Giornate di Spiritualità della Famiglia Salesiana
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Programma - -
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Conclusione Preghiera
Cameroni - Casadei
- Cereda
- Di Natale
- Escribano
- Ferrero
- Gonzalez
- Maria Ko
- Munoz
- Sala
- Zanet
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Roma, 14-17 gennaio 2016
CON GESÙ, percorriamo insieme l´avventura dello Spirito!
Preghiera - -
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Preghiera della Famiglia Salesiana
O SPIRITO SANTO
INSEGNACI A GUARDARCI DENTRO,
AD ESPLORARE CON I GIOVANI LE PROFONDITA’ DEL CUORE,
PER CALMARE IN NOI LE DISSONANZE,
IL RUMORE DELLE PAROLE, I TURBINI DI VANITA’
E FA SORGERE NEL SILENZIO LA PAROLA CHE CI RICREA
SPIRITO CHE SUSSURRI AL NOSTRO SPIRITO
IL NOME DEL PADRE CHE E’ MISERICORDIA
VIENI A RADUNARE I NOSTRI DESIDERI
PERCHE’ SEMPRE, SENZA STANCARCI,
POSSIAMO CERCARE DIO
COME RISPOSTA ALLA TUA LUCE
O SPIRITO SANTO
DONACI UN CUORE GRANDE E FORTE
PRONTO AD INCONTRARE ED AMARE GESU’
CON LA PIENEZZA, LA PROFONDITA’ E LA GIOIA
CHE CI AFFASCINA E CI SPINGE
A PERCORRERE CON GESU’ E CON I GIOVANI
UN’AVVENTURA CHE RIEMPIE E RENDE BELLA LA VITA
VIENI, O SPIRITO SANTO,
APRICI ALLA TUA PAROLA ISPIRATRICE E SANTIFICATRICE,
PERCHE’ POSSIAMO VIVERE CON GIOIA
LA VOCAZIONE ALLA SANTITA’
COME TUOI DISCEPOLI E FIGLI DI DON BOSCO,
AL SERVIZIO DEI GIOVANI E DEI POVERI
SPIRITO DI DIO, LINFA D’AMORE
DELL’ALBERO IMMENSO SU CUI INNESTI LA FAMIGLIA SALESIANA
GRAZIE PER IL DONO DI TANTI FRATELLI E SORELLE
MEMBRA DI UN GRANDE CORPO IN CUI MATURA
IL FRUTTO DELLA “COMUNIONE”
AMEN
CONCLUSIONI - -
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PER COLTIVARE LA VITA INTERIORE NELLA FAMIGLIA SALESIANA
Mi impegno
Ci impegniamo
Attraverso
La Formazione congiunta e la condivisione progettuale
L’Accompagnamento reciproco
La Consulta della Famiglia Salesiana
La Carta d’Identità carismatica della Famiglia Salesiana
DOMENICA 17: Con GESU’, PERCORRIAMO INSIEME L’AVVENTURA DELLO SPIRITO
Moderatore: Don Eusebio Muñoz
8.00 Eucarestia presieduta dal Rettor Maggiore con omelia.
9.00 Colazione.
10.00 Celebrazione conclusiva: Don Fabio Pasqualetti.
10.15 Video informazione.
10.30 Presentazione del lavoro di gruppo: “Passi per coltivare la vita interiore nella Famiglia Salesiana”.
Intervento conclusivo del Rettor Maggiore.
12.30 Pranzo. Buon viaggio e buon rientro a casa!
GIOVEDÌ 14:PELLEGRINI IN CAMMINO: IL FASCINO DELL’AVVENTURA
Moderatori: Sig. Renato Cursi e Sig.ra Maria Benedetta Michelazzo
15.30 Arrivi e sistemazione.
15.45 Eucaristia (per chi desidera) presieduta da Don Pier Luigi Cameroni.
16.30 Benvenuto del Rettor Maggiore ai partecipanti.
Introduzione alle Giornate: Don Eusebio Muñoz, Delegato del Rettor Maggiore per la Famiglia Salesiana.
