalla sovrabbondanza di testimonianze sulla vita, le virtù e la morte santa di don Rua, scaturisce un’immagine chiara. Michele Rua è stato davvero quel fedele discepolo di don Bosco, che aveva cercato di essere sin dall’adolescenza.[777]

Dal punto di vista fisico, la differenza con don Bosco era totale: don Rua colpiva per la sua magrezza e la statura slanciata, secondo i canoni del tempo (poiché, leggiamo sul passaporto del 1908, era alto un metro e sessantotto). L’ascetismo rigoroso del suo stile di vita aveva profondamente segnato il viso ossuto. Vedendolo, veniva alla mente il curato d’Ars, san Giovanni Maria Vianney. Ma quando parlava, un sorriso dolcissimo e pieno di candore ne illuminava i tratti e lo rendeva seducente. I suoi poveri occhi, dalle palpebre arrossate per le ore di veglia, brillavano come quelli di un bambino e il loro sguardo penetrava i cuori. La sua persona non aveva nulla di studiato e artefatto, né nell’atteggiamento né nelle parole. Dimostrava la semplicità tipica di coloro per i quali conta solo l’essere, non l’apparire. Possedeva un’intelligenza superiore, estremamente vivace. Comprendeva tutto molto in fretta. La vasta e solida cultura, aiutata da un’ottima memoria, aveva del prodigioso se si pensa a tutte le sue attività. Nella giovinezza, parecchi lo credettero professore universitario. Non mancava di finezza e mescolava volentieri alla conversazione una nota di giovialità. Al contrario dimostrava poca immaginazione, nessuna fantasia e, nel suo comportamento, una impressionante stabilità di spirito e di umore. La lingua usata e scritta – come si vede dalle circolari – era chiara, pulita, in alcuni tratti ardente, ma senza slanci lirici.

Era dotato di una sensibilità estrema e di un cuore molto affettuoso. Ma fu sempre riservato, aveva pudore dei suoi sentimenti. Le lezioni dei Fratelli delle Scuole Cristiane l’avevano segnato in profondità sin dall’adolescenza. Si mostrava in ogni occasione estremamente educato, con uno stile di comportamento sicuro e molta distinzione nel tratto. Pur essendo figlio del popolo, frequentò i grandi con disinvoltura. Più notevole ancora fu la forza di volontà nel controllo di sé, nella gestione della vita, del tempo, delle giornate, nella tensione calma e perseverante verso gli obiettivi che si prefissava.

Soprattutto, don Rua appariva sommamente prudente. La sua grande prudenza è stata sottolineata in modo particolare nel decreto sull’eroicità delle sue virtù (1953). Come insegna san Lorenzo da Brindisi, scrive il relatore, gli atteggiamenti indispensabili alla persona prudente sono tre: «Anzitutto, propostosi uno scopo, saper individuare i mezzi necessari, utili, bastevoli e insieme più sbrigativi e acconci al conseguimento di quello; giacché una persona prudente non va alla cieca né a precipizio, ma si consiglia e riflette per attenersi sempre al meglio. In secondo luogo, saper indirizzare al fine voluto i mezzi cercati e trovati; perciò una persona prudente procede con attenzione e diligenza, né agisce sbadatamente o “alla carlona” o senza costanza. Terzo, oculatezza e saggezza in prevenire ed evitare pericoli, in scansare ragionevoli sorprese, abbondando sempre in cautela. Tutto questo – continuava il relatore – il Servo di Dio praticò a puntino e così con l’aiuto di Dio dilatò per ogni dove la Società Salesiana, promosse nei soci la pietà e lo zelo delle anime, moltiplicò le spedizioni missionarie, diede ben di cuore il suo assenso a confratelli desiderosi di dedicarsi all’assistenza dei lebbrosi, procurò coscienziosamente che negli ospizi e nei collegi si coltivassero la pietà, lo studio e la disciplina, e con forza bensì, ma anche con molta dolcezza nulla trascurò di quanto, secondo gli insegnamenti del Fondatore, potesse ridondare a maggior gloria di Dio».[778]

Sotto il suo saggio governo il numero dei Salesiani professi passò da 773, suddivisi in 58 case nel 1888, a 4001, ripartiti in 387 case nel 1910.

Le prove non lo scoraggiavano. Tutt’al più, durante gli anni del suo rettorato, ci furono alcuni giorni di abbattimento quando esplose la vicenda di Varazze a fine luglio 1907.

Fu anche un incomparabile uomo d’azione, un capo che si guadagnava la fiducia e la totale collaborazione di tutti.

Come notò il relatore a proposito dell’eroicità delle virtù, don Rua mise ogni sua qualità al servizio del Regno di Dio. In tal modo realizzò anche la vocazione provvidenziale di continuatore fedele di don Bosco. Questi aveva lasciato ai figli la consegna: «Lavoro e temperanza», che per lui significava «mettersi al servizio degli altri e attività apostolica intensa, resa possibile dal rifiuto di ogni ricerca del proprio interesse personale in tutti i campi». Don Rua tenne fede a quel programma, con una precisione e una compiutezza veramente straordinarie. Fu, nel vero senso del termine, uno “stacanovista”. Ogni sua giornata era piena, senza un attimo di riposo, come se avesse fatto voto di non perdere un minuto. Non prese mai alcun giorno di vacanza. «Arrivando in paradiso – disse uno dei suoi figli all’indomani della morte – dopo aver salutato affettuosamente don Bosco, sarà stato capace di chiedergli: “C’è un po’ di lavoro per me da queste parti?”, e “A che ora si fa la meditazione?”».

La temperanza, altro caposaldo del programma di don Bosco, si esprimeva in lui attraverso il «culto della Regola», come si disse. Il racconto della sua vita ce lo ha ampiamente illustrato. Era anche vigilanza assidua su se stesso per non concedere alla natura che lo stretto necessario. Si racconta che don Bosco avesse detto: «Don Rua è la Regola vivente». Per niente al modo avrebbe ritardato di ventiquattr’ore la confessione settimanale, anche a costo di confessarsi da un compagno di viaggio, sbalordito dalla richiesta. Non si concesse mai una siesta. Ogni giorno, dopo pranzo, faceva ricreazione con i confratelli, secondo quanto era indicato la Regola. Dopo le preghiere della sera osservava e faceva osservare il grande silenzio religioso. Rispettava e faceva rispettare le più minute prescrizioni liturgiche.

