Testimonianza e domanda
Buon pomeriggio a don Pascual Chávez e a Voi tutti fratelli e sorelle della Famiglia Salesiana!
Mi chiamo Luisa Bertiato e sono nata a Mestre il 02 aprile 1981, lo stesso giorno di Domenico Savio, da Gianni e Sandra, due salesiani genitori cooperatori. Sono la maggiore di 4 fratelli: Francesco, 31 anni, Maria, 27 anni, e Angela, 23 anni.
Sono laureata in Scienze dell’Educazione-Pedagogia e in Servizio Sociale: sono un educatore e faccio l’assistente sociale! Lavoro per una Fondazione privata che si occupa principalmente degli orfani di medici, farmacisti e veterinari che sono stati contribuenti della Fondazione. Nello specifico mi occupo dei ragazzi studenti dagli 0 ai 30 anni della zona del nord-est d’Italia detta Triveneto: attualmente sono quasi 600. È un lavoro molto salesiano, anche se l’ambiente è laico.
Seguo i ragazzi sia per la parte burocratica dell’ammissione alle prestazioni e per il contributo annuale, li aiuto nella scelta delle scuole superiori o dell’università, cerco di supportarli nelle difficoltà a relazionarsi con la famiglia, gli insegnanti o gli amici. Cerco di avere una particolare attenzione per le famiglie che hanno un ragazzo/a diversamente abile o quando un genitore resta vedovo/a giovane e con figli piccoli: ad esempio ho l’abitudine di fare un giro di telefonate nei periodi ‘tranquilli’ dell’anno in cui posso spendere del tempo per dialogare con queste famiglie che spesso sono le più fragili e che trovano, anche in una semplice telefonata, un momento di sollievo e di sfogo. Inoltre due volte l’anno visito le province del Triveneto per incontrare le famiglie assistite in loco: è molto bello quando i ragazzi vengono a trovarmi anche solo per un saluto, per un confronto o per ringraziare degli utili consigli… spesso mi sento una sorella maggiore su cui contare e a cui confidarsi in una grande famiglia che va oltre i vincoli di sangue. E non mi è difficile pensarlo visto che ho ben chiaro l’esempio di quello che per me è la Famiglia Salesiana!
Frequento i cooperatori da quando io e mio fratello a 1-2 anni correvamo per i corridoi dell´Astori di Mogliano o giravamo per i prati del Colesin a Cencenighe mentre i nostri genitori partecipavano agli incontri. Il nostro salesiano di riferimento, e mio ‘don Bosco’, era un ex insegnante di francese di papà, don Bruno Martelossi, che papà aveva conosciuto quando, a seguito di un incidente sul lavoro di mio nonno molto grave e debilitante, fu mandato con altri 2 fratelli nel collegio salesiano a Castello di Godego.
Don Bruno e don Gianni (Filippin) sono stati i primi sacerdoti salesiani che ho incontrato fin da piccola. Mi ha sempre colpito la loro disponibilità, l’affetto che traspariva nel loro sguardo e nelle loro azioni e l’ambiente salesiano che sperimentavo da bambina aveva su di me un’attrazione forte… tanto che già allora pensavo che avrei voluto diventare cooperatrice da grande (anche se i bambini da piccoli vogliono sempre ripercorrere le orme dei propri genitori).
In seguito, poiché papà per motivi di lavoro si doveva spesso spostare, tutta la famiglia lo seguiva nei vari spostamenti… oltre al fatto che la nostra famiglia cresceva di numero e quindi, dopo la nascita di mia sorella Maria, anche la loro presenza al gruppo dei Cooperatori era meno assidua sia per la distanza sia per l’organizzazione della ‘nostra tribù’ di 6 persone.
E la mia passione per i giovani e per l´animazione era così forte che a 15 anni iniziai a fare l´animatrice ACR in parrocchia a Prozzolo di Camponogara (VE) (- avevo provato in terza media, dopo la cresima, ma dissero che ero troppo piccola :o). Tanto che ricordo molto bene di essermi divertita di più a fare l´animatrice che l´animata! Non c’era una casa salesiana o un oratorio salesiano nella zona in cui abitavo abbastanza vicino per poter partecipare alle attività e così decisi tra me e me di portare la ‘salesianità’ nelle attività per i ragazzi che per me erano accessibili e quindi nella parrocchia e nel mio Vicariato di appartenenza.
Alle medie ho frequentato la scuola “Don Bosco” di Padova delle FMA.
Ho iniziato il ginnasio al Marchesi di Padova e ho concluso con il triennio del Liceo al Tiziano di Belluno.
A Belluno abbiamo incontrato di nuovo i salesiani: come accennato prima, spostarsi tutti 6 diventava difficile e quindi anche la frequenza del gruppo dei cooperatori per i miei genitori. A Belluno, c’era una parrocchia e un istituto salesiano dove essi hanno ripreso la frequenza e io ho iniziato a fare catechismo, anche se non era la nostra parrocchia di residenza. Ho partecipato per anni alla Festa dei giovani con Belluno e a 17 e 18 anni ho frequentato i corsi per animatori organizzati dal MGS che poi mettevo in pratica nella mia parrocchia!
Nel 2000 ho iniziato l´università a Padova dove mi sono iscritta a Scienze dell´Educazione. Nel 2004 mi sono iscritta a una seconda laurea in Politiche e Servizi Sociali conclusasi nel 2007.
Durante le vacanze di carnevale, il 27 febbraio 2001, andai a trovare don Bruno su suo invito perchè era curioso di sapere come era andata la mia esperienza come volontaria della Giornata mondiale della Gioventù durante il giubileo a Roma nell´estate precedente.
Io speravo di poter iniziare il mio percorso come cooperatrice; invece don Bruno mi parlò di un gruppo di giovani che a livello ispettoriale sarebbe andato durante l´estate sui luoghi di S. Francesco di Sales e a Torino sui luoghi di don Bosco.
Quell´estate iniziò la mia avventura con gli Exallievi! prima in Francia e a Torino, poi Lourdes e Barcellona l´estate successiva, Poi Vice presidente dell´Unione di Mestre nel 2003, 2007 Vice Presidente Ispettoriale ed infine Vice Presidente Giovane Nazionale dal 2009 ad oggi.
Dal 2002 al 2013 ho avuto il ruolo di Vice Presidente Giovane, partendo dalla realtà locale (2003-2007) fino al livello nazionale (2009-2013): è stata un’esperienza arricchente perché ho potuto sperimentare la grandezza del carisma salesiano in varie realtà venete ed italiane e la gioia che i ragazzi e i giovani che ho incontrato vivono nelle case e negli oratori che frequentano…, ma ho anche incontrato alcune difficoltà in questa associazione talvolta più attenta alla struttura che alla missione… e ciò rende difficile ai giovani riconoscersi in questa associazione dove la loro assenza diventa così causa ed effetto dell’invecchiamento dell’associazione che comunque non manca mai di dimostrare il suo amore filiale per Don Bosco!
Mi sono ritrovata a girare l´Italia (e non solo!) accompagnata e supportata (e talvolta sopportata ;o) dall’allora delegato nazionale don Enrico Peretti: abbiamo lavorato per una maggiore consapevolezza del ruolo degli Exallievi, puntando sulla formazione e sull´impegno in cose concrete! Sono cresciuta e ho fatto molta esperienza soprattutto nell´organizzazione e nel confronto... ma non ho mai smesso di pensare di diventare un giorno Salesiana Cooperatrice...
Finchè il 24 gennaio 2011, dopo l´esperienza delle giornate di Spiritualità, partecipo, su invito del vicario ispettoriale don Jean Rebellato, ad un incontro serale dei Salesiani Cooperatori di Padova... che mi ha portato fino a questo 31 gennaio 2013, giorno in cui ho pronunciato la mia promessa!
Non riesco a pensare alla mia vita senza lo stile salesiano, lo dimostra anche la scelta del mio lavoro come assistente sociale (che amo e che ho la fortuna di svolgere con e per i ragazzi): ho frequentato l´Azione Cattolica, la Diocesi di Padova, i Gesuiti... ma solo nelle case salesiane mi sento davvero in Famiglia! Dalla casa salesiana di Mestre alla Casa Salesiana di Santo Domingo o di Santiago del Cile, dal Belgio alla Slovacchia!
Sono molto fiera di essere figlia di don Bosco e mi emoziono quando penso alla mia appartenenza al Movimento Salesiano di cui mi sento parte viva in quanto membro di questa grande Famiglia Salesiana! GRAZIE!
DOMANDE
Come la Famiglia Salesiana può aiutare il gruppo degli Exallievi a “rinascere” cercando di superare la burocratizzazione della struttura dell’associazione e puntando maggiormente al ‘fare famiglia’?
Partendo direttamente dalla sua esperienza di vita, caro don Pascual, quali suggerimenti concreti, magari con qualche aneddoto vissuto, darebbe alla Famiglia Salesiana per superare i contrasti e le differenze che i vari gruppi della FS sentono e che quindi rendono difficile talvolta la convivenza e condivisione?
Intervento di Paolo e Marina Surrentino
Siamo Marina e Paolo, sposi dal 2002, salesiani cooperatori di Latina.
Collaboriamo con un’associazione di volontariato del territorio dove risediamo, che si occupa di disagio giovanile e minori in difficoltà, tramite un progetto di doposcuola popolare, di animazione in case famiglia e di affido familiare.
Sentiamo che la nostra vita coniugale, tra i tanti limiti personali e difficoltà quotidiane, è costantemente accompagnata dalle benedizioni del Signore.
Sin da giovani e come coppia siamo stati attratti dalla spiritualità salesiana: il primo annuncio e la crescita nella fede di un Dio-Amore, misericordioso, vicino ai giovani; l’esperienza ecclesiale giovanile, la presenza e l’amicizia di educatori significativi, sempre più hanno plasmato le nostre menti e il nostro cuore della gioia, del senso della vita e dell´entusiasmo per donarla agli altri, aiutandoci anche a superare i momenti bui, le difficoltà e le croci personali e della vita di coppia.
Vocazione Missionaria: è il progetto di Dio?
Come coppia abbiamo vissuto un’esperienza di volontariato missionaria salesiana in Syria nel 2005 e una ad Haiti di 4 mesi nel 2010, nell’immediatezza dello sconvolgente terremoto.
Al rientro dalla missione in Haiti, eravamo convinti che il Signore ci stesse chiamando ad iniziare una nuova vita. Ci siamo messi quindi alla ricerca delle modalità concrete con le quali poter ripartire e farlo in modo definitivo, come famiglia missionaria. La situazione si presentava però alquanto complicata.
Dopo poco Marina è dovuta rimanere per diversi mesi ferma, letteralmente, per un’ernia al disco. Abbiamo intravisto in questo STOP forzato la volontà di Dio e ci siamo ancora una volta interrogati su quale fosse il progetto per noi. Convinti che la nostra strada fosse la missione internazionale, pur vivendo un grande dolore per non avere figli, non volevamo tentare la strada dell’adozione.
Doveva essere il Signore a decidere quella fosse la strada, così nel luglio del 2011 abbiamo presentato domanda di Adozione Nazionale. Conoscendo la situazione delle adozioni nazionali in Italia, eravamo sicuri che la nostra domanda sarebbe finita in un cantuccio sotto la montagna di altre domande e così noi, con l’anima in pace, saremmo potuti ripartire.
Giovani Poveri e Abbandonati: da Facebook a casa nostra
A novembre del 2011 però, continuando a svolgere volontariato in una casa famiglia, una situazione imprevista ci tocca profondamente. Uno dei ragazzi ormai quasi maggiorenne fugge e non dà più notizie di sé. E’ un ragazzo di origine Rom, nato in Italia, che all’età di 7 anni ha visto morire violentemente il padre, collocato in una casa famiglia strappato dalle sue tradizioni culturali e sociali. Ha visto allontanare da se gli altri fratelli più piccoli, dati in adozione, e ha visto la madre disinteressarsi man mano di lui.
Abbiamo avuto la “fortuna” di intercettarlo tramite il tanto temuto FACEBOOK e con l’autorizzazione dei servizi sociali e l’aiuto dell’associazione di cui facciamo parte, PONTIRETI onlus, proporgli di sistemarsi a casa nostra, per accompagnarlo a trovare una propria autonomia affettiva, economica e di vita. A quel tempo, quando lo abbiamo accolto per lo stato italiano era una presenza illegale: minore straniero, con una denuncia di fuga, con la sola registrazione all’atto di nascita e senza che nessuno mai si fosse preoccupato di fornirgli una documentazione legale!
Come coppia fremevamo ad accogliere un ragazzo in casa per donare e riversare in lui l’entusiasmante esperienza della spiritualità salesiana che sin da giovani avevamo ricevuto.
Da allora Roberto è ancora con noi nella nostra casa, ha conseguito un diploma di scuola superiore e, contrariamente a quanto predetto dai servi sociali, perfettamente integrato negli affetti e nel tessuto sociale della città.
«I progetti di Dio non coincidono mai con i progetti degli uomini»: Papà e Mamma
Nel frattempo la pratica di adozione non era rimasta sepolta andando avanti fino al colloquio finale, con il giudice onorario. Come immaginavamo, nel colloquio ci era stato chiaramente detto che, avendo Roberto a casa, un caso già difficile e complicato, difficilmente ci sarebbe stata la possibilità che il Tribunale andasse a sconvolgere ulteriormente la nostra famiglia e l’equilibrio precario appena instaurato affidandoci un altro minore in difficoltà.
Uscendo dall’udienza eravamo ancora più convinti che la nostra missione era diventata il dedicarci incondizionatamente a Roberto.
Chiamando il nostro direttore spirituale le sue parole, impresse nella nostra memoria, furono: «i progetti di Dio non coincidono mai con i progetti degli uomini».
Ed infatti, dopo appena una settimana, il Tribunale ci chiamò per una proposta di abbinamento! Così l’8 giugno del 2012, giorno del nostro decimo anniversario di nozze, nella nostra casa è arrivato Angelo, di nome e di fatto, di 12 anni.
Anche questo “avvento” non è stato un “parto” indolore, diverse persone e specialisti con i quali ci siamo confrontati prima di procedere alla conoscenza di Angelo, ci avevano fortemente sconsigliato di accettare l’abbinamento, ma nel nostro cuore di salesiani cooperatori risuonava ben più forte la frase del salesiano Don Attilio Strà: «se non ci pensiamo noi salesiani a questi ragazzi, chi lo fà?». Nonostante i nostri limiti, le insicurezze e le contingenti difficoltà economiche, dalla nostra parte avevamo la consapevolezza e la certezza che se Angelo fosse un dono del Signore, dovevamo contare sul Suo infallibile aiuto ed accoglierlo senza riserve nella nostra casa!
E così, da un anno e mezzo, Angelo vive con noi, perfettamente integrato nella scuola, nelle amicizie, in tutte le attività e, proprio nei prossimi giorni, dovrebbe entrar a far parte, anche ufficialmente, della nostra famiglia! Quella realtà dove Dio ci ha indicato l’essere chiamati a vivere come Mamma e Papà.
Domanda per il Rettor Maggiore:
Come coniugi salesiani cooperatori, abbiamo sperimentato che la nostra Famiglia è stata chiamata a vivere la dimensione della Chiesa Domestica come Oratorio Domestico: accoglienza, apertura alla vita, educazione alla fede, incontro nell’amore. Ma così come il cortile dell’Oratorio, anche noi dobbiamo confrontarci con le sfide del quotidiano: il lavoro, le esigenze personali e reciproche, i litigi. Sfide che donano momenti di profonda gioia ma anche momenti di vero e profondo scoraggiamento, di tristezza e di senso di inutilità. Sfide che rischiano di erodere il tempo e le possibilità per curare la nostra direzione spirituale, la formazione e la spiritualità di Sposi. Ci rendiamo infatti conto che senza di questo diventa difficile far maturare la nostra fede ed amare incondizionatamente e gratuitamente come facevano don Bosco e Mamma Margherita. Senza di questo è sempre più difficile, nonostante tutto l’amore che portiamo nel cuore, far vivere a questi ragazzi, feriti nel corpo e nell’anima da adulti incapaci di amare, la consapevolezza di essere amati da noi ma ancor di più dal Padre celeste.
Come si può concretamente curare l’equilibrio e l’armonia delle varie dimensioni formative, come sposi, come genitori, come salesiani cooperatori, come educatori, in una società che sempre più emargina la dimensione del trascendente, dimensione di vera maturazione umana?
Renato Cursi
Caro don Pascual,
quella che voglio condividere con te è una riflessione sulla mia vita di cristiano, giovane Salesiano Cooperatore, animatore del Movimento Giovanile Salesiano nell’oratorio Borgo Ragazzi don Bosco di Roma e nel coordinamento nazionale italiano del Movimento.
Gesù e don Bosco sono stati, con le rispettive proporzioni, due fari della mia vita sin dall’infanzia, per merito loro ed anche della bella famiglia in cui sono nato e cresciuto. Ricordo ancora l’entusiasmo con cui da piccolo leggevo la storia illustrata di Giovannino Bosco e Domenico Savio.
In questi 25 anni di “già e non ancora” mi sono sentito accompagnato in un intenso cammino di gioia e difficile ma continua ascesi, verso l’alto monte di Dio ma anche verso i fratelli e le profondità del cuore. Da 10 anni a questa parte, soprattutto, la Spiritualità Salesiana ha rappresentato il paradigma cui ho potuto riferire questo percorso di grazia.
Tre doni soprattutto riconosco di aver ricevuto da questa Spiritualità: la centralità dei Sacramenti, l’importanza dell’oggi, del quotidiano, per la vita dell’anima e la proposta della santità giovanile.
Sento che tutti questi elementi mi hanno donato un cuore nuovo ed occhi nuovi.
Oggi, nell’ascoltare ed osservare i giovani che il Signore mi fa incontrare nell’oratorio e nel Movimento Giovanile Salesiano, questo cuore nuovo e questi occhi nuovi sembrano dirmi che c’è un rinnovato bisogno di ricevere la proposta di scelte forti, radicali per la nostra vita di cristiani e salesiani, che facciano del quotidiano non uno spazio di mediocre routine, ma un tempo di santificazione.
La maggior gloria di Dio e la salvezza delle anime. Nulla di più deve trovare spazio negli obiettivi della nostra vita cristiana e salesiana. Ma quello che voglio chiederti, don Pascual, è quali possono essere le scelte radicali e forti da proporre e prima ancora testimoniare a giovani tiepidi o indifferenti per convincerli della centralità di questi obiettivi?
La radicalità della povertà? Della missionarietà senza risparmio? Quali altre declinazioni della radicalità del Vangelo?
Carissimi fratelli e sorelle,
concludiamo questa edizione delle Giornate di Spiritualità della Famiglia Salesiana rendendo lode e grazie al Signore che ci ha congregato, ci ha fatto sentire la sua voce e ci invia alle nostre case, comunità e opere con la missione di additare, come fece il Battista, ai giovani la presenza di Cristo tra noi. Gesù è l’unico che può riempire di gioia, di senso, d’impegno la loro vita perché Egli è “l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo”.
In queste giornate abbiamo riflettuto sull’elemento fondamentale della vita umana, e a più ragione della vita cristiana, vale a dire la vocazione alla santità attraverso l’amore. Questo è pure il fondamento della vocazione e della missione salesiana: la spiritualità, che ha come centro la Carità, che Don Bosco ha declinato come una carità educativo pastorale, perché ha come finalità portare i giovani alla pienezza di vita in Cristo. Si tratta di una forma di vita improntata sulla vita teologale, o meglio, sulla vita di Dio in noi attraverso la fede, la speranza e la carità, fino a riprodurre in noi fedelmente l’immagine del Suo Figlio, come ha saputo fare Don Bosco a Valdocco.
Ma abbiamo visto pure che la santità che, è la vocazione comune, va vissuta all’interno della Famiglia Salesiana, secondo la diversità del proprio stato di vita. Il bellissimo mosaico di santità salesiano è la proba più splendida che Don Bosco è stato un grande mistico dell’azione, una saggia guida spirituale, e che alla sua scuola sono diventati santi lui stesso, la sua mamma, i suoi collaboratori più stretti, i suoi primi successori, i suoi ragazzi, Madre Mazzarello, e dietro le loro tracce moltissimi altri hanno fatto della spiritualità salesiana una via sicura di santità.
La parola di Dio, che abbiamo sentito, ribadisce che la vita è vocazione e che tutte le persone hanno una missione da svolgere: il Servo di Jahvè ha la vocazione appunto di essere servo di Dio e la sua missione è quella di essere “luce dei popoli” e portare la salvezza a tutti. Paolo si è sentito chiamato ad essere “apostolo di Cristo”, con la missione specifica di annunciare Cristo Crocifisso. Giovanni Battista è nato per essere il precursore di Cristo e ha ricevuto sin dal grembo materno la splendida missione di preparare la sua venuta, di riconoscerlo presente in mezzo al popolo ed additarlo ai suoi discepoli come “l’Agnello di Dio”, pieno dello Spirito Santo, il Figlio di Dio riconosciuto dal Padre, e testimoniarlo con la sua parola, la sua vita e la sua morte.
Anche noi, cari fratelli e sorelle, abbiamo, come membri della Famiglia Salesiana, una vocazione: essere servi di Dio, apostoli di Cristo, suoi precursori con la bellissima missione di presentarLo, identificandoLo, al mondo. Altra non è la missione salesiana se non quella di essere credenti che fanno sentire l’alito dello Spirito Santo lì dove ci sono semi di vita, di bene, di verità, di bellezza; che fanno scoprire le tracce di Dio e del suo amore provvidente nella creazione, nella storia; che fanno vedere ai giovani la presenza di Cristo nella sua Chiesa, nei poveri, nei bisognosi e negli emarginati, e lo additano come Colui che cerca il loro cuore, appunto perché capace di appagare i loro desideri più profondi, di non deludere le loro attese, ed incoraggiarli a diventare suoi discepoli missionari, come chiede Papa Francesco.
Senza la testimonianza di Giovanni, Gesù sarebbe passato inavvertito dalla folla. E questo che accadde allora, accade anche oggi, dove sembrano perse le tracce di Dio sul mondo, dove si esperimenta il “silenzio di Dio” e ci si illude di poter vivere prescindendo dalla sua vicinanza solidale, dalla sua presenza amorevole, dal suo impegno salvifico. Il Battista ebbe la grazia di vivere attendendo il Cristo, d’essere preparato per riceverlo, con la mente sempre allerta e il cuore vigile, e quindi di riconoscerlo, quando Lui venne, tra la folla venuta a trovarlo. Proprio perché predicava la conversione, Il Battista ebbe il coraggio d’essere il primo a identificare Gesù come il vincitore del peccato ed ebbe l’audacia di non passare sotto silenzio quanto sapeva. E così, avallato dal Battista, Gesù poté iniziare a manifestarsi tra gli uomini.
Tuttavia il vangelo non vuole solo ricordarci il merito di Giovanni di attendere ed identificare Gesù come l’Agnello di Dio, ma vuole pure richiamare la nostra attenzione sul bisogno della testimonianza cristiana affinché Gesù possa essere riconosciuto e seguito nella nostra generazione, anch’essa bisognosa di redenzione. A poco sarebbe servito il fatto che Dio si fosse incarnato nel figlio di Maria se Gesù non fosse stato accettato come figlio di Dio. Non si deve dimenticare quanto scrive il Prologo del vangelo di Giovanni: “Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto”. Questo capita quando pensiamo di non avere bisogno del Cristo e vogliamo sostituirlo con il progresso della scienza, della tecnica, della economia e, soprattutto con “la cultura del benessere, che, come disse con grande schiettezza Papa Francesco, ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle ma non sono nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio, che porta all’ indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione dell’indifferenza”.[1]
Ebbene, se Gesù non avesse contato sulla disponibilità di Giovanni Battista, non sarebbe stato presentato come l’Agnello, l’Uomo ricolmo dello Spirito, il Figlio di Dio. Nell’affermare la missione di Gesù, Giovanni accettò di diminuire la sua: indicando Gesù come l’Agnello che toglie il peccato, inviò verso Lui tutti quelli che erano venuti a vederlo.
Oggi come ieri, o meglio oggi più di ieri, Gesù ha bisogno di persone che lo facciano conoscere. C’è bisogno di persone che facciano vedere la presenza di Dio nel mondo.
Ecco la nostra missione salesiana, cari fratelli e sorelle: essere persone che rendono testimonianza di Gesù ai giovani, specialmente ai più poveri dal punto di vista sociale ed economico, bisognosi dal punto di vista affettivo ed emozionale, a rischio dal punto di vista di perdita di senso della vita, di speranza e di futuro. Non dobbiamo dimenticare che il tentativo di cacciare via Dio della nostra esistenza, non converte la terra in un paradiso. Anzi, rende il nostro lavoro più arduo, la nostra vita più fragile, la vita dei giovani più difficile e meno paradisiaca tutta la nostra terra.
È interessante questa scelta pedagogica di Dio di farsi precedere da precursori. Una scelta che porta frutti abbondanti quando le persone scelte svolgono fino in fondo il loro ruolo, si identificano con il volere di Dio. Questo è quanto ha fatto Don Bosco che da credente camminò per la storia “come si vedesse l’Invisibile” e incanalò tutte le sue energie al servizio di una unica causa: la salvezza dei giovani, e per realizzare questa missione diede luogo a ogni tipo di iniziative ed opere, tra le altre la fondazione della Famiglia Salesiana, non avendo di mira altro che le anime: “Da mihi animas”.
Sono sicuro che le vocazioni per tutti i nostri istituti si moltiplicheranno, saranno più salde e renderanno più frutto se i giovani – ragazzi e ragazze – che frequentano le nostre opere o che curiamo nelle diverse attività di ogni tipo troveranno in noi un Giovanni Battista che indichi loro Gesù, che gli faccia conoscere la sua identità profonda e li guidi alla sua sequela.
Quale bella missione ci affida il Signore! Svolgiamola con gioia, con convinzione e con generosità. Cristo è diritto di tutti. Additiamo la sua presenza tra noi e portiamo i giovani all’incontro personale con Lui.
Roma, Salesianum – 19 Gennaio 2014
Don Pascual Chávez V., sdb
Rettor Maggiore
La Carità Pastorale
Centro e sintesi della spiritualità salesiana
Don Pascual Chávez,
Rettor Maggiore
Abbiamo visto che “tipo” di persona spirituale è Don Bosco: profondamente uomo e totalmente aperto a Dio; come l’armonia tra queste due dimensioni si è costruita in un progetto di vita assunto con decisione: il servizio ai giovani. Lo rileva questo commento: “Non diede passo, non pronunciò parola, non mise mano ad impresa alcuna che non avesse di mira la salvezza della gioventù"[1].
Se si esamina però il suo progetto per i giovani si vede che ha un “cuore”, un elemento che gli dà senso, originalità: “Realmente non ebbe a cuore altro che le anime"[2].
C’è quindi una spiegazione ulteriore e più puntuale dell’unità della sua vita: voleva, con la sua dedizione ai giovani, comunicare loro l’esperienza di Dio. La sua era non solo generosità, ma carità pastorale. Questa viene detta “centro e sintesi” dello spirito salesiano[3].
“Centro e sintesi” è un’affermazione impegnativa. E´ più facile enumerare vari tratti, anche fondamentali della nostra spiritualità, senza impegnarsi a stabilire tra di essi un rapporto o una gerarchia, che selezionarne uno come principale. In questo caso bisogna entrare nell’anima di Don Bosco o del salesiano e scoprire quello che spiega il suo stile.
Per capire che cosa include la carità pastorale facciamo tre passi: riflettiamo prima sulla carità, poi sulla specificazione pastorale, e infine sulla carità pastorale salesiana.
Un’espressione di San Francesco di Sales dice: “L’uomo è la perfezione dell’universo; lo spirito è la perfezione dell’uomo; l’amore è la perfezione dello spirito; e la carità è la perfezione dell´amore"[4].
E´ una visione universale che colloca in scala ascendente quattro modi di esistere: l’essere, l’essere persona, l’amore come forma superiore a qualsiasi altra forma coscienza e rapporto umano, la carità come espressione massima dell’amore.
L’amore rappresenta il punto ottimale della maturazione di qualsiasi persona, cristiana o no. Lo sforzo educativo si propone di portare la persona ad essere capace di donarsi, ad un amore di benevolenza.
Gli psicologi, e non solo Gesù Cristo, dicono che la personalità completa e felice è capace di generosità e disinteresse, e previene l’amore che sia soltanto di concupiscenza, cioè per la propria soddisfazione di essere amato. Diverse forme di nevrosi o di perturbazione della personalità derivano dall’essere centrati su di sé. E le relative terapie tendono tutte ad aprire e decentrare verso gli altri.