16.45 Preghiera: Don Fabio Pasqualetti
17,00 Pellegrini in cammino: l’avventura del pellegrinare dal punto di vista “Antropologico, Biblico, Teologico ed Ecclesiologico”. Don Francesco Di Natale, professore di Teologia Pastorale presso l’Istituto Teologico “ San Tommaso” di Messina.
17,45 Pausa
18.15 Dialogo del relatore con la sala, domande, risposte.
19:30 Cena.
21.15 Video del Bicentenario della nascita di Don Bosco.
Buona notte del Rettor Maggiore, Don Ángel Fernández Artime.
VENERDÌ 15: COINVOLTI NELL’AVVENTURA DELLO SPIRITO
Moderatori: Sig. Tullio Lucca e Sig.ra Simonetta Rossi
7.00 – 8.30 Colazione.
8.45 Preghiera: Don Fabio Pasqualetti
9.00 Video informazione.
9.15 I Protagonisti del cammino: Gesù e Maria
CON GESÙ, percorriamo insieme l´avventura dello Spirito! Presentazione della Strenna 2016 da parte del Rettor Maggiore, Don Ángel Fernández Artime.
10.15 Pausa
10.45 “Maria Donna pellegrina che cammina guidata dallo Spirito Santo”. Maria icona della Chiesa pellegrina. Suor Maria Ko, prof.ssa di Sacra Scrittura dell’Auxilium.
12:00 Dialogo con le persone in sala.
12.15 Celebrazione Eucaristica presieduta dal Rettor Maggiore. Predica: Don Stefano Martoglio.
13.00 Pranzo.
15.30 Interiorità e spiritualità di Don Bosco e dei Santi Salesiani.
üDon Bosco: il fascino e la fatica dell’avventura dello spirito: “Vita interiore e vita spiritualità”. Un’avventura che implica, partire (io) … camminare (altri) … arrivare, andare oltre (Dio) … Don Bruno Ferrero.
Dialogo con le persone in sala.
16.30 Pausa
17.00 Tavola rotonda:
üProfili di Santità salesiana: Interiorità e Spiritualità.
Dialogo con le persone in sala.
18.30 Pausa
18.45 Cena
19.45 Partenza per Cinecittà: “Don Bosco il musical” con Marcello Cirillo.
Buona notte (Rettor Maggiore).
SABATO 16: COINVOLTI INSIEME, CON I GIOVANI, GUIDATI DALLO SPIRITO
Moderatori: Sig. Michal Hort e Sig.ra Martina Hortová.
7.00 – 8.30 Colazione.
8.45 Celebrazione iniziale: Don Fabio Pasqualetti.
9.00 Video informazione.
9.15 “Il mio cammino di vita interiore e di vita spirituale” (pellegrinaggio, passi, avventura).
Testimonianze: Sig. Rubén Escribano Caro, sdb, Sig. Antonio González, SSCC, Spagna, Emma Ciccarelli, Vicepresidente Nazionale del Forum delle Famiglie.
10:15 Pausa
10:45 Dialogo dei partecipanti in sala con i relatori
11:30 Il cammino si esprime nell’esperienza comunitaria di fede. Vita spirituale, vita interiore, cosa, perché? La ricerca è un movimento verso l’io (partire), verso gli altri (camminare) e verso Dio (arrivare: andare oltre) Don Rossano Sala.
12.30 Dialogo in sala con il relatore.
13.00 Pranzo.
15.30 Momento di celebrazione-preghiera creativa impostato sulla Misericordia, interiorità e spiritualità avendo come guida quanto indicato dal Papa nella “Bolla di indizione del Giubileo straordinario della Misericordia”:Don Fabio Pasqualetti
16:15 Pausa
16:45 Lavori di gruppo: “Passi per coltivare la vita interiore nella Famiglia Salesiana”.
18.30 Eucarestia Presieduta dal Rettor Maggiore. Predica: Don Maria Arokiam Kanaga, Regionale dell’Asia Sud.
19.45 Cena
21.15 Buona notte: Nuova superiora delle Sorelle della Carità di Gesù: Sr Teresina Furuki Ryoko. Serata di fraternità con la partecipazione di tutti. Coordina: Sig. Armando Bellocchi.