Era temperante nell’alimentazione. Mai lo si vide prendere cibo fuori pasto e, nonostante fosse Superiore Generale, non tollerò alcun privilegio nei suoi menù. Temperante anche nel sonno: terminata la faticosa giornata, non si stendeva sul letto, ma su un canapé, che ogni sera veniva preparato, e si concedeva non più di cinque o sei ore di sonno. Insomma, imparò sin dalla giovinezza a non preoccuparsi di sé, non perché avesse il gusto della mortificazione, ma per rendere la sua carne più flessibile al servizio dello spirito e dell’amore. Infatti ci teneva a vivere nella carità, come il suo Maestro spirituale.

Il vero amore è umile e distaccato. Le due virtù evangeliche dell’umiltà e della povertà in don Rua hanno brillato di un singolare splendore. L’umiltà era la virtù preferita: quando stava con don Bosco, l’abbiamo fatto notare, lavorò duramente rimanendo in ombra, senza mai passare in primo piano. Divenuto Rettor Maggiore, incarico per il quale si riteneva indegno e inadatto, la sua unica preoccupazione fu quella di non comportarsi mai da protagonista, ma solo a nome di don Bosco, di volere e di agire come lui. Quando, durante i viaggi, vedeva accorrere le folle e testimoniargli in mille modi stima e profonda venerazione, esclamava: «Come è amato don Bosco!», o ancora: «Ma io non sono don Bosco!». È noto che ottenne parecchie guarigioni, ma esclamò sempre: «Come sono potenti Maria Ausiliatrice e don Bosco!». Sul suo biglietto da visita non si lesse mai altro che: «Sac. Michele Rua», seguito dall’indirizzo.

Quanto alla povertà, ne fece la sua compagna amata, dimostrandosi anche in questo vero figlio di don Bosco. Non aveva che due vesti talari: una estiva, una invernale, tutte e due portate fino alla consumazione, ma sempre molto pulite. La stessa sobrietà la mostrava il suo ufficio, come si è detto. Quando subentrò a don Bosco, non volle assolutamente che si cambiasse nulla in questa stanza benedetta, dove avrebbe abitato per ventidue anni. La conservò tale e quale, povera e spoglia di ogni ornamento. Viaggiò sistematicamente in terza classe e non si concesse mai divagazioni turistiche. La sua circolare più ispirata fu probabilmente quella del 31 gennaio 1907, a cui abbiamo fatto allusione, che tratta della povertà ed è posta sotto l’emblema del «povero don Bosco».

«Tutto per la maggior gloria di Dio e la salvezza delle anime»: se non si sta attenti, si è portati a vedere in don Rua solo fatica e austerità. Ma a distanza di cent’anni dalla sua morte, sappiamo che è una falsa immagine. Come fa notare, a ragione, Joseph Aubry, non si comprenderebbe nulla della sua prodigiosa capacità di lavoro e della sua ascetica povertà se si dimenticasse l’intimità divina del suo spirito. Sotto un’aria ieratica, eternamente tranquilla, quell’uomo in realtà ardeva di passione, come don Bosco: la passione dell’amor di Dio e delle anime da salvare. E se esteriormente poteva apparire ruvido, in realtà era un essere impastato di tenerezza, impregnato della gioia che Dio sa dare a quelli che ama.

La sua paterna bontà per ognuno dei confratelli, era riconosciuta da tutti. Infatti ognuno, dal più grande al più piccolo, trovava in lui un cuore comprensivo, preoccupato di tenere conto delle capacità, della maturità e dell’avvenire delle persone, esercitando a merviglia l’arte della correzione, traducendo la sua stima e il suo affetto in gesti delicati di pazienza e di attenzione squisita. Rispondeva alle lettere che riceveva e il più delle volte le firmava con l’espressione: «Il tuo amico affezionatissimo».

Ma bisogna insistere sulla pietà e sulla vita interiore, più intuita che conosciuta, poiché non si è mai lasciato andare a confidenze. La sua pietà era molto semplice, senza estasi, condivisa con i confratelli nelle quotidiane pratiche comunitarie: preghiere vocali, meditazione, santa messa. Tuttavia essa impressionava, perché la sua fede viva ne faceva una preghiera vera (non una formula o un rito), cioè un vero incontro con Dio, un’adorazione filiale di tutto l'essere, un’adorazione visibile nel raccoglimento e talvolta nel trasalimento del volto. Per giudicare la sua capacità di raccogliersi in preghiera, era sufficiente vederlo durante il ringraziamento dopo la messa, inginocchiato in sacrestia, con il volto tra le mani ossute, mentre dialogava con il suo Dio. La preghiera riempiva totalmente le sue giornate. Lo spirito d’orazione lo manteneva unito a Dio ovunque, durante il lavoro, negli incontri, nei viaggi. Quando stava a Valdocco l’ultimo atto della giornata era una visita al santuario di Maria Ausiliatrice nel cuore della notte: entrava in coro da dove poteva fissare il tabernacolo e il quadro della Vergine.

Insomma, malgrado la differenza di carattere, don Rua fu un discepolo fedele e un degno continuatore di don Bosco. Quando Paolo VI nel 1972 lo proclamò beato nella basilica di San Pietro, lo celebrò proprio a questo titolo: «Perché  Don Rua è beatificato, cioè glorificato? È beatificato e glorificato appunto perché successore, cioè continuatore di Don Bosco: figlio, discepolo, imitatore; il quale ha fatto, con altri, ben si sa, ma primo fra essi, dell’esempio del Santo una scuola, della sua opera personale un’istituzione estesa, si può dire, su tutta la terra; della sua vita una storia, della sua regola uno spirito, della sua santità un tipo, un modello; ha fatto della sorgente una corrente, un fiume […] La prodigiosa fecondità della Famiglia Salesiana, uno dei maggiori e più significativi fenomeni della perenne vitalità della Chiesa nel secolo scorso e nel nostro, ha avuto in Don Bosco l’origine, in Don Rua la continuità. È stato questo suo seguace che, fin dagli umili inizi di Valdocco ha servito l’Opera Salesiana nella sua virtualità espansiva, ha capito la felicità della formula felice, l’ha sviluppata con coerenza testuale, ma con sempre geniale novità. Don Rua è stato il fedelissimo, perciò il più umile ed insieme il più valoroso dei figli di Don Bosco […] Ha inaugurato una tradizione […] Egli insegna ai Salesiani a rimanere Salesiani, figli sempre fedeli del loro fondatore».[779]


[424] Per questi Capitoli Generali, mi baso sui diversi verbali delle assemblee, in FdR 4005D12-4035C10, e sui racconti contenuti in Annali II, 37-47, 238-249, 445-460, 732-742, sforzandomi sempre di rilevare gli interventi propri di don Rua

[425] Relazione del quinto Capitolo Generale in Valsalice, FdR 4014B4-5.