La carità è poi la proposta principale in ogni spiritualità: è non solo il primo e principale comandamento; e dunque il programma principale per il cammino spirituale, ma anche la fonte di energia per progredire. C’è su di essa un’abbondante riflessione soprattutto in San Paolo[5] e San Giovanni[6].
Prendiamo solo alcuni nuclei.
L’accendersi della carità in noi è un mistero e una grazia; non proviene da iniziativa umana ma è partecipazione alla vita divina ed effetto della presenza dello Spirito. Non potremmo amare Dio se Lui non ci avesse amato per primo, facendocelo sentire e dandoci il gusto e l’intelligenza per corrispondervi. Non potremmo nemmeno amare il prossimo e vedere in esso l’immagine di Dio, se non avessimo l’esperienza personale dell’amore di Dio.
“L’amore che Dio ha per noi si è diffuso nei nostri cuori mediante lo Spirito Santo che ci è stato dato"[7]. D’altra parte anche l’amore umano non ha spiegazione razionale, e per questo si dice che è cieco. Nessuno riesce a determinare con esattezza perché una persona si innamori di un’altra.
Per questa sua natura, di essere partecipazione alla vita divina e comunione misteriosa con Dio, la carità crea in noi la capacità di scoprire e percepire Dio: la religione senza la carità allontana da Dio. L’amore autentico, anche solo umano, porta coloro che sono lontani verso la fede e l’ambiente religioso. La parabola del buon samaritano mette a fuoco il rapporto religione-carità a vantaggio di quest’ultima.
Lo riassumerà San Giovanni: “Carissimi, amiamoci gli uni gli altri perché l’amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio perché Dio è amore"[8]. Il significato del verbo “conoscere” è “fare esperienza”, piuttosto che avere nozioni esatte: chi ama fa una certa esperienza di Dio.
Poiché la carità è la facoltà che ci permette di conoscere Dio per esperienza, è anche quella che ci abilita a goderlo: “Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente..."[9].
Perciò non è solo una virtù particolare, ma la forma e la sostanza di tutte le virtù e di tutto quello che costruisce la persona: “Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli... e se avessi il dono della profezia... e se distribuissi tutte le mie sostanze ai poveri... e se possedessi la pienezza della fede sì da trasportare le montagne... ma non avessi carità niente mi giova"[10].
Per questo la carità e ciò che da essa procede sono realtà che perdurano, resistono al tempo: “La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà, la scienza svanirà. Quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà"[11]. Ciò si applica non solo alla vita, ma alla nostra storia. Quello che si edifica sull’amore rimane e costruisce la nostra persona, la nostra comunità, la nostra società. Mentre quello che si fonda sull’odio e sull’egoismo si consuma.
Perciò la carità è il più grande e la radice di tutti i carismi, attraverso cui si costruisce e opera la Chiesa. Proprio dopo aver spiegato la finalità e l’impiego dei diversi carismi, San Paolo introduce il discorso della carità con queste parole: “Aspirate ai carismi più grandi e io vi mostrerò la via migliore"[12].
E´ il carisma principale anche quando si esprime con gesti quotidiani e non presenta niente di straordinario o vistoso: quanto “è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace nella verità. Tutto crede, tutto spera, tutto sopporta"[13].
Anche per Don Bosco e Madre Mazzarello, come per tutti i santi, la carità è centrale. E´ l’insistenza principale della loro vita. Conviene saperlo e dirlo. Ogni tanto infatti qualche salesiano ne fa esperienza, scopre l’importanza della carità in un movimento ecclesiale, dopo molti anni di vita in congregazione. Sembra che in essa non ne avesse sentito parlare con efficacia e non l’avesse potuto vivere con intensità.
Nel sogno dei diamanti - che è una parabola dello spirito salesiano - la carità viene collocata davanti e proprio sul cuore del personaggio: “Tre di quei diamanti erano sul petto... su quello che si trovava sul cuore era scritto: CARITÀ"[14]. Si sa che in questo sogno o parabola ciò che è collocato davanti è la parte fondamentale del nostro spirito.
Inoltre, la carità viene raccomandata dai nostri fondatori in forme molteplici: come base della vita di comunità, come principio pedagogico, come fonte della pietà, condizione dell’equilibrio e della felicità personale, pratica di virtù specifiche, quali l’amicizia, la buona educazione, la rinuncia a propri interessi.
Anche nelle nostre Costituzioni imparare ad amare, è la finalità della vita religiosa medesima: “Un cammino che conduce all´amore"[15] L’insieme di pratiche e discipline, di norme e insegnamenti spirituali vorrebbe ottenere una sola cosa: renderci capaci di accogliere gli altri e metterci a loro servizio con generosità.
La carità ha molte manifestazioni: l’amore materno, l’amore coniugale, la beneficenza, la compassione. Nella storia della santità le espressioni coprono tutti gli ambiti della vita umana.
I Salesiani (SDB) e le Figlie di Maria Ausiliatrice (FMA) parlano di una carità “pastorale”.
Questa espressione appare molte volte nelle loro Costituzioni, documenti e discorsi. Che cosa significhi carità pastorale lo dice bene il Concilio quando, riferendosi a coloro che si prendono cura di educare alla fede, dice: “Viene data loro la grazia sacramentale, affinché orando, santificando e predicando... esercitino un perfetto ministero di carità pastorale: non temano dunque di donare la vita per le loro pecore e, facendosi modello del gregge, muovano la chiesa anche con l’esempio verso una più grande santità"[16].
La parola pastorale sta ad indicare una forma specifica di carità. Fa risalire mentalmente alla figura di Gesù Buon Pastore[17]. Non soltanto però alle modalità del suo operare: bontà, ricerca di chi si è perso, dialogo, perdono. Ma anche e soprattutto quanto alla sostanza del suo ministero: rivelare Dio a ciascun uomo e a ciascuna donna.
E´ più che evidente la differenza con altre forme di carità che rivolgono attenzione preferenziale a particolari bisogni delle persone: salute, cibo, lavoro.
L’elemento tipico della carità pastorale è l’annuncio del Vangelo, l’educazione alla fede, la formazione della comunità cristiana, la lievitazione evangelica dell’ambiente. Chiede dunque disponibilità piena e donazione per la salvezza dell’uomo, come viene prospettata da Gesù: di tutti gli uomini, di ogni uomo, anche di uno solo. Don Bosco, e dietro di Lui i salesiani, esprimono questa carità con una frase: Da mihi animas, coetera tolle.
I grandi istituti e le grandi correnti di spiritualità hanno condensato il cuore del proprio carisma in una breve frase. “Per la maggiore gloria di Dio”, dicono i gesuiti; “Pace e bene” è il saluto dei francescani; “Prega e lavora” è il programma dei benedettini; “Contemplare e consegnare agli altri le cose contemplate” è la norma dei domenicani.
I testimoni della prima ora e la riflessione successiva della Congregazione hanno portato alla convinzione che l’espressione che riassume la spiritualità salesiana è proprio il “Da mihi animas”.
Certo l’espressione ricorre con frequenza sulle labbra di Don Bosco e ha influito sulla sua fisionomia spirituale. E´ la massima che impressionò Domenico Savio nell’ufficio di Don Bosco ancora giovane sacerdote (34 anni) e lo mosse a un commento rimasto famoso: “Ho capito che qui non si fa negozio di danaro, ma di anime. Ho capito: spero che l’anima mia farà anche parte di questo commercio"[18]. Per questo ragazzo fu chiaro dunque che Don Bosco non gli offriva solo istruzione e casa, ma soprattutto un’opportunità di crescita spirituale.
L’espressione è stata raccolta nella Liturgia: “Suscita anche in noi la stessa carità apostolica che ci spinge a cercare le anime per servire te, unico e sommo bene”.
Era giusto che così fosse, dato che Don Bosco l’aveva avuto come intenzione permanente nella fondazione delle associazioni: “Il fine di questa società, se lo si considera nei suoi membri, non è altro che un invito a unirsi spinti dal detto di Sant’Agostino: “divinorum divinissimum est in lucrum animarum operare”[19].
Nella storia leggiamo: “La sera del 26 gennaio 1854, ci siamo radunati nella camera di Don Bosco e ci venne proposto di fare con l’aiuto del Signore e di San Francesco di Sales una prova di esercizio pratico di carità... d’allora è stato dato il nome di salesiani a coloro che si proposero o si proporranno questo esercizio"[20].
Dopo Don Bosco, i singoli Rettori Maggiori, da testimoni autorevoli, hanno riaffermato la stessa convinzione. E´ interessante il fatto che tutti si siano premurati di ribadirlo con una convergenza che non lascia spazio al dubbio.
“Don Rua ha potuto affermare ai processi: Lasciò che altri accumulasse beni... e corresse dietro gli onori; Don Bosco realmente non ebbe a cuore altro che le anime: disse col fatto, non solo con la parola: Da mihi animas, coetera tolle”.
Anche Don Albera, che ebbe una lunga consuetudine con Don Bosco, attesta: “Il concetto animatore di tutta la sua vita era di lavorare per le anime fino alla totale immolazione di se stesso... Salvare le anime... fu, si può dire, l’unica ragione del suo esistere"[21].
Più incisivamente, anche perché mette a fuoco le motivazioni profonde dell’agire di Don Bosco, Don Filippo Rinaldi vede nel motto: “Da mihi animas”, il segreto del suo amore, la forza, l’ardore della sua carità.
Riguardo alla consapevolezza attuale, dopo il ripensamento della vita salesiana alla luce del Concilio, così si esprime il Rettor Maggiore Don Egidio Viganò: “La mia convinzione è che non c’è nessuna espressione sintetica che qualifichi meglio lo spirito salesiano di questa scelta dello stesso Don Bosco: “Da mihi animas, coetera tolle”.
Essa sta ad indicare una ardente unione con Dio che ci fa penetrare il mistero della sua vita trinitaria manifestata storicamente nelle missioni del Figlio e dello Spirito quale Amore infinito “ad hominum salutem intentus”[22].
Da dove viene e che significato preciso può avere oggi questa espressione o motto? Dico oggi, quando la parola anima non esprime e non evoca quello che richiamava in epoche precedenti.
L’espressione si trova nella Genesi, al capitolo 14. Quattro re alleati fanno guerra ad altri cinque, tra i quali c’è quello di Sodoma. Durante il saccheggio della città cade prigioniero anche Lot, nipote di Abramo, con la sua famiglia. Abramo viene avvisato. Parte con la sua tribù, dopo aver armato gli uomini. Sconfigge i predatori, ricupera il bottino e riscatta le persone. Allora il re di Sodoma, grato, gli dice: “Dammi le persone, il resto è per te”. La presenza di Melchisedek, sacerdote di cui non si conosce l’origine, dà un particolare senso religioso e messianico al brano, soprattutto per la benedizione che pronuncia su Abramo. Dunque una situazione tutt’altro che “spirituale”. Nella richiesta del re c’è però la netta distinzione tra persone e “roba”, le cose.
Don Bosco dà all’espressione una interpretazione personale entro la visione religioso-culturale del secolo scorso. “Anima” indica l’elemento spirituale dell’uomo, centro della sua libertà e ragione della sua dignità, spazio della sua apertura a Dio. L’espressione di Gen. 14,21 in Don Bosco assume caratteristiche proprie, dal momento che del testo biblico fa una lettura accomodatizia, allegorica, giaculatoria, eucologica: animas sono gli uomini del suo tempo, sono i ragazzi concreti con cui ha da fare; cetera tolle significa il distacco dalle cose e creature, un distacco che in lui non è traducibile nel senso di annientamento di sé, di annientamento in Dio, come ad esempio nei teologi contemplativi o mistici; in lui il distacco è uno stato d´animo necessario per la più assoluta libertà e disponibilità alle esigenze dell´apostolato stesso.
L’intreccio dei due significati, quello biblico e quello dato da Don Bosco, avvicinato alla nostra cultura indica scelte molto concrete.
In primo luogo, la carità pastorale prende in considerazione la persona e si rivolge ad essa: a tutta la persona; prima e soprattutto le interessa la persona, sviluppare le sue risorse. Dare “cose” viene dopo; il fare un servizio è in funzione della crescita della coscienza e del senso della propria dignità.
Inoltre la carità che guarda soprattutto alla persona è guidata da una “visione” di essa. La persona non vive di solo pane; ha bisogni immediati, ma anche aspirazioni infinite. Desidera beni materiali, ma anche valori spirituali. Secondo l’espressione di Agostino “è fatta per Dio, assetata di lui”.
Perciò la salvezza che la carità pastorale cerca e offre è quella piena e definitiva. Tutto il resto viene ordinato ad essa: la beneficenza all’educazione; questa all’iniziazione religiosa; l’iniziazione religiosa alla vita di grazia e alla comunione con Dio.
In altre parole si può dire che nella nostra educazione o promozione diamo il primato alla dimensione religiosa. Non per proselitismo, ma perché siamo convinti che essa costituisce la sorgente più profonda della crescita della persona. In un tempo di secolarismo, quest’orientamento non è di facile realizzazione.
La massima da mihi animas contiene anche un’indicazione di metodo: nella formazione o rigenerazione della persona bisogna far forza e ravvivare le sue energie spirituali, la sua coscienza morale, la sua apertura a Dio, il pensiero del suo destino eterno. La pedagogia di Don Bosco è una pedagogia dell’anima, del soprannaturale. Quando si arriva a toccare questo punto comincia il vero lavoro di educazione. L’altro è propedeutico o preparatorio.
Don Bosco lo afferma con chiarezza nella biografia di Michele Magone. Questi passa dalla strada all’oratorio. Si sente contento ed è, umanamente parlando, un bravo ragazzo: è spontaneo e sincero, gioca, studia, fa amicizie. Gli manca una cosa: capire la vita di grazia, il rapporto con Dio, e intraprenderla. E´ religiosamente ignorante o svagato. Ha una crisi di pianto quando si paragona con i compagni e nota che gli manca questo. Allora Don Bosco parla con lui. Da quel momento comincia il cammino educativo descritto nella biografia: dalla consapevolezza e assunzione della propria dimensione religioso-cristiana.
C’è dunque una scelta e una ascesi per chi è mosso dalla carità pastorale: “Coetera tolle”, “Lascia tutto il resto”. Si deve rinunciare a molte cose per salvare la cosa principale; si possono affidare ad altri e anche tralasciare molte altre attività pur di avere tempo e disponibilità per aprire i giovani a Dio. E ciò non solo nella vita personale ma anche nei programmi e nelle opere apostoliche.
“Chi percorre la vita di Don Bosco, seguendo i suoi schemi mentali ed esplorando le tracce del suo pensiero trova una matrice: la salvezza nella chiesa cattolica, unica depositaria dei mezzi salvifici. Egli sente come la sfida della gioventù abbandonata, povera, vagabonda svegli in Lui l’urgenza educativa di promuovere l’inserimento di questi giovani nel mondo e nella Chiesa mediante metodi di dolcezza e carità; ma con una tensione che ha la sua origine nel desiderio della salvezza eterna del giovane"[23].
Come sintesi riprendiamo le idee fondamentali della nostra riflessione.
[1] Costituzioni SDB 21
[2] Costituzioni SDB 21
[3] Costituzioni SDB 10; Costituzioni FMA 80
[4] cf San Francesco di Sales, Trattato dell´amore di Dio, Vol II, libro X, c. 1
[5] cf 2 Cor 12, 13-14
[6] 1 Gv 4
[7] Rom 5,5
[8] 1 Gv 4,7-8
[9] 1 Cor 13,12
[10] 1 Cor 13,1-3
[11] 1 Cor 13,8-10
[12] 1 Cor 12,31
[13] 1 Cor 13,4-6
[14] MB XV pag. 183 (Tutto il famoso "Sogno")
[15] Costituzioni SDB 196
[16] LG 41
[17] cf Gv 10
[18] G. Bosco, Vita di San Domenico Savio, SEI Torino, 1963, capo VIII pag. 34
[19] MB VII, pag. 622
[20] MB V, pag. 9
[21] P. Brocardo, Don Bosco profondamente uomo - profondamente santo, LAS ROMA 1985, pag. 84
[22] P. Brocardo, Don Bosco profondamente uomo - profondamente santo, LAS ROMA 1985, pag. 85
[23] P. Stella, Don Bosco nella storia della religiosità cattolica, vol. II, PAS VERLAG, Zurigo 1969, pag. 13
Don Aldo Giraudo sdb
Don Bosco è uno scrittore molto prolifico. Tuttavia non è ritenuto un “autore spirituale”, nel senso specifico del termine. Fra la quantità e la varietà delle sue opere e dei suoi scritti non troviamo testi analoghi alle testimonianze autobiografiche di santa Teresa d’Ávila, di san Giovanni della Croce o di Teresa di Lisieux. Né egli ha composto trattati o manuali di vita spirituale affini agli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola, al Combattimento spirituale di Lorenzo Scupoli, alla Introduzione alla vita devota di Francesco di Sales, all’Esercizio di perfezione e di virtù cristiane di Alonso Rodriguez o alle operette ascetiche di sant’Alfonso Maria de’ Liguori. Ma è altrettanto certo che don Bosco, educatore cristiano della gioventù, fondatore di famiglie di consacrati e di consacrate, è stato un uomo di profonda vita interiore e una vera guida spirituale. Lo riconoscono coloro che sono stati da lui formati. Lo dimostra la vasta e vivace fioritura di santità salesiana nel tempo.
In verità egli ci ha lasciato una sostanziosa testimonianza del suo insegnamento spirituale sparsa nei numerosi scritti e documentata nelle memorie raccolte dai discepoli. Per questo può essere considerato un “maestro di vita spirituale” nel senso specifico della parola: per la sua fecondissima azione di formatore di santi, di direttore spirituale di comunità e di singoli, di fondatore di congregazioni, di iniziatore di un movimento storico dai tratti inconfondibili, che si configura come una feconda scuola di santità cristiana .
Sulle dipendenze e sull’originalità degli insegnamenti spirituali di don Bosco cf Pietro Stella, Don Bosco nella storia della religiosità cattolica. Vol. II. Mentalità religiosa e spiritualità, Roma, LAS 1981. Tra le più significative sintesi della spiritualità di don Bosco, oltre a quella di P. Stella, ricordiamo: Francis Desramaut, Don Bosco et la vie spirituelle, Paris, Beauchesne 1967 (tradotto in spagnolo, inglese, italiano e altre lingue); Joseph Aubry, “La scuola salesiana di don Bosco”, in Ermanno Ancilli, Le grandi scuole della spiritualità cristiana, Roma, Pontificio Istituto di Spiritualità del Teresianum; Milano, O.R. 1984, pp. 669-698; Pietro Scotti, La dottrina spirituale di don Bosco, Torino, SEI 1939; Alberto Caviglia, “Savio Domenico e Don Bosco. Studio”, in Opere e scritti editi e inediti di Don Bosco. Vol. IV, Torino, SEI 1943, pp. 5-590; Id., Il “Magone Michele” una classica esperienza educativa. Studio, in Opere e scritti editi e inediti... Vol. V, Torino, SEI 1965, pp. 131-200; Id., Un documento inesplorato. La Vita di Besucco Francesco scritta da Don Bosco e il suo contenuto spirituale, in Opere e scritti editi e inediti... Vol. VI, Torino, SEI 1965, pp. 105-262.
Dunque, mi pare opportuno offrire alcune considerazioni e sei chiavi interpretative che possano aiutare a comprendere alla spiritualità di don Bosco e, in particolare, a leggere con frutto l’antologia di tesi allestita per questo terzo anno di preparazione al Bicentenario della nascita del nostro Padre.
Considerazioni sulla specificità spirituale di don Bosco
1. Nell’ambito della storia della spiritualità, se confrontiamo i tratti qualificanti del suo magistero e della sua prassi con quelli di altre scuole spirituali, scopriamo indubbie sintonie con gli insegnamenti di san Francesco di Sales, troviamo anche sostanziosi elementi assimilati, attraverso la scuola di san Giuseppe Cafasso, dalla morale e dall’ascetica di sant’Alfonso de’ Liguori, dalla spiritualità classica, dalla letteratura gesuitica. Nel suo apostolato, poi, specialmente nella luminosa e familiare carità verso i giovani, si intravvedono molti punti di contatto con san Filippo Neri e altri santi educatori della Riforma cattolica.
Tuttavia don Bosco rimane inconfondibile. È vero che, attraverso l’Introduzione alla vita devota e i Trattenimenti spirituali, Francesco di Sales gli trasmette, rielaborata, la sostanza della spiritualità italiana dell’Umanesimo devoto, che enfatizza la bellezza della pietà, sorgente di gaudio spirituale; mantiene l’equilibrio tra volontà umana e grazia; ama semplificare le pratiche per metterle alla portata delle persone più comuni. La scuola spirituale italiana tra 1500 e 1600 ha anche un atteggiamento combattivo, che deriva dalla consapevolezza della presenza nel cuore dell’uomo della “doppia legge”, per cui sprona al “combattimento spirituale”, all’esercizio cioè della mortificazione dei sensi, dell’orazione e della pratica sacramentale, ma in prospettiva di crescita virtuosa e gaudiosa (non nel senso medievale del contemptus mundi). Come Francesco di Sales, don Bosco guarda con ottimismo a questa lotta nella sicurezza della vittoria, per la sua fede nella potenza della grazia santificante, nell’efficacia del sangue di Cristo che feconda lo sforzo umano e rende possibili cammini di santità a tutti, anche ai piccoli, ai ragazzi, agli ultimi.
È qui uno dei sui tratti spirituali caratterizzanti: alla vita virtuosa e alla santità sono chiamati anche i ragazzi, gli adolescenti. In considerazione della struttura psicologica di questi, egli cura le piccole cose, conferisce maggiore importanza alla mortificazione interiore che a quella corporale; fa leva sulla gioia del cuore e sull’affettività nella pietà; insiste sull’unificazione della vita di preghiera e della vita attiva; educa ad uno spirito di adattamento e di conciliazione, senza mai declinare dalla totalità del dono di sé a Dio. Soprattutto spalanca orizzonti di senso, terreni e ultraterreni, affascinanti e stimolanti.
2. In don Bosco il “darsi a Dio”, suggerito con insistenza ai giovani, non coincide semplicemente col tradizionale richiamo alla conversione dei predicatori del suo tempo (“Colui il quale differisce la sua conversione corre gran pericolo che gli manchi il tempo, la grazia o la volontà” e rischia l’eterna dannazione: lo aveva sentito da ragazzo a Buttigliera). Nonostante i gusti del tempo, in lui l’esortazione acquista tonalità luminose: è invito ad aprirsi con generosità al primato dell’amore divino, ad offrire la propria vita a Dio senza condizioni e con slancio amoroso, superando ogni attaccamento e ripiegamento, varcando la soglia dei piccoli orizzonti e dei piccoli interessi. Si tratta sostanzialmente di aiutare ciascuno ad appropriarsi, in modo pieno e definitivo, delle promesse battesimali, ad attualizzarle, a realizzare, cioè, il battesimo nella propria condizione di ragazzo o di adolescente come stile di vita, in una sequela innamorata, incondizionata ed entusiasta di Cristo; a mettere gioiosamente e operativamente Dio al centro del proprio vissuto, dei pensieri, degli affetti e degli interessi; e lasciarsi trasfigurare dal suo Spirito.
Il nostro santo Fondatore Bosco è convinto che da questo passo fondamentale scaturisca un potente dinamismo interiore: il solo capace di svegliare le energie più profonde di ciascuno, di maturare persone riuscite e serene, di produrre nel quotidiano frutti spirituali fecondi, di innescare cammini di purificazione e di costruzione virtuosa, di aprire alla santità operativa: cioè ad un vissuto cristiano integrale e gioioso che si esprime nell’esercizio abituale pratico della fede e della carità, nell’unione con Dio, nella fedeltà indiscussa agli impegni presi e ai doveri del proprio stato, in un vissuto fervido, gaudioso, in feconde relazioni umane e in una tensione ardente al compimento perfetto in Dio della “beata speranza”.
3. Come possiamo constatare nella vita di don Bosco, nella sua umanità e nell’esperienza di coloro che a lui si sono affidati, la conseguenza di questa scelta è la progressiva maturazione di personalità simpatiche e robuste, connotate da libertà di spirito, da fedeltà, dall’osservanza obbediente e gioiosa, da fortezza d’animo e dalla tenuta nelle avversità, dall’operosità proattiva, dalla capacità di vedere lontano, di guardare oltre; permeate di bontà e di amabilità affettuosa; propense al servizio oblativo del prossimo.
Tutto ciò è anche frutto di un accompagnamento, di un’educazione alla consapevolezza e l’accoglienza di sé (senza scrupoli né angosce), della formazione al superamento di sé attraverso un impegno costante – battagliero e dolce insieme –, di oblatività e servizio verso il prossimo, di equilibrata mortificazione dei sensi, di purificazione del cuore e di esercizio delle virtù. È il risultato di una mistagogia spirituale capace di introdurre alla preghiera, di curare un’interiorità affettuosa con Dio, di formare un atteggiamento progressivo di gioiosa obbedienza alla volontà divina che si traduca anche in umile testimonianza evangelica, in tensione apostolica, in impegno vocazionale a servizio della Chiesa e della società.
Quindi, da questo punto di vista, quella di don Bosco è più un’ascetica che una mistica, anche se il dinamismo centrale è dato soltanto dall’amor di Dio reso operante; anche se il tipo di pietà, di devozione, che egli promuove è caratterizzato dalla perfetta unificazione dell’azione e della contemplazione. E non poteva essere diversamente dato il suo carattere di contemplativo operante e di apostolo della contemporaneità, dato il suo proposito di voler essere luce e sale, lievito evangelico nella città terrestre in prospettiva della città celeste.
4. Chi leggerà questa antologia, si accorgerà presto di alcune insistenze, di temi ricorrenti. Sono tratti inconfondibili di don Bosco, come il “servite Domino in laetitia”; come l’insistenza sulla centralità dell’obbedienza quale via di perfetta conformazione a Cristo nel dono di sé; come l’accento posto sulla “bella virtù”, la virtù della castità, perno della maturazione umana e cristiana, via per raggiungere un equilibrio generale degli affetti e un’intimità amorosa e verace con Dio, amato sopra ogni cosa; come la valorizzazione pedagogica dei sacramenti; come la promozione di una forma di devozione mariana inscindibile dal deciso orientamento interiore verso la perfezione virtuosa nella corrispondenza attiva al lavoro della grazia, nello zelo per la gloria di Dio, nello spirito di orazione, nell’esercizio delle virtù quotidiane, nel fervore eucaristico e apostolico: una devozione mariana capace di accendere nel cuore dei giovani il desiderio di più alta perfezione, come scrisse don Caviglia.
Qui va anche collocata l’insistenza sulla frequenza sacramentale e sul compito del confessore-educatore, dell’amico dell’anima che – guadagnata la fiducia e la confidenza del ragazzo –insegna l’arte dell’esame di coscienza, forma alla contrizione perfetta, stimola il proposito efficace, guida sui sentieri delle purificazioni e degli esercizi virtuosi, introduce al gusto della preghiera e alla pratica della presenza di Dio, insegna le vie di una feconda comunione col Cristo eucaristico. Confessione e comunione frequente sono intimamente legate nella pedagogia spirituale di don Bosco. Con la confessione assidua e regolare si promuove la vita “in grazia di Dio” e si alimenta la tensione virtuosa che permette di accostarsi in modo sempre più “degno” alla comunione frequente; nello stesso tempo si creano le condizioni perché attraverso la comunione eucaristica Dio possa prendere “possesso” del cuore in modo definitivo, perché la grazia trovi condizioni interiori ideali che le permettano di operare efficacemente, trasformare e santificare.
Questi caratteri impregnano tutto il magistero spirituale di don Bosco. Anche la spiritualità del religioso e della religiosa salesiana ne è imbevuta. La decisa consegna di sé a Dio proposta ai giovani assume, nella consacrazione religiosa, un movimento più radicale, totalizzante, che accentua il primato assoluto di Dio e le esigenze operative di una sequela incondizionata espressa con la professione dei voti, di una volontà di conformazione al Cristo offerto e immolato. La sostanza è la stessa.
Alcune chiavi interpretative per entrare nella visione spirituale di don Bosco
Il lettore di oggi, accostando i testi di don Bosco, si rende conto che egli scrive per giovani, per adulti, per religiosi e religiose del suo tempo. È certo che il suo discorso continua ad essere stimolante anche per noi, ma la distanza culturale e spirituale si percepisce. La lettura sfida la nostra capacità di interpretazione, stimola la nostra collaborazione attiva, fa appello alle nostre conoscenze storiche, culturali, teologiche... Quindi, per ridurre la complessità, mi pare conveniente indicare sei chiavi interpretative utili per entrare nella visione e nella sensibilità spirituale di don Bosco e aiutare il lettore di oggi riformulare gli aspetti identitari della sua spiritualità in altri orizzonti culturali e in prospettive teologiche differenti.
