Mi è stato affidato il compito di sottolineare il senso del lavoro compiuto in questi intensi giorni di relazioni e incontri e, al tempo stesso, di tracciare qualche possibile ipotesi di ricerche e studi ulteriori. Non nego di sentirmi in grande difficoltà per le aspettative riposte nelle considerazioni che esporrò per la semplice ragione che quanto ho raccolto nei giorni appena trascorsi in questa sala mi ha fatto scoprire le molte lacune sulle mie conoscenze su don Bosco, il suo carisma e la straordinaria fecondità e varietà della presenza salesiana.
Ho insomma molto appreso e in poco tempo: dovrei rielaborare a lungo prima di parlare e, dunque, mi sento in imbarazzo a svolgere subito, come si dice “a caldo” qualche riflessione. Lo farò in modo autobiografico, spero non troppo lontano da quello che ciascuno di voi ha vissuto in questi giorni.
In questi giorni intorno a un’unica storia – quella di don Bosco oltre don Bosco o se preferite quella dell’educazione dei Salesiani delle FMA come prolungamento/interpretazione del carisma boschiano – abbiamo ascoltato tante narrazioni che ci hanno restituito una ricchezza di storie: storie esemplari frammiste ad altre storie segnate da difficoltà più o meno grandi e, soprattutto, storie di uomini e donne che hanno deciso di servire la causa dell’educazione cristiana nel segno della pedagogia salesiana. Così è fatta è la vita: la memoria collettiva è invitata a essere il testimone dei protagonisti dei momenti felici, come anche quelli pieni di sofferenza.
L’ampiezza della documentazione prodotta in questa sede mi ha molto colpito perché ha illustrato una storia davvero “globale”, intrecciando realtà così diverse per quanto animate dalla stessa forza spirituale e dalla medesima sollecitudine umana.
Ora la ricostruzione/rappresentazione di questa storia rappresenta non solo un deposito erudito e in quanto tale sterile, riservato a pochi addetti ai lavori e destinato a riempire qualche volume o saggio storico. Essa ha invece valore di stimolo in quanto testimonianza delle varie e complesse modalità mediante le quali il lascito di don Bosco inteso in senso ampio si è compiuto o ha cercato di compiersi. Le narrazioni ci raccontano infatti come il carisma si svela e alimenta le esperienze che ad esso si rifanno, quali spazi di miglioramento sono possibili, quali elementi possono essere modificati.
Se il suo nucleo costitutivo è ben saldo, esso tuttavia va continuamente reinterpretato e adattato alle diverse situazioni. Siamo ormai ben lontani dai tempi in cui, con un’impostazione un po’ “fordista” tutte le strutture delle case salesiani erano, anche sul piano architettonico, modellate sull’esempio di Valdocco.
Ho avuto la percezione di una ricchezza prodotta intorno a un’unità ideale che si è svolta nella diversità dei luoghi e dei protagonisti. Non c’è dubbio che la storia salesiana è stata torinocentrica per molti anni e italocentrica per un altro lungo periodo e alquanto verticistica sul piano della elaborazione delle strategie di intervento. Del resto questa è stata a lungo la mentalità non solo salesiana che ha accompagnato le realizzazioni sociali e caritative del mondo cattolico tra Otto e Novecento. Inutile dire che molte delle analisi compiute dai relatori delle sessioni antimeridiane risentono fatalmente di questo dato di partenza e non poteva essere diversamente.
Ma non di meno specialmente le relazioni pomeridiane hanno restituito la varietà di realtà tanto differenti ma accomunate dalla medesima fonte ispiratrice, spirituale, culturale. Possiamo senza dubbio affermare che siamo in presenza di una storia fatta di storie.
Come rendere al meglio il senso di questa ricchezza? Poiché a breve saremo chiamati a restituire i testi per la pubblicazione degli Atti credo che dovremo avere l’avvertenza di controllare metodologicamente i nostri apporti in modo da assicurarne una certa coerenza interna pur nel rispetto delle specificità di ciascuno. Per esempio sarebbe opportuno inquadrare in modo adeguato nel contesto locale le vicende nelle quali hanno operato i Salesiani e le FMA in quanto nessuna esperienza è infatti estranea alle condizioni nelle quali si svolge; indicare con accuratezza le fonti documentarie da cui si sono tratte le notizie; raccogliere soprattutto – se necessario e quando è possibile – hanno le voci critiche verso l’azione educativa salesiana. Queste voci possono essere preziose, anche se talvolta scomode, per meglio caratterizzare dibattiti, discussioni, contrasti e anche consentire di stabilire l’inevitabile scarto tra il piano ideale e quello reale. Siamo invitati ad essere leali e ammettere – se necessario – che in qualche caso i risultati forse non sono stati all’altezza delle aspettative.