[426] Relazione del quinto Capitolo Generale in Valsalice, FDR 4014C8.

[427] Noi riteniamo, da parte nostra, che era ora di affidare questo compito agli ispettori.

[428] Sesto Capitolo Generale – Agosto-Settembre 1892, FdR 4019E11-12.

[429] Sesto Capitolo Generale – Agosto-Settembre 1892, FdR 4019E12-4020A1.

[430] Sesto Capitolo Generale – Agosto-Settembre 1892, FdR 4020A7.

[431] Adattamento di 2 Cor. 6,10: «Tamquam nihil habentes et omnia possidentes».

[432] Sesto Capitolo Generale – Agosto-Settembre 1892, FdR 4020B5-6.

[433][433] Sesto Capitolo Generale – Agosto-Settembre 1892, FdR 4020B7-8.

[434] «Relazione del sesto Capitolo Generale e delle nuove Ispettorie», in L.C., 85-92.

[435] Seguo, per questo paragrafo, Annali II, 732-737, da dove provengono le citazioni.

[436] Circolare del 20 gennaio 1898, in L.C., 162-175.

[437] Per la vicenda dei direttori confessori, seguo da vicino Ceria, Vita, 338-348. La documentazione salesiana si trova riunita in un Summarium additionale di 30 pagine, verso la fine del volume composito che chiamiamo Positio 1947.

[438] F. Motto, Memorie dal 1841 al 1884-5-6 pel Sac. Gio. Bosco a’ suoi figliuoli salesiani, in RSS 4 (1985) 117.

[439] Sintetizzata in Annali III, 166.

[440] Lettera di M. Rua al card. L. M. Parocchi, 6 ottobre 1896, in Annali III, 166.

[441] Annali III, 167.

[442] Circolare di don Domenico Belmonte, 29 marzo 1897, in FdR 4067E1-3.

[443] Lettera di G. Marenco a mons. G. Cagliero, Roma, 27 giugno 1901, in Ceria, Vita, 339.

[444] Lo stampato originale può essere letto in FdR 3973E4-3974B7; cf. L.C., 190-206 (ma il testo riportato nelle L.C. è stato curiosamente tagliato).

[445] Annali III, 170.

[446] Il decreto Quod a Suprema del Sant’Uffizio si legge in Summarium additionale, 2-4.

[447] Questa aggiunta, datata 24 maggio 1901, in Summarium additionale, 5. Lo scambio di lettere del giugno 1901 si trova in Summarium additionale, 5-9.

[448] Ceria, Vita, 344-345.

[449] Originale in FdR 3974E7-10. Questa circolare agli ispettori, a cui era allegata la «Soluzione di alcuni casi relativi al Decreto 24 Aprile 1901», firmata  Sac. L. Piscetta, non è stata inserita nella collezione delle circolari edita nel 1910.

[450] I quesiti a stampa si possono trovare in FdR 3983D5-7; in FdR 3983D8 sono raccolte le risposte lapidarie datate e approvate dal papa il 21 agosto.

[451] FdR 3983E1-3984A2; L.C., 269-285.

[452] Verbali del Capitolo Superiore, 27 febbraio 1905, in FdR 4244E4-5.

[453] Per questo paragrafo sulla consacrazione al Sacro Cuore, seguo da vicino Ceria, Vita, 332-337.

[454] Verbali del Capitolo Superiore, 27 novembre 1900, in FdR 4242C7.

[455] L.C., 223-224.

[456] L.C., 224.

[457] Cf. L.C., 222-227.

[458] Ceria, Vita, 335.

[459] Il Formulario di cui si servirà il Rettor Maggiore con i superiori del Capitolo per consacrare al Sacro Cuore tutta la nostra Pia Società e le le sue opere, è allegato alla circolare; lo si trova in L.C., 255-257.

[460] L.C., 228-254. L’autore di questa istruzione, di stile molto scolastico, non ci è noto.

[461] FdR 3881B4-5.

[462] Questo programma è riportato in XXVème anniversaire de l’Oeuvre de Don Bosco en France et de la fondation du Patronage St Pierre à Nice, par S. B. ancien élève du Patronage, Nice, Imprimerie de la Société Industrielle, 1902, 27.

[463] XXVème anniversaire..., 125-128.

[464] Lettera di M. Rua a L. Cartier, Torino, 26 giugno 1900, in FdR 3881A1.

[465] Lettera di M. Rua a L. Cartier, Torino, 19 luglio 1900, in FdR 3881A3-4.

[466] Lettera di M. Rua a L. Cartier, Torino, 1° agosto 1900, in FdR 3881A5-7.

[467] Lettera di M. Rua a L. Cartier, Torino, 3 gennaio 1901, in FdR 3881B3.

[468] Cf. eventualmente J.-P. Machelot, La République contre les libertés, Paris, 1976, p. 369-370.

[469] Lettera di M. Rua a L. Cartier, Torino, 5 luglio 1901, in FdR 3881C1.

[470] Lettera di M. Rua a L. Cartier, Torino, 22 luglio 1901, in FdR 3881C2.

[471] Le fonti per la ricostruzione di queste vicende si trovano in ASC, dossier Nizza. Sull’episodio francese, cf. il documentato capitolo di Annali III, 124-143; vedi anche F. Desramaut, Don Bosco à Nice. La vie d’une école professionelle catholique entre 1875 et 1919, Paris, Apostolat des Éditions, 1980, 103-116.

[472] «Heure d’angoisse», in Bulletin Salésien, ottobre 1901.

[473] Riprendo qui il mio articolo «Les crises des inspecteurs de France (1904-1906)», RSS 16 (1997) 7-56 (qui citato: «Les crises...»).