1. Prima chiave interpretativa: don Bosco, (lo vediamo nei suoi scritti e nelle scelte operative), ha una concezione religiosa della storia. Nel suo modo di vedere, la storia umana e il cuore di ogni singola persona sono il luogo dell’azione salvifica di Dio, in una dialettica perenne tra tempo ed eternità, tra grazia e debolezza, tra peccato e redenzione. Il Dio della Bibbia, il Padre del Signore nostro Gesù Cristo, non è un Dio lontano che osserva gli eventi dall’alto: è vicino, attivo, coinvolto nelle vicende umane; il suo Spirito riempie la terra e la vivifica, la lavora, la fa fruttificare. Inoltre don Bosco è convinto che il sangue di nostro Signore Gesù Cristo per la salvezza dell’umanità, non è versato invano. La grazia e l’amore di Dio per l’uomo, sono più forti di ogni forma di male, di ogni resistenza e opposizione. E l’uomo – per quanto fragile e peccatore – non è abbandonato a se stesso. Il Creatore, in Gesù Salvatore e Redentore, si protende verso di noi, non soltanto per salvarci, ma per santificarci, per trasfigurarci, per unirci a sé nell’amore. Per questo don Bosco ha una fiducia incondizionata in Dio e nella potenza della sua grazia: in quel Dio che si dà a noi totalmente, che offre il suo Figlio unigenito fino al sacrificio della croce perché nessuno vada perduto, perché tutti possano vivere da figli suoi. Dunque, non dubita mai. Scrive ad un parroco scoraggiato nel 1878: [Lei mi dice:] “Sono buono a poco? [Ed io rispondo:] Omnia possum in eo qui me confortat. […] I tempi sono difficili? Furono sempre così, ma Dio non mancò mai del suo aiuto: Christus heri et hodie” .
San Giovanni Bosco, Insegnamenti di vita spirituale. Un’antologia, Roma, LAS 2013, p. 137
2. Seconda chiave interpretativa. Da questa visione teologica e da questa indiscussa fede in Dio, deriva la fiducia del nostro Santo nelle risorse interiori dell’uomo, la sua visione ottimista dell’azione educativa e pastorale, e scaturisce la sua luminosa pedagogia spirituale. Anche il giovane più debole, più refrattario, più misero, più distratto e irrequieto nella visione di don Bosco mantiene intatti i lineamenti del volto e del cuore di quel Dio che lo ha creato a sua immagine e somiglianza. Ogni giovane sente dentro di sé, nel profondo, la nostalgia del Padre nostro che è nei cieli e il bisogno di rispondere ai suoi appelli. In quanto creatura di un Dio che è carità, che è amore, ogni ragazzo è ontologicamente (nativamente) aperto all’amore. Ha un bisogno immenso di essere amato e di amare, è sensibile all’amore gratuito, oblativo, all’amicizia disinteressata, alla gentilezza, all’attenzione personale e alla cura individuale, alla relazione umana positiva. Su questo dinamismo interiore don Bosco fa affidamento come pastore e come educatore. A partire da questa certezza si interroga, si dà da fare, sperimenta, non arretra mai, non dispera, va incontro, dialoga, propone, dà fiducia, incoraggia, pazienta, persiste, combatte: insomma, educa, forma, istruisce, accompagna, assiste.
3. Terza chiave interpretativa. Don Bosco è anche convinto di essere chiamato e mandato da Dio per la salvezza dei giovani. È certo di aver ricevuto una vocazione per una missione speciale nella chiesa e nel mondo. Una vocazione che – come più volte afferma parlando con i suoi figli e i membri della Famiglia salesiana – è anche nostra. Egli si sente strumento, umile, ma necessario ed efficace della grazia divina. Per questo si fa amico, fratello, padre per far percepire ai giovani il volto amico, paterno e materno di Dio. Questa coscienza, questa fede nella missione ricevuta gli dà coraggio e speranza, perché sa che non gli mancherà l’aiuto del Signore: la chiamata e la missione includono il carisma, la grazia necessaria per l’efficacia. Inoltre, questa consapevolezza gli infonde un forte senso di responsabilità. Come ha imparato da don Cafasso, il pastore, e tutti coloro che hanno ricevuto una vocazione educativa ed evangelica, dovranno rendere strettissimo conto a Dio delle pecorelle che a loro sono state affidate. Sono questi i motivi che inducono don Bosco a rendersi incondizionatamente disponibile nella mani di Dio e ad impegnarsi con tutto se stesso nella missione. Vuole arrivare a tutti. A ciascuno intende comunicare il fuoco della fede e dell’amore che ha dentro di sé. Tutti vuole guadagnare a Dio, convinto in questo modo di cooperare efficacemente alla trasformazione dell’umanità, alla fermentazione cristiana della storia e di giovare alla “salvezza” della società, oltre che delle singole persone.
4. Quarta chiave interpretativa. Formato in un concetto fortemente testimoniale dell’azione educativa e pastorale, don Bosco sa per esperienza ed insegna che si può comunicare agli altri solo ciò che si possiede. La persona del pastore e dell’educatore, la sua fede, carità, speranza, il suo spirito di preghiera, di rettitudine, la sua esemplarità morale e la santità della sua vita sono attrattive irresistibili, potentissimi canali comunicativi di una efficace proposta formativa. Così egli fa e così insegna ai suoi collaboratori, adulti o giovani, fin dai primi passi dell’Oratorio.
5. Quinta chiave interpretativa. Naturalmente, tutto ciò non significa che non si debba avere un metodo, una strategia pastorale, un “sistema” educativo. Infatti, se con i giovani don Bosco insiste che bisogna “darsi a Dio per tempo”, e che è bello farlo, senza aspettare l’età adulta o la vecchiaia, con gli educatori e i pastori afferma che è fondamentale conquistare il cuore e la fiducia dei giovani mettendo in atto tutte le risorse del sistema preventivo. Insegna anche che non bisogna aver paura di proporre da subito, ma in modo significativo, affascinante, un chiaro percorso di vita cristiana, una sostanziosa spiritualità giovanile. Certo, è necessaria la gradualità, ci vuole una pedagogia della vita spirituale. Bisogna creare le condizioni favorevoli; plasmare ambienti educativi belli e stimolanti, sereni, ricchi di proposte e di presenze umane simpatiche e vivaci, adatte a rendere significativa la proposta. È necessaria la cura dei particolari e delle piccole cose, l’organizzazione dei momenti importanti, la messa a punto di esperienze significative, di percorsi strutturati, di passaggi. È importante la progettazione, l’organizzazione, la regolamentazione, la calendarizzazione e la revisione periodica e attenta. È indispensabile soprattutto centrare la propria attenzione sui ragazzi, dedicarsi alla relazione personale e alla cura del singolo, alla formazione del gruppo oltre che della grande comunità giovanile, garantire un’assistenza efficace e un accompagnamento personalizzato. Qui comprendiamo la sua cura per formare comunità educative e pastorali ben strutturate, la sua insistenza sull’impegno personale degli educatori e sul loro “zelo” ardente e “industrioso”.
6. Sesta chiave interpretativa. Dobbiamo tener presente anche un altro aspetto, molto importante nel tempo di don Bosco, che oggi appare critico, soprattutto in Occidente: la fiducia e l’apertura al futuro, l’inclinazione al superamento, alla trascendenza e l’orientamento escatologico. Erano tratti tipici di don Bosco, del suo modo di vivere la fede e di prospettare l’azione educativa e pastorale, ma erano anche caratteristiche dell’ambiente culturale e della visione dei suoi giovani. Allora si faceva affidamento sulle “magnifiche sorti e progressive” – come nota criticamente il poeta Giacomo Leopardi ne La ginestra (1836) –, si era convinti cioè della possibilità e della capacità dell’uomo di progredire sempre, di perfezionarsi, di tendere e raggiungere posizioni sociali e condizioni di vita, economiche, morali, spirituali e civili, migliori; si aveva una fede indiscussa nel progresso. Anche don Bosco partecipava di questa sensibilità, ma in prospettiva squisitamente evangelica. Egli era convinto che ogni giovane, soprattutto quello povero, va educato a guardare oltre, a sperare, a desiderare il riscatto morale e spirituale, a tendere al superamento, al miglioramento di sé; ogni ragazzo va incoraggiato ad aprirsi, ad affrontare la fatica, la lotta, alimentando potentemente la speranza; ognuno va educato a mettersi in ricerca, ad uscire da sé, a migrare fuori del piccolo mondo personale, a superare orizzonti ristretti, proiettandosi verso un “oltre”, un “meglio”, verso un “domani”, un “al di là”, un “paradiso”, temporale ed eterno. Ma soprattutto ad aprirsi all’alterità del Trascendente, del Dio-Amore che solo può permetterci di realizzare i nostri aneliti più profondi e di raggiungere la “salvezza”. Questo fattore don Bosco sapeva orientarlo molto bene, sia nella prospettiva religiosa della santità, della tensione alla perfezione cristiana, sia in quella secolare della cittadinanza responsabile e competente.
Mi auguro che, con l’aiuto di queste coordinate e di queste principali chiavi interpretative, la lettura dei testi di don Bosco, dei suoi insegnamenti di vita spirituale, possa risultare molto stimolante per la Famiglia salesiana.
“INCONTRO CON GESU’ DI NAZARET”
1.- Introduzione
Tutti noi siamo cristiani, e quindi, la nostra fede e il senso della nostra vita sono centrati in Gesù di Nazaret, il Figlio di Dio fatto Uomo; eredi di una tradizione che si è arricchita nel corso di 2000 anni. Vorrei invitarvi, per cominciare, a metterci nella situazione dei contemporanei di Gesù, come se fossimo un membro in più del popolo di Israele, dinanzi a questo "Ebreo marginale", chiamato Gesù di Nazareth, un predicatore itinerante sulle strade polverose della Galilea del primo secolo della nostra era. Lo faremo, naturalmente, seguendo la linea del Nuovo Testamento, sapendo pure di non avere una "cronaca" della vita di Gesù, e che i Vangeli sono testimonianze di fede che, tuttavia, si basano sulla realtà storica del Signore.
2.- “…Chi è quest’uomo?”
Gesù di Nazaret si presenta come una figura affascinante, che attrae le folle, che si entusiasmano tanto nell’ascoltarlo, che si dimenticano in certi casi perfino di mangiare. La sua voce, bella e forte (a volte lo ascoltavano migliaia di persone), trasmette un messaggio che, prima di tutto, colpisce per l’autorità con la quale lo esprime: si tratta di un linguaggio "diversi da quello degli scribi e dei farisei" (Mc 1, 27); perfino gli ignoranti soldati riconoscono: "nessuno ha mai parlato come quest´uomo" (Gv 7, 46): un´autorità che non è imposizione o intransigenza, ma che piuttosto infonde sicurezza e fiducia in chi lo ascolta, per la sicurezza con la quale si esprime, anche quando le sue parole contrastano con la mentalità convenzionale del suo tempo.
Insieme a questa autorità, è affascinante la concretezza con cui si esprime: non è complicato o astratto, ma parla semplicemente, in modo che tutti possano capire, anche i piccoli e gli ignoranti; privilegiando uno strumento che permette di ricordare meglio quello che hanno sentito: gli esempi della vita di ogni giorno - sia la vita degli uomini che delle donne, sia degli adulti che dei bambini -: principalmente utilizzando le parabole, uno degli elementi meglio "affermati" nella cristologia pre-pasquale.
Questo modo di parlare, però, non elimina lo sforzo della propria riflessione: piuttosto invita ad essa e la rende necessaria: in modo che molti, pur sentendo, non comprendono (Cfr. Mc 4, 12 e par.); è necessario coinvolgere la mente (evitando la superficialità) e il cuore, sede dei sentimenti e pertanto, nucleo della conversione. In caso contrario, la sua parola sarà come un seme che cade sulla strada e che, essendo calpestato dai passanti o mangiato dagli uccelli, non produce alcun frutto (cfr. Mc 4, 4); o anche, essendo fraintesa, causerà il suo rifiuto, anche in coloro che lo seguono. (cfr. Gv 6)
Questo rifiuto, però, non è causato semplicemente dall’incomprensione, ma perché il suo insegnamento non corrisponde a ciò che gli ebrei erano abituati a sentire, e i loro capi, a proclamare. Il suo atteggiamento di libertà è inseparabile dall’autorità con cui Gesù parla; una libertà affascinante, senza dubbio, ma anche sconcertante, che non è ammanettata dalle convenzioni familiari, sociali e anche religiose della tradizione ebraica. A questo proposito, basta ricordare il discorso della montagna (cfr. Mt 5-7), con le contrapposizioni che Gesù stabilisce tra il suo messaggio e "ciò che è stato detto anticamente": si tratta, nientemeno, che dei testi della Torah, la Legge di Dio!
Questo atteggiamento di Gesù si rivela, maggiormente, nel suo modo di vivere: va con ogni tipo di persona; a volte lo troviamo a mangiare nella casa di farisei e dottori della legge (almeno due volte: Lc 7, 36-50 , e 11, 37-54). Tuttavia, ciò che provoca più scandalo è la sua predilezione a "frequentare cattive compagnie"[1], al punto che si coniò un’espressione offensiva per descrivere questo modo di fare: "mangione e beone, amico dei pubblicani e dei peccatori" (Mt 11, 19), che l´evangelista mette in bocca a Gesù! Ancora: forse, dopo 2000 anni, siamo troppo abituati a vedere Gesù "dogmaticamente"... Dinanzi a questo atteggiamento di "galileo marginale", come avremmo reagito noi? Avremmo creduto in lui? Certamente è facile criticare i suoi nemici dalla nostra prospettiva; più difficile, senza dubbio, è metterci al loro posto...
E’ innegabile, inoltre, che l´autorità del suo linguaggio e la novità della sua "prassi", tanto nuova e per alcuni così scandalosa, si vedono supportati - e in qualche modo, contrastati - dalle azioni che realizza in nome di Dio: vale a dire, i miracoli (che l’evangelista Giovanni chiama, da un’altra prospettiva teologica, "segni"). A questo proposito, è molto importante l´incontro di Gesù con i discepoli di Giovanni il Battista, che, dal carcere, dove è in costante pericolo di morte (come del resto si verificherà, cfr. Mc 6, 17-29 e par.) , gli manda a chiedere: "Sei tu colui che deve venire, o dobbiamo aspettare un altro?" (Mt 11, 3). Gesù risponde facendo vedere le sue azioni: San Luca dice che "in quel tempo (Gesù) guarì molti dalle loro malattie, dalle infermità e dagli spiriti maligni, e diede la vista a molti ciechi" (Lc 7, 21), ma soprattutto sottolineando il segno per eccellenza del suo messianismo: "Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi vedono, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l´udito, i morti risuscitano, e ai poveri è predicata la buona novella» (Lc 7, 22), e conclude mettendo in relazione questi" segni ", con la sua predicazione e le sue azioni sconcertanti: “Beato colui che non si scandalizza di me!"(v. 23). Questo rapporto tra le sue opere e la sua più profonda identità culmina nel Vangelo di Giovanni, perché Gesù indica la radice ultima di questo modo di parlare e di agire: il suo carattere filiale. "Se non compio le opere del Padre mio, non credetemi; ma se le compio, anche se non volete credere a me, credete almeno alle opere, perché sappiate e conosciate che il Padre è in me e io nel Padre" (Gv 10, 37-38). Tutto questo è sintetizzato nelle Costituzioni salesiane in una frase breve, ma di alta densità: "la predilezione (di Gesù) per i piccoli e i poveri; la sollecitudine nel predicare, guarire e salvare, spinto dall´urgenza del Regno che viene" (C 11).
Dinanzi a queste opere straordinarie di Gesù (miracoli / segni), la reazione immediata è, ancora una volta: "Chi è dunque costui, al quale anche il vento e il mare obbediscono?" (Mc 4, 41).
Approfondito nel messaggio inviato a Giovanni attraverso i suoi discepoli, il significato che Gesù stesso dà a questi segni / miracoli conduce al nucleo della sua missione: "i poveri sono evangelizzati". Gesù è pienamente consapevole di una missione: mostrare, rendere visibile, "tangibile", l´amore e la misericordia di un Dio che è Abbà: Padre; ancor più, "Papà". Tale amore e misericordia si fanno realtà in un doppio atteggiamento (che deve essere distinto, ma non assolutamente separato): in primo luogo, la sua solidarietà con i più disprezzati del popolo perché considerati come lontani da Dio. La sua sola presenza in mezzo a loro era già un "segno" dell´amore del Padre e, inevitabilmente, anche un motivo di scandalo; ma la cosa più sconcertante era che questa solidarietà aveva come scopo quello di realizzare nella sua vita il dono di Dio per eccellenza, quello che poteva venire solo da Lui: la grazia, nella forma concreta del perdono gratuito. Non era solo l’andare con i peccatori e il mangiare con loro quello che scandalizzava, ma soprattutto ciò che questo implicava, e che perfino li fa esclamare: «Perché costui parla così? Bestemmia. Chi può rimettere i peccati se non Dio solo? "(Mc 2, 7). In tutte queste azioni, Gesù praticamente si sta mettendo al posto di Dio, e suscita, come sempre, la domanda: Chi è costui che perdona perfino i peccati?"(Lc 7, 49).
Inoltre, incontrandoci con Gesù di Nazareth, non lo vediamo mai da solo; è sempre accompagnato dai suoi amici, i "discepoli", di cui Marco dice: "Chiamò quelli che volle, ed essi andarono con lui. Ne costituì Dodici che stessero con lui e per mandarli a predicare e perché avessero il potere di scacciare i demoni "(Mc 3, 13-14). Questa sequela di Gesù nel discepolato non è solo fonte e esempio per la spiritualità cristiana, ma ha una "valenza teologica" che è necessario sfruttare.
Alcuni anni fa, il Rettor Maggiore scrisse nel Bollettino Salesiano: “Ricordando la frase di Marco, il discepolato implica, essenzialmente, due aspetti: la convivenza con Gesù, la crescente familiarità ed amicizia con lui, e la partecipazione alla sua missione: l’annuncio del Regno di Dio, accompagnato dai ‘segni’ che lo autenticano”[2] E continua:
“Si tratta di un tema relativamente nuovo, dato che tradizionalmente si considerava la sequela di Gesù in chiave soprattutto morale e spirituale, oggi invece ha ricuperato tutta la sua valenza biblica e teologica, tanto che lo si considera uno degli elementi fondamentali che permettono approfondire il Mistero di Gesù, il Figlio di Dio, durante la sua vita mortale.
A prima vista sembrerebbe che Gesù si comporti come un rabbi, un maestro come tutti gli altri. Eppure le differenze sono molto grandi. Nessuno, per esempio, può chiedere a Gesù che lo accolga tra i suoi discepoli: ‘Non siete voi che mi avete scelto, sono io che ho scelto voi’ (Gv 15, 16). Inoltre, seguire Gesù significa lasciare tutto: i propri beni, la propria professione, anche la famiglia: l’esigenza di Gesù è superiore a quella di Elia quando chiama alla missione profetica il suo successore, Eliseo (Lc 9, 59-62 e Mt 8, 21-22 a confronto con 1 Re 19, 19-21). Non tocca solo momenti di insegnamento, ma abbraccia tutta la vita, condividendo con Gesù la precarietà della sua vita itinerante, le difficoltà e i pericoli, compresa la minaccia di persecuzione e di morte.
Tutto questo può esigerlo solamente Qualcuno che è più di un semplice uomo; solo Dio può esigere di andare oltre i vincoli umani più sacri: ‘Chi ama suo padre o sua madre più di me, non è degno di me; chi ama suo figlio o sua figlia più di me, non è degno di me. Chi non prende la sua croce e viene dietro di me non è degno di me’ (Mt 10, 37-38)”[3].
Ancora una volta, appare qui la domanda: "Chi è questo che vuole cambiare tutta la mia vita?”. Ancora di più: è Gesù stesso che rivolge loro questa domanda, in un momento decisivo del suo ministero: i tre vangeli sinottici presentano questa "svolta" nella vita del Signore, a partire dalla quale egli comincia ad annunciare loro la sua passione e la morte violenta. "Gesù e i suoi discepoli partirono verso i villaggi intorno a Cesarea di Filippo; e per via interrogava i suoi discepoli dicendo: ´Chi dice la gente che io sia?´ Ed essi gli risposero: ´Alcuni Giovanni il Battista, altri Elia e altri uno dei profeti’ . E lui disse: ´E voi, chi dite che io sia?´ Pietro gli rispose: ´Tu sei il Cristo´ "(Mc 8 , 27-30, cfr. con diversi particolari, Mt 16 , 13-20, Luca 9 , 18-21 ). Le risposte precedenti, nella loro inesattezza, puntano su una figura tipica del Vecchio Testamento: il profeta, caratterizzato non come colui che annuncia il futuro o come chi denuncia situazioni di ingiustizia e di peccato, ma in primo luogo come colui che parla e agisce per conto di Dio.[4].
La domanda sull´identità di Gesù appare, come abbiamo visto, prima di tutte le dimensioni del ministero di Gesù: la sua parola, le sue azioni, i suoi miracoli, la sua solidarietà con i peccatori, la sua pretesa di perdonare le offese fatte a Dio: il peccato.
Però appare anche, in modo straordinario, negli uomini e nelle donne con cui Gesù si incontra personalmente. Conviene approfondire questo tema, centrale nella vita di Gesù… e nella nostra vita, poiché costituisce un paradigma del nostro incontro personale con il Signore.
Gesù si incontra con ogni tipo di persona , e per tutti è una persona "molto speciale"; a cominciare dai bambini, che lo avvicinano perché li accarezzi e li benedica (cfr. Mt 19 , 13-15 e par.) causando la sorpresa dei discepoli e l’ indignazione del Signore. A coloro che gli si avvicinano sperando la guarigione dalle loro malattie, concede loro molto di più: si sentono amati personalmente da Dio, ricevendo non solo la salute fisica, ma anche la salvezza (cfr. Lc 17 , 11-19: i dieci lebbrosi; san Agostino commenta: tutti hanno ricevuto la guarigione, solo un uno - uno straniero – la salvezza ...). In uno dei suoi primi miracoli, quando gli hanno presentato un paralitico, Gesù, teneramente, gli dice: "Coraggio, figlio, abbi fiducia, i tuoi peccati ti sono perdonati " (Mt 9 , 2 , Mc 2 , 5); a una donna malata da molti anni - e certamente, più grande di lui -, la cui fede produce una "reazione psicosomatica" in Gesù, le dice anche: «Coraggio, figlia, la tua fede ti ha salvata: va´ in pace e sii guarita dal tuo male" (Mc 5 , 25-34 , Mt 9, 22).
Potremmo continuare a parlare della sua compassione per il popolo, che sente abbandonato, "come pecore senza pastore" (cfr. Mt 15, 32), tanto da giungere a volte anche al pianto: dinanzi a Gerusalemme, pensando alla sua distruzione: (cfr. Lc 19, 41 ss.), o dinanzi alla morte del suo amico Lazzaro e al dolore delle sue sorelle Marta e Maria (cfr. Gv 11, 35); davanti alla chiusura dei capi del popolo, sente un misto di rabbia e di dolore (cfr. Mc 3, 5), e di fronte alla richiesta di segni da parte dei farisei, Gesù risponde "con un profondo gemito dal profondo del suo essere" (Mc 8, 12). La tenerezza con cui si rivolge alla vedova di Naim, che soffre per la recente morte di suo figlio, è struggente: «Vedendola, il Signore ne ebbe compassione e le disse: ´Non piangere!´. E accostatosi, toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: ´Giovinetto, io ti dico, alzati!´. Il morto si levò a sedere e cominciò a parlare. Ed egli lo diede a sua madre "(Lc 7, 13-15).
La lettera agli Ebrei dirà, in modo impressionante: "Noi non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa, come noi, escluso il peccato" (Eb 4, 15).
L´evangelista Giovanni è colui che presenta in modo più approfondito questi incontri di Gesù: già dall´inizio, con lo sprezzante Natanaele, ha parole di apprezzamento (e forse un po´ di ironia), e questo breve incontro determina un radicale cambiamento in chi si sentiva "un vero israelita" (cfr. Gv 1, 47ss.). Più avanti, il dialogo con Nicodemo causerà una "nuova nascita" da parte del fariseo, membro del Sinedrio: dalla sua visita notturna (probabilmente per timore dei suoi colleghi), fino all´atteggiamento di coraggio di fronte alla morte di Gesù (cfr. Gv 19, 39). La guarigione di un cieco nato ci presenta uno straordinario cammino di fede, che inizia con il dono miracoloso di vista fisica, fino alla contemplazione del Signore con gli occhi della fede: " ´Io credo, Signore’. E lui , prostratosi, lo adorò"(Gv 9, 38).
Soprattutto nell’incontro con le persone che sentono che la loro vita è rovinata, non solo per il disprezzo degli altri, ma soprattutto per la loro lontananza da Dio a causa del peccato, Gesù mostra la sua profonda compassione e, allo stesso tempo, la sua più intima "esigenza": offrire loro l’amore e il perdono di Dio, essendo, in pratica, il suo "rappresentante". Con la samaritana, che aveva tutte le possibili controindicazioni, secondo la mentalità ebraica, perché Gesù le rivolgesse la parola, il Signore si mostra con una commovente bontà e misericordia, senza ignorare il suo passato: ma invitandola a cambiare la sua vita; tanto che, dimenticando la sua brocca, "corse in città" (Gv 4, 28) e diventò, così, la prima "evangelizzatrice": "Molti samaritani di quella città credettero in lui (Gesù) per le parole della donna "(Gv 4, 39).
Nel Vangelo di Luca, troviamo un altro episodio commovente: Gesù, ospite in casa di un fariseo, riceve l´omaggio di amore e di gratitudine di una peccatrice pubblica, suscitando così lo scandalo del "giusto" fariseo Simone. E ´ importante sottolineare, contro le interpretazioni superficiali o sbagliate, che la radice della conversione di questa donna si trova nella fede. Questo dettaglio mi sembra straordinario: è l´unica volta , al di fuori dei racconti di miracoli , in cui Gesù dice a una persona: "La tua fede ti ha salvato. Va in pace" (Lc 7, 50): l´incontro con Gesù ha provocato in questa anonima peccatrice l’esperienza di fede di sentirsi amata e perdonata da Dio, e per questo corrisponde con un "amore più grande" (v. 47): indicando, in tal modo, ciò che già appariva nella guarigione del paralitico: che il perdono dei peccati da parte di Dio è un’opera ancora più meravigliosa della guarigione miracolosa di una malattia fisica. Peccato che il fariseo si trinceri nel compimento della legge, chiudendosi così alla gratitudine dell’amore di Dio, non sentendosi "debitore", e quindi, senza bisogno del perdono divino!
Questo ci ricorda senza dubbio quello che Joseph Ratzinger definisce "forse la più bella" delle parabole di Gesù: la parabola dei due fratelli e del Padre misericordioso (cfr. Lc 15, 11-32). Lo stesso san Luca ci racconta l’incontro di Gesù con il capo dei pubblicani di Gerico, Zaccheo: il sentirsi chiamato per nome da Gesù, lo fa sentire amato, in modo totalmente gratuito, da Dio stesso; e questo provoca un cambiamento così radicale in lui, che gli possiamo applicare le parole stesse di Paolo: "quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo" (Fil 3, 7). La scena finisce con le parole di Gesù: "Oggi la salvezza è entrata in questa casa, perché anch´egli è figlio di Abramo, perché il Figlio dell´uomo è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto" (Lc 19, 10).
Non possiamo non menzionare quello che è forse l’incontro più bello e "scandaloso" di Gesù, quello del quale dice, con una frase lapidaria, Sant´Agostino: "Si sono incontrati, faccia a faccia, la grande miseria e la grande misericordia": l´incontro con la donna adultera, in Giovanni 8. E ´importante far notare che, una volta che Gesù ha "ripulito il terreno", non minimizza il peccato di questa donna, né in se stesso, né in relazione con gli altri; non dice, per esempio, "Hai visto? Gli altri sono più peccatori di te"; al contrario: solo allora lei prende coscienza della sua situazione unica e personale, dinanzi all´amore immenso e immeritato di Dio manifestato in Gesù, che egli chiama "Signore": colui che da un momento all’altro le ha aperto un cammino nuovo e pieno di speranza, dopo essersi vista alle porte di una morte ignominiosa, "Nemmeno io ti condanno. Vattene, e non peccare più "(Gv 8, 3-11).