La vita secondo lo Spirito in Mamma Margherita
Don Pierluigi Cameroni
Don Lemoyne nella prefazione alla vita di Mamma Margherita ci lascia un ritratto davvero singolare: “Non descriveremo fatti straordinari ed eroici, ma ritrarremo una vita semplice, costante nella pratica del bene, vigilante nell’educazione dei figli, rassegnata e previdente nelle angustie della vita, risoluta in tutto ciò che il dovere le imponeva. Non ricca, ma con un cuore da regina; non istruita in scienze profane, ma educata nel santo timore di Dio; priva ben presto di chi doveva essere il suo sostegno, ma sicura con l’energia della sua volontà appoggiata all’aiuto celeste, seppe condurre a termine felicemente la missione che Dio le aveva affidata”[1].
Con queste parole ci vengono offerti i tasselli di un mosaico e un canovaccio su cui possiamo costruire l’avventura dello Spirito che il Signore ha fatto vivere a questa donna che, docile allo Spirto, si è rimboccata le mani affrontando la vita con fede operosa e carità materna. Percorreremo le tappe di questa avventura con la categoria biblica dell’“esodo”, espressione di autentico cammino nell’obbedienza della fede. Anche Mamma Margherita ha vissuto le sue “uscite”, anche lei ha camminato verso “una terra promessa”, attraversando il deserto e superando prove. Questo cammino lo cogliamo in modo riflesso nella luce del suo rapporto con il figlio e secondo due dinamiche tipiche della vita nello Spirito: una meno visibile, costituita dal dinamismo interiore del cambiamento di sé, condizione previa e indispensabile per aiutare gli altri; l’altra più immediata e documentabile: la capacità di rimboccarsi le maniche per amare il prossimo in carne e ossa, vendendo in soccorso di chi avesse bisogno.
Margherita fu educata nella fede, visse e morì nella fede. “Dio era in cima a tutti i suoi pensieri”. Sentiva di vivere alla presenza di Dio ed esprimeva questa persuasione con l’affermazione a lei abituale: “Dio ti vede”. Tutto le parlava della paternità di Dio e grande era in la fiducia nella Provvidenza, dimostrando gratitudine a Dio per i doni ricevuti e riconoscenza a tutti coloro che erano strumenti della Provvidenza. Margherita trascorre la sua vita in continua e incessante ricerca della volontà di Dio, unico criterio operativo delle sue scelte e delle sue azioni.
A 23 anni sposa Francesco Bosco, rimasto vedovo a 27 anni, con il figlio Antonio e con la madre semiparalizzata. Margherita non diventa solo moglie, ma mamma adottiva e aiuto per la suocera. Questo passo è per i due sposi il più importante perché sanno bene che l’aver ricevuto santamente il sacramento del matrimonio è per loro fonte di molte benedizioni: per la serenità e la pace in famiglia, per i futuri figli, per il lavoro e per superare i momenti difficili della vita. Margherita vive con fedeltà e fecondità il suo sposalizio con Francesco Bosco. I loro anelli saranno segno di una fecondità che si allargherà alla famiglia fondata dal figlio Giovanni. Tutto ciò susciterà in don Bosco e nei suoi ragazzi un grande senso di riconoscenza e di amore verso questa coppia di santi coniugi e genitori.
Solo dopo cinque anni di matrimonio, nel 1817, il marito Francesco muore. Don Bosco ricorderà che, uscendo dalla stanza la mamma in lacrime “mi prese per mano”, e lo portò fuori. Ecco l’icona spirituale ed educativa di questa madre. Prende per mano il figlio e lo conduce fuori. Già da questo momento c’è quel “prendere per mano”, che accomunerà madre e figlio sia nel cammino vocazionale che nella missione educativa.