[474] Ricordiamo qui che tutte le delibere del Capitolo Superiore dell’epoca di don Rua si trovano, alle rispettive date, in FdR 4240D8-4250D7.

[475] Archivi ispettoriali salesiani di Parigi, dossier Paul Virion.

[476] Questi due documenti autografi di don Rua si trovano negli Archivi ispettoriali salesiani di Parigi, dossier Paul Virion.

[477] Manoscritto autografo di don Rua, in FdR 3984C9-10.

[478] Secondo la memoria scritta da don Perrot, «Nella conferenza di ieri sera...», in ASC, dossier Pietro Perrot. Diverse lettere di Perrot, che qui sono senza riferimento, si trovano nello stesso dossier.

[479] Verbali del Capitolo Superiore, 5 marzo 1905, in FdR 4244E7.

[480] Verbali del Capitolo Superiore, 10 aprile 1905, in FdR 4245A1.

[481] Verbali del Capitolo Superiore, 18 aprile 1905, in FdR 4245A3.

[482] Tutto ciò secondo il verbale della seduta del Capitolo Superiore, datato 11 ottobre, in cui si commentò la corrispondenza di don Laureri.

[483] Memoria di don Perrot, «Nella conferenza di ieri sera...», stampata nel 1906 (in 12 pagine doppie), dove i nomi dei suoi avversari sono sostituiti da spazi bianchi che l’autore riempirà a mano, cf. ASC, dossier Pietro Perrot.

[484] Verbali del Capitolo Superiore, 10 ottobre 1904, in FdR 4244B12.

[485] Verbali del Capitolo Superiore, 2 ottobre 1905, in FdR 4245C3.

[486] Verbali del Capitolo Superiore, 18 dicembre 1905, in FdR 4245D8.

[487] Lettera di G. Bologna a M. Rua, Tournai, 12 aprile 1906, in FdR 3636E9-3637A3; edita in «Les crises...», 45-47.

[488] Verbali del Capitolo Superiore, 22 maggio 1906, in FdR 2947A3-4.

[489] Lettera di G. Bologna a M. Rua, Paris, 27 maggio 1906, in FdR 3637A4-7; edita in «Les crises...», 47-48.

[490] Questa memoria, datata 1° giugno 1906, si trova in FdR 3640A7-9; edita in «Les crises...», 48-50.

[491] Verbali del Capitolo Superiore, 12 giugno 1906, in FdR 3947A8.

[492] Verbali del Capitolo Superiore, 19 giugno 1906, in FdR 3947A9-10.

[493] Verbali del Capitolo Superiore, 13 luglio 1906, in FdR 3947B3.

[494] Verbali del Capitolo Superiore, 17 luglio 1906, in FdR 3947B4.

[495] Verbali del Capitolo Superiore, 27 luglio 1906, in FdR 3947B6.

[496] Lettera di G. Bologna a P. Albera, Paris, 29 luglio 1906, in FdR 3640B7-C3; edita in «Les crises...», 50-51.

[497] Lettera di G. Bologna a G. Barberis, s. l., 1° agosto 1906, in FdR 3640A11-12; edita in «Les crises...», 52.

[498] Lettera di G. Bologna a M. Rua, Tournai, 6 agosto 1906, in FdR 3647B5-9.

[499] Lettera di G. Bologna a M. Rua, Paris, 17 agosto 1906, in FdR 3637C1-4; edita in «Les crises...», 53-54.

[500] Verbali del Capitolo Superiore, 11 settembre 1906, in FdR 4246 C2.

[501] Secondo la lettera di G. Bologna a M. Rua, Parigi, 24 settembre 1906, in FdR 3637C5-10; edita in «Les crises...», 55-56.

[502] Verbali del Capitolo Superiore, 24 ottobre 1906, in FdR 4246D10.

[503] Verbali del Capitolo Superiore, 5 novembre 1906, in FdR 4246D12.

[504] Seguo qui la nota anonima «Don Joseph Bologne», in Bulletin Salésien, février 1907, 40-42.

[505] Conviene qui ricordare che l’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice, ancora parte integrante della Società Salesiana, nel 1904 contava 2143 professe e 358 novizie, distribuite in 248 case.

[506] Verbali in FdR 4036C11-4041D10; racconto in Annali III, 144-169.

[507] L.C., 269-285.

[508] Verbali del Capitolo Superiore, 12 febbraio 1902, in FdR 4243D4-5.

[509] Verbali del Capitolo Superiore, 12 luglio 1897, in FdR 4242B7.

[510] Citato in Annali III, 149-150.

[511] Cf. la supplica in Annali III, 160-161.

[512] Citato in Annali III, 152.

[513] Annali III, 162.

[514] Annali III, 164.

[515] L.C., 475.

[516] Per questo paragrafo, seguo da vicino un capitolo di Ceria, Vita, 374-382.

[517] L.C., 466.

[518] Ceria, Vita, 377.

[519] Su questo riuscito congresso, in cui don Rua intervenne raramente, poiché tutta l’organizzazione era nelle mani esperte di don Stefano Trione, cf. Annali III, 310-339.

[520] Lettera edificante del 19 giugno 1903, in L.C., 473-477.

[521] L’episodio è raccontato in Ceria, Vita, 383-391.

[522] Ceria, Vita, 385.

[523] Il documento si trova in FdR 3832E10-3833A1.

[524] Su questo Capitolo l’ASC conserva un consistente dossier di quasi 1400 pagine, cf. FdR 4041D11-4064A5. Cf. il racconto in Annali III, 537-557.

[525] Circolare di don Rua «Carissimi Figli...», 6 gennaio 1904, in FdR 4041D11-E2.

[526] Informazioni e Norme pel X Capitolo Generale, 9 pagine a stampa, in FdR 4041E4-12.

[527] Questo telegramma si trova in FdR 4042B6.

[528] Autografo e stampato in FdR 3984C7-8.

[529] Questi testi si trovano in FdR 4050C8-4052D4.

[530] Raccomandazioni fatte durante il Cap. Gen. X, 5 pagine autografe, in FdR 4042A9-B1. Qui seguiamo questo schema.

[531] L.C., 316-330.

[532] Annali III, 222.

[533] FdR 4055B10.

[534] FdR 4056A10-11.

[535] FdR 4056B2-3.