Infine, lo stesso evangelista ci presenta l´incontro finale di Gesù risorto con Pietro: Gesù non vuole rinfacciare all´apostolo il suo vergognoso tradimento: ciò che gli interessa è offrirgli il suo amore, e rinnovare. ancora una volta, la sua fedeltà: "Signore, Tu sai tutto,: Tu sai che ti amo "(Gv 21, 17).
Possiamo concludere questa parte della nostra riflessione sottolineando: in ogni parte, il suo modo di parlare "con autorità" e il contenuto del suo messaggio, incentrato sul Regno di Dio che è "Abba", Padre; le sue azioni miracolose, la maggiore delle quali è il perdono dei peccati; i suoi incontri personali suscitano la domanda: "Chi è costui?", domanda che è sempre orientata verso Dio. Gesù appare come il "luogo" in cui Dio manifesta il suo amore, il suo perdono e la sua salvezza. Non siamo lontani dalla frase che l´evangelista Giovanni ha messo in bocca a Gesù, durante l´ultima Cena : "Da tanto tempo sono con voi, e non mi conosci, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre" (Gv 14, 9). Una convinzione riflessa, in modo straordinario, nella 1ª Giovanni: "Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita - poiché la vita si è fatta visibile, noi l´ abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi -, quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo" (1 Gv 1 , 1-3).
3.- “…abbiamo conosciuto l’amore che Dio ha per noi, e abbiamo creduto in Lui...” (1 Gv 4, 16)
Non possiamo restare qui, indubbiamente; sia rispetto la storia di Gesù, sia riguardo l’identità della nostra fede cristiana. Senza dubbio, la sua morte violenta in croce come bestemmiatore e criminale, screditato dai capi del popolo e apparentemente dallo stesso Dio, ha causato una crisi radicale in coloro che credevano in lui, a partire dagli stessi discepoli: "" Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele ... "(Lc 24, 21).
A questo riguardo, il Rettor Maggiore scrive:
Per comprendere meglio cosa significa la Risurrezione di Gesù è necessario –paradossalmente- prenderne sul serio la morte (…) Non mi riferisco solo al fatto, totalmente reale, della passione e morte del Signore, ma anche a quel che implicava per la mentalità giudaica.
Per il popolo di Israele, Dio si manifesta attraverso gli avvenimenti della sua storia e della storia universale. Nel caso concreto di Gesù, la sua morte in croce significava, per un giudeo, che Dio non stava dalla sua parte: che non ne avallava la pretesa messianica e meno ancora la pretesa filiazione divina. Finché non si riflette su questo fatto, non si prende sul serio, dal punto di vista teologico, la morte di Gesù in croce. Di conseguenza, i discepoli di Gesù non si aspettavano più nulla dopo la sua morte: chi parla di ‘allucinazione’ o semplicemente dice che essi ‘videro quel che speravano di vedere’, oltre ad ignorare la concretezza delle persone del popolo, minimizza o persino ignora questo tratto fondamentale dell’israelita.[5]
Nella sua lettera sulla "Cristologia salesiana", D. Pascual cita una bellissima omelia di Gerhard von Rad, che commenta l´incontro di Maria Maddalena con Gesù risorto. [6] A proposito dell’espressione: " Maria stava all’esterno vicino al sepolcro e piangeva ...", il grande biblista tedesco scrive:
Maria, cari fratelli, aveva motivo di essere triste; sì, si può dire che in tutto il mondo non vi è nessun altro motivo più di questo, per essere così disperatamente triste: ha perso il Signore, Cristo. Lei aveva sentito la sua chiamata, aveva vissuto con lui, aveva trovato la serenità alla sua presenza, per poi finire tutto in una grande catastrofe. Si era rotta la sua speranza e la sua consolazione, il senso della sua esistenza, come ci piace dire oggi. Non era stato altro che un gioco, una bella illusione (...) Nessun altra delusione che possa sperimentare l´uomo nella tua vita può essere paragonata all’abbattimento e alla terribile delusione dei discepoli di Gesù dopo la sua morte[7].
Solo prendendo sul serio la morte del Signore, possiamo basare la nostra fede cristiana sulla sua risurrezione, azione trinitaria per eccellenza: Dio ha risuscitato Gesù per la forza del suo Spirito. Non possiamo, ovviamente, trattenerci ad approfondire questo Mistero centrale della nostra fede, del quale dice San Paolo: "Se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede: voi siete ancora nei vostri peccati" (1 Cor 15, 17).
Invece, in relazione al nostro argomento, ci interessa sottolineare che la risurrezione di Gesù costituisce la chiave di lettura definitiva per comprendere sempre più pienamente, sotto la guida dello Spirito Santo, tutta la vita e l´azione di Gesù durante la sua vita pubblica ("pre-pasquale").[8]
Alla luce della sua risurrezione, si va delineando, sempre più chiaramente, la risposta alla domanda: "Chi è costui?". E così, sorgono due grandi linee, che vanno in qualche modo identificandosi:
- in Gesù “abitava” in pienezza, già dalla sua vita terrena, lo Spirito di Dio. Così lo annunzia Pietro, nella casa del centurione Cornelio: “Voi conoscete ciò che è accaduto in tutta la Giudea, incominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni; cioè come Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazaret, il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui” (At 10, 37-38).
- Nello stesso tempo, e non solo come continuazione della precedente maniera di intendere il mistero di Gesù, va prendendo forma la convinzione che Gesù è l’inviato del Padre: una convinzione della comunità primitiva che si manifesterà già matura nel vangelo di Giovanni, però che appare molto precocemente (contrariamente a ciò che alcune correnti esegetiche e teologiche sostengono). Circa il testo neotestamentario più impressionante, l’inno che San Paolo presenta nella lettera ai Filippesi (Fil 2, 5-11), Martin Hengel (citato molte volte da Joseph Ratzinger nella sua opera su Gesù di Nazaret) scrive:
In occasione della festività della Pasqua dell’anno 30 un giudeo di Galilea viene crocifisso a Gerusalemme sotto l’accusa di avere avanzato pretese messianiche. All’incirca 25 anni dopo, Paolo, un tempo fariseo, in una lettera indirizzata ai membri della comunità messianica da lui fondata nella colonia romana di Filippi cita un inno avente per oggetto questo Crocifisso (…) La discrepanza tra la morte infamante di un delinquente politico giudeo e quella professione di fede, che presenta questo giustiziato con i tratti e la natura di un Dio preesistente che si fa uomo e si umilia fino alla morte d’un servo, questa che, a quel che mi resulta, ha costituito anche per il mondo antico una discrepanza priva di riscontri analogici, getta la sua luce sull’enigma della genesi della cristologia nella chiesa primitiva (…) Onde si ha la tentazione di affermare che nel giro di neanche due decenni il fenomeno cristologico è andato incontro ad un processo le cui proporzioni sono maggiori di quelle più tardi raggiunte durante i successivi sette secoli, fino al compimento del dogma della Chiesa antica.[9]
Il processo al quale alludeva Hengel, che porterà alle grandi dichiarazioni dogmatiche dei Concili dei primi secoli della Chiesa, è troppo complesso per poterlo sintetizzare in poche parole. Ciò che possiamo dire è che la domanda sul mistero del vero Dio e sull’identità più profonda di Gesù vanno totalmente unite: ancor più, sono interdipendenti, dal momento che, come dice San Giovanni nella sua prima lettera, “abbiamo conosciuto l´amore che Dio ha per noi e crediamo in lui. Dio è amore, e chi rimane nell´amore rimane in Dio e Dio in lui " ( 1 Gv 4 , 16). Non si tratta di una "definizione filosofica" astratta su Dio, ma , come dice Eberhard Jüngel [10], è la sintesi più perfetta dell’ "evento Cristo". Da un lato, cresce sempre più la convinzione che "Gesù non può non essere Dio", se prendiamo sul serio che ci ha rivelato, in forma definitiva, il volto del vero Dio, l´amore di un Dio che è "Abbà" "Papà"; ma, proprio per questo motivo, non è possibile ignorare che il segreto più profondo della sua esistenza è appunto quella di essere Figlio (per cui , "diverso" da Dio): "Se mi amaste , vi rallegrereste che io vado dal Padre, perché il Padre è più grande di me "(Gv 14 , 28). D’altra parte, il "protagonista" della Chiesa primitiva è lo Spirito Santo, che Gesù risorto ha inviato da parte del Padre; e come dicevano i grandi Padri della Chiesa greca, "come potrebbe santificarci/divinizzarci lo Spirito Santo, se egli stesso non è Dio?". Certo, nemmeno lo Spirito Santo è il Padre. Questo apparente impasse è stato fonte di molte speculazioni eretiche, fino a giungere alla definizione dogmatica nei Concili di Nicea ( 325 ) e di Costantinopoli (381) .
La verità centrale della nostra fede, il Mistero di un Dio Trino e Uno, che è Amore nella perfetta unità di Padre, Figlio e Spirito Santo, ha la sua radice più profonda nel mistero di Cristo, il Figlio di Dio fatto Uomo. Finisco questa parte con un bellissimo testo di un grande teologo cattolico belga, il domenicano Edward Schillebeeckx:
Il Dio vivente non è dunque che l’Infinito, l’Incomprensibile? Non potremo mai indicarlo a dito in questo mondo e dire: Dio è là?
Quando i bambini fanno corona al presepio ed esclamano con gioia: ‘guarda l’asinello’, ‘e la stella’, ‘oh, i re magi coi loro doni’, ‘e i cammelli’, ‘e Gesù Bambino”…, il credente china la testa: ‘…Dio è là’. Lui, il Dio vivente, sa che la sua presenza infinita, che tutto comprende e che da tutto traspare, è profondamente oscura per l’uomo, il quale desidera per questo trovarlo in qualche luogo al proprio livello, mostrarlo a dito, poter suggerire in qualche modo a quelli che lo cercano: ‘fuoco!’, ‘acqua!’, come fanno i bambini quando giocano, a seconda che uno si avvicina o si allontana dall’oggetto cercato. Dio conosce il cuore umano. L’infinito si è fatto finito nel Cristo Gesù. Adesso Dio è in mezzo a noi sotto una forma finita, sotto una forma che noi possiamo veramente incontrare: nella casa del pubblicano Zaccheo, presso il pozzo di Giacobbe o sulla cima di quel monte; ieri, egli è venuto qui, oggi è partito per Gerusalemme. Egli è nel tempio o nell’orto, a sud della città. Egli è là… sulla croce. Noi non possiamo concepire pienamente la presenza incommensurabile di Dio che quando essa si ‘temporalizza’ secondo i nostri limiti, quando viene a stabilirsi accanto a noi, prendendo un volto e parlandoci, quando viene a vivere al nostro fianco così che si possa avvertire come un uomo, ma come un uomo che non si era mai visto.
In verità, tutto ciò non elimina il mistero di Dio. Neanche il Cristo ci ha mostrato Dio talmente in se stesso, da sopprimerne il mistero. Certo, egli ci ha mostrato Dio, ma ha soprattutto mostrato quel che è un uomo totalmente consacrato a Dio, al Padre invisibile[11].
4.- “…se ci amiamo l’un l’altro, Dio rimane in noi” (1 Gv 4, 12)
Ricapitolando l’itinerario della nostra riflessione, abbiamo cercato di percorrere il cammino della Chiesa, dal primo incontro con Gesù di Nazareth, il predicatore itinerante della Galilea, mettendoci al posto dei suoi contemporanei. E’ necessario adesso ritornare alla nostra realtà attuale, spero arricchiti di questo viaggio nello spazio e nel tempo, per chiederci: come possiamo essere discepoli e testimoni del ‘Dio di Gesù Cristo’, oggi? E più specificatamente: come possiamo esserlo, in quanto Famiglia Salesiana?
La Chiesa oggi ci invita a vivere un cammino di “nuova evangelizzazione”. Molte volte, erroneamente, si intende questa “novità” come rifiuto del passato, mentre in realtà si tratta di rinnovare, cioè, tornare alle nostre radici, per riprendere l’impegno di essere testimoni e apostoli: inviati a dare testimonianza, con la nostra vita e con la nostra parola, dell’amore di Dio manifestato in Gesù. Mi sembra –come una opinione molto personale- che i tempi in cui viviamo, certamente molto diversi rispetto a qualsiasi epoca del passato, paradossalmente ci presentano la stessa sfida della comunità primitiva: presentare un Dio “credibile”, a partire dalla radicale umanità del Signore. A questo proposito, ci orienta una frase geniale di sant’ Agostino: Per hominem Christum tendis ad Deum Christum[12].: “Per mezzo dell’Uomo Cristo, tendi al Cristo Dio”. Mi pare che coincide con il programma del Santo Padre Francesco, come orientamento del suo pontificato. Considero che, anche tra noi cristiani, soprattutto riguardo i giovani, possiamo applicare quello che Steiner dice su Dostoievski, commentando la frase agostiniana: “A differenza di Tolstói, Dostoievski era ardentemente persuaso della divinità di Cristo, però questa divinità muoveva la sua anima e attirava la sua intelligenza con estrema forza attraverso il suo aspetto umano”[13]. No si tratta di “diminuire” l’esigenza cristiana, adattandoci con l’accettazione (molte volte più sentimentale che razionale) di un Gesù, “Uomo perfetto”; ma piuttosto di indicare il possibile punto di partenza, soprattutto per coloro che sono lontani dalla Chiesa e anche da Dio, forse perché rigettano – con una certa ragione – un’immagine non adeguata del Dio di Gesù Cristo: sono il primo a dire che essere cristiano è credere in Gesù Cristo, Figlio di Dio incarnato.
Si si replicasse che sembra troppo “secolare” questo punto di partenza, bisognerebbe ricordare la stessa parola del Signore: “In questo conosceranno tutti che siete miei discepoli: se vi amerete gli uni gli altri” (Gv 13, 35): non allude a nessun aspetto “religioso” o dogmatico, ma alla prassi concreta dei cristiani.
La realtà umana e storica di Gesù, in quanto Figlio di Dio fatto Uomo, implica anche il suo collocamento nello spazio e nel tempo. Dall’ascensione, la sua presenza reale e viva tra noi è oggetto di fede (incluso la sua presenza eucaristica): ora non lo vediamo, non lo udiamo, non lo tocchiamo, come lo hanno fatto i suoi contemporanei in Palestina. Come continua, allora, il piano di salvezza di Dio nel nostro mondo? Di nuovo Dio diventa semplicemente il Dio inaccessibile, l’ “Abisso insondabile” del quale parlavano gli gnostici?
In due occasioni, san Giovanni utilizza una frase terribile: “Dio nessuno lo ha mai visto” (Gv 1, 18; 1 Gv 4, 12). Certamente, in ambedue i casi la forza di questa espressione è funzionale all’accentuazione della contrapposizione che segue. La prima volta dice: “…il Figlio Unigenito, che è nel seno del Padre, ce lo ha manifestato” (Gv 1, 18). Invece, la seconda volta aggiunge: “se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e il suo amore giunge in noi alla perfezione” (1 Gv 4, 12). Che meraviglia constatare che la stessa missione di Gesù è la missione della Chiesa, di tutti quelli che ci chiamiamo cristiani; e, nella Chiesa, con un metodo specifico e dei destinatari preferenziali, è la missione della Famiglia Salesiana, che ci ha lasciato, come preziosa eredità, san Giovanni Bosco.
In certo senso, dovremmo anche poter dire, con Gesù e come Lui: “Chi vede noi, come comunità che vive nell’amore e che promuove la fraternità nella costruzione del regno, vede Dio”. Questo è il senso più profondo di quella che il Rettor Maggiore ci ha dato in questo anno, 2014, come Strenna: “la gloria di Dio e la salvezza delle anime”.
La "gloria di Dio" non ha nulla a che vedere con un trionfalismo obsoleto, e ancor meno con un orgoglioso "narcisismo" divino. Partendo dalla etimologia della parola, sia in ebraico che in greco (kabod-doxa), indica il desiderio che Dio si faccia sentire nel nostro mondo, si manifesti in modo visibile, udibile, palpabile. Lo ha fatto già, una volta per tutte, in Gesù Cristo; e ci invita a continuare questa affascinante missione. Forse più di una volta abbiamo sentito, dalle labbra di una persona: "Non posso credere in Dio, perché io non l’ho mai visto, né mi sono incontrato con Lui"; invece di rimproverarlo, o dare una lezione di teologia sulla invisibilità e inaccessibilità di Dio, non dovremmo pensare che, in fondo, stanno rinfacciando a noi cristiani di non compiere la missione che Gesù ci ha affidato?
Sant´Ireneo l’ha detto, in modo insuperabile: "la gloria di Dio è l´uomo vivente". Tradotto salesianamente, suonerebbe così: "La gloria di Dio è che i nostri giovani, soprattutto i più poveri e abbandonati, abbiano la vita, e l´abbiano in abbondanza (= la salvezza delle anime)".
5.- Conclusione
La contemplazione di Gesù, nella sua radicale umanità, nella quale manifesta al massimo l´Amore di Dio nel condividere in tutto la nostra esistenza, non può non culminare che contemplando Colei che ha reso possibile, per opera dello Spirito Santo, l´Incarnazione: la Beata Vergine Maria. Se san Giovanni ha potuto dire: "Quello che abbiamo visto, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo toccato ...": in un modo unico può dirlo colei che gli ha dato la carne della sua carne e il sangue del suo sangue.
C´è un testo toccante, anche se poco conosciuto, che descrive questa vicinanza unica di Maria con Gesù: nientemeno che di Jean-Paul Sartre, in un’opera teatrale composta in un campo di concentramento a Treviri, nel 1940, della quale René Laurentin dice: "Sartre, ateo dichiarato, mi ha fatto vedere meglio di chiunque altro, se io escludo i Vangeli, il mistero del Natale"[14].
Quello che bisognerebbe dipingere, del suo volto, è una meraviglia ansiosa che appare solo una volta in una figura umana, perché il Cristo è suo figlio, carne della sua carne e frutto del suo ventre. Ella lo ha portato per nove mesi, gli donerà il seno e il suo latte diventerà il sangue di Dio. Ma, per il momento, la tentazione è tanto forte da farle dimenticare che egli è Dio: lo serra tra le sue braccia, lo chiama: ‘Piccolo mio!’. Ma, in altri momenti, essa resta interdetta e pensa: ‘È Dio!’. (…) Ma io penso che vi sono altri momenti, rapidi, sfuggenti, nei quali lei sente insieme che Cristo è suo figlio, il suo piccolo, e che egli è anche Dio. Ella lo guarda e pensa: ‘Questo Dio è il mio bambino, questa carne divina è la mia carne, è fatta di me stessa, ha i miei occhi, e questa forma della sua bocca è la forma della mia bocca. Mi rassomiglia’. Nessuna donna ha ricevuto il suo Dio tutto per sé, in questo modo: un Dio tanto piccolo che si può prendere tra le braccia e coprire di baci, un Dio caldo che sorride e respira, un Dio che si può toccare e ride. Ed è in uno di questi attimi che io ritrarrei Maria, se fossi pittore. E cercherei di rendere l’aria di coraggio tenero e timido con cui protendeva il dito per toccare la dolce pelle di quel piccolo Bambino-Dio, di cui sentiva sui ginocchi il piede tiepido, e che le sorrideva[15].
Tuttavia, non possiamo fermarci qui: qui inizia un cammino di fede così profondo, così radicale e - non possiamo negarlo - tanto doloroso, come nessun altro credente ha vissuto. Questa vicinanza, unica, di Maria con Gesù non sostituisce la sua fede, ma al contrario: la esige, sempre più incondizionata, nella misura in cui la realtà sembra che vada sgretolando le attese umane, materne, ebree di Maria, fino a giungere al momento culminante: la croce. Il Rettor Maggiore scrive: "Nel momento cruciale della vita di Gesù (...) troviamo Maria ai piedi della croce: si tratta di tre versetti d´una densità sorprendente (Gv 19, 25-27). (...) Oso riferire alla Madre del Signore l’espressione del vangelo di Giovanni (Gv 3, 16) riguardo a Dio Padre: “Maria ha tanto amato il mondo, da dargli il proprio Figlio”[16].
La Santissima Vergine Maria Immacolata Ausiliatrice è il nostro Modello nella realizzazione della nostra Missione Salesiana: portare Gesù a tante ragazze e ragazzi, a tanti nostri fratelli e sorelle, in ogni parte del mondo, che ci supplicano: Vogliamo vedere Gesù! (Gv 12, 21).
[1] Cfr. WALTER KASPER, citando a ADOLF HOLL, Jesus in schlechter Gesellschaft, en: Jesús, el Cristo, Salamanca, Ed. Sígueme, 2002, 11ª Ed., p. 144.
[2] Tutti gli articoli del Bollettino Salesiano (pubblicati nelle diverse lingue) sono stati raccolti e pubblicati insieme nel volume: PASCUAL CHÁVEZ V., Vogliamo vedere Gesù, Torino, ELLEDICI, 2011. Il testo citato è a p. 22.
[3] Ibidem, p. 22-23.
[4] Conviene ricordare che i profeti non solo realizzano la loro missione verbalmente, ma anche con azioni simboliche: soprattutto in Geremia e in Ezechiele.
[5] D. PASCUAL CHÁVEZ, Vogliamo vedere Gesù, p. 51.
[6] D. PASCUAL CHÁVEZ, Contemplare Cristo con lo sguardo di Don Bosco, Roma, ACG 384 (2004), p. 27. Il testo di Von Rad qui citato non si trova nella Lettera.
[7] GERHARD VON RAD, Sermones, Salamanca, Ed. Sígueme, 1972, p. 23-24.
[8] Cfr. WOLFHART PANNENBERG, Esquisse d’une Christologie, Paris, Les Éditions du Cerf, 1971, p. 74-76: “Se Gesù è risorto, per un giudeo questo può significare solo che Dio stesso ha approvato l’atteggiamento pre-pasquale di Gesù (…) Se Gesù, risuscitato dai morti, è asceso a Dio, e così ha inaugurato la fine del mondo, Dio si è rivelato definitivamente in Gesù”.
[9] MARTIN HENGEL, Il Figlio di Dio, Brescia, Paideia, 1984, pp. 17-18.
[10] EBERHARD JÜNGEL, Dio Mistero del Mondo, Brescia, Queriniana, 2004, 3ª Ed., p. 410ss.
[11] EDWARD SCHILLEBEECKX, Dio e l’Uomo, Roma, Ed. Paoline, 1967, pp. 21-23.
[12] Citado en: GEORGE STEINER, Tolstói o Dostoievski, Madrid, Ed. Siruela, 2002, p. 296.
[13] Ibidem, p. 296-297.
[14] Citato nella Presentación, fatta da JOSÉ ANGEL AGEJAS, di: JEAN-PAUL SARTRE, Barioná, el Hijo del Trueno, Madrid, Vozdepapel, 2006, p. 15.
[15] La citazione (in italiano) è presa da: ANTONIO MARIA SICLARI, Ci ha chiamati amici, Milano, Jaca Book, 2001, p. 45
[16] D. PASCUAL CHÁVEZ, ‘Ecco la tua Madre!’ (Gv 19, 27). Maria Immacolata Ausiliatrice, Madre e Maestra di Don Bosco, en: ACG 414 (2012), p. 32 (cfr., más ampliamente, 22-33).
UNA SPIRITUALITÀ SALESIANA TARGATA LAICI
Roberto Lorenzini SS CC
Premessa
Vorrei riflettere con voi sul dono che Don Bosco ha fatto ai tanti laici non consacrati della Famiglia Salesiana che si sono messi in gioco con lui, accogliendo come riferimento di vita la sua spiritualità: dai Salesiani Cooperatori, ai Devoti di Maria Ausiliatrice, alle Exallieve ed Exallievi, agli amici di Don Bosco e a tutti coloro che, a diverso titolo, fanno parte del vasto Movimento Salesiano.
Mi piace pensare a questi laici come ai buoni cristiani e onesti cittadini realizzati secondo il modello di persona sognato da Don Bosco.
In questa esposizione farò riferimento alla presentazione della Strenna 2014 del Rettor Maggiore, al dossier di Pastorale Giovanile del giugno 2013 che ne approfondisce alcuni aspetti (in particolare i contributi di Bissoli, Séïde, Garcia ed Errico), del fascicolo “Educatori di santi” di Don Giuseppe Casti, Delegato mondiale dei Salesiani Cooperatori, del testo “Suoi testimoni” del Salesiano Cooperatore Nino Sammartano, e del volumetto “Testimoni dell’alleanza”, autore Don Joseph Aubry con Vittoria e Roberto Lorenzini.
Agganciati alla dinamica interiore di Don Bosco
Rispondere all’amore di un Dio che ti ama immensamente è la via per una santità possibile a tutti. Lasciarci penetrare da questo amore fino al punto che non possiamo più tenerlo per noi per condividerlo con tutti, questa è la dinamica della carità pastorale che ci spinge a lievitare evangelicamente i nostri ambienti di vita a partire dalla nostra famiglia fino ad allargarci ai giovani e al prossimo più sfortunato in cui vediamo l’immagine stessa di Gesù (cfr Strenna n. 2).
Nella presentazione della Strenna 2014 il Rettor Maggiore esordisce affermando che “La spiritualità salesiana non è diversa dalla spiritualità cristiana”. Perché? Perché hanno la stessa radice che è la carità, ossia la vita stessa di Dio a cui Don Bosco ha attinto attraverso il volto di Gesù, buon Pastore.
Certo colpisce constatare come per Don Bosco sia stato così naturale vivere di soprannaturale. Contemplando la presenza amorosa di Dio tra le maglie della sua vita quotidiana, egli trasformava l’unità con il suo Signore in dinamica di vita, tutta spesa per i suoi giovani, i poveri, gli ultimi. Un’azione intrisa di preghiera, una preghiera intrisa di azione.
Cosa significa per noi laici vivere questa dinamica interiore? È Don Bosco stesso a metterci sulla strada di una risposta: “Mediante il lavoro potete rendervi benemeriti della Società… e far del bene all’anima vostra, specialmente se offrite a Dio le quotidiane vostre occupazioni” (OE XXIX 68-69). In altre parole ci invita ad accogliere questa presenza di Dio nelle occupazioni ordinarie e negli impegni della nostra giornata, facendo di Cristo il criterio della nostra azione.1
Tralci uniti all’unica vite
Della spiritualità laicale ce ne parla magnificamente la “Christifideles laici” (1988), ma la riflessione a partire da Don Bosco ci aiuta a coniugarla in modo tale da fecondare salesianamente ogni ambiente di vita: giovanile, familiare, ecclesiale, sociale... (cfr Strenna n. 3). È una spiritualità che, attingendo da un rapporto cuore a cuore con Dio, ci impegna a donare pienezza di vita per la sua gloria, nella convinzione primaria che “la gloria di Dio è l’uomo vivente” (cfr Strenna n. 4).
Per noi laici l’unione con Dio Padre costituisce la condizione del nostro impegno apostolico: tralci uniti all’unica vite. I dinamismi dello Spirito ci conducono verso un orientamento unitario, quello dell’agape, assumendo il disegno di salvezza del Padre come progetto unificante della nostra vita.2
La preghiera diffusa, la meditazione della Parola, la vita sacramentale diventano sorgente di forza che alimenta il desiderio di cooperare all’edificazione del Regno di Dio, trasformando la vita in preghiera e la preghiera in vita perché, come afferma Martha Séïde, “tutto può diventare preghiera per chi ha un’accurata, abituale e intensa vita di preghiera” (NPG n. 6-2013 p. 47).
Vivere alla presenza di Dio è un caposaldo della spiritualità di Don Bosco.3 Così l’incontro col Risorto ci trasforma a tal punto che non possiamo più credere che il male sia più forte del bene e questo ci dà la forza di impegnarci e lottare, facendo della speranza la virtù del laico per eccellenza, perché sappiamo che lo Spirito del Risorto ci precede sempre ed è presente e operante nella storia.4
Chiamati alla santità
Forti di questa consapevolezza e carica interiore, a che cosa sono chiamati i laici che fanno riferimento a Don Bosco?