Questo mi permetto di raccomandare perché le nostre ricerche abbiano caratteristiche di massima obiettività e possano essere fruibili anche di fuori del circuito salesiano. E per essere tali debbono essere rigorose e accettare le regole del confronto scientifico.
La ricostruzione della memoria è, beninteso, nel nostro caso prima di tutto uno straordinario strumento pedagogico per mantenere vivo il carisma perché ci restituisce in presa diretta le ragioni profonde di certe scelte, le difficoltà entro cui chi ci ha preceduto ha dovuto muoversi, le opzioni intorno è stato interpellato e così via. In un certo senso si potrebbe dire che ci aiuta a capire come il soffio dello Spirito abbia orientato le decisioni del passato da cui sono dipese via via altre decisioni fino a giungere a noi.
Ma la memoria collettiva di una organizzazione è anche un’occasione per capire in che modo hanno reagito gli ambienti sociali e culturali che ne hanno fruito e come oggi sono disposti a riconoscere o a non riconoscere la fertilità dell’impegno di uomini e mezzi. Non si tratta di cercare una visibilità storica a tutti i costi, ma di rispondere al dovere di posizionare l’azione dei Salesiani e delle FMA nella storia delle diverse realtà nelle quali sono stati attivi in circa un secolo e mezzo.
Non sempre questo è acquisito in modo pacifico o scontato. A tal riguardo porterò l’esempio dei recenti studi di storia dei giovani. Si tratta di un capitolo ancora largamente inedito e importante per la migliore comprensione della storia nazionale ed europea. Trascurata a lungo dalla storiografia politica e ancora di più sociale, negli ultimi anni la questione giovanile è entrata a pieno titolo nella storia contemporanea. Emersa come categoria sociale a partire dal Settecento, tanto che si può parlare di "invenzione" della gioventù in età moderna, questa fase della vita si è progressivamente allungata nel corso del Novecento ed ha conquistato spazi via via crescenti.
Per restare alle pubblicazioni apparse in Italia ricordo oltre alla meno recente Storia dei giovani di Giovanni Levi e Jean Claude Schimtt (1994), quella con lo stesso titolo di Patrizia Dogliani (2003), Il secolo dei giovani (2004) curato da Paolo Sorcinelli e Angelo Varni e L’invenzione dei giovani di Jon Savage (2009). Con angolature diverse i volumi appena citati ricostruiscono la vita dei giovani attraverso i movimenti politici, culturali, militari, sportivo-ricreativi che li hanno organizzati, le varie ideologie che hanno tentato di catturarne il consenso e le molteplici forme che ne hanno segnato la formazione.
Scorrono nelle pagine le vicende delle organizzazioni messe in campo dagli ambienti ebraici e socialisti, la attività sportive e ricreative, le iniziative intraprese dei differenti regimi totalitari che hanno monopolizzato le politiche giovanili della prima metà del secolo, le proposte libertarie e impregnate di naturalismo paganeggiante che hanno fatto da battistrada, soprattutto in Germania, al nazismo. Salvo qualche generico cenno al mondo cattolico a margine del sorgere in Italia del movimento scoutistico appare praticamente assente – o accennata appena di sfuggita – la dimensione religiosa nonostante che la Chiesa e molte congregazioni tra Otto e Novecento, come è ben noto, abbiano intensamente operato in vario modo nell’ambito educativo giovanile.
Mi sarei aspettato che una storia che si è svolta da oltre un secolo e mezzo all’insegna dei giovani come quella salesiana rientrasse nelle considerazioni degli studiosi che si sono occupati del tema. E invece non è così.
Riporto questa constatazione non per semplicisticamente tornare a lamentare l’indifferenza storiografica dei soliti laicisti verso il mondo cattolico e le iniziative pedagogiche cristiane. Non nego che siano esistiti e persistano atteggiamenti del genere. Non è tuttavia possibile scartare l’ipotesi che anche noi studiosi cattolici abbiamo qualche responsabilità nel non aver saputo inserirci con la dovuta tempestività e autorevolezza nel flusso della cultura laica con solo con l’argomento apologetico, ma con la forza di dati, ricerche, approfondimenti in grado di documentare gli apporti alla costruzione di una società resa più umana dal tentativo di vivere la nostra fede a contatto con gli altri.