[536] FdR 4056D2.

[537] L.C., 316-324.

[538] Verbali del Capitolo Superiore, 20 gennaio 1902, FdR 4243D4.

[539] L.C., 323-324.

[540] Seguiamo qui l’ampia relazione dell’evento fatta dal Bollettino Salesiano (ottobre 1891, 190-197), da cui vengono tratte le citazioni successive. Seguiamo qui l’ampia relazione dell’evento fatta dal Bollettino Salesiano¸ottobre 1891, 190-197; da qui vengono tratte le citazioni successive.

[541] Cf. Bollettino Salesiano, Ottobre 1892, 192.

[542] Bollettino Salesiano, Ottobre 1892, 194.

[543] Bollettino Salesiano, Ottobre 1892, 196-197.

[544] Su questo Congresso, vedi sopra, cap. 19.

[545] Atti del primo Congresso Internazionale dei Cooperatori Salesiani, Torino, Tipografia Salesiana, 1895, 186-187.

[546] Atti del primo Congresso Internazionale dei Cooperatori Salesiani, Torino, Tipografia Salesiana, 1895, 187-188.

[547] Informazioni incerte in Auffray, 252-257; più sicure in Ceria, Vita, 437-438.

[548] Il racconto minuzioso e ridondante di Amadei III, 247-254, forse non è del tutto preciso. Noi qui seguiamo la sintesi più chiara e probabile di Ceria, Vita, 433-437.

[549] Amadei III, 249.

[550] Cf. le copie manoscritte delle lettere di don Rua al giornale (16 e 17 luglio), in FdR 3926 B3-4. Le citazioni son tratte da Amadei III, 252-253.

[551] M. Rua - G. Vespignani, Torino, 12 settembre 1901, in FdR 3945 B7-8.

[552] Ceria, Vita, p. 405.

[553] Cf. FdR 3987C8-3992B9.

[554] FdR 3987D3-5.

[555] Lettera del 31 dicembre 1903, in FdR 3987D6-8.

[556] FdR 3987C10-11.

[557] Circolare del 31 dicembre 1903, 35, in FdR 3990C1.

[558] Cf. Annali III, 646-666; Ceria, Vita, 403-413.

[559] Verbali del Capitolo Superiore, 30 luglio 1901, in FdR 4243C3.

[560] Circolare Rinaldi, 1° ottobre 1901, in FdR 4070B3-4.

[561] Questo paragrafo, fa riferimento alla relazione fatta da don Marenco al Capitolo Superiore, nel corso della seduta del 2 settembre 1905, in FdR 4245B7-8.

[562] Cf. Amadei III, 156-157.

[563] Verbali del Capitolo Superiore, 21 agosto 1905, in FdR 4245B5.

[564] Verbali del Capitolo Superiore, 2 settembre 1905, in FdR 4245B7-8.

[565] Per questo paragrafo, seguo Ceria, Vita, 407-413.

[566] Ceria, Vita, 408. Cf. la lettera di G. Marenco a M. Rua, Roma, 18 settembre 1905, in FdR 4598D6-8.

[567] Secondo un verbale allegato agli atti del Capitolo Superiore svoltosi tra il 2 e il 10 ottobre, in FdR 4245C5.

[568] Circolare agli ispettori, Torino, 25 novembre 1905, in FdR 3975D7-10. Questa circolare non è stata inserita in L.C.

[569] Verbali del Capitolo Superiore, 4 dicembre 1905, in FdR 4245D4.

[570] Verbali del Capitolo Superiore, 13 dicembre 1905, in FdR 4245D7.

[571] Lettera di M. Coppa a M. Rua, Roma, 15 dicembre 1905, in FdR 4591B1-8.

[572] Verbali del Capitolo Superiore, 18 dicembre 1905, in FdR 4245D8.

[573] Annali III, 615.

[574] Secondo la relazione della segretaria Luisa Vaschetti, Annali III, 615.

[575] Annali III, 617-618.

[576] Annali III, 618-619.

[577] Circolare alle Figlie di Maria Ausiliatrice, Torino, 29 septembre 1906, in FdR 3991A8-9.

[578] Annali III, 619-620.

[579] Madre Caterina Daghero, circolare del 15 ottobre 1906, in FdR 4610A8-9.

[580] L.C., 357-359.

[581] Cf. Amadei III, 342-343; Ceria, Vita, 412.

[582] Cf. Amadei III, 351-352.

[583] M. Wirth, Don Bosco et la Famille salésienne, 404.

[584] Verbali del Capitolo Superiore, 11 agosto 1894, in FdR 4241E11.

[585] La Convenzione è riprodotta in FdR 3497A3-5.

[586] Cf. il progetto di Convenzione in FdR 3497A1-2.

[587] Su questo viaggio, cf. eventualmente le lettere di F. Rinetti a D. Belmonte, 23, 25, 29 marzo e 1° aprile 1900, in FdR 3008D7-E8.

[588] FdR 3165E8-9. In generale, sulla fondazione e gli inizi dell’opera salesiana d’Alessandria, cf. FdR 3165E8-3167E12, e il racconto degli Annali II, 316-323.

[589] Lettera di E. Schiaparelli a C. Durando, Firenze, 3 giugno 1890, in FdR 3169D2-3; cf. Annali II, 316.

[590] Conservato in FdR 3170A8-9; cf. Annali II, 321.

[591] Annali II, 322.

[592] Cf. Annali III, 414-421.

[593] Cf. Lettera di E. Schiaparelli a M. Rua, Torino, 26 giugno 1903, in FdR 3486B3-5.

[594] Verbali del Capitolo Superiore, 21 agosto 1903, in FdR 4244A3.

[595] Verbali del Capitolo Superiore, 21 agosto 1905, in FdR 4245B6.

[596] Questo promemoria si trova in FdR 3486C8-D1. In generale, su Smirne (Izmir) ai tempi di don Rua, cf. FdR 3484E10-3487C6.

[597] Cf. Annali III, 536-537.

[598] Il testo originale è riportato in F. Desramaut, L'Orphelinat Jésus Adolescent, 290-291.

[599] Verbali del Capitolo Superiore, 15 ottobre 1904, in FdR 4244B12.