Incarnare l’amore che Dio “ha riversato nei nostri cuori” (Rm 5,5) significa accogliere quella carità di Cristo che ci travolge e ci spinge alla lievitazione evangelica del nostro ambiente di vita, facendo dono di noi stessi in maniera generosa e disinteressata. In altre parole questo equivale a puntare decisamente verso la santità.5
In questo arduo compito non ci nascondiamo i nostri limiti, le nostre fragilità, le difficoltà, gli insuccessi, ma è proprio qui che Gesù, il Risorto, ci incoraggia: “Io sono con voi tutti i giorni“ (Mt 28,20) o, come diceva a Paolo, “Ti basta la mia grazia” (2 Cor 12,9), tanto da fargli esclamare: “quando sono debole, è allora che sono forte” (2Cor 12,10). Anche le difficoltà hanno un senso se Paolo assicura che in Cristo “la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza” (Rm 5,3-4).
Per ciascuno di noi ogni attimo della vita può rappresentare un punto d’incontro con Dio. È la mistica della vita ordinaria vissuta in modo straordinario cogliendo i passi di Dio che si fa presente al nostro fianco. “Occorre - secondo Martha Séïde - educarsi ed educare all’attenzione per fare di ogni istante della vita un momento d’eternità: amore per Dio e per l’umanità” (NPG n. 6-2013 p. 49). Siamo chiamati a farci discepoli di Maria che visse in speciale compenetrazione, sia la contemplazione che il servizio. Chi vive questa “grazia di unità”, tipica della spiritualità salesiana, è avviato su un sicuro cammino di santità.
D’altra parte, la tentazione di pensare che i risultati dipendano dalla nostra capacità di fare e programmare è vinta dall’adesione alle parole di Gesù: “Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5). Confidando in questo legame con Gesù, da re, sacerdoti e profeti per il dono del Battesimo, offriamo a Lui tutte le nostre fatiche e il nostro impegno.6 È indubbio che questo ci chiama a una presa di distanza dalla mentalità di questo mondo, e sta proprio qui la nostra ascesi.7
Una spiritualità che vuole incidere nel sociale
Una spiritualità così intesa ci chiama a coniugare la fede in Dio e la fedeltà all’uomo per diventare speranza per il mondo…8 Ci impegna alla realizzazione del bene comune incidendo sul sociale e sul politico… perché tutto ciò che è umano è luogo di esperienza e di incontro con il Signore della vita.9
Questa spiritualità sulle orme di Don Bosco, fa sì che il “buon cristiano” si invera nelle sue responsabilità di “onesto cittadino” dedito a cercare vie e modi nuovi per trapiantare la genialità di Don Bosco nella vita pubblica, nel mondo della cultura, della politica, della vita sociale.10 È il laico dedito alla salvezza della sua anima attraverso le sue responsabilità di cittadino11 convinto, come riportava un Bollettino Salesiano del 1883, che “lavorare all’educazione della gioventù più abbandonata è dare gloria a Dio e cooperare al benessere della civile società” (cfr BS a.VII, 1883, n.7. p. 104).
A noi laici sono stati rivolti appelli ragguardevoli verso questo impegno sociale: il Rettor Maggiore al Congresso mondiale dei Cooperatori del 2012 ci pregava di “uscire dalle sacrestie” e recentemente gli faceva eco Papa Francesco sollecitandoci a “uscire dai cenacoli”.
Quello che Don Bosco intendeva col “giovare alla civile società” in definitiva è per noi l’obiettivo di lavorare alla costruzione di un mondo veramente umano, nel senso dell’umanesimo cristiano e salesiano di San Francesco di Sales, per una piena realizzazione delle persone.
Da cristiani e cittadini impegnati nel mondo
Se la spiritualità di Don Bosco ci anima come preziosa eredità, ciò non significa che l’onesto cittadino del Terzo Millennio abbia i connotati di quello di fine Ottocento, quando il suo ruolo si riduceva per lo più ad obbedire alle leggi, non dare problemi alla giustizia e… sostanzialmente pensare ai “fatti propri”.13
Oggi, grazie al cammino della Chiesa nel campo della Dottrina sociale, dalla “Rerum Novarum” di Leone XIII del 1891 alla “Caritas in veritate” di Benedetto XVI del 2009, cammino fecondato dal Concilio Vaticano II, la costruzione di un giusto ordinamento sociale è diventato un compito per ogni cristiano, basato sul primato della coscienza, corroborato da studio, preghiera, dedizione, collaborazione, fatica, costanza… e talvolta accettazione dello scacco.14
È la Lumen Gentium ad affidare ai laici il compito prioritario di animare cristianamente le realtà temporali: “Cercare il Regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio” (LG 31).15 Non sembra proprio lontano Don Bosco da questa visione del laico quando ci spinge a “lavorare per il Regno facendo del bene alla civile società”! (Reg. Coop. DB 1876). È la prospettiva del bene sociale, del bene comune. È, per così dire, la traduzione in un’ottica sociale, non solo pastorale, della spiritualità del “da mihi animas”. È il compito, per noi laici di stampo salesiano, attraverso l’impegno sociale e civile, istituzionale e di volontariato, di cercare l’uomo, il bene dell’uomo: di ogni uomo e di tutto l’uomo, nella varietà dei suoi bisogni: materiali, affettivi, culturali e spirituali. Perché l’uomo, come ci ha insegnato Giovanni Paolo II, è “via della Chiesa”; l’uomo, ogni uomo e tutto l’uomo, è “un bene comune: bene comune della famiglia e dell’umanità, dei singoli gruppi e delle molteplici strutture sociali” (Giovanni Paolo II, Lettera alle famiglie, 11).
Nel laico i valori cristiani, laicali e salesiani si fondono armoniosamente e sono vissuti in pieno mondo per “diffondere l’energia della carità” (MB XVIII 161).16 Da queste affermazioni risulta chiaro che l’impegno dei laici cristiani negli ambienti secolari è un’efficace quanto preziosa forma di evangelizzazione.17
I campi di azione del laico salesianamente orientato
Quali sono, allora, i campi di azione, i più “caldi” almeno, del laico salesianamente orientato? Considero scontato che la dimensione educativa è il denominatore comune della sua presenza in tutti gli ambiti sociali con la caratteristica donboschiana della capacità di “amare e di farsi amare”.
Non mi soffermo dunque sul settore educativo, centralissimo e privilegiato, tipico degli oratori, della scuola, ma piuttosto su un ambito che merita la nostra riflessione di laici: la famiglia.
Due sposi sono chiamati a testimoniare la bellezza dell’amore fedele, fecondo, donato e ricevuto come espressione di una donazione totale.18 Ed è bello vedere nell’amore di due sposi l’espressione dell’agape di Dio Padre. E perché questo? Perché Dio è comunione di Persone. Spesso nell’Antico Testamento viene presentata l’alleanza tra Dio e il suo popolo come un patto di amore nuziale che, mentre esprimeva, direi plasticamente, l’innamoramento di Dio per l’umanità, diceva qualcosa di importante sulla relazione matrimoniale; e cioè che essa non consiste in un semplice contratto ma in un’alleanza per la quale ci si gioca la vita, alla quale si resta fedeli costi quel che costi, perché così è l’amore di Dio Padre per gli uomini.
Gesù stesso si avvale dell’esperienza dell’amore coniugale per esprimere quanto ama la Chiesa. Nel matrimonio lui è il garante dell’amore e gli sposi sono i testimoni di questa alleanza perché ormai il loro amore è inserito a pieno titolo nella sua opera redentrice.
I laici sposati nel Signore sentono forte l’impegno dell’accoglienza di questa presenza del Signore Gesù, primo invitato alle loro nozze, responsabile della loro felicità. E la prima presenza del Signore viene riconosciuta nel proprio coniuge per il quale si sente la responsabilità della crescita della fede. Così l’amore reciproco diventa segno e portatore dell’amore di Cristo che in questo modo ci apre una via diretta verso la santità. (cfr J. Aubry, Testimoni dell’alleanza, pp. 81-91).
Questo amore che costruisce la chiesa domestica si apre alla fecondità, al dono della vita, all’accoglienza dei figli. E proprio riguardo ai figli Don Bosco ha qualcosa di grande da dirci in rapporto alla loro educazione.
Abbiamo mai pensato agli esiti positivi che può avere il sistema educativo salesiano in famiglia con due genitori alle prese con i figli soprattutto in età evolutiva? La risposta è scontata: il Sistema Preventivo dà un apporto fenomenale e funziona davvero!
Don Bosco stesso voleva che il vissuto delle sue case fosse permeato dallo “spirito di famiglia”. Ricordiamo la splendida, e per certi versi inquietante, “Lettera da Roma” del 1884 che richiama alla paternità dell’educatore, alla confidenza e familiarità con l’educando, al clima di gioia, di festa, di preghiera, di impegno e responsabilità: tutti elementi che ben si addicono non solo all’oratorio ma anche alla famiglia intesa come comunità educante.
Questo spirito di famiglia, invece, è oggi spesso a rischio, proprio nelle famiglie. E qui noi laici salesiani siamo chiamati a incarnarlo nelle relazioni familiari con la spiritualità del “non basta amare”.
Mi viene in mente l’esperienza e la documentazione immensa che il movimento degli Hogares Don Bosco mette a disposizione come un dono in Spagna, e non solo in Spagna, sulla vita di coppia, l’educazione dei figli e l’impegno ecclesiale e sociale della famiglia.
Penso anche al sito internet “www.ilgrandeeducatore.com” (e chi è il grande educatore se non Don Bosco!), in cui un gruppetto di laici, con altri amici della Famiglia Salesiana, propone ai genitori, anche attraverso una rivista, come essere “educatori di vita”, mettendo a disposizione gli stimoli educativi di Don Bosco e della vasta pubblicistica salesiana fino ai più recenti contributi. È una miniera enorme a cui attingere che svela quanto sia ricca la pedagogia salesiana per i laici che vogliono educare in famiglia, e non solo, con lo stile di Don Bosco.
Teniamo presenti però anche le grandi insidie che attaccano oggi la famiglia. Così l’impegno del laico salesianamente formato si orienta a fare la verità nella visione dell’amore e della sessualità umana, (pensiamo alla limpidezza che Don Bosco chiedeva ai suoi educatori e ai suoi ragazzi), fare la verità nel matrimonio tra un uomo e una donna secondo una visione che coniuga l’amore con donazione, fedeltà, stabilità, apertura alla vita. Senza trascurare poi l’impegno per i diritti dei minori a partire dal riconoscimento della piena dignità umana all’embrione e il diritto di nascere perché è già persona fin dal concepimento: è UNO DI NOI! “One of us!” come proclama la campagna europea, fatta non solo da credenti, per il diritto di ogni embrione alla nascita. Ma pensiamo anche allo sviluppo scientifico delle biotecnologie genetiche quanto ha bisogno di una verità bioetica per scongiurare il rischio che tutto si ritorca contro l’uomo.19
E dalla famiglia il nostro impegno di “onesti cittadini perché buoni cristiani” si allarga alla società. È questo il campo proprio dei laici.
La famosa “lettera a Diogneto”, sulla scorta del vangelo di Giovanni 17 (15-17), ci ricorda che i cristiani sono nel mondo ma non del mondo. Essi svolgono la stessa funzione dell’anima nel corpo: sono luce, sale, lievito… fermento. Questa doppia attenzione aiuta il laico a evitare due atteggiamenti ugualmente distorti: uno spiritualismo disincarnato e un secolarismo schiacciato sulla dimensione terrena.20
E come si orienterà il laico che si riferisce a Don Bosco nell’agire sociale e politico in quest’epoca di profonde tensioni, di globalizzazione e di crisi economico-finanziaria?
C’è un criterio per orientarsi nell’attuale crisi mondiale che si può ricondurre a una profonda crisi antropologica soprattutto nelle culture cosiddette avanzate. Sant’Agostino, in un momento storico altrettanto drammatico quale fu l’epoca del tramonto dell’impero romano, invitava ad aderire in ogni ambito dell’impegno civile alla veritas, ai valori profondi, piuttosto che alla vanitas, all’effimero, all’apparenza, al superficiale. È il primato della coscienza nell’agire sociale.21
Seguire oggi il criterio della verità nell’ambito della politica e delle istituzioni per noi laici significa essere animati da una forte tensione etica rispettosa della partecipazione di tutti ai processi decisionali e rivolta al loro servizio. C’è da distinguere, come osservava acutamente Simone Weil, “coloro che vivono di politica da coloro che vivono per la politica”. Ecco allora l’importanza di aprire corsi e scuole di formazione all’impegno socio-politico secondo la Dottrina sociale della Chiesa, soprattutto per i giovani che vogliono impegnarsi in modo serio nel servizio amministrativo, politico, partitico.
Fare la verità nell’ambito dell’economia significa puntare a un’economia sociale, integrata, di comunione… attenta non solo alla massimizzazione dell’utile, ma anche alla partecipazione di tutti ai beni, al coinvolgimento dei più deboli, alla promozione dei giovani, delle donne, degli anziani, delle minoranze.22 Un’economia che miri al reinvestimento finalizzato a scopi sociali, al rispetto della natura, alla responsabilità verso le generazioni future.
Noi laici, guardando a Don Bosco preparatore di ragazzi al lavoro, alla professione, alla definizione di contratti dignitosi per i suoi giovani, riteniamo il lavoro, a partire dalla nostra professione, come parte integrante della dignità della persona, come realizzazione di sé, come servizio alla comunità, come relazione tra persone, come unione al sacrificio di Cristo: un bene primario da salvaguardare ad ogni costo.
Sul piano della cultura e delle risorse spirituali, il trionfo della veritas ci conduce a ritenere centrale l’educazione dei giovani, la scuola… ma anche la promozione del patrimonio culturale, artistico e religioso.
La nostra vigilanza e impegno per la verità si focalizza in particolare sui mezzi di comunicazione sociale, da quelli più tradizionali a quelli di ultima generazione, per smascherare i modelli negativi che plasmano la mentalità dei giovani e della gente. Il rischio di manipolazione è molto elevato: non ci sono solo gli indici d’ascolto da tenere alti! Ci sono piuttosto i valori da diffondere in modo intelligente.23
La stessa custodia del creato come dono esigente da passare alle future generazioni deve congiungersi a un’attenzione costante nel promuovere quell’“ecologia umana” che è ricerca del raggiungimento del benessere fisico e spirituale di tutta l’umanità, con particolare attenzione ai paesi emergenti e in via di sviluppo.24
Assumere come criterio un’etica della verità vuol dire in definitiva assegnare una priorità indiscutibile verso i più deboli, singoli o gruppi, popoli o interi Paesi, per un’azione attenta a globalizzare la solidarietà, la condivisione, la gratuità. Contro ogni struttura di peccato e di morte.25
Ci consola il fatto di essere in molti nella Famiglia Salesiana a lavorare in rete per questa etica della verità.
Conclusione
Se davvero il laico vuole essere il segno del Regno di Dio tra le persone, trova la sua vocazione nel dono di sé, nel servizio per far crescere quel bene comune che conduce al Bene Assoluto, a Dio.26
Penso che se oggi Don Bosco fosse tra noi ci incoraggerebbe a tentare vie nuove di evangelizzazione anche attraverso quella dedizione sociale e politica considerata da Paolo VI la più alta forma di carità.
Così mentre ci impegniamo a far parte a tutti gli uomini dei beni “penultimi” quali la giustizia, la pace, la libertà, il benessere, la solidarietà… abbiamo la consapevolezza di lavorare all’accoglienza dei beni “ultimi” promessi dal Signore: i beni del Regno.27
Mi piace concludere proponendo a me e a voi un esempio concreto di quanto ho delineato: è la figura del salesiano cooperatore Attilio Giordani di Milano, dichiarato da poco Venerabile.
Attilio ha usato ogni escamotage per coinvolgere i ragazzi e portarli a Dio. “La nostra fede deve essere vita” ripeteva; perciò, prima di recarsi al lavoro alla Pirelli, non rinunciava alla messa delle 6.30. Buon umore e precisione nel lavoro, presenza e allegria in cortile, amore e ottimismo in famiglia: sono alcuni dei tratti distintivi di un uomo che scrive alla sua futura moglie, Noemi: “Il Signore ci aiuti a non essere buoni alla buona, ma a vivere nel mondo senza essere del mondo, ad andare contro corrente...”.
Quando i tre figli sono volontari in Brasile con l’Operazione Mato Grosso, parte anche lui con la moglie per condividere la missione da catechista e animatore. Il 18 dicembre 1972 mentre in una riunione sta parlando con entusiasmo del dare la vita per gli altri: “Mi basta che scegliate nella vita, che non siate passivi davanti alle situazioni”, improvvisamente si sente venir meno e fa appena in tempo a dire al figlio: "Pier Giorgio, ora continua tu". Questo appello oggi lo sentiamo rivolto a noi, laici della Famiglia Salesiana, che in Attilio ammiriamo un laico secolare salesiano a tutto tondo: marito, padre, fenomenale “attuatore” del metodo preventivo, missionario: traccia semplice e potente di un cristiano che si affida e tutto affida all’amore di Cristo.
È mia profonda convinzione che i cieli nuovi e la terra nuova apparterranno a chi, come Attilio, si è impegnato a costruirli qui ed ora “per la gloria di Dio e la salvezza delle anime”.
UNA SPIRITUALITÀ SALESIANA TARGATA LAICAMENTE
Roberto Lorenzini
Salesiano Cooperatore
BIBLIOGRAFIA
1. Pascula Chavez, Presentazione della Strenna 2014. ANS.
2. Cesare Bissoli, Jesús Manuel Garcia, Martha Séïde, Guido Errico,
in Note di pastorale giovanile, 06 Estate 2013. LDC.
3. Giuseppe Casti, Educatori di Santi, Pro manoscripto, 2013.
4. Nino Sammartano, Suoi Testimoni, La Medusa Editrice, 2004.
5. Joseph Aubry, Vittoria e Roberto Lorenzini, Testimoni dell’Alleanza 2, 1983, Edizioni Cooperatori
NOTE
Le note sono solo di confronto (cfr) e non di citazione letterale.
Per praticità riporto solo l’autore facendo riferimento alla bibliografia soprastante.
1 Martha Séïde p. 44
2 Manuel Garcia p. 40
3 Guido Errico p. 53
4 Nino Sammartano p. 93
5 Cesare Bissoli p. 10
6 Nino Sammartano p. 27
7 Nino sammaritano p. 84
8 Manuel Garcia p. 35
9 Martha Séïde p. 48
10 Giuseppe Casti p. 21
11 Giuseppe Casti p. 23
12 Giuseppe Casti p. 54
13 Giuseppe Casti p. 59
14 Giuseppe Casti p. 54
15 Nino Sammartano p. 33
16 Giuseppe Casti p. 76
17 Nino Sammartano p. 34
18 Nino Sammartano p. 55
19 Nino Sammartano p. 57
20 Nino Sammartano p. 88
21 Giuseppe Casti p. 54
22 Giuseppe Casti p. 57
23 Giuseppe Casti p. 58-59
24 Nino Sammartano p. 77
25 Giuseppe Casti p. 58
26 Giuseppe Casti p. 74-75
27 Nino Sammartano p. 94
La carità pastorale:
forma consacrata della libertà ad immagine del Figlio di Dio
Alberto Martelli
Il fascino delle “res gesta”
La vita di don Bosco è facilmente riassumibile in una lunga declinazione del verbo fare.
Dal sogno dei nove anni fino al vestito ormai logoro del 31 gennaio del 1888, la vita del santo è un continuo susseguirsi di cose da fare, campi da arare, libertà da mettere in gioco, morali da trasmettere, insegnamenti da dare, tanto che il metodo più facile e più frequentato per scoprire la sua figura è quello di semplicemente lasciar parlare i racconti, narrare gli aneddoti, segnare su diari quotidiani, come i primi suoi discepoli, i fatti quotidiani di cui si intesseva in modo inarrestabile la sua vita.
Le sue giornate erano come un fiume in piena, come le giornate di un buon contadino, mai con le mani in mano, sempre preso da mille lavori e impegni, sempre con lo sguardo verso ciò che ancora ci aspetta da compiere.
Don Bosco è uomo di azione, uomo che anche quando descrive se stesso e la sua opera, anche quando tenta di tradurla in insegnamenti per i suoi figli salesiani, non può far altro che raccontare una storia e dietro e dentro quei fatti velare e svelare un’idea, un’intuizione, una spiritualità.
Forse anche in questo sta il fascino che esercitava sui giovani: un santo mai fermo, come mai fermi sono i ragazzi, che non predica tanto con la voce, anche se lo faceva, ma che soprattutto ti coinvolgeva in una storia, che diventava a poco a poco la tua storia.
Don Bosco è l’uomo della libertà messa in gioco, non solo la sua, ma anche quella dei suoi ragazzi. Il suo metodo educativo consiste nel creare quell’ambiente preventivo in cui una libertà può essere esercitata e in questo modo crescere fino alla santità. Egli è il predicatore della santità vissuta, giocata, dove le regole per andare in paradiso diventano cose facili da fare, ma che plasmano la libertà del giovane fino a fargli assumere quella particolare forma di vita, del buon cristiano e dell’onesto cittadino, che a parole non si può spiegare fino in fondo, ha bisogno di farsi vedere ed essere vissuta.
Egli ha saputo come pochi altri esprimere quella verità fondamentale che Cristo ci ha insegnato e cioè che la verità è per prima cosa una libertà messa in gioco per il Padre; non un concetto da sapere razionalisticamente, ma una relazione a tutto tondo, un’obbedienza: la libertà, la persona di Cristo stesso che diviene forma ed esempio per ogni altra libertà/persona di questo mondo.
E allora eccolo a nove anni, spaurito nel sogno forse fondamentale della sua vita, che si vede ricevere un campo da arare come simbolo del suo futuro lavoro di educatore; non un libro da leggere, non una predica da imparare a memoria, non delle idee da mettere in pratica, nemmeno dei semplici comandamenti morali, ma un “mestiere” nel senso nobile di “vocazione/missione” da portare avanti con quel sudore della fronte, tenacità e umiltà che lo contraddistingueranno per tutta la vita nel suo abbandono alla Provvidenza.
E ancora una volta questo “fare” investe addirittura il suo modo di vedere Dio, di sentirlo, di vivere la fede, con quella Provvidenza onnipresente del Padre che è appunto l’essere presente di Dio, come il Dio di Mosè al roveto ardente; l’essere presente di una libertà per me, di un fare paterno di Dio nei miei confronti, di un amore divino che non è fatto di parole vuote, perché quando Dio parla crea e la sua presenza è sempre affettiva ed effettiva e sa essere di volta in volta amore, perdono, rimprovero, chiamata, presenza, compito, …
Anche i figli di don Bosco furono tutti presi da questo fare, che però non è un agire senza senso o un attivismo cieco e svuotante, ma sono le nobili gesta di chi ha veramente uno scopo, una verità da dire e da compiere, perché ha la sua radice nel pieno abbandono della libertà nelle mani di quella Provvidenza di cui don Bosco testimonia così bene la affidabilità.
E anche loro, anche noi Famiglia Salesiana, siamo stati tanto presi da questa storia che per alcuni tempi abbiamo forse peccato nel dare troppa importanza al semplice aneddoto, perdendo il vero senso di quei fatti così semplicemente raccontati, illudendoci che per raccontare del padre fondatore bastasse semplicemente dire le cose che ha fatto, mettendo una dopo l’altra le gesta che ha compiuto, in un montare trionfalistico di fatterelli e di storielle.
Ma il fare è un verbo abbagliante e distraente: dice tutto, ma nello stesso tempo, riflesso di una libertà umana non del tutto trasparente alla verità divina a causa del peccato, vela ciò che sta dietro e costringe quasi ad illudersi che “basta fare” e che in quel muoversi di libertà, questa volta senza senso, c’è già tutto.
La triennale preparazione al bicentenario che stiamo vivendo ci ha insegnato, invece, un altro modo di procedere. Siamo partiti dal fare: la vita e la passione educativa di don Bosco, due livelli diversi di azione, che però, se non ben guardati, hanno sempre a che fare quasi con l’esterno, con le cose che appaiono da fuori, con le prassi da mettere in atto; ma finalmente al terzo anno scopriamo che c’è qualche cosa di più di questo, c’è una spiritualità. Se non spingiamo più a fondo il solco del nostro aratro nella vita di don Bosco, al di là di ciò che appare a prima vista, ci perdiamo le zolle migliori e i frutti da ricordare, ci fermiamo ad un vuoto moralismo che non paga e non porta santità.
Carità pastorale: oltre il fare
Questa lunga introduzione perché credo che occorra in qualche modo ricordare le radici più profonde del discorso che stiamo per fare.
È fuori di dubbio ormai che la carità pastorale è al centro del carisma salesiano e della persona stessa di don Bosco. Essa è in qualche modo ormai cifra riassuntiva di tutto il suo operato, di quella forma particolare di santità che egli ha “inventato” nella Chiesa, proprio diventando egli stesso carità del Buon Pastorale per i giovani che incontrava. Essa è anche il centro e il fulcro della radice che ha lasciato a noi suoi figli, ciò che in primo luogo occorre che noi imitiamo se vogliamo riattualizzare oggi la santità del fondatore proprio in questo bicentenario che non è opera di archeologia, ma iniezione di vita e di santità nella nostra Famiglia.
Quando però si inizia a parlare di carità pastorale, chiedendosi lecitamente di cosa si tratta e come viverla oggi, quali gli aspetti che don Bosco ne mise in luce e come oggi tali aspetti sono ancora vita e santità della Chiesa del terzo millennio, forse troppo velocemente il discorso scivola sul “cosa c’è da fare”, sulla piega morale della carità, che se non controllata diventa immediatamente moralistica velleitaria e semplice imitazione esteriore di gesti e gesta che poco hanno però a che vedere col centro del problema.
La carità pastorale non è un insieme di cosa da fare o gesti da portare avanti, non è un elenco di compiti da svolgere o di strategie pastorali o di tecniche educative; essa è innanzitutto una persona, la persona stessa di Cristo. La carità pastorale è la forma della libertà, della fede del Buon Pastore, diventata forma della fede e della libertà di San Giovanni Bosco.
Don Ceria ben delinea questa differenza nel capitolo intitolato “Uomo di fede” nel suo testo forse più celebre: “Don Bosco con Dio”.
Ogni cristiano è tale per la fede, di cui il battesimo è la porta, ed è la fede il fondamento della vita soprannaturale e il vincolo che unisce l´anima a Dio; la qual fede viene integrata dalla speranza e dalla carità.´"Ma altro è èssere crédente, altro essere uomo di fede. Il credente pratica più o meno la sua fede, mentre l´uomo di fede vive della fede e la vive a segno da raggiungere una profonda e continua unione con Dio. Tale fu Don Bosco.
Veramente, quasi tutto quello che abbiamo visto fin qui e gran parte del resto che vedremo, è fede vissuta: pensieri, affetti, imprese, ardimenti, dolori, sacrifici, pie pratiche, spirito di orazione furon tutte fiamme sprigionantisi dalla fede che gli ardeva in petto; parrebbe quindi doversi o ridire il già detto o rinunciare a un capo sulla fede. Tuttavia nella vastità del campo ci rimane ancora qualche poco da spigolare. Una vita così perennemente e intensamente animata dal soffio della fede non offrirà materia a indugiarci di proposito nella prima delle virtù teologali? Non possono mancarvi note caratteristiche meritevoli di essere messe in particolare rilievo.
Fra i testi chiamati a deporre nei processi, quelli che vissero più lungamente vicino a Don Bosco, si direbbe che fanno a gara per esaltarne la fede. Le loro deposizioni si possono condensare in questa formula: le verità della fede il nostro Santo fu avido di conoscerle, fermo nel crederle, fervente nel professarle, zelante nell´inculcarle, forte nel difenderle. Degna di attenzione speciale è la testimonianza, con cui Don Rua incominciò la sua deposizione. Esordì in questi termini: «Fu uomo di fede. Istruito da bambino nelle principali verità della nostra santa religione dall´ottima sua madre, ne divenne famelico» (Ceria, Don Bosco con Dio, capo XIV).
“Pensieri, affetti, imprese, ardimenti, dolori, sacrifici, pie pratiche, spirito di orazione furon tutte fiamme sprigionantisi dalla fede” di cui don Bosco era “famelico”.
In questi brevi paragrafi don Ceria centra esattamente il problema che ci sta di fronte. Dopo aver dedicato i capitoli precedenti a descrivere cosa don Bosco ha fatto nella sua vita, ora deve giungere al nocciolo e questo nocciolo non è più una cosa da fare, ma una fede da vivere: la carità pastorale.
Il problema non è tanto quello di individuare quali cose sono da fare perché si possa in qualche modo imitare la carità pastorale di Cristo e di don Bosco, ma qual è la forma più interna, più intima diremmo della libertà del Santo e del Figlio di Dio, affinché essa poi possa esprimersi in modo che la carità sia ciò che effettivamente si vede esteriormente. Una carità che diventa amorevolezza, che si può facilmente raccontare ed imitare anche sotto forma di episodi, di regolamenti, di fioretti, quasi leggeri a vedersi, semplici a farsi, facili a imitare eppure così profondi da essere indicatori di una fede e di una spiritualità che don Bosco stesso ci ha in qualche modo nascosto tanto in intimità con Dio essa era.