Margherita si trova in una situazione molto difficile dal punto di vista affettivo ed economico, compresa una pretestuosa vertenza mossale dalla famiglia Biglione. Ci sono debiti da pagare, il duro lavoro nei campi e una terribile carestia da affrontare, ma lei vive tutte queste prove con grande fede e incondizionata fiducia nella Provvidenza.
La vedovanza le apre una nuova vocazione di educatrice attenta e profonda dei figli. Ella si dedica con tenacia e coraggio alla sua famiglia, rifiutando una vantaggiosa proposta matrimoniale. “Dio mi ha dato un marito e me lo ha tolto; morendo egli mi affidò tre figli, ed io sarei madre crudele, se li abbandonassi nel momento in cui hanno più bisogno di me… Il tutore… è un amico, io sono la madre dei miei figli; non li abbandonerò mai, quando anche mi si volesse dare tutto l’oro del mondo”[2].
Educa saggiamente i figli, anticipando l’ispirazione pedagogica del sistema preventivo. È una donna che ha fatto la scelta di Dio e sa trasmettere ai suoi figli, nella vita di tutti i giorni, il senso della sua presenza. Lo fa in modo semplice, spontaneo, incisivo, cogliendo tutte le piccole occasioni per educarli a vivere nella luce della fede. Lo fa anticipando quel metodo “della parola all’orecchio” che don Bosco userà poi con i ragazzi per richiamarli alla vita di grazia, alla presenza di Dio. Lo fa aiutando a riconoscere nelle creature l’opera del Creatore, che è Padre provvidente e buono. Lo fa raccontando i fatti del vangelo e la vita dei santi.
Educazione cristiana. Prepara i figli a ricevere i sacramenti, trasmettendo loro un vivissimo senso della grandezza dei misteri di Dio. Giovannino Bosco riceve la prima Comunione il giorno di Pasqua del 1826: “O caro figlio, fu questo per te un gran giorno. Sono persuasa che Dio ha veramente preso possesso del tuo cuore. Ora promettigli di fare quanto puoi per conservarti buono fino alla fine della tua vita.”[3]. Queste parole di Mamma Margherita fanno di lei, una vera madre spirituale dei suoi figli, in particolare di Giovannino, che si dimostrerà subito sensibile a questi insegnamenti, che hanno il sapore di una vera iniziazione, espressione della capacità di introdurre al mistero della grazia in una donna illetterata, ma ricca della sapienza dei piccoli.
La fede in Dio si riflette nell’esigenza di rettitudine morale che pratica in se stessa e inculca nei figli. “Contro il peccato aveva dichiarato una guerra perpetua. Non solo abborriva essa ciò che era male, ma si studiava di tenere lontano l’offesa del Signore anche da coloro che non le appartenevano. Quindi era sempre all’erta contro lo scandalo, prudente, ma risoluta e a costo di qualunque sacrificio”[4].
Il cuore che anima la vita di Mamma Margherita è un immenso amore e devozione verso la santissima Eucaristia. Ne sperimenta il valore salvifico e redentore nella partecipazione al santo sacrificio e nell’accettare le prove della vita. A questa fede e a questo amore educa i suoi figli fin dalla più tenera età, trasmettendo quella convinzione spirituale ed educativa che troverà in don Bosco un prete innamorato dell’Eucaristia e che farà dell’Eucaristia una colonna del suo sistema educativo.
La fede trova espressione nella vita di preghiera e in particolare la preghiera in comune in famiglia. Mamma Margherita trova la forza della buona educazione in un’intensa e curata vita cristiana. Precede con l’esempio e orienta con la parola. Alla sua scuola Giovannino apprende così in forma vitale la forza preventiva della grazia di Dio. “L´istruzione religiosa, che imparte una madre con la parola, con l´esempio, col confrontare la condotta del figlio coi precetti particolari del catechismo, fa sì che la pratica della Religione diventi normale e il peccato si rifiuti per istinto, come per istinto si ama il bene. L´esser buono diventa un´abitudine, e la virtù non costa grande sforzo. Un fanciullo cosi educato deve fare una violenza a se stesso per divenir malvagio.Margherita conosceva la forza di simile educazione cristiana e come la legge di Dio, insegnata col catechismo tutte le sere e ricordata di frequente anche lungo il giorno, fosse il mezzo sicuro per rendere i figli obbedienti ai precetti materni. Essa quindi ripeteva le domande e le risposte tante volte, quanto era necessario perché i figli le imparassero a memoria”[5].