[600] Le lamentele di Schiaparelli su Nazaret sono state registrate dal Capitolo Superiore nelle sedute del 10 aprile, del 7 e 8 agosto, e del 18 novembre 1905, in FdR 4244 E10, 4245B1-2.

[601] Sulla vicenda dei protettorati e sulle sue conseguenze per i Salesiani durante la prima guerra mondiale, cf. F. Desaramaut, L'Orphelinat Jésus Adolescent, 49-63, 127-139.

[602] Sulla fondazione di Macao, cf. Annali III, 596-605.

[603] Cf. dieci lettere di P. Rondina a A. Conelli, nel corso dell’anno 1890, in FdR 3281B4-C12.

[604] Cf. per esempio la lettera di M. Rua a A. Conelli, Anversa, 14 maggio 1890, in FdR 3888A5.

[605] Lettera di A. Ajuti a M.Rua, 25 maggio 1899, in FdR 3281A6-7.

[606] Lettera di A. Ajuti a M.Rua, 2° giugno 1899, in FdR 3281A9-10.

[607] Lettera di M. Rua a A. Conelli, Torino, 4 dicembre 1899, in FdR 3888B5.

[608] Lettera di J.P. De Azevedo a M. Rua, Macao, 17 aprile 1904, in FdR 3282A11.

[609] Il progetto di Convenzione è conservato in FdR 3281D7-9.

[610] Il documento si trova in FdR 3282A12-B2.

[611] Cf. Bollettino Salesiano, agosto 1906, 242-343.

[612] Lettera di J.P. De Azevedo a M. Rua, Macao, 16 nobembre 1906, in FdR 3282B3-C5; cf. Annali III, 605.

[613] Lettera di L. Versiglia a M. Rua, Macao, 22 novembre 1908, in FdR 3281A12-B3. Gli Annali ignorano questo documento.

[614] Sulla fondazione salesiana nella diocesi di Mylapore (o Meliapore), cf. FdR 3515B11-3516D10 e il racconto di Annali III, 606-613, a cui mi ispiro.

[615] Lettera di A. Di Barroso a M. Rua, 6 dicembre 1898, in FdR 3515 C3-6.

[616] Annali III, 607.

[617] Cf. il documento in FdR 3515C10.

[618] Minuta della lettera di M. Rua a T.M. Ribeiro Vieira de Castro, in FdR 3515C11-12.

[619] Lettera di G. Marenco a M. Rua, Roma. 8 aprile 1902, in FdR 3515D3.

[620] Lettera di T.M. Ribeiro Vieira de Castro a M. Rua, 25 dicembre 1902, in Annali III, 569.

[621] La Convenzione è riprodotta conservata in FdR 3516C8-12; cf. Annali III, 570, nota.

[622] Annali III, 571.

[623] Qui faccio riferimento principalmente allo studio, molto documentato, di P. Stella, Don Bosco nella storia della religiosità cattolica, vol. III: La canonizzazione, Rome, LAS, 1988, 61-148.

[624] Cf. MB XIX, 35-36.

[625] Cf. MB XIX, 36.

[626] MB XIX, 38-41.

[627] Cf. MB XIX 42, 398.

[628] L.C., 45-48.

[629] Cf. la lista dei testimoni in P. Stella, La canonizzazione..., 75.

[630] Cf. la lista definitiva dei testimoni effettivamente interrogati in Taurinen. Beatificationis et Canonizationis Servi Dei Ioannis Bosco Sacerdotis Fundatoris Piae Societatis Salesianae. Positio super Introductione Causae. Summarium et Litterae Postulatoriae, Roma, Schola Typ. Salesiana, 1907, 1-22 ( che citeremo: Positio). Per maggiori dettagli cf. P. Stella, La canonizzazione..., 117-124.

[631] La verbalizzazione delle deposizioni di don Rua è conservata in FdR 2405D12-2414D3.

[632] Cf. P. Stella, La canonizzazione …, 88.

[633] Cf. P. Stella, La canonizzazione..., 83.

[634] L.C., 518-519.

[635] L.C., 186-187.

[636] Positio super revisione scriptorum, Romae, typis Vaticanis, 1906; P. Stella, La canonizzazione..., 127-130.

[637] La documentazione di questa fase del processo è conservata in FdB 2435A7-2439A4. La testimonianza di don Rua si trova in FdR 2435E7-2436A11.

[638] Le 25 pagine di queste Animadversiones, datate 16 marzo 1907, si trovano allegata al termina di Positio super Introductione Causae, 1907.

[639] Ho potuto smontare questa costruzione nell’ultima parte del mio studio sulla biografia di don Bosco di Jacques-Melchior Villefranche, RSS 9 (1990) 85-89.

[640] Cf. l’analisi di P. Stella, La canonizzazione..., 131-136.

[641] La lunga difesa (81 pagine), detta Responsio, di Carlo Salotti, datata Roma 10 aprile 1907, è allegata in appandice a Positio super Introductione Causae, 1907.

[642] Lettera di G. Marenco a M. Rua, Roma, 7 gennaio 1907, in FdR 3830 D3-4.

[643] Lettera di G. Marenco a M. Rua, Roma, 10 aprile 1907, in FdR 3830D12-E3.

[644] Lettere di G. Marenco a M. Rua, Roma, 24 luglio 1907, in FdR 3831A1-4.

[645] Questo lungo decreto latino con traduzione a fianco è stato pubblicato in Bollettino Salesiano, settembre 1907, 260-265.

[646] La canonizzazione..., 147.

[647] L.C., 516-521.

[648] Verbali del Capitolo Superiore, 21 maggio 1906, in FdR 4246A2.

[649] Cf. I fatti e gli scandali di Varazze (luglio 1907). Memoriale-denunzia per calunnia dei Salesiani del Collegio Civico, Torino, Tipografia Salesiana, 1908, 62 p.; I Fatti e gli scandali di Varazze (luglio 1907). Rilievi dei querelanti, Torino, Tip. S.A.I.D. Buona Stampa, 1909, 4 p.; Corte di Appello di Genova, Le origini della calunnia contro i R.R. Sacerdoti Salesiani a Varazze (luglio 1907-ottobre 1910), Torino, Tip. Baravalle e Falconieri, 1910, 44 p. Ceria ha consacrato ai «Fatti di Varazze», un intero capitolo, in Annali III, 672-702.

[650] Annali III, 685.

[651] Annali III, 686-687.