Dobbiamo proporci di mettere a disposizione degli studiosi tutti i materiali che abbiamo prodotto, far circolare le nostre ricerche perché se restano chiusi nelle nostre biblioteche e non vengono letti da altri non riescono a sprigionare tutte le potenzialità di cui sono carichi.
La mole degli studi prodotti dagli storici salesiani sulla loro storia merita – e questo è un obiettivo che credo sia urgente da perseguire – una uscita dai confini tradizionali e una immersione/confronto con una storia più ampia e globale. Devo aggiungere alcune meritorie iniziative editoriali realizzate in occasione del 150° anniversario dell’Unità Italiana mi sembra che vadano precisamente in questa direzione.
Mi permetto di fornire un secondo suggerimento. Nella ricostruzione delle storie locali sarebbe bene – e qui in molti casi questo è già avvenuto – riservare il giusto spazio alle biografie dei protagonisti non solo maggiori, i Superiori ovviamente, ma anche a quelle di spesso dimenticati o oscuri protagonisti della storia salesiana, ma talvolta serissimi operai nella vigna del Signore fin dalle prime ore.
Sappiamo ancora abbastanza poco, per esempio, non solo delle figure di sacerdoti, religiose, coadiutori, cooperatori cosiddetti minori, anche se bisogna intendersi sul significato di questo aggettivo: minori, forse, perché impegnati in attività a raggio ad esempio locale, ma non certamente minori spesso per la generosità, la qualità e la forza della loro iniziativa. Abbiamo sperimentato, in un altro campo e cioè quello degli educatori e insegnanti che hanno occupato la scena dell’educazione in Italia negli ultimi due secoli – mi riferisco al Dizionario Biografico dell’Educazione recentemente pubblicato – quanto numerosi e significativi siano i cosiddetti “minori” solo che si abbia un po’ di pazienza a ricostruirne le biografie poco documentate da testi scritti, ma assai ricchi di esperienze in grado di orientare la vita di intere comunità.
Quanto abbiamo verificato per maestri, professori, educatori credo sia facilmente assimilabile alla storia di tanti sacerdoti e religiose, salesiani e non. Grazie ai molti studi compiuti in questi ultimi anni si potrebbe ipotizzare di rimettere mano a una nuova edizione del Dizionario Biografico dei Salesiani (edito nel 1969) completandolo con le figure femminili e connotandolo in una prospettiva internazionale.
Ma se si sa abbastanza poco delle figure dislocate in territori soprattutto locali, sono state poco valorizzate anche le figure intellettuali che hanno costellato, in vario modo la presenza salesiana nell’ambito culturale e scolastico. Indicherò – a semplice titolo di esempio – alcune personalità che attive tra primo e secondo ‘900 meriterebbero, per quel poco che posso sapere io, degli studi approfonditi per la rilevanza della loro azione.
Penso a don Antonio Cojazzi e Franco Amerio per la filosofia; a Paolo Ubaldi, Sisto Colombo e Eugenio Ceria per le edizioni dei classici greci e latini e a Salvatore Sciuto per i manuali di latino; a Giovanni Scotti per i testi di matematica e a Marco Nassò per le ricerche condotte nel campo della geometria pratica; al coadiutore Giovanni Caccia e a don Giuseppe Bistolfi a lungo animatori della casa editrice Sei di Torino; a Teresio Bosco, Francesco Meotto e Carlo Fiore per la divulgazione e la comunicazione; alla folta schiera degli studiosi su tematiche pedagogiche, psicologiche, catechetiche e pastorali della prima stagione delle Università salesiane che mi è impossibile richiamare in dettaglio.
A fronte di questo improvvisato elenco che – vi chiedo scusa – è tutto torinese, ma è già molto rappresentativo – ci si potrebbe interrogare se i figli e le figlie di don Bosco sono stati così poco attenti alle dinamiche culturali in quanto troppo compresi nella “pedagogia del cortile” – come spesso è stato narrato – oppure se essi hanno invece titolo a occupare una parte anche nel salotto buono della cultura cattolica dell’ultimo secolo. Questo sommario elenco dimostra che alcuni stereotipi e pregiudizi andrebbero forse rivisti e sostenuti con seri studi.