Il centro della carità pastorale, quindi, sta direttamente nella comunione con Dio di cui appunto la maestra non può che essere Maria santissima, come si dice nel sogno dei nove ani, perché di lei non occorre copiare i gesti concreti, per altro in buona misura impossibili da ripetere, ma occorre impararne la assoluta intimità col Figlio che ne caratterizza l’intera vita.
Carità pastorale: libertà della nuova legge
Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario - che non è pastore e al quale le pecore non appartengono - vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.
Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio. (Gv 10,11-18)
Il modo in cui Cristo descrive la propria carità pastorale nel capitolo 10 del Vangelo secondo Giovanni è esattamente ciò che ci ispira a dire che carità non è un insieme di gesti, ma una forma di vita e di fede.
Ben lungi dal fare un regolamento ai discepoli di cosa significa accudire le pecore, non per questo la carità di Cristo è meno concreta. Gesù è lontano dal decalogo, dall’elencare le leggi che dovrebbero essere eseguite, come è lontana la legge dell’antico Testamento dalla nuova legge del Figlio Risorto. Imitare la sua persona non significare mettere in campo una serie di gesti, ma assumere una forma di vita, la forma del dono di sé, che è la stessa forma del Padre che è nei cieli.
Che poi questo modo di vivere possa essere declinato in mille modi diversi, questo è anche più evidente di un elenco di gesti da fare. La “fantasia” del dono di sé è immensa, sterminata, tanto quanto lo è la fantasia stessa del Padre, ma il centro è un modo particolare di coinvolgere la libertà della persona nel rapporto con Dio: facendo in modo che la mia libertà si compia nella forma della libertà del Padre e del Figlio crocifisso e risorto per i fratelli, per le pecore.
In termini salesiani:mentre i regolamenti che don Bosco compone per istruire i propri figli all’essere anch’essi buoni pastori dei più giovani, possono essere decine lungo la sua vita e non esauriscono mai l’ampia gamma di possibilità dell’amore, la consacrazione della libertà di don Bosco alla Provvidenza e a quel Signore ben vestito del sogno dei nove anni è tutto ciò che contrassegna la sua vita, che però non è fatta di fumo e di parole vuote, ma di gesti e di fatiche: di carità pastorale. Ampia fin che la Provvidenza vuole può essere la gamma della Famiglia salesiana, come ampia è la possibilità di imitare l’amorevolezza di don Bosco, ma il centro resta per tutti e per sempre il donno di sé ai giovani ad imitazione sempre uguale e sempre nuova dell’amore del Buon pastore.
La carità pastorale quindi è la forma della vita di Dio, della fede di Cristo al Padre, della libertà del Figlio che si dona ai suoi per portarli a Dio e salvarli dal peccato, perché così il Padre si è da sempre donato a Lui, spirando insieme lo Spirito. È la forma dell’agire di Don Bosco per i suoi figli, la radice della sua fantasia apostolica e della vivacità delle sue giornate, ma soprattutto il centro del suo essere e del suo vivere: la piena conformazione al Buon Pastore.
La carità pastorale di don Bosco, che grazie al dono dello Spirito è ancora oggi vita e santità della Chiesa e ancora oggi non ha esaurito le forme in cui può incarnarsi e in cui si può dare sulla croce per le sue pecore, è quindi responsabilità, risposta profonda, intima, spirituale e per questo evidente, esterna, piena di azione e di allegria, all’intima comunione col Padre e col Figlio a cui la Madre dei cieli, come buona Maestra, lo ha condotto negli anni della sua vita, fino al completo dono di sé: “Una celebrità medica francese nell´80, visitatolo infermo a Marsiglia, disse che il corpo di Don Bosco era un abito logoro, portato di e notte, non più suscettivo di rammendamenti e da riporsi per conservarlo come stava” (Ceria, Don Bosco con Dio, capo VIII).
Carità pastorale: un esercizio di carità consacrata
Dobbiamo ringraziare don Bosco: è impossibile fare l’elenco delle cose che occorre fare per essere come lui.
Chi volesse cercare di definire solo con i gesti il suo modo di essere carità pastorale, sarà sempre tacciato di aver escluso qualcosa. Troppo numerosi i mestieri che ha imparato, troppe le attività fondate, troppi i record stabiliti, troppe le lettere scritte, troppa la sua forza fisica, troppa la levatura morale, troppi i tempi di preghiera, troppi i volumi delle Memorie Biografiche per essere ripetuti nella vita di una sola persona dopo di lui.
Grazie don Bosco per averci scoraggiati ad imitarti nel fare e spinti ad imitarti nella carità, che ha tanto da fare da consumare una vita intera.
“A suo tempo tutto comprenderai”: come solo il Cristo in croce può compiere la volontà del Padre e spirare lo Spirito; come solo il Risorto può dare la pace, come solo dalla Pasqua si possono scrivere i vangeli. A suo tempo: solo dalla carità pastorale compiuta, cioè dalla fine di una vita spesa e donata ad immagine del Cristo crocifisso, allora si comprende che il campo arato era quello giusto, che i frutti sono davvero arrivati, che alla fine del pergolato c’è il giardino senza spine e che la Famiglia può ora espandersi da Santiago a Pechino.
Possiamo noi oggi nelle nostre forme di vita concrete essere anche noi il Buon Pastore dei giovani e a noi affidati?
Certamente sì direbbe don Bosco e infatti non si stanca di raccontare vite di persone a lui vicine in cui egli stesso ha intravisto la carità concreta di Cristo fatta vita quotidiana.
Eppure don Bosco sa che esiste un centro anche in questa varietà di possibilità.
Per tutti nella Chiesa è possibile imitare Cristo e quindi per tutti nella Famiglia salesiana è possibile imitare la carità pastorale sulla scia del carisma di don Bosco, ma anche qui deve esistere chi nel concreto vivente della propria esistenza quotidiana, imita e segue il più vicino possibile nella forma concreta e nella destinazione finale, la stessa vita di Cristo buon Pastore.
Per questo al centro della Famiglia Salesiana, non per meriti propri ma nella corresponsabilità di una pluralità di vocazioni, sta la vita consacrata, perché non si perda mai il riferimento al centro di tutti che è la persona unica di Cristo nella forma concreta in cui lui stesso ha vissuto la sua esistenza.
Se la carità pastorale di don Bosco è imitazione del dono di sé del Figlio, in obbedienza al Padre nello stile giovanile salesiano del nostro carisma, è evidente per don Bosco stesso che questo può essere tanto esteso nella molteplicità delle sue forme, quanto resta radicato all’unica forma di Cristo in persona. Ecco perché a tutti i suoi giovani propone la stessa formula di santità, ma ad alcuni la propone nella forma vocazione consacrata, perché il centro non si disperda nel molteplice e il molteplice non dimentichi di essere unico frutto dell’unica carità di Cristo.
La sera del 26 gennaio 1854 ci radunammo nella stanza di D. Bosco: esso D. Bosco, Rocchietti, Artiglia, Cagliero e Rua; e ci venne proposto di fare coll´aiuto del Signore e di S. Francesco di Sales una prova di esercizio pratico della carità verso il prossimo, per venire poi ad una promessa; e quindi, se sarà possibile e conveniente di farne un voto al Signore. Da tale sera fu posto il nome di Salesiani a coloro che si proposero e si proporranno tale esercizio (MB V,9).
Avendo la sua sorgente nella comunione stessa del Figlio col Padre nello Spirito ed avendo la sua forma concreta nel modo in cui tale comunione di amore diventa dono di sé da parte del Figli incarnato, la carità pastorale non può che essere esercizio pratico di una libertà che si riconosce dovuta ad un amore più grande, capace di donare se stessa nelle mille in cui occorrerà farlo nella vita, ma, nella sua forma principale, come un voto, cioè come una consacrazione totale del proprio essere ad essere totalmente come Gesù e come don Bosco: dono di sè per i giovani.
Vivere la Spiritualità Salesiana: Borgo Don Bosco per la casa di famiglia
Alessandro Iannini
Sono salesiano cooperatore, psicologo responsabile area rimettere le ali Borgo Ragazzi Don Bosco.
Il Borgo Ragazzi don Bosco apre nel 1948 nel quartiere di Centocelle a Roma per accogliere gli sciuscià, gli orfani di guerra, che i salesiani come fece don Bosco a Torino, raccoglievano dalla strada. Io sono cresciuto al Borgo, sono nato nel quartiere e ho cominciato a frequentare l’oratorio. Poi sono diventato animatore e molto presto cooperatore con l’allora mia fidanzata Agnese anche lei animatrice. Avevo 24 anni e lei appena 20. Nel nostro discernimento guidato da un salesiano che era la nostra guida spirituale sentivamo di voler crescere e vivere come coppia e come famiglia l’essere salesiani fino in fondo e sentivamo di volerci dedicare soprattutto ai ragazzi più svantaggiati. Per questo abbiamo iniziato a collaborare con il centro accoglienza per minori sottoposti a provvedimenti penali alternativi al carcere, per questo mi sono laureato in psicologia. Dopo due anni ci siamo sposati e siamo partiti con il VIS come volontari internazionali. Ci hanno inviato in Albania con una comunità educativo-pastorale formata da sdb, fma e volontari. Siamo stati lì due anni in cui abbiamo vissuto le difficoltà della guerra civile ma anche i miracoli compiuti dall’applicazione del sistema preventivo a ragazzi prima senza Dio e senza una guida. Nel pericolo ci sentivamo realmente come “bimbi in braccio a sua madre”. Al rientro non avevamo ancora idea di cosa avremmo fatto, sapevamo che volevamo continuare a vivere con questo spirito. Stava nascendo il primo dei nostri 4 figli. Ci siamo affidati e camminando si è aperto il cammino.
Questa premessa è necessaria perché quello che è ora il mio lavoro al Borgo nasce da una esperienza di vita, nasce da un mandato missionario, nasce da un sogno che Don Bosco ha messo dentro il mio e il nostro cuore. Alla fine degli anni ’90 la comunità salesiana del Borgo Ragazzi Don Bosco su mandato dell’Ispettoria ha cominciato a ripensare al propria presenza al borgo cercando di riscoprire la fedeltà al mandato originario: occuparsi dei ragazzi più poveri con uno stile ovviamente adatto ai tempi. Con un gruppo di sdb e laici ci abbiamo studiato e pregato due anni al termine dei quali con l’intervento della Provvidenza abbiamo aperto una casa famiglia per adolescenti con i percorsi di semi-autonomia, un movimento di famiglie affidatarie e solidali, un centro di ascolto psicologico e, nel 2008 anche il centro diurno che era alla stazione Termini e nel quale ormai operavano un gruppo di operatori esperti e con cuore salesiano si è trasferito al Borgo.
Attualmente in quella che abbiamo chiamato area “Rimettere le ali” accogliamo ogni anno più di 200 ragazzi in difficoltà, vi lavorano circa 30 educatori e più di 100 volontari. Queste attività specifiche per il disagio sono collegate con il resto dell’opera, l’oratorio che è il cuore eil centro di formazione professionale.
Ogni giorno facciamo esperienza di quanto dice S.Paolo nella lettera agli Ebrei ricordando l’esperienza fatta da Abramo e Sara: “non dimenticate l’ospitalità, qualcuno praticandola ha accolto degli angeli senza saperlo” (Eb 13,2). E’ divenuto il nostro motto e contempliamo questa verità accogliendo ragazzi e ragazze ma anche tanti volontari e famiglie affidatarie che si mettono in gioco accogliendo anche nella intimità della propria casa chi è in difficoltà. Ci siamo resi conto che Don Bosco e Maria Ausiliatrice conducono a noi anche ragazzi che li hanno già conosciuti e incontrati nei loro paesi di origine! Qualche tempo dopo, l’accoglienza abbiamo saputo che il ragazzo che era già un figlio di Don Bosco!
Al Centro Accoglienza iniziamo la giornata con tutti gli operatori leggendo il Vangelo del giorno e un brano tratto dal libro indicato per l’anno formativo salesiano. Uno di noi a turno lo commenta poi affidiamo a Maria e al Signore la giornata, i ragazzi e i progetti e ci diamo gli incarichi operativi. Quante volte abbiamo potuto contemplare che quanto vissuto, sperimentato, sofferto e realizzato da Don Bosco può essere collegato, con le dovute proporzioni, con quanto viviamo noi oggi. A cominciare dai suoi sogni, dal suo entusiasmo e fermezza nel fare ad ogni costo del bene per i ragazzi. A noi il compito di andare incontro alle giornate sapendo che il Signore si manifesta negli accadimenti quotidiani. Nella stanza operatori abbiamo appeso l’art.19 delle costituzioni salesiane: “Il salesiano è chiamato ad avere il senso del concreto ed è attento ai segni dei tempi, convinto che il Signore si manifesta anche attraverso le urgenze dei momento e dei luoghi. Di qui il suo spirito di iniziativa: "Nelle cose che tornano a vantaggio della pericolante gioventù o servono a guadagnare anime io corro avanti fino alla temerità".
Mi sto sempre più rendendo conto che se don Bosco fosse stato un grande educatore ma non un uomo di fede, non un santo, non sarebbe stata la stessa cosa. L’incontro quotidiano con persone spesso in situazioni estreme mi interroga infatti come educatore, psicologo, ma soprattutto come persona e come credente in Cristo Risorto. Mi interroga e mi costringe a cercare le radici della mia Fede per poter rendere ragione della speranza verso la quale cerco di condurre chi si sente senza via di uscita. Ma senza la Fede e senza la Speranza come potrei, mi chiedo spesso, credere nella possibilità che ogni giovane può cambiare la propria vita? Credere che in ogni giovane - si anche in questo che ho davanti a me e che guardo negli occhi e che ne combina di tutti i colori nonostante i tanti tentativi falliti - c’è un punto accessibile al bene? Che anche nelle cosiddette mele marce ci può essere un seme buono?
E’ nella relazione costante con Dio che Don Bosco ha trovato la forza, la ragione, la motivazione. E’ attraverso la relazione con Dio e sentendomi da Lui amato in modo unico che scopro che l’altro è mio fratello, è mia sorella e che vale la pena investire ogni giorno nell’amare mio fratello e mia sorella in modo unico e, nell’incontrare l’altro, incontro Dio. Sto scoprendo che Don Bosco ha costituito una comunità perché solo nella relazione comunitaria possiamo celebrare l’incontro quotidiano con Dio.
I ragazzi più difficili costituiscono una sfida per la nostra fede, il limite alla loro accoglienza è nella nostra capacità di accoglierli, una capacità che vediamo che cresce nella misura in cui ci affidiamo a Colui che questi ragazzi li ha amati per primo e che ce li ha affidati. E i nostri ragazzi diventano così i nostri maestri perché nei loro occhi intravediamo lo sguardo di Dio. Attraverso di loro incontriamo anche Lui. Nei loro sogni intravediamo il progetto di Dio per di loro. Camminando con loro veniamo costantemente stimolati a crescere nella capacità di amare, a crescere nella Fede e nella Carità.
Non abbiamo nessuna esperienza con le pecore e con i pastori ma meditando sui progetti educativi personalizzati dei nostri ragazzi in casa famiglia nel cercare e ricercare le strategie per aiutare i nostri ragazzi scopriamo l’amore personalizzato di Gesù Buon Pastore e la grandezza di Don Bosco che lo ha scelto come icona per i suoi salesiani chiamati ad amare ciascuno proprio come lo ama Dio.
La sfida è poi passare dall’accoglienza incondizionata e dall’amore dimostrato che arriva ai ragazzi come interesse alla loro persona e alla loro storia, alla preparazione all’incontro con Dio. Anche su questo D.Bosco è stato un maestro: ci stiamo rendendo conto – anche sulla spinta delle ultime strenne del Rettor Maggiore - che vale la pena osare.
I ragazzi ci sentono pregare per loro al mattino, gli parliamo di Dio e ci interessiamo alla loro appartenenza religiosa durante la fase di accoglienza con naturalezza come ci interessiamo agli altri aspetti della loro storia. Li invitiamo a vivere le feste salesiane, a mandare un sms a Don Bosco a interrogarsi nei gruppi sulla fede e questi piccoli semi preparano il terreno. E’ lo Spirito che poi suggerisce a loro e a noi la strada. A volte occorre aspettare e cogliere le occasioni per passare dalla testimonianza all’annuncio.
Si vivono insieme i ritiri spirituali coinvolgendo anche i ragazzi, si invita a comprendere che educhiamo anche con le nostre parole e con la nostra azioni, ma soprattutto educhiamo con quello che siamo, con i valori che abbiamo dentro e che traspirano o non traspirano indipendentemente da quanto facciamo. E’ stando con i ragazzi, semplicemente e pazientemente stando, possiamo cogliere le occasioni che si presentano per arrivare al loro cuore.
Siamo sempre più testimoni consapevoli che attraverso Don Bosco e i suoi figli la Provvidenza ha compiuto miracoli su miracoli e oggi tocca a noi, nel nostro piccolo, continuare con lo stesso atteggiamento e la stessa Fede: i ragazzi e le famiglie non sono nostri, le opere non sono le nostre ma noi siamo strumenti, attraverso il contributo quotidiano di ciascuno, il carisma di Don Bosco e le Memorie dell’oratorio continueranno… Altri capitoli, altri volumi, gli stessi Protagonisti: la Provvidenza, Maria Ausiliatrice, Don Bosco… i ragazzi!
Il carisma salesiano testimoniato con i social network
Gaia Lauri
Mi è stato chiesto di raccontarvi come vivo e testimonio il carisma salesiano nel cortile dei social network e vi racconterò la mia esperienza in quest’ambito. Prima di tutto però ci tengo a fare una precisazione che a molti potrà sembrare scontata ma che ritengo comunque necessaria: il cortile con la C maiuscola, tanto caro a don Bosco, è in primis il cortile delle relazioni faccia a faccia, della parola sussurrata all’orecchio, del gioco e della confidenza; non potrei mai pensare di tenere come unico spazio di testimonianza quello del social network. Il mondo dei social network per me non è una seconda vita, né tantomeno uno spazio da demonizzare, ma un posto che abito e che mi permette di portare la mia testimonianza un po’ più in là rispetto al mio oratorio o la mia città. Chiaramente è sempre bene tenere alta l’attenzione sui possibili rischi di questo cortile digitale: il troppo tempo che vi si dedica, l’enorme quantità di materiale inutile e spesso rischioso, i pericoli che ognuno di noi (anche nella vita quotidiana) si trova a dover combattere. I social network sono per noi uno strumento per essere in qualche modo più vicini ai giovani e per portare la nostra testimonianza, ma questo ovviamente non deve avere la priorità sulla relazione costruita faccia a faccia e non deve abbassare la guardia rispetto alle trappole presenti.
Come si fa a essere più vicini ai giovani attraverso i social network? Dando loro importanza, stando attenti a quello che pubblicano, leggendo ciò che scrivono ai loro amici, guardando le foto che postano. In questo senso io credo che, per gli animatori e per chi si prende cura dei giovani, facebook sia importante perché da una frase che loro scrivono, da un link che pubblicano, dal loro modo di utilizzarlo, posso cogliere quel “pezzetto” che mi manca e che magari nella realtà di tutti i giorni il ragazzo non mi mostra, posso capire che quel ragazzo deve essere aiutato a vivere quell’aspetto in modo diverso, posso soprattutto rilanciare la relazione che ho con lui fuori.
L’anno scorso ho lavorato per una cooperativa sociale in un progetto sul protagonismo giovanile e ho girato diverse scuole superiori della provincia di Venezia: molti ragazzi, finiti gli incontri a scuola, mi chiedevano l’amicizia su facebook ed io stessa l’ho chiesta a loro. Questo mi ha permesso di vedere uno spaccato di popolazione giovanile molto diversa da quella che io incontro in oratorio e dai miei ragazzi del gruppo. In particolare ho avuto a che fare con un gruppetto di ragazzi di Portogruaro che ho continuato a seguire per questo progetto incontrandoli solo ogni due settimane per due ore scarse. Facebook mi ha fatto cogliere alcuni aspetti molto seri e preoccupanti della vita di questi ragazzi, mi ha fatto vedere che quei ragazzi stavano rischiando molto con il loro stile di vita e i loro divertimenti: alcool, feste, addirittura problemi con la polizia locale… Le foto in cui venivano “taggati” mi hanno permesso di capire aspetti di loro che non avrei mai potuto cogliere vedendoli solo ogni due settimane: questo è stato il lancio di un vero e proprio lavoro di educazione attorno a queste problematiche.
Mi è capitato diverse volte da quando faccio animazione con i ragazzi delle superiori, di agganciare la relazione con qualcuno di loro partendo da qualcosa che avevano pubblicato che può essere il video di una canzone, il link a un telefilm. La frase di don Bosco “amate ciò che amano i giovani” cade a pennello in questi casi. I ragazzi sono affamati di conferme da parte dei grandi e dei loro coetanei: dare importanza a ciò che pubblicano è rispondere, ovviamente in parte, a questa fame. L’obiettivo è quello di trovare una piccola chiave che possa aprire la relazione. Ovviamente poi la relazione deve essere costruita di persona, ma l’elemento condiviso sul web può essere il punto di partenza.
Io principalmente utilizzo facebook e twitter e spesso mi capita di pensare “Chi guarda il mio account, le mie pagine, cosa capisce di me? O meglio, riesce davvero a capire me? Coglie un’immagine autentica e reale? Questo problema dell’autenticità è fondamentale: mi piace pensare che una persona che guarda il mio profilo, abbia un’idea chiara di ciò che sono, delle cose per cui mi impegno, dei miei valori, del mio stile di vita; questo non per presunzione ma per trasmettere che vivendo queste cose, vivendo gli impegni in oratorio, scegliendo degli studi volti al sociale, io sono felice e sono nella gioia. Se ciò che ci contraddistingue come cristiani e soprattutto come salesiani è la gioia autentica e non la semplice allegria del momento, allora è bene che venga trasmessa anche con questi strumenti attraverso cose concrete. Sono fermamente convinta che il web non sia uno spazio astratto da demonizzare e che anche questo può essere spazio di apostolato. Il web è il luogo dove io, se scelgo la strada della vera autenticità e della testimonianza, posso far sentire la mia voce e posso, magari anche con qualche provocazione intelligente, lanciare il dibattito che però, ritengo, è sempre meglio affrontare poi di persona.
Riuscire a portare la propria testimonianza di vita cristiana nello spazio dei social network è una sfida grande: anche in questo spazio infatti la fede cristiana e la Chiesa sono sotto attacco da link, video e pensieri spesso determinati dai falsi pregiudizi in cui purtroppo siamo immersi. Purtroppo, data la velocità delle informazioni e dei tempi di condivisione, questi pregiudizi nello spazio digitale dilagano in modo spaventoso. Io vorrei solo riuscire, nel mio piccolo, a poter dire: c’è dell’altro, c’è un modo diverso di vedere le cose, c’è una pienezza che bisogna scovare. Esempio: qualche mese fa ho pubblicato le foto del matrimonio di due miei carissimi amici dell’oratorio scrivendo che i loro sorrisi erano l’espressione della felicità data dalla fede con cui hanno vissuto il loro fidanzamento e il loro matrimonio. La loro scelta di vivere in modo cristiano il loro fidanzamento ha suscitato in molti i soliti pregiudizi; eppure nel giorno del loro matrimonio tutti hanno riconosciuto che la loro felicità era data da un vivere questo sacramento e questo tempo fidandosi e lasciandosi accompagnare dal Signore e dalla comunità parrocchiale. In questo senso dico che i social network mi aiutano a mostrare che una vita di fede e di servizio è una vita felice e mi aiutano a provocare, in senso positivo, quanti restano attaccati alle idee comuni che circolano nella società di oggi. Testimonianza è anche riuscire ad andare oltre la paura di pubblicare cose non politicamente corrette, contro corrente, ritenute troppo esplicite o troppo cristiane.
Come concretamente testimonio io la mia appartenenza al carisma salesiano? Facendo cose che moltissimi già fanno: pubblico articoli impegnati, inserisco canzoni con testi che fanno riflettere, scrivo delle frasi di libri che cercano di andare in profondità, mi connetto e condivido status di chi dona la sua vita per i giovani e i poveri, suggerisco link di organizzazioni che lavorano nelle missioni, trasmetto i video delle varie iniziative di massa dell’MGS Triveneto, pubblico le mail che ci invia un carissimo salesiano dall’Etiopia, esprimo la mia vicinanza e appoggio al Papa. Poi non nascondo che anche a me, ogni tanto, scappa lo status di improperi contro l’organizzazione della mia università o contro la classe politica; a volte anche io scrivo status banalissimi sulla mia giornata o su quello che mi è successo. Per questo dico che nulla ho di diverso da molti altri che utilizzano i social network come me. Quel che ritengo importante però è riuscire, nel mio piccolo, a portare un po’ di serietà unita alla gioia di fondo che deve, a mio avviso, caratterizzare un cristiano, una animatrice salesiana.
Chissà che magari dalla foto di un ritiro con il gruppo delle superiori, piuttosto che da un articolo impegnato, non nasca in qualcuno il desiderio di farsi delle domande che vadano oltre il senso comune. Metto a disposizione del Signore la mia presenza sul web, affinchè da qualche piccolo semino gettato, in qualcuno possa nascere la curiosità di incontrarLo.
Vivere la Spiritualità Salesiana al Rione Amicizia - Napoli
Sr. Marta Drai
In questo ultimo anno di preparazione al Bicentenario della nascita di Don Bosco riflettiamo sulla sua spiritualità e su come viverla oggi nelle varie realtà. E’ per questo motivo che sono stata chiamata a condividere con voi l’esperienza dei quattordici anni vissuti con la comunità delle Salesiane Oblate del Sacro Cuore a Napoli.
Dal 1999 operiamo all’interno della parrocchia-oratorio “San Giovanni Bosco” affidata ai salesiani, prestando la nostra collaborazione nella pastorale parrocchiale, nella catechesi e nell’oratorio e per parecchi anni ho insegnato religione nella scuola media del quartiere poi anche in altre zone ancora più problematiche. L’opera è situata in un quartiere popolare di Napoli, caratterizzato dalla presenza di numerose famiglie giovani e molti ragazzi.
Spiritualità salesiana: incarnata in un ambiente
L’inserimento nell’ambiente è stato graduale e costante nel tempo, consentendo il passaggio dalla sorpresa e curiosità, che caratterizzava gli incontri quando si è aperta l’opera, alla condivisione sincera della realtà che viviamo oggi. Ricordo ancora l’incontro con un sedicenne che dopo averci osservate per una settimana, ci interrogò sul perché della nostra presenza lì e se non fosse stato più conveniente per noi stare altrove perché lì, con loro, non c’era “niente di bello”! In quel giovane è stato necessario risvegliare la speranza… la sua visione di vita era infatti sostanzialmente realistica. Nell’ambiente, infatti, vi sono gravi disagi sociali legati alla scarsità del lavoro che è, nella maggior parte dei casi in nero, senza garanzie, con orari molto pesanti; lo sbocco lavorativo appare spesso solo lasciando la propria città e provoca una emorragia delle energie migliori. La precarietà riguarda pure le relazioni familiari, caratterizzate sovente da instabilità affettiva nella coppia, da una genitorialità precoce e non ancora matura e da grande fatica educativa dei genitori rispetto ai figli. Nessuna meraviglia quindi che l’abbandono scolastico sia alto, e che la scuola sia percepita come un ambiente che costringe e non che emancipa anche se vi sono ragazzi che emergono per impegno e risultato riuscendo a diplomarsi e qualcuno anche a laurearsi. Il contesto sociale in alcuni casi sfocia in devianza lì dove alcuni si lasciano catturare dalle lusinghe del denaro facile.
Un “Da mihi animas”: vissuto nel quotidiano…
Penso che questi anni vissuti al Rione Amicizia abbiano costituito una forte esperienza di spiritualità salesiana vissuta nel quotidiano. L’intenso lavoro apostolico è stato espressione della carità pastorale di Don Bosco, vissuta nella tonalità specifica donataci dal fondatore, il vescovo salesiano Mons. Giuseppe Cognata. Ecco allora che il “Da mihi animas” si è tinto della tonalità evangelica del giovanneo “Raccogliete i pezzetti avanzati perché nulla vada perduto” (cfr Gv 6,12) accogliendo i piccoli e i poveri, facendoci compagne di strada e silenziosa e discreta presenza alle giovani mamme e ai ragazzi più piccoli in uno stile di umiltà, semplicità, familiarità.