[652] Annali III, 688-689.

[653] Annali III, 690.

[654] Memoriale-denunzia per calunnia, 20.

[655] Annali III, 690.

[656] Annali III, 690.

[657] Sul ruolo di questo medico, cf. I fatti e gli scandali di Varazze (luglio 1907), 34-36.

[658] Qui seguo Ceria, Vita, 465-469.

[659] Testimonianze di Giuseppe Balestra e di don Luigi Terreno nel Processo apostolico, in Positio 1947, Summarium, 504 e 541.

[660] Ceria, Vita, 466-467.

[661] «Per la storia e biografia di D. Rua», Torino, aprile 1920, in FdR 2855 D5-E1; ripreso da Amadei III, 328-332.

[662] Bollettino Salesiano¸ gennaio 1908, 3.

[663] Cf. Amadei III, 327-328; il testo è ripreso in Ceria, Vita, 466.

[664] Verbali del Capitolo Superiore, 5 agosto 1907, in FdR 4247A11.

[665] Verbali del Capitolo Superiore, 5 agosto 1907, in FdR 4247A11-12.

[666] Verbali del Capitolo Superiore, 8-9 agosto 1907, in FdR 4247A12-B1.

[667] Il messaggio di Pio X è conservato in FdR 3833 A5. Descrizione della festa in Amadei III, 347-349.

[668] Questo indirizzo è conservato in FdR 2764A12-B2.

[669] Bollettino Salesiano, settembre 1907, 281.

[670] L.C., 352-353.

[671] Verbali del Capitolo Superiore, 16 settembre 1907, in FdR 4247B8.

[672] Circolare agli ispettori e ai direttori, 24 marzo 1908, in F. Cerruti, Lettere circolari e programmi di insegnamento, a cura di José Manuel Prellezo, Roma, LAS, 2006, 303; J.-B- Lemius, Catechismo sul modernismo secondo l’enciclica “Pascendi Dominici Gregis” di Sua Santità Pio X, Roma, Tipografia Vaticana, 1908.

[673] Secondo Francesia, 188; ma, nelle frasi di don Rua stesso da lui riportate, nulla pare confermare questa ipotesi.

[674] L.C., 378-381.

[675] FdR 4247C12-D1.

[676] I nomi e i titoli dei visitatori e dei delegati, così come la designazine esatta dei territori da visitare, appaiono nel dettagliato verbale della seduta del Capitolo Superiore del 30 gennaio 1908, FdR 4247D2-3.

[677] L.C., 382-395.

[678] Il passaporto è conservato in FdR 2752E4-6.

[679] Lettera edificante n. 11, 24 giugno 1908, in L.C., 522-533.

[680] Fonte essenziale delle nostre informazioni sul viaggio del 1908 è il rapporto manoscritto di 164 pagine inviato da don Bretto a don Rinaldi, che si trova in FdR 3013E12-3016D9 (qui citato: Relazione). È stato fortemente adattato, allungato e arbitrariamente suddiviso 12 parti nel Bollettino Salesiano; in tale adattamento appare sotto forma di lettere datate e inviate rispettivamente da Costantinopoli, Smirne, Nazaret (due «lettere»), Betlemme (tre «lettere»), Port-Said, Alessandria d’Egitto, Catania, Bari e Parma (cf. Bollettino Salesiano, 1908, 134-140, 164-170, 197-206). Cf. anche I. Grego, Sulle orme di Cristo. Il Beato Michele Rua, Primo Successore di Don Bosco, pellegrino in Terra Santa, Gerusalemme, Franciscan Printing Press, 1973, 33-63, che si è seriamente documentato, ma in talune parti acriticamente dipendente dal Bollettino Salesiano.

[681] Lettera circolare del 24 giugno 1908, in L.C., 527.

[682] L.C., 528.

[683] Relazione, 79.

[684] L.C., 528-529.

[685] Secondo una relazione di don Rosin, ripresa in Amadei III, 383-384.

[686] Relazione, 82.

[687] Relazione, 84.

[688] Amadei III, 385-386.

[689] L.C., 529.

[690] Amadei III, 389-390. I. Grego (Sulle orme di Cristo, 4) spiega che le suore Maria Cattan e  Emila Ayub, ed anche l’ex-allieva Latife Shaer – quest’ultima attraverso don Laconi – gli confermarono personalmente l’avvenimento.

[691] L.C., 529.

[692] Questi impegni, la cui autenticità pare garantita della forma numerata, abituale di don Rua, si leggono in Amadei III, 390-393.

[693] Relazione, 119, in FdR 3015E12.

[694] Relazione, 124-126, in FdR3016A5-7.

[695] Questa circolare, frutto delle relazioni epistolari tra don Bretto e don Rinaldi durante il viaggio, è conservata in FdR 4074E7-12.

[696] FdR 4075A1-3.

[697] L.C., 522-527.

[698] P. Stella, La canonizzazione, 152.

[699] Asten. et Taurinen. Beatificationis et Canonizationis Servi Dei Dominici Savio adolescentis laici alumni Oratorii Salesiani. Summarium super dubio,  Roma, Istituto Pio IX, 1913.

[700] Ivi, 179.

[701] Qui seguo fedelmente Ceria, Vita, 494-509.

[702] Cf. Sommario delle Indulgenze, Privilegi e Indulti concessi ai Cooperatori della Società Salesiana approvato dal S. Padre Pio X nell’udienza del 13 luglio 1904, in Bollettino Salesiano, gennaio 1905. 8-10.

[703] Spiegazioni nella circolare di don Rua datata 19 febbraio 1905, in L.C., 324-325.

[704] Circolare del 31 gennaio 1909, in L.C., 401.

[705] Bollettino Salesiano, gennaio 1906, 13.

[706] Bollettino Salesiano, gennaio 1908, 6.

[707] Nota inviata al Circolo Don Bosco, con l’indirizzo «Al diletto Don Rua, Superiore Generale», 24 settembre 1907, in FdR 3833A5.

[708] Verbali del Capitolo Superiore, 1° ottobre 1908, in FdR 4248A8.

[709] Amadei III, 451.

[710] Lettera di G.B. Francesia a F. Rinaldi, Livorno, 11 novembre 1908, in FdR 3016D12.

[711] Ceria, Vita, 498-499.

[712] Citato da Ceria, Vita, 500.