Nell’entrare più dettagliatamente nel merito delle prospettive di indagine e di ricerche pedagogiche si apre a fronte di tutti noi una fase storica segnata tra gli anni ’50 e ’60 dai cambiamenti assai importanti, in tutti gli ambiti del sapere e dell’esperienza religiosa. In particolare, come è facile immaginare, siamo interpellati dal grande evento del Concilio Vaticano II, tema strategico come tutti potete facilmente comprendere sul quale tuttavia non mi dilungherò perché su di esso il Rettor Maggiore offrirà il suo illuminante apporto.
Mi limiterò a osservare che lo snodo conciliare costituisce, anche per quanto le prospettive educative, un passaggio di tal complessità da leggere con una sensibilità interdisciplinare, intrecciando i cambiamenti che coinvolgono nel medesimo tempo vita spirituale e apostolica, concezione dell’esperienza religiosa, presenza della Chiesa nel mondo, apporto dei laici.
Nel circoscrivere l’attenzione sull’humus sociale, scolastico ed educativo richiamerò semplicemente le trasformazioni culturali, di mentalità e formative che tra gli anni ’50 e ’60 hanno direttamente o indirettamente segnato in specie il mondo dell’educazione in specie nella realtà europea occidentale e che perciò hanno coinvolto le famiglie salesiane. Schematicamente:
Naturalmente queste indicazioni tracciate vanno intese a maglie larghe, sono aperte e ciascuno può ovviamente e necessariamente integrarle sulla base della propria esperienza e sensibilità. Soprattutto occorrerà verificare nelle realtà extraeuropee le caratteristiche specifiche dei luoghi di azione dei Salesiani e delle FMA e valutare se la stagione conciliare è ugualmente apportatrice di cambiamenti rilevanti.
Segnalo qualche interrogativo che può aprire la via a qualche approfondimento. Come hanno reagito i Salesiani e le FMA a questi cambiamenti? E prima ancora: hanno subito percepito che la società post bellica stava impetuosamente cambiando? In che modo il carisma boschiano si è conservato vivo nella tradizione salesiana? Quali forme educative sono state privilegiate? Come è stato conservato e riproposto il valore della popolarità? Quali modelli esemplari – caratteristica così tipica della tradizione educativa salesiana – sono stati proposti ai giovani? In che modo l’esperienza religiosa è transitata dalla ritualità scandita da tempi e ritmi prefissati a forme più flessibili e più attente alle dinamiche interiori?
Per rispondere a questi e a molti altri interrogativi si aprono numerose strade. Per esempio le indispensabili ricognizioni sui documenti e le strategie dei Superiori, necessarie per cogliere le traiettorie portanti dell’azione dei Salesiani e della FMA a livello di governo complessivo, vanno affiancate e integrate da analisi narrative locali (quelle che prima abbiamo chiamato le “storie”) così da cogliere i processi molecolari che hanno innescato cambiamenti e risposte operative nella vita degli oratori, delle scuole professionali, degli istituti scolastici e nelle varie altre attività sociali e missionarie.
Si tratta di raccogliere attraverso i protagonisti, le situazioni statiche e quelle dinamiche, verificare – ad esempio – in che modo una generazione di salesiani e di FMA formata in un contesto per così dire “pre moderno” è stato in grado di rispondere a quella che cominciò ad assumere la fisionomia di una “modernità avanzata” (per la post modernità c’è ancora tempo). Non sarà inutile rivolgere inoltre attenzione alla prima generazione di studiosi di pedagogia e psicologia che opera a Torino nel Pontificio Ateneo Salesiano, agli ambiti delle loro ricerche, alla nuova stagione storiografica che offre una lettera meno agiografica e documentalmente più complessa della biografia di don Bosco.
Altri due interrogativi centrali mi sembrano meritino di essere considerati a margine del graduale maturare e affermarsi della pedagogia accademica salesiana: come essa si rapporta e stabilisce rapporti con la pedagogia cristiana e come la pedagogia salesiana si “europeizza” e forse in parte di “americanizza” oppure essa resta un fenomeno sostanzialmente italiano? Oppure ancora come essa influenza – se influenza – altre tradizioni pedagogiche per esempio nei continenti non europei?
Vorrei a questo punto entrare un poco di più nel dettaglio rispetto agli aspetti che costituiscono la nota dominante della famiglia salesiana e cioè quelli esplicitamente educativi.