Il “Da mihi animas”, vivificato dal motto paolino “Caritas Christi urget nos” “L’amore di Cristo ci spinge” (2Cor 5,14) che ispira le Salesiane Oblate, è diventato incontro quotidiano con tanti volti e tante storie che mi hanno rivelato il volto di Cristo che mi incoraggiava ad amare con larghezza di cuore, ad indicare mete educative con coraggio e fermezza, a condividere gioia e sofferenza, a lavorare con infaticabile entusiasmo e ferma speranza.
Ecco allora come questi anni di missione al Rione Amicizia sono diventati una vera palestra di santità e di incontro con il Dio amante della vita, che offre se stesso in Oblazione perché Pastore Buono. L’attività apostolica è stata caratterizzata dall’impegno ad instaurare relazioni umane positive, dall’avvicinare le famiglie attraverso l’accoglienza dei bambini, anche più piccoli, dal creare nel quartiere una rete di simpatia verso l’ambiente “parrocchia-oratorio” attraverso una presenza incoraggiante e capace di sostenere.
E’ attraverso queste semplici forme apostoliche che, giorno dopo giorno, abbiamo cercato di annunciare la presenza di Gesù che si prende cura del suo popolo e che si fa prossimo a tutti offrendo la sua vita come dono di amore. L’impegno apostolico è stato un quotidiano incarnare la petizione evangelica “Venga il tuo Regno” secondo la politica del Padre Nostro voluta da Don Bosco; e questo impegno per far crescere nel cuore dei giovani e delle famiglie il Regno di Dio, favorendo la crescita umana e religiosa, è il luogo dove ho incontrato Cristo, a volte in modo chiaro ed evidente, altre volte nella sofferenza del seme che sepolto muore perché possa germogliare la vita.
…vivificato dalla speranza…
Vivere il “Da mihi animas” in questo ambiente significa gioire dei piccoli risultati senza scoraggiarci dei fallimenti, con uno sguardo fiducioso nelle risorse dell’uomo e della grazia di Dio e con un lavoro umile, paziente e nascosto; significa condividere le gioie e le ansie dei giovani e delle famiglie, continuando a seminare senza mai arrendersi.
Gli anni che ho trascorso al Rione Amicizia sono stati anni in cui la spiritualità salesiana è stata vissuta fortemente all’insegna della speranza: sperare e continuare a lottare per seminare valori cristiani anche davanti a situazioni di fatto difficili. La speranza e la fiducia nelle risorse interiori dei giovani ci hanno fatto continuare perché se qualcuno ha scelto strade effimere che ha pagato con la vita tanti altri sono coloro che, nonostante situazioni oggettive di fragilità, sono cresciuti, si sono avviati a un mestiere, partecipano attivamente alla vita oratoriana per ridonare quanto hanno ricevuto.
… testimoniato nella comunione
Posso quindi affermare che in questo ambiente è stato possibile fare una reale esperienza della spiritualità tramessaci da Don Bosco e desidero concludere rilevando un aspetto che non penso secondario ma fondante una vera esperienza spirituale: la comunione nella missione.
Tutto il lavoro apostolico svolto al Rione Amicizia, infatti, è caratterizzato da una profonda esperienza di comunione. La prima comunione è stata quella della comunità delle Oblate che ha costituito un punto di forza per la missione; i ragazzi e molto più le famiglie hanno percepito l’unione come un segno e una garanzia della bontà e della bellezza di una vita armonizzata dalla presenza di Dio. Altrettanto significativa è stata l’esperienza di comunione all’interno della Famiglia Salesiana. Da sempre, la comunità delle salesiane oblate ha lavorato in sinergia con gli altri gruppi presenti sul territorio: salesiani, cooperatori, volontarie di Don Bosco, volontari con Don Bosco per offrire nella parrocchia-oratorio un ambiente educativo stabile e di sostegno ai ragazzi e alle famiglie. La comunione nel vivere la missione salesiana è stata allora una vera esperienza di spiritualità condivisa.
Vivere la spiritualità salesiana da Oblata al Rione amicizia è nutrire nel cuore la speranza che per questo territorio, così violato nella terra e negli uomini, c’è la possibilità di riscatto; è donarsi con costanza e passione per far scoccare nel cuore di tanti ragazzi e giovani famiglie il desiderio di fare ed essere migliori, di aprire e allargare gli orizzonti della propria esperienza personale e culturale, di scoprire che si può sognare un futuro diverso e migliore.
Relazione per le Giornate di Spiritualità della Famiglia Salesiana Gennaio 2014
Don Valerio Baresi, sdb
Abbiamo nella mente e nel cuore la Strenna di questo nuovo anno: «Da mihi animas, cetera tolle». Attingiamo all’esperienza spirituale di Don Bosco, per camminare nella santità secondo la nostra specifica vocazione “La gloria di Dio e la salvezza delle anime”.
La sintesi della mia testimonianza è proprio nelle parole ”gloria di Dio” e “santità”! Obiettivo generale del progetto Missionario Sacro Cuore è “dare vita” a una comunità ecclesiale dal forte carattere giovanile, che viva in pienezza la propria missione educativa ed evangelizzatrice condividendo, con le povertà che intercetta, un’esperienza di Risurrezione.
Desideriamo camminare nella santità come cristiani/consacrati/salesiani e far vivere ai giovani che raggiungiamo, una graduale ma intensa esperienza di Risurrezione e di Chiesa, per vivere una misura alta di vita cristiana, santa. Buoni Cristiani, Onesti cittadini, abitatori del Cielo!
In modo particolare i nostri destinatari principali sono i giovani tra 16 e 30 anni, italiani e immigrati, e tra questi, specialmente i rifugiati. Desideriamo ardentemente che tutti, tutti incontrino Gesù!
Il 1° settembre 2008 sorge la Circoscrizione ICC (Italia Centro). Vivendo al S. Cuore, proprio nel Centro di Roma, accanto alla Stazione Termini, ci rendiamo conto che la nostra opera occupa lo spazio più ‘centrale’ della Capitale. Sentiamo che Don Bosco aveva provvidenzialmente intuito che proprio qui doveva pulsare il ‘cuore’ della nostra Ispettoria, in piena sintonia col Cuore misericordioso di Gesù. Eppure all’inizio, non sappiamo cosa fare. La Basilica, appena restaurata, appare purtroppo vuota di giovani, anche se in passato, a centinaia avevano occupato tutti gli spazi dell’Opera: centinaia gli artigianelli ai tempi di Don Rua; migliaia i ragazzi accolti e seguiti negli anni successivi attraverso la Scuola, l’Oratorio, il Centro Minori…
Ma la scelta di spostare la scuola al Pio XI e il Centro Minori al Borgo Ragazzi Don Bosco; di indirizzare i ragazzi negli altri Oratori salesiani di Roma, chiudendo quello del S. Cuore e i lavori edili per la ristrutturazione della Basilica, lasciano in Casa solamente ospiti, convegnisti e gente di passaggio. Ciò che salta di più all’occhio, sono i “troller” degli ospiti e i veicoli parcheggiati in cortile.
Abbiamo il grande desiderio di ripopolare il S. Cuore di giovani: come vuole Don Bosco!
Negli ultimi mesi del 2008 bussano alla nostra porta tre Missionarie di Cristo Risorto; un piccolo Istituto, sorto nell’ambito della Spiritualità Salesiana, in America Latina. Presenti già a Roma da più di 10 anni, cercano un posto che permetta loro di lavorare più direttamente con i giovani.
Grazie ad un incontro, che si è rivelato provvidenziale, tra uno dei Superiori dei Salesiani e la loro Coordinatrice Generale, vengono indirizzate al S. Cuore. Nel parlare con loro, ci rendiamo conto che abbiamo gli stessi ideali: Gesù al centro della nostra vita, evangelizzare i giovani, soprattutto i più poveri, raggiungendoli nelle loro realtà e restituendo la stima e la dignità spesso perdute, diffondere gioia.
Cominciamo a pregare insieme e a domandarci cosa ci stia chiedendo il Signore.
Pochi giorni dopo, si aggiunge una giovane famiglia con tre figli piccoli: esprime la stessa ricerca di spiritualità giovanile, di fraternità e di condivisione, di valorizzazione della vocazione matrimoniale e della famiglia, offerta alla Chiesa e al mondo nel servizio gratuito. Proviene dall’esperienza, non lontana nel tempo, di Don Alfano, proprio al Centro Minori del S. Cuore. Sentiamo che il Signore ci sta chiedendo qualcosa di speciale, nell’unire in un’unica esperienza di Chiesa: vita consacrata maschile e femminile, famiglie e giovani, nello spirito di Don Bosco.
Sistemati in maniera dignitosa ma semplice i locali dell’ultimo piano dietro l’abside della Basilica (proprio dove c’era il Centro Minori) nel giorno di Pasqua 2009 accogliamo con gioia le Missionarie di Cristo Risorto in “casa loro”, dentro la nostra Opera.
Dopo un anno d’intensa preghiera e di settimanale confronto (pregare insieme e pensare insieme!) sulle situazioni di povertà di tanti giovani Rifugiati; sulla ricerca di senso di altri giovani universitari a Roma; sui possibili obiettivi della nostra presenza al S. Cuore, sollecitati anche dall’invito pressante del Rettor Maggiore di rendere evidente il nostro Carisma Salesiano, e di non ripetere atteggiamenti scontati, ma di osare nuove esperienze, attenti alle esigenze dei giovani e sensibili alla nuova evangelizzazione, cominciamo a redigere il testo del Progetto Missionario S. Cuore.
Intanto la nostra casa comincia ad essere abitata da diversi giovani che sono attratti dal servizio ai poveri (in quel periodo si allestiva la cena ogni Sabato per i poveri senza dimora alla Stazione Tiburtina; continuava il volontariato degli universitari al Policlinico Umberto I; cominciavano ad avviarsi delle attività di servizio ai rifugiati come la scuola d’italiano, e a organizzarsi degli spazi aggregativi come le gite che volevano essere degli spazi di incontro tra i giovani italiani e i giovani rifugiati in un arricchimento mutuo e interscambio tra coetanei di diversi Paesi) e dalla preghiera costante: ogni giovedì sera dalle 20.30 alle 22.00 appuntamento nel coro della Basilica per l’Adorazione Eucaristica preceduta dalla Lectio sul Vangelo Domenicale). Qualche ritiro spirituale permette di coinvolgere profondamente diversi giovani, in cammini formativi più sistematici.
Inoltre alcune iniziative coinvolgono poco alla volta numerosi giovani, inizialmente estranei ai percorsi di fede: la scuola di Spagnolo, le serate di fraternità, la festa delle matricole, il pellegrinaggio degli Universitari ad Assisi, il coinvolgimento nelle iniziative regionali del Movimento Giovanile Salesiano…
Cominciamo a strutturare i percorsi formativi.
Primo passo: “Gli incontri con Gesù”, nove incontri settimanali d’iniziazione cristiana (l’amore di Dio Padre, la Signoria di Gesù, la Parola di Dio, i Sacramenti, la preghiera…) e un ritiro di tre giorni al termine.
Il percorso continua con incontri settimanali, dove si approfondisce la dimensione cristiana come Figli di Dio, Discepoli e Apostoli. Oltre all’impegno di curare in modo efficace i contenuti da annunciare, emerge il desiderio nostro e dei giovani di presentarci sempre uniti SDB e MCR. Ci rendiamo conto che la vita consacrata maschile e femminile, la presenza di famiglie e di giovani, esprime una vera e bella esperienza di Chiesa.
Posso affermare che l’aspetto che ha permesso di generare più frutti è senz’altro la comunione. Una scelta che non ci consente di avere serate libere: siamo praticamente sempre presenti ‘insieme’ a tutti gli impegni. Questo permette di sperimentare il senso più profondo del nostro essere Comunità Educativa Pastorale, vera Chiesa.
Oggi avviamo ogni quadrimestre nuovi “Incontri con Gesù” con una ventina di giovani che provengono da diverse zone della Città; abbiamo una Comunità Giovani articolata in tre gruppi divisi per età: 20-25; 26-30; over 30 che s’incontrano settimanalmente.
Ogni Giovedì dalle 20.30 alle 22.00 viviamo la lectio e l’Adorazione eucaristica; offriamo percorsi formativi di educazione all’amore, “Creati per amare”, per single e fidanzati che non hanno fissato la data di Matrimonio; esiste un percorso di formazione e approfondimento sulla Dottrina Sociale della Chiesa; coinvolgiamo nel servizio ai rifugiati molti giovani che non solo donano tempo ed energie, ma si rendono conto di ricevere molto dai loro coetanei che hanno dovuto fuggire da violenze, guerre, torture, ingiustizie affrontando esperienze inaudite per cercare vita; permettiamo ad altri giovani di accostare persone senza dimora scoprendo nella carità (“La Banca dei talenti”cena alla Stazione Termini tutti i Venerdì e “Piazza Grande” pomeriggio di fraternità all’Oratorio tutti i Giovedì) la possibilità di affermare la stupenda dignità di ogni persona umana, riconosciuta figlia di Dio e desiderosa di essere compresa nella sua dignità dentro la nostra casa. C’è anche un bel gruppo di giovani che due volte la settimana va al Policlinico ‘Umberto I’ a visitare i malati. Alcuni giovani sono Catechisti, altri Animatori all’Oratorio. Con i giovani raggiungiamo ‘porta a porta’ le famiglie della Parrocchia, con un dono natalizio e nella Benedizione delle case.
Non mancano i momenti di fraternità/aggregazione e di festa: cene, gite, domeniche trascorse insieme in montagna o in un parco di Roma, cineforum, tornei sportivi, feste con l’intera Comunità Parrocchiale, serate etniche… dove la gioia di riconoscerci fratelli al di là di ogni cultura, colore della pelle, lingua, disponibilità economica, fa assaporare la bellezza della vita e apre alla riconoscenza.
Abbiamo colto come benedizione e conferma del cammino avviato, sia i percorsi di fede di alcuni fratelli (musulmani, buddisti, atei…) che hanno chiesto il Battesimo o l’inserimento nella piena comunione della Chiesa Cattolica (copti, ortodossi e evangelici). Ma anche le vocazioni sbocciate nella Comunità (2 SDB, 1 FMA, 1 Postulante MCR, 1 Postulante Clarissa, 1 Religiosa dell’Immacolata, 1 domenicano, 1 seminarista, 6 Giovani Salesiani Cooperatori, diverse coppie di fidanzati sorte in seno alla Comunità giovani e aperte al servizio ai poveri e alla missionarietà).
Alcuni di questi giovani hanno chiesto di far parte di una comunità di vita, cioè abitare la nostra ‘casa’ come propria, condividendo con i religiosi (SDB e MCR) la preghiera quotidiana e le responsabilità della missione, in modo adeguato al loro stato di vita e ai loro impegni. In questo momento sono otto (cinque ragazze e tre ragazzi). La loro vita in casa è affiancata da un/una assistente spirituale che li accompagna in questa esperienza per una sintesi feconda tra fede, vita e cultura, e favorisce alcuni momenti significativi di fraternità e condivisione tra giovani e religiosi.
È proprio questo “stare insieme” con i giovani che ci è parso l’aspetto più significativo e potente del carisma salesiano. Tutte le volte che riusciamo a “vivere insieme” ai giovani (ritiri, campi formativi, convivenze…) ci rendiamo conto di quanto l’azione educativa sia più efficace. Per questo abbiamo cercato con forza e offerto ai giovani, questa opportunità, per gustare il fascino di una comunione di vita che metta al centro Gesù.La gioia grande di questi giorni è l’attesa di Papa Francesco in casa nostra: Domenica 19 Gennaio viene a condividere con noi il pomeriggio. Incontro con i poveri senza dimora, con i Rifugiati e i Volontari che li accompagnano, con le famiglie, con i ragazzi dell’Oratorio, i malati e i disabili e la gente della Parrocchia. Ma incontrerà soprattutto i giovani che nel “Sacro Cuore” hanno trovato una “casa” che accoglie e offre la possibilità di vivere una significativa esperienza di Risurrezione, in modo da lanciarli nella vita come veri discepoli di Gesù e missionari del Vangelo. Ed è subito Gioia!
Relazione per le Giornate di Spiritualità della Famiglia Salesiana Gennaio 2014
Centro e sintesi della spiritualità salesiana: la carità pastorale
Sr. Carmela Busia
Ho scelto la Cappella Pinardi per provare a scrivere qualcosa del tema che mi è stato affidato. Avevo bisogno di sentirmi abbracciata da questo luogo che conserva il cuore della carità pastorale di don Bosco, avevo bisogno che questo cuore animasse il mio cuore e che queste mura mi parlassero.
Entro nella cappellina, non so da dove iniziare a scrivere ma il calore di questo luogo mi mette nel cuore una fiducia che non sento essere mia. Immagino i giovani che qui si sono sentiti attratti dall’unico desiderio di don Bosco di comunicare la sua esperienza di Dio. Faccio allora entrare in questo luogo tutti i giovani che mi sono affidati, ripenso al buongiorno che ho dato ieri mattina ai ragazzi dei corsi professionali e ai loro sguardi mentre cercavo di tradurre nel loro linguaggio cosa volesse dire l’espressione di Michele Magone: “ho la coscienza imbrogliata” e la risposta di don Bosco: “bisogna rompere con il demonio”. A volte mi commuove vedere il loro sguardo così attento mentre dico che rompere con il demonio è rompere con queste due idee che sembrano sentire perla prima volta: col credere che non vali niente e che Dio non ti ama. E poi penso che la coscienza imbrogliata in cui sono avvolti tanti giovani che vedo ogni mattina si possa iniziare a sciogliere con tutti quei gesti quotidiani di carità che non hanno nulla di straordinario e di vistoso: accoglierli al mattino, pazientare con le loro risposte e affermazioni sfidanti, sopportare le loro reazioni che sembrano dire che in apparenza nulla li scuota.
E poi ci sono i momenti in cui i giovani mi regalano le loro lacrime, e proprio lì, sento che la forza che ricevo dalla Parola di Dio, dall’Eucarestia, dal sacramento della riconciliazione, sono chiamata a tradurla in piccoli gesti di accoglienza e di ascolto. Più vado avanti più sperimento quanto afferma la strenna: “l’accendersi della carità in noi” è una grazia, non proviene da iniziativa umana…non potremmo infatti amare il prossimo se non avessimo l’esperienza personale dell’amore di Dio.”
Proprio questo amore è ciò che più viene sottoposto al giudizio dei giovani che spesso mi bombardano con tante domande sulla mia scelta di vita e su come sia stato possibile che io abbia capito questo amore. Il gregge stesso, come dice papa Francesco, ha un suo olfatto che lo spinge a cercare il profumo della verità della prima frase con cui inizia la sua enciclica: la gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Per questo quando vedono il mio volto un po più oscurato da preoccupazioni mi chiedono: “perché oggi sei triste?”…la domanda non la continuano ma credo che dietro davvero ci sia l’ olfatto di chi non riesce a mettere insieme la nostra scelta con un volto triste o con la mancanza d amore.
Penso che tante cose siano importanti, ma ciò che resta è sintetizzato nelle ultime parole di mia mamma prima di morire, consegnate a noi figli: “Cercate di volervi bene”. Tante volte mi sono detta “cosa rimane se non questo? Cosa costruisce le mie relazioni in comunità e con i giovani se non il tentativo quotidiano di amare? L’altro giorno parlando con un confratello salesiano sull’evidente avanzamento dell’età nel nostro Piemonte mi ha detto: dobbiamo cambiare gli occhiali e credere che qualcosa di nuovo è già iniziato nel momento in cui viviamo la piccolezza, la fraternità e la carità. Questo è il Vangelo e questo è ciò che cercano i giovani.
“Cercate di volervi bene” non solo è scritto sulla lapide di mia mamma ma in modo particolare quest’anno si è inciso nel mio cuore. A settembre ho cambiato comunità dopo 8 anni di esperienza a Chieri. Il lasciare un posto che si è amato, il lasciare le persone da cui ci si è sentiti amati mi ha dato la possibilità di mettere ancora più a fuoco il cetera tolle come distacco per la più assoluta libertà e per tutte le esigenze dell’apostolato. Mi ha colpito molto il passaggio di un biglietto che mi ha scritto una giovane animatrice prima che io me ne andassi: tu sei destinata a cambiare, a lasciare, a trovare ed amare persone sempre nuove e diverse, è questo il compito delle donne e degli uomini di Dio.
Spesso sono stati i giovani ad indicarmi il cammino, a ricordarmi le esigenze della mia vocazione a sostenere le mie motivazioni. Davvero l’apostolato diventa un autentica esperienza spirituale se ha come anima la carità. Ho conosciuto anche lo stress e il logoramento di energie legato alle attività di apostolato ma il più delle volte Dio mi ha donato di vivere con i giovani autentiche esperienze spirituali che mi hanno aiutato ad assaporare la bellezza della mia vocazione.
Quando ho ricevuto la telefonata, in cui ho tentato senza nessun successo, di dire a don Adriano Bregolin che non volevo parlare mi è venuto in mente l’immagine del buon pastore che ho scelto per i miei voti perpetui. In quell’immagine del buon pastore, che porta sulle spalle la pecora, ritrovo la mia storia e il mio desiderio che tanti giovani oggi, possano fare l’esperienza di sentirsi portati sulle spalle da Gesù o quando si allontanano di sentirsi cercati da Lui. E questo desiderio inizia con la preghiera, con il sostegno della comunità con la certezza che il Signore utilizza le nostre parole e le nostre azioni come e quando meglio crede.
Io sono infinitamente grata a tutte le persone che mi hanno testimoniato la loro esperienza di Dio, a chi, fin dall’adolescenza mi ha fatto capire, non con tante parole che le persone vengono prima e le cose vengono dopo, a chi ha saputo rinunciare a molte cose e ha avuto tempo e disponibilità per aprire il mio cuore a Dio. Senza queste persone io oggi non saprei parlare, non saprei cosa dire.
E concludo con questo racconto che mi richiama la vita del da mihi animas caetera tolle
In un magnifico giardino cresceva un bambù dal nobile aspetto. Il Signore del giardino lo amava più di tutti gli altri alberi. Un giorno, il Signore gli disse: “Caro bambù, ho bisogno di te”. Il magnifico albero gli disse: “Signore, sono pronto. Fa di me l’uso che vuoi”.
La voce del Signore era grave: “Per usarti devo abbatterti!”. Il bambù si spaventò: “Abbattermi? No, per favore, Signore, non abbattermi”. “Mio caro bambù”, continuò il Signore, “se non posso abbatterti, non posso usarti”. Lentamente il bambù chinò la sua magnifica chioma e sussurrò: “Signore, se non puoi usarmi senza abbattermi, abbattimi”. Così il Signore del giardino abbattè il bambù, poi lo portò dove sgorgava una fonte di acqua fresca, vicino ai suoi campi che soffrivano per la siccità. Delicatamente collegò alla sorgente una estremità dell’amato bambù e diresse l’altra verso i campi inariditi. La chiara e fresca acqua prese a scorrere nel corpo del bambù e raggiunse i campi. Fu piantato il riso e il raccolto fu ottimo.
Cecilia Corrias
Il Borgo Ragazzi Don Bosco nasce nel 1948, nell’immediato dopoguerra, quando i locali dell’ex caserma del forte Prenestino furono affidati ai salesiani perché si occupassero dell’accoglienza degli sciuscià, le centinaia di ragazzi che il conflitto bellico aveva lasciato senza genitori e che affollavano disperati le strade di Roma.
Da allora il Borgo è vocato all’accoglienza dei minori in difficoltà e alle loro famiglie e comprende al suo interno un oratorio centro giovanile, un centro di formazione professionale e un’area educativa definita “Rimettere le ali” dedita all’accoglienza e all’accompagnamento di ragazzi e adolescenti a rischio di emarginazione e nel disagio. Essa comprende una casa famiglia per 8 adolescenti a rischio, il movimento delle famiglie affidatarie e solidali, uno sportello per il sostegno psicologico rivolto a minori a rischio e loro famiglie e il Centro Accoglienza Minori che segue con percorsi destrutturati e personalizzati i minori che sono in dispersione scolastica o in situazione di rischio e devianza.
Per una casa salesiana che assume la missione dell’accoglienza viene spontaneo da subito orientare le proprie scelte alla dimensione comunitaria e a quella della Provvidenza incondizionata.
Attorno alle esigenze dei ragazzi è nata una rete di solidarietà che si è rafforzata nel tempo, prosperata sotto la guida dei salesiani, pastori attenti e premurosi e composta da volontari, cooperatori, ed ex allievi riuniti attorno all’eucarestia e al lavoro con Don Bosco.
La Provvidenza ha donato centinaia di ragazzi e con loro, salesiani, laici cresciuti alla scuola di Don Bosco, cooperatori, animatori, formatori, volontari e l’aiuto economico e morale di benefattori.
E il modo in cui sempre si è riusciti a dare nel tempo a ciascun ragazzo il diritto di sentirsi voluto bene e soggetto di fiducia sa di straordinario e divino ed ha rafforzato una spiritualità semplice e concreta.
La comunità educativa pastorale da un decennio ha fatto un percorso di consapevolezza rispetto al suo riconoscersi attorno alla predilezione per i minori in difficoltà in comunione fraterna. Questo lavoro si è concretizzato nell’ elaborazione concertata di un progetto educativo pastorale a cadenza triennale.
La comunità educativa e i suoi ragazzi sono indissolubilmente legati in un percorso di crescita umana integrale e di fede condiviso.
Nello stare con loro abbiamo fatto la scelta di mettere da parte il verbo recuperare per concentrarci su quello di “accompagnare”, che è la modalità che ha Dio di stare vicino a ciascun uomo e che è stata propria di Don Bosco.
L’accompagnare non prevede in sé il concetto di fallimento perché è un’azione che si può prolungare fino a quando la libertà e la vita di un ragazzo ce lo permettono, naturalmente con proposte valoriali e spirituali forti, ma con pazienza e perseveranza incondizionata.
E i ragazzi dal canto loro ci fanno vivere e ci insegnano il miracolo dell’affidarsi. Quando i loro muri cadono, quando sentono di essere amati la loro fiducia è assoluta. E noi facciamo memoria quotidiana di essere creature in mano ad un Signore Provvidente che si occupa di loro e di noi.
I ragazzi accolti sono italiani e stranieri e le loro appartenenze religiose le più svariate. La nostra attenzione alla loro crescita integrale e quindi alla dimensione spirituale, passa attraverso la nostra Proposta pastorale che si rifà alla Chiesa e alla spiritualità salesiana. Le nostre giornate iniziano con una preghiera a cui i ragazzi assistono e che dà a loro e a noi l’idea che nell’agire quotidiano ci sia la presenza forte di Qualcuno Altro e del suo occhio attento.
I ragazzi partecipano ai momenti forti dell’anno liturgico, con incontri di preparazione e con la partecipazione alla celebrazione eucaristica e l’adesione è alta indipendentemente dalla fede religiosa.
Ai ragazzi viene fatta inoltre la proposta di preparazione ai sacramenti, battesimo, comunione e cresima.
I segni più belli della presenza del Signore è quando i ragazzi ritornano a distanza di tempo chiedendo di potersi sposare al Borgo o di battezzare i loro bambini.
Crescere ed accompagnare sono verbi che vanno di pari passo e in quest’ottica non poteva mancare un’attenzione speciale alla dimensione vocazionale. Il Borgo accoglie da tre anni la “Comunità Proposta ed il Prenoviziato”, abbiamo tra noi i ragazzi che fanno il percorso di conoscenza e avvicinamento alla vita consacrata salesiana. Stanno quotidianamente tra i ragazzi e sono per loro motivo di interrogativi e presenze significative. Da due anni abbiamo con noi i novizi e da quest’anno anche le novizie FMA che svolgono il loro apostolato una volta alla settimana nelle nostre proposte educative. Sono per i ragazzi esempio di scelte forti e radicali e completano con la loro presenza il lavoro educativo. I ragazzi sono per loro lo strumento per mantenersi umili, misericordiosi e conservare un “cuore di carne”, secondo le parole di San Paolo.
La vita, il lavoro, il mistero sono indissolubili per chi si accinge a lavorare con i ragazzi in maniera autentica, responsabile ed appassionata.