[713] Deposizione di don Andrea Gennaro al Processo apostolico, in Positio 1947, 901. Questo testimone scrupoloso, però,  temeva di aver confuso i calzini con le gambe, e giiunse: «Ma per l’emozione, non ho potuto verificare se i calzini che toglievo coprivano altri calzini elastici». Si sbagliava, tutti quelli che usano calze elastiche sanno che sono le più difficili da togliere. Don Rua gliele avrebbe sicuramente fatte togliere. Gennaro aveva dunque visto proprio le gambe tutte annerite dal sangue.

[714] Seguo qui la circolare citata del 31 gennaio 1909, in L.C., 400-402.

[715] L.C., 401-402, dove si cita Civiltà Cattolica, quaderno 1404.

[716] Positio 1947, 472-473.

[717] Mi riferisco qui al racconto di Amadei III, 474-478; Amadei fu testimone diretto, dunque credibile; egli venne nominato da don Rua direttore del Bollettino Salesiano proprio in quell’anno 1908.

[718] Amadei III, 475.

[719] FdR 4001D2-3.

[720] L.C., 404-405.

[721] Amadei III, 482.

[722] L.C., 397-398.

[723] Lettera circolare del prefetto generale don Filippo Rinaldi ai Salesiani, 6 febbraio 1909, in FdR 2753A7-9.

[724] Amadei III, 510.

[725] FdR 2754B1-2.

[726] Bollettino Salesiano, ottobre 1909, 291-294.

[727] Bollettino Salesiano, gennaio 1909, 1-8.

[728] Lettere di M. Rua a I. Giannini, 25 gennaio e 7 luglio 1909, in FdR 3904D2-6.

[729] Lettere di M. Rua a A. Malan, Torino, 3 luglio, 16 luglio e 19 agosto 1909, in FdR 3915 D1-7.

[730] Secondo la cronaca locale ripresa da Amadei III, 486-488.

[731] Cf Amadei III, 489-492.

[732] FdR 2765A8-12.

[733] Secondo la cronaca locale, in Amadei III, 493.

[734] Amadei III, 506.

[735] FdR 2753B10-12.

[736] Queste circolari di Rinaldi sono conservate in FdR 4075C6–E10.

[737] FdR 2753C1-4.

[738] Sulla prima tappa del Processo apostolico di don Bosco, cf. FdB 2439A5-2482C1. Le deposizioni di don Rua si trovano in FdR 2444C10-2449E6.

[739] FdR 2449 C1. La rettifica è documentata in F. Desramaut, «Autour de six logia attribués à Don Bosco dans les Memorie Biografiche», in RSS 10 (1991), 38-52.

[740] Amadei III, 517.

[741] Amadei III, 518.

[742] Amadei III, 519.

[743] Questo documento è riprodotto in FdR 3833A9.

[744] Bollettino Salesiano, ottobre 1909, 292.

[745] Su questo problema cf. l’articolo documentato di P. Braido, «L'Oratorio Salesiano in Italia, “luogo” propizio alla catechesi nella stagione dei Congressi (1888-1915)», in RSS 24 (2005) 7-88 (soprattutto 83).

[746] Amadei III, 523-527, passim.

[747] Amadei III, 540.

[748] FdR 4249A11.

[749] Amadei III, 541-542.

[750] Verbali del Capitolo Superiore,  22 gennaio 1910, in FdR 4249B5.

[751] L.C., 407-418.

[752] L.C., 412.

[753] L.C., 360-377.

[754] Bollettino Salesiano, gennaio 1910, 2-8.

[755] Vedere questa foto a piena pagina in Bollettino Salesiano, maggio 1910, 131.

[756] Ceria, Vita, 574. Per il racconto delle ultime settimane di don Rua, seguo, più o meno,  Ceria, Vita 575-584, ma tengo conto anche dalle circolari e dei telegrammi di don Rinaldi ai Salesiani, come pure della sostanziosa cronaca in due parti :«Gli ultimi giorni» e «La morte», in Bollettino Salesiano, maggio 1910, 133-149, 150-161.

[757] Lettera mensile di don Rinaldi agli ispettori e direttori, N. 61, 24 marzo 1910, in FdR 4076C1-2.

[758] Questo documento è riprodotto in FdR 2779C9-10.

[759] Lettera mensile di don Rinaldi agli ispettori e direttori, N. 62, 21 aprile 1910, in FdR 4076C5.

[760] Ivi, FdR 4076C6.

[761] Ceria, Vita, 580-581.

[762] FdR 2778C7-8.

[763] Secondo il rapporto Possetto, riprodotto in FdR 2855D12.

[764] Per i funerali di don Rua mi ispiro a Ceria, Vita, 585-588, e alla descrizione circostanziata contenuta nell’articolo «La morte», in Bollettino Salesiano, maggio 1910, 150-161.

[765] «La morte», in Bollettino Salesiano, maggio 1910, 151.

[766] «La morte», in Bollettino Salesiano, maggio 1910, 151-152.

[767] «La morte», in Bollettino Salesiano, maggio 1910, 153-154.

[768] «La morte», in Bollettino Salesiano, maggio 1910, 156.

[769] Ceria, Vita, 591.

[770] Tutti i verbali sono riprodotti in FdR 4255C9-4276E10.

[771] Questo processo è riprodotto in FdR 4326A7-4329A6.

[772] Cf. il decreto riprodotto in FdR 4255A4-7.

[773] La “copia pubblica” del processo ordinario e di quello apostolico è riprodotta in FdR 4329A7-4423D5.

[774] Copia dattiloscritta in FdR 4255B1-3.

[775] Questo documento è risprodotto in FdR 4255B4-5.

[776] Cf. la riprodiuzione del Breve pontificio di beatificazione di don Rua (Roma, 29 ottobre 1972), in FdR 4255B6-12.

[777] Qui mi ispiro liberamente alle pagine di sintesi dei due processi di beatificazione; ai capitoli di Auffray (L’homme et le saint) e di Ceria (Don Rua e Don Bosco); e, soprattutto, a un bel testo J. Aubry, Les saints de la famille, Rome, SDB, 1996, 124-129.

[778] FdR 4255B2.

[779] Il testo completo dell’omelia di Paolo VI è stato pubblicato nel Bollettino Salesiano, dicembre 1972, 10-13.