Un passaggio decisivo della ricostruzione storica degli anni a venire è precisamente questo: come il sistema preventivo ha risposto, per un lato, ai cambiamenti sopra delineati e, per un altro verso, come si è inculturato nelle realtà non europee e non occidentali? Come è stata interpretata la pedagogia boschiana dopo il Concilio e quali frutti non solo pratici ma anche teorici ha portato? Ovvero come sono stati reinterpretati i princìpi fondanti del sistema?
Se restiamo ai dati forniti dagli eventi del passato dobbiamo riconoscere che don Bosco lascia ai suoi eredi non solo una preziosa suggestione pedagogica e cioè, come tutti sappiamo, la superiorità del sistema preventivo rispetto al sistema repressivo. Queste espressioni significano, in altre parole, l’affermazione dell’efficacia educativa superiore attribuita a una pedagogia della libertà personale affidata alla forza della relazione interpersonale garantita dalla valorizzazione della componente affettiva rispetto a una pedagogia dell’autorità e della separazione del ruolo magistrale da quello discepolare e affidata più a regole impersonali che al rapporto vivo.
Lo dico di passaggio: il dilemma in cui sorge l’idea del sistema preventivo non vale solo per l’Ottocento e il secolo scorso, è un dilemma attualissimo ancora oggi, ovviamente con caratteristiche diverse, ma non meno penetranti, basti pensare al potere esercitato dalla priorità dettate dall’economia rispetto alle esigenze delle persone e l’omologazione illiberale della potenza della virtualità rispetto alla necessità di un uso critico delle opportunità offerte dal web. Basta pensare al rischio del predominio della virtualità sull’incontro tra le persone per cogliere l’emergenza educativa del nostro tempo.
Ma don Bosco lascia accanto all’eredità anche il problema di come fruirne, una questione su cui si moltiplicano nel corso degli anni, già a partire da quanti furono più vicini al fondatore, interrogativi, dubbi, lagnanze, interpretazioni non sempre univoche, varietà di soluzioni dovute al fatto che un conto, ad esempio, è praticare il sistema preventivo in un oratorio oppure in un internato o, per fare un altro esempio, in un contesto di prima infanzia oppure con ragazzi adolescenti.
Si tratta dell’inevitabile scarto tra le enunciazioni di principio che l’educatore di razza riesce a trasferire in modo originale nella realtà quotidiana e che l’educatore normale – diciamo così – trova invece più problematico gestire e dunque è tentato di superare la propria insicurezza mediante il ricorso a regole, norme, comportamenti più o meno standard.
Sul piano della ricostruzione storica ci troviamo di fronte a una possibilità di indagine di notevole interesse che forse può anche aiutare quanti esplorano la sostanza pedagogica del sistema preventivo e cioè come sia possibile assicurare la necessaria condivisione di un principio mediante le diverse forme sul piano applicativo che può ovviamente svolgersi secondo forme organizzative coerenti rispetto alle situazioni specifiche in cui viene messo in atto, situazioni ovviamente tra loro differenti.
Detto in altro modo può essere utile chiedersi in che modo, specialmente quando si esaurisce la stagione torinocentrica – che detto incidentalmente non so fino a che punto sia sempre riuscita a regolare l’applicazione uniforme dell’assioma preventivo o abbia creduto di farlo –, il sistema preventivo si è concretamente tradotto in pratica nei contesti geografici e culturali ormai globalizzati negli anni del dopo Concilio e come esso sia stato percepito – accolto, criticato, respinto, modificato – dalle culture educative in cui esso è stato trapiantato.
Mi rendo ben conto della complessità di questa impresa per la cui realizzazione sono necessari studi sulla produzione pedagogica salesiana nei diversi Paesi, indagini sugli stili educativi messi in atto nei molteplici contesti in cui hanno operato i Salesiani e le FMA, pazienti raccolte di documentazione mediante testimoni affidabili.
Per quello che posso immaginare ne dovrebbe scaturire un mosaico di straordinario interesse tenuto insieme dai principi che don Bosco ha riassunto in poche pagine e che noi invece abbiamo complicato con migliaia di considerazioni, valutazioni, analisi e sintesi. Scoprire cos’è stato il sistema preventivo alla luce delle poche pagine di don Bosco significa tornare a scoprire l’identità stessa del carisma da cui tutto è partito, significa prendere atto che il sistema preventivo è un progetto che sfida le persone degli educatori e non una pratica da mettere semplicemente in pratica.