Don Carlo Nanni, sdb
1. I giovani “sostanza” della vita di don Bosco
Don Bosco ha avuto un progetto di vita fortemente unitario: il servizio ai giovani. Lo realizzò con fermezza e costanza, tra ostacoli e fatiche, con la sensibilità di un cuore generoso. “Non diede passo non pronunciò parola, non mise mano ad impresa che non avesse di mira la salvezza della gioventù …realmente non ebbe a cuore altro che le anime” (Cost. 21) La sua vita è stata tutta pensata e vissuta nel “da mihi animas… dei giovani”. Ciò lo portò emotivamente ad avere una forte affezione per i giovani: “Basta che siate giovani, perché io vi ami assai” (Introd. a Il Giovane provv.). Le Costituzioni dei salesiani all’art.20 ci ricordano:
“Guidato da Maria che gli fu Maestra, Don Bosco visse nell’incontro con i giovani del primo oratorio un’esperienza spirituale ed educativa che chiamò "Sistema Preventivo". Era per lui un amore che si dona gratuitamente, attingendo alla carità di Dio che previene ogni creatura con la sua Provvidenza, l’accompagna con la sua presenza e la salva donando la vita.
2. L’educazione mistero teologale
A ben vedere l’esperienza educativa di don Bosco ci aiuta a cogliere il senso profondo dell’educazione: il «mistero dell’educazione».
La relazione educativa – punto centrale dell’educazione – come tutte le relazioni interpersonali, di gruppo, comunitarie, affonda la sua realtà nel mistero della vita, nel mistero delle persone, della loro interiorità per tanti versi “ineffabile”, delle libertà e delle dinamiche interpersonali profonde (La persona è un focolare di libertà, e perciò resta oscura come il centro della fiamma: E. Mounier) .
Ma l’esperienza educativo-pastorale di don Bosco, letta alla luce del mistero dell’incarnazione, permette di vede in maniera più profonda la relazione educativa.
Infatti porta a vederla e a viverla non solo avendo i giovani, lo studente o gli studenti come partner, come persona, come immagine e somiglianza di Dio, come modello dei “piccoli del Regno” di cui parla il Vangelo, ma più profondamente invita a vedere la relazione educativa e a provare a viverla come modalità accomunante di vivere e crescere insieme, docenti e alunni, in quanto tutti “figli nel Figlio”: cioè come relazione di fratellanza cristiana resa possibile da Gesù Cristo (pur nella differenziazione personale, di status, ruoli e funzioni) e come realizzazione, nel tempo, della mistero della vita e delle relazioni trinitarie: Cristo in noi e con noi, per lo Spirito, in comunione con Dio Padre (cfr. Gal 4, 4-7; Rom 8.14-17; 1Gv 3, 1-5;Gv 1,12) .
Più specificamente può permettere di sentire e considerare la relazione educativa e le diverse forme di comunità educativa come comunione di vita e espressione del mistero della Chiesa, in quanto docenti e studenti, a vario titolo sono “membri del corpo di Cristo che è la Chiesa” (come dice in molti suoi scritti san Paolo) o sono comunque all’interno del suo essere “sacramento di salvezza del e per il mondo”.
[Cfr. L’icona della partita educativa = gioco di squadra, insieme, educandi ed educatori “nel gioco” della crescita propria, altrui, comune, ognuno con ruoli e funzioni proprie e diverse (non tanto la “centralità del ragazzo”, che rischia di oggettivarlo, impedirgli di essere attivo e protagonista nella propria crescita)]. L’educazione cristianamente ispirata non sminuisce la consistenza e la validità del progetto di “vita buona” (“buoni cristiani e onesti cittadini” di don Bosco), posto a fine dell’azione educativa comune, ma l’integra e l’eleva alla pienezza del modello di umanità, che si è presentato nella storia con Cristo, verbo incarnato e risorto (cfr. Ef.4,13 e il n. 22 della GS); e ricompone la vita storica nella storia di salvezza, che trova i suoi inizi nel progetto creatore di Dio e che, nell’attualità del già esistente, grazie a Gesù, energia e speranza del mondo, si protende verso quel Regno di Dio, in cui trova esaudimento l’anelito umano di una piena liberazione e comunione con Dio. L’impegno educativo ne di venta un modo specifico a livello della formazione personale: che si vuole per tutti integrale e plenaria.
3. Il sistema preventivo “via aurea” per vivere il mistero della figliolanza
Se ci si mette in quest’ordine di idee, il sistema preventivo di don Bosco diventa molto più di una idea (=prevenire non reprimere cfr. Giuseppe Lombardo Radice) e di un metodo ( = ragione, religione amorevolezza).
Lo è. Ma per noi suoi figli è molto di più.
È – dicono sempre le Costituzioni al n. 20 già citato – «un modo di vivere e di lavorare per comunicare il Vangelo e salvare i giovani con loro e per mezzo di loro. Esso permea le nostre relazioni con Dio, i rapporti personali e la vita di comunità, nell’esercizio di una carità che sa farsi amare».
Se lo viviamo nel “mistero della figliolanza” allora anche per noi sarà possibile che saremo come don Bosco “contemplativi nell’azione”, “vivendo come Lui che “viveva come vedesse l’invisibile” (cfr. Cost. Sal. Art12 e 21).
Se è vero che «il cristiano del futuro o sarà mistico o non sarà neppure cristiano» (K. Rahner, Nuovi saggi, Roma 1968, p. 24), allora è chiaro che per noi salesiani e salesiane non c’è scampo: se vogliamo essere cristiani in questo nostro secolo, per noi non c’è altra “via mistica”: quella dell’ educazione, vissuta nel mistero della figliolanza e della vita trinitaria calata nel tempo e nella storia, nell’agire per l’uomo (= il giovane) e salvezza del mondo: noi oggi, come don Bosco nel suo tempo. Questa è la “grazia dell’unità” personale e comunitaria salesiana.
4. Un modo rinnovato di pensare, vivere e formarsi allo “spirito salesiano”
L’etica cristiana è un’etica della figliolanza, del sentirsi e dell’agire da figli “adottivi”: non un’etica del dovere per il dovere, del “political correct” o di uno stare ai patti, ma del vivere ed agire da “figli nel Figlio”, nell’amore e nella misericordia.
La figliolanza cristiana permette di capire meglio, vivere con senso di soddisfazione, e formarsi “in letizia” a quelli che sono i caposaldi dello spirito salesiano, cioè a quegli atteggiamenti e modalità virtuose che dicono la sostanza personale dell’essere e dell’agire salesiano.
Anche in questo caso mi rifaccio sinteticamente alle Costituzioni Salesiane (cap.II, intitolato “Lo spirito Salesiano” nn.10-21). Dopo aver precisato che il Cristo del Vangelo è la sorgente del nostro spirito, si prospetta che ne sono al contempo condizioni “virtuose” e espressioni comportamentali:
Ma a capo di tutto c’è quello che si afferma all’art. 39 delle Cost.: «La pratica del Sistema Preventivo esige da noi un atteggiamento di fondo: la simpatia e la volontà di contatto con i giovani: "Qui con voi mi trovo bene, è proprio la mia vita stare con voi"». Essa fa da struttura di base alle “competenze virtuose” di cui sopra e da strategia primordiale dell’agire educativo salesiano.
Conclusione
Un vecchio salesiano, don Pietro Gianola, diceva che occorre «voler bene, volere il bene, volerlo bene, facendolo bene!»
Ma anche questo è perché l’obiettivo ultimo e il fine proprio è:
«Volete fare una cosa buona? Educate la gioventù.
Volete fare una cosa santa? Educate la gioventù.
Volete fare cosa santissima? Educate la gioventù.
Volete fare cosa divina? Educate la gioventù.
Anzi questa tra le cose divine è divinissima!» (Don Bosco, MB, XIII, 629).
E il fine ultimo è: « perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10, 10).
Una Espiritualidad que se enraíza en la misión
Marco Pappalardo
Sam: «È come nelle grandi storie, padron Frodo, quelle che contano davvero, erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi sapere il finale, perché come poteva esserci un finale allegro, come poteva il mondo tornare com´era dopo che erano successe tante cose brutte; ma alla fine è solo una cosa passeggera, quest´ombra, anche l´oscurità deve passare, arriverà un nuovo giorno, e quando il sole splenderà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, anche se eri troppo piccolo per capire il perché, ma credo, padron Frodo, di capire ora, adesso so: le persone di quelle storie avevano molte occasioni di tornare indietro e non l´hanno fatto; andavano avanti, perché loro erano aggrappati a qualcosa».
Frodo: «Noi a cosa siamo aggrappati Sam?».
Sam: «C´è del buono in questo mondo, padron Frodo: è giusto combattere per questo!». (Dal film "Il Signore degli anelli - Le due torri").
Io ci credo: "C´è del buono a questo a mondo" e per questo cerco di combattere tutti i giorni "la buona battaglia"! Io ci credo e ve lo racconto attraverso alcune pennellate di vita: giovani che mi hanno aiutato a crescere (e mi aiutano ancora) come uomo e Salesiano Cooperatore, giovani per i quali vale la pena scommettere tutta la vita. Se la spiritualità è un modo di vivere il Vangelo e il Vangelo è la buona notizia dell´incontro con Gesù, per me il suo volto è nel volto di tanti ragazzi che, per dirla con "Il piccolo principe", mi hanno "addomesticato". Penso a Stefania che a 20 anni è morta di leucemia, ma qualche giorno prima ha voluto salutare tutte le persone che le erano state vicine. Sul letto della sua stanza, consumata dalla malattia nel fisico, non ha mai smesso di sorridere, mi ha raccomandato di non essere severo con i miei alunni, mi ha fatto la domanda più difficile che abbia mai ricevuto: «Prof, ma in Paradiso soffrirò ancora?». Penso a Giada che, facendo con me una sera - come ogni lunedì - volontariato con gli immigrati e i senza dimora, riceve 5 euro da un povero anziano contento a cui aveva dato un po´ di sollievo, quasi fosse sua nipote. Da allora quella banconota è incorniciata e appesa nella sua camera per ricordarle ciò per cui è importante vivere. Penso a Gianmaria che a scuola trovavo ogni giorno a fumare di nascosto nei bagni e al quale avrò spezzato una cinquantina di sigarette; da allora non smette di telefonarmi in tutte le feste per farmi gli auguri. Penso a Milena che, dopo una giornata difficile a scuola con una classe, mi raggiunge in corridoio, mi dà una pacca sulla spalla e mi dice con un gran sorriso: «Stia sereno, prof!». Penso a Gianni che, una mattina al campo estivo dell´oratorio, vedendomi preoccupato poiché la giornata era piovosa, mi dice: «Marco, di che ti preoccupi? L´importante è che il sole ce l´abbiamo dentro». Penso a Mohamed, conosciuto una sera sotto un portico, giunto da poco dopo uno sbarco: vistolo in cattive condizioni gli offriamo più di un pasto caldo ma, preso il primo, non accetta il secondo dicendoci: «No, grazie, perché Dio c´è anche domani!». Penso a Gaetano che viveva in un quartiere difficile della città e partecipava alle nostre attività oratoriane: finita la giornata di giochi, andai incontro a sua madre che di solito si teneva a distanza. Il figlio aveva la fama del discolo e si raccontava il peggio di lui. Avvicinatomi, mi sentii subito dire: «Che cosa ha combinato oggi questo delinquente?». Risposi con serenità e sorridendo: «Signora, complimenti! Suo figlio è stato bravissimo. Siamo davvero contenti di lui». La mamma non credeva alla sue orecchie, poi cominciò a piangere e abbracciò Gaetano. Chiesi perché piangesse e lei rispose: «Piango perché è la prima volta in dodici anni che qualcuno dice che mio figlio è stato bravo e che è contento di lui». Penso ai tanti ex-allievi che si stupiscono e non sanno come ringraziare quando gli telefono per far loro gli auguri del compleanno. Penso a Rosario, detto Saro, che tutti gli animatori rimproveravano all´oratorio, ma nessuno per mesi e mesi gli aveva mai chiesto come si chiamasse. Penso alle ore notturne passate in chat e sui social per parlare con Chiara che non si sente voluta bene da nessuno e vomita ciò che mangia. Penso a Giuseppe, un giovane ex-allievo, orfano di padre, che oggi è laureato e ha pubblicato una raccolta di poesia realizzando un suo piccolo sogno.
Allora ogni vita è una storia grande, di quelle che contano davvero e per poter vivere è necessario essere aggrappati a qualcosa, a Qualcuno. In questo mondo, nonostante tutto, c’è qualcosa di buono per cui vale la pena impegnarsi! Don Bosco scelse di puntare sul buono che c’era nei ragazzi, partendo proprio dagli ultimi e incontrandoli con il volto del Risorto, che è un volto che manifesta bontà e gioia. E noi, possiamo solo restare a guardare o ammirare quanto fatto da altri? Certo ad alcune situazioni dovrebbero pensarci le Istituzioni, ma non è forse vero che la prima "istituzione" è proprio l´uomo e che non saranno certo le Istituzioni ad andare in Paradiso o da qualche altra parte più giù? Nei luoghi in cui non siamo presenti noi, ci saranno altri pronti a rubare il cuore e la serenità ai giovani, offrendo il marcio a buon mercato e travestito di buono. In ognuna delle "Terre dell´Educazione" siamo chiamati a stare con uno sguardo da "risorti", con la gioia di chi ha incontrato Gesù Cristo, perché - se siamo tristi - vuol dire che abbiamo incontrato qualcun altro! Gesù poteva mai essere un uomo triste? Chi avrebbe mai seguito un giovane con il muso lungo, chi avrebbe mai passato del tempo con lui? E io? Sono di quelli che quando mi si chiede "come stai" rispondo "potrebbe andare meglio" o di quelli che rispondono "Bene! Di tutto ringrazio il Signore"? Sono certo che il bene è più contagioso del male; credo che una foresta intera che cresce possa fare più rumore di un albero che cade; sogno che chi nasce tondo possa morire quadrato al di là di tutte le leggi della geometria; m´impegno affinché da ogni sogni possa nascere un progetto di vita. Permettetemi, infine, di parlare del Paradiso perché la nostra vera missione è il cielo a partire da questa terra! Penso ci vogliate andare tutti in Paradiso, magari non subito. Io pure! Non andremo in Paradiso perché papa Francesco testimonia e vive la povertà e l´attenzione agli ultimi, non ci basterà dire a San Pietro: «Siamo amici di papa Francesco». Funzionerà forse un po´ come in certe discoteche o locali dove si entra solo se accompagnati, dove la donna entra gratis! Entreremo in Paradiso solo se saremo accompagnati dai giovani che avremo voluto bene e salvato, saranno loro il nostro pass, saranno loro il nostro biglietto di ingresso. L´augurio per questo nuovo anno e per tutta la vita è di camminare con i piedi per terra, lo sguardo in cielo, le maniche sbracciate per il lavoro; la missione è di essere felici, ma di non esserlo da soli!
Una spiritualità che si radica nella missione
Sr. Piera Ruffinatto
Il tema che mi è stato affidato per questo breve intervento a prima vista incuriosisce. Esso pare, infatti, capovolgere la logica con cui siamo soliti pensare la relazione contemplazione/azione; consacrazione/missione.
In effetti, la nostra percezione della realtà, condizionata da una logica lineare e temporale non ci facilita la sua comprensione essendo questa dominata dalla complessità e dalla contemporaneità. L’approccio migliore, al contrario, sembra essere quello sistemico che interpreta la realtà osservando le relazioni tra gli elementi che la compongono e le trasformazioni che avvengono nel momento in cui un dato elemento influenza l’altro e viceversa.
Filtrare la spiritualità e la missione di don Bosco con questo nuovo paradigma di conoscenza può aiutarci a cogliere dei legami nuovi da offrire agli uomini e alle donne del nostro tempo, alla ricerca di un principio unificante per la loro vita spesso dispersa e frammentata.
Ancora, è pure utile sgombrare il campo da una precomprensione legata ai termini spiritualità e missione quasi che l’uno sia antitetico all’altro. In realtà, quando parliamo di spiritualità secondo una visione cristiana, intendiamo riferirci a uno stile di vita, un modo di pensare se stessi in relazione a Dio, agli altri e al mondo. Spiritualità è il modo di comprendere la propria vita entro un orizzonte di senso che ci supera e ci trascende. È un “essere” (=spiritualità) che non si contrappone all’”agire” (=missione), ma che al contrario lo contiene e lo giustifica. Questo, mi pare, può essere l’orizzonte in cui la spiritualità educativa di don Bosco trova la sua migliore collocazione.
Nello spazio di questo breve intervento non mi sarà consentito di trattare la tematica se non con brevi cenni, semplici pennellate per abbozzare un disegno i cui confini sono difficilmente individuabili anche dagli esperti. Gli studiosi del santo, infatti, fanno notare come lo scavo nella spiritualità di don Bosco sia un’operazione tutt’altro che semplice. Egli può essere paragonato a un mare profondo, facile da navigare in superficie, ma i cui abissi rimangono celati a chi lo accosta esternamente, lasciandosi abbagliare dall’imponenza delle opere e non sforzandosi di penetrarne la solida e profonda spiritualità che sola ne giustifica l’origine e lo stile.
In effetti, è solo partendo dal rapporto di don Bosco con Dio che egli può essere compreso perché appartenente a quella rara categoria di uomini e donne il cui agire nella chiesa e nel mondo dipende totalmente dal loro radicamento nell’eterno, dalla comunione con Dio che dà stabilità e consistenza alla loro vita.
Dio, afferma Pietro Stella, è il Sole meridiano che illumina la vita di don Bosco, domina la sua mente, giustifica la sua azione. Qualunque sia il suo stato d’animo, egli sente e contempla Dio Creatore e Signore, principio e ragione di tutto. Egli è il primo ad essere presentato ai giovani nel libretto Il Giovane Provveduto, e agli adulti ne La chiave del Paradiso.[1]
Il Dio di don Bosco è anzitutto e soprattutto Padre, ricco di misericordia preveniente e provvidente che mai abbandona i suoi figli. Don Bosco è come dominato dalla certezza di essere amato e guidato dall’azione divina, per questo si sente strumento del Signore per una missione che non è sua, ma viene dall’alto.
È qui che si trova il raccordo tra spiritualità e missione, quasi una fusione in quanto la missione - essere strumento di Dio per la salvezza della gioventù - è per lui fonte di gioia e di trepidazione, proprio come lo fu per i profeti biblici i quali non potevano sottrarsi alla volontà divina, non solo per timore reverenziale, ma anche perché persuasi della bontà di Dio per tutti i suoi figli.[2]
La missione, così intesa, diventa il principio di unificazione della vita perché raccoglie le energie affettive, intellettive e volitive, e insieme le forze fisiche orientandole all’ideale, cioè il compimento del progetto rivelato. È questo il significato strategico del sogno vocazionale dei nove anni, ripetuto da don Bosco nelle svolte importanti della vita e che ne suggella il termine quando, nella Basilica del Sacro Cuore a Roma, egli “comprende” il senso profondo di tutti gli eventi occorsi nella sua vita di pastore educatore dei giovani.
Don Michele Rua, che del cuore di don Bosco conobbe i movimenti più profondi e ne contemplò in trasparenza la bellezza, sintetizzava tale esperienza con queste parole: «Don Bosco non diede passo, non pronunziò parola, non mise mano a impresa che non avesse di mira la salvezza dei giovani. Lasciò che altri accumulassero tesori, che altri cercassero piaceri e corressero dietro agli onori. Don Bosco realmente non ebbe a cuore altro che le anime, disse coi fatti, non solo colla parola: da mihi animas».[3]
Il da mihi animas è dunque il respiro della vita di don Bosco, il canto fermo della sua preghiera continua. Esso rivela il suo stile di rapporto con Dio, rapporto filiale e familiare per cui è possibile e doveroso non solo parlare di Dio, ma con Dio di ciò che gli sta più a cuore e a cui Egli è intimamente legato essendone il Creatore: l’umanità. E dell’umanità, in particolare, la porzione speciale che è la gioventù.
Entro la religiosità donboschiana, pervasa di fede e di fiducia nel Dio ricco di misericordia, la ricerca delle anime esprime il desiderio di avere le persone dei giovani non tanto per darle a Dio, perché Egli in realtà già le possiede, quanto piuttosto per renderle coscienti della loro identità profonda di figli di Dio, svelando a ciascuno l’immenso amore di predilezione con cui Dio le ama. Più che consegnarle a Dio, far sì che queste si consegnino a Lui nella reciprocità dell’amore.
Si spiega così il fatto che, come più volte affermato da don Bosco, senza religione la missione salesiana non può realizzarsi secondo il volere di Dio. Prima di essere iniziativa umana, infatti, l’educazione è opera della grazia di Dio che, attraverso i sacramenti, rigenera il giovane, conformemente alla sua intera verità, come persona chiamata a vivere in questo mondo, ma nell’attesa della vita futura. L’espressione “salvare le anime” si comprende solo in quest’orizzonte spirituale, dove l’azione salvifica è sempre e solo di Dio e ogni azione umana è a servizio di tale progetto.
La scelta di “non avere a cuore altro che le anime” porta don Bosco a “dire con i fatti” e non solo con la parola, da mihi animas, cioè a incarnare la sua fede nella vita, la spiritualità nella missione. Pensieri, parole, gesti, opere, tutto è orientato alla salvezza dei giovani realizzando un’azione unificatrice e armonizzatrice tra le dimensioni del suo essere ed esprimendo così l’aspetto mistico della missione dal quale deriva, senza soluzione di continuità, anche quello ascetico: lasciare ad altri l’accumulo dei tesori, la ricerca dei piaceri, la corsa agli onori.
Radicato nella pienezza d’essere di Dio, don Bosco oltrepassa le parvenze di avere, di potere, di sapere e di apparire che tanto fascino hanno su coloro che si lasciano dominare dall’uomo “vecchio”, per mettere in luce il suo essere profondo abitato da Dio. Egli ha imparato dal Cafasso, sua guida e maestro, che un uomo apostolico, prima di parlare di Dio o fare delle cose per Dio, vive per Dio. Il suo, è un essere per Lui, una consegna totale di sé nelle mani di Colui del quale si fida senza condizioni.
La fiducia in Dio e l’affidamento a Lui è la logica spirituale che permea le Memorie dell’Oratorio, uno dei documenti autobiografici più preziosi di don Bosco, attraverso il quale egli vuole istruire i suoi figli sul modo di rapportarsi con Dio di coloro che si consacrano al bene dei giovani in una missione che è autentico ministero spirituale.
Per don Bosco, il vero salesiano coltiva questo legame profondo con Dio nella preghiera e lo esprime all’esterno con la bontà, permeando tutte le sue azioni dell’unico grande scopo: la gloria di Dio e la salvezza delle anime. È in forza di questo compito che tutto il resto si ridimensiona, diventa come “spazzatura” al fine di guadagnare i giovani a Cristo.
Coloro che meglio hanno compreso don Bosco sono quelli che hanno saputo penetrare il mistero di questa unità vocazionale fondamento della spiritualità salesiana. Don Filippo Rinaldi, ad esempio, nota come don Bosco abbia «immedesimato alla massima perfezione la sua attività esterna, indefessa, assorbente, vastissima, piena di responsabilità, con una vita interiore che ebbe principio dal senso della presenza di Dio e che, un po’ per volta, divenne attuale, persistente e viva così da essere perfetta unione con Dio. In tal modo ha realizzato in sé lo stato più perfetto che è la contemplazione operante, l’estasi dell’azione, nella quale si è consumato fino all’ultimo, con serenità estatica, alla salvezza delle anime».[4]
L’estasi dell’azione – felice espressione ripresa in seguito da Egidio Viganò – esprime questa riuscita unità tra vita spirituale e apostolica che è la santità e che diventa il fine, il contenuto e il metodo del Sistema preventivo. Don Bosco svelava Dio ai giovani perché Lui era in Dio e coloro che l’accostavano subivano i benefici influssi della sua persona tutta raccolta in Dio e contemporaneamente a loro presente con un’attenzione ricca di bontà e di amore.
Lo “stare con Dio” di colui che vive l’estasi dell’azione, infatti, non è fuga dalla realtà e dai suoi problemi. Al contrario, è vivere abitualmente in Dio e ritrovare in Lui la stessa realtà a un livello più alto e più profondo per contenerla e trasfigurarla.
È questo, a mio avviso, uno dei significati dell’espressione con cui la liturgia celebra la santità di don Bosco, pastore dal cuore “grande come le sabbie del mare”. Il suo cuore, abitualmente fisso in Dio, era anche continuamente spalancato per i giovani come una casa accogliente in cui essi trovavano l’abbraccio di un padre, lo sguardo di un amico, la parola di un fratello.
Questo cuore, potremmo dire, era il vero laboratorio del Sistema preventivo, il segreto dell’e-ducere salesiano, nel senso che il contatto con la sua bontà e santità accendeva nel cuore dei giovani il desiderio di essere migliori, mentre con il suo amore pedagogico li risvegliava alla consapevolezza della loro dignità di figli di Dio creati per la comunione e l’amore, e poneva le premesse per il maturare di personalità capaci di impegnarsi nel mondo con responsabilità e solidarietà.
Si potrebbe continuare a lungo questa riflessione perché il cuore di don Bosco è veramente un oceano insondabile d’inesauribili ricchezze. Ci accompagna tuttavia la certezza che, egli, Padre e Fondatore della nostra Famiglia continua a vivere per noi e con noi il da mihi animas perché in questa preghiera fatta vita è la garanzia dell’autenticità evangelica del carisma salesiano nella chiesa, sorgente inesauribile d’identità e fecondità per il salesiano e la salesiana di oggi.
Il da mihi animas è un appello a vivere autenticamente la nostra vita unificandola attorno all’ideale della salvezza dei giovani. Non è semplicemente dare qualcosa di noi stessi, una parte del nostro tempo, i nostri saperi e talenti impiegandoli in una professione educativa. Non è tanto “dare le nostre cose”, quanto offrire noi stessi a Dio perché Lui ci usi come vuole e, per mezzo di Maria, ci conduca nel campo della sua missione.
Il da mihi animas vissuto nei fatti, incarnato nella vita, ci mette al riparo dal rischio di diventare burocrati dell’educazione, dominati dal funzionalismo e dall’efficientismo, e conferisce alla missione salesiana l’efficacia trasformatrice delle relazioni autentiche perché, oggi come ieri, illumina soltanto chi arde.
Il da mihi animas è anche principio di conversione continua, la molla segreta che ci spinge a lasciare ad altri l’accumulo dei tesori, la ricerca dei piaceri, la corsa agli onori, ad abbandonare il compromesso e la mediocrità, per essere ogni giorno più liberi di vivere la missione salesiana in sobrietà e temperanza.
Il da mihi animas infine, diventando principio unificatore della vita, ci preserva dalla dispersione e conferisce solidità e profondità alla nostra spiritualità aiutandoci a canalizzare le nostre forze verso l’ideale. La salvezza dei giovani diventa lo scopo della nostra vita, la sorgente dalla quale sgorga un agire calmo, pervaso di pace serena, come quella che splendeva gioiosa sul volto di don Bosco. Il da mihi animas mentre ci aiuta a ritrovare il senso del nostro agire, ce ne mostra anche il come. È un agire che scaturisce dall’essere. Essere presenti a se stessi, perché concentrati su Dio che ci abita; presenti agli altri – specialmente ai giovani – con attenzione di rispetto e di amore, di ascolto profondo e di sincera benevolenza; presenti alla storia perché in essa si contempla il compiersi dell’agire provvidente di Dio.
In un mondo dominato da comunicazioni tanto veloci quanto superficiali, espropriato dalla capacità di attenzione al momento presente, sempre rivolti come siamo al futuro prossimo o remoto dettato dall’agenda, il da mihi animas ci aiuta ad abitare il momento che fugge sapendo dare la priorità a ciò che lo merita. Se i giovani troveranno in noi persone così, cercheranno meno di rifugiarsi in mondi virtuali per sperimentare il calore che manca alle loro case vuote, perché avranno ritrovato finalmente una casa, una nuova Valdocco abitata da padri e madri, amici, fratelli e sorelle che dimorano là dove essi sono, li cercano nelle loro “periferie esistenziali”, vivono le loro croci, portando loro il Vangelo della salvezza, della bontà e della gioia.
È questo, del resto, quanto la chiesa, nella persona del Santo Padre Francesco, chiede a tutti i cristiani e ai consacrati. È questo quanto desidera don Bosco, nostro Padre e Fondatore, all’approssimarsi del bicentenario della sua nascita: che egli, cioè, possa rinascere nel cuore dei suoi figli e figlie, e nella loro vita tutta donata a Dio per la salvezza dei giovani, risplendere per incendiare il mondo.
[2] Cf ivi 24-26.
[3] Lettera di don Michele Rua ai Salesiani, 24 agosto 1894, citata in Costituzioni SDB art. 21.
[4] Rinaldi Filippo, Conferenze e scritti, Leumann (Torino), Elledici 1990, 144.