Testimone di carità. Nella sua povertà pratica con gioia l’ospitalità, senza fare distinzioni, né esclusioni, aiuta i poveri, vista i malati e i figli apprendono da lei ad amare smisuratamente gli ultimi. “Era di carattere sensibilissimo, ma questa sensibilità era talmente trasnaturata in carità, che a buon diritto poteva esser chiamata la mamma di coloro che si trovavano in necessità”[6]. Questa carità si manifesta in una spiccata capacità di comprendere le situazioni, di trattare con le persone, di fare scelte giuste al momento giusto, di evitare eccessi e di mantenere in tutto un grande equilibrio: “Una donna di molto senno” (Don Giacinto Ballesio). La ragionevolezza dei suoi insegnamenti, la coerenza personale e la fermezza senza ira, toccano l’animo dei ragazzi. I proverbi e i detti fioriscono con facilità sulle sue labbra e in essi condensa precetti di vita: “Una cattiva lavandaia non trova mai una buona pietra”; “Chi a vent’anni non sa, a trenta non fa e sciocco morrà”; “La coscienza è come il solletico, chi lo sente e chi non lo sente”.
In particolare va sottolineato come Giovannino Bosco sarà un grande educatore dei ragazzi, “perché aveva avuto una mamma che aveva educato la sua affettività. Una mamma buona, carina, forte. Con tanto amore educò il suo cuore. Non si può capire Don Bosco senza Mamma Margherita. Non lo si può capire”[7]. Mamma Margherita ha contribuito con la sua mediazione materna all’opera dello Spirito nella plasmazione e formazione del cuore del figlio. Don Bosco imparò ad amare, come egli stesso dichiara, in seno alla Chiesa, grazie a Mamma Margherita e con l’intervento soprannaturale di Maria, che gli fu data da Gesù come “Madre e Maestra”.
Un momento di grande prova per Margherita sono le difficili relazioni tra i figli. “I tre figlioletti di Margherita, Antonio, Giuseppe e Giovanni, erano diversi per indole e per inclinazioni. Antonio era rozzo di modi, di poca o nessuna delicatezza di sentimenti, esageratore manesco, vero ritratto del Me ne infischio io! Viveva di prepotenze. Spesse volte si lasciava andare a battere i fratellini e Mamma Margherita doveva correre per levarglieli di mano. Essa però non usò mai della forza per difenderli e fedele alla sua massima, non torse mai ad Antonio neppure un capello. Si può immaginare qual padronanza avesse Margherita sovra di sé per comprimere la voce del sangue e dell’amore che portava sviscerato a Giuseppe e a Giovanni. Antonio era stato messo a scuola e avea imparato a leggere e a scrivere, ma vantavasi di non aver mai studiato e di non essere andato a scuola. Non avea attitudine agli studi, si occupava dei lavori nella campagna”[8].
D’altra parte Antonio era in situazione di particolare disagio: maggiore di età, era ferito nella sua duplice condizione di orfano di padre e di madre. Egli nonostante le sue intemperanze è in genere remissivo, grazie all’atteggiamento di Mamma Margherita che riesce a dominarlo con bontà ragionante. Col tempo purtroppo la sua insofferenza nei confronti soprattutto di Giovannino, che non si lasciava facilmente sottomettere, andrà crescendo e anche le sue reazioni nei confronti di Mamma Margherita saranno più dure e a volte pesanti. In particolare Antonio non accetta che Giovannino si dedichi agli studi e le tensioni arriveranno a un punto culminante: “Voglio finirla con questa grammatica. Io sono venuto grande e grosso non ho mai veduto questi libri”[9]. Antonio è figlio del suo tempo e della sua condizione contadina e non riesce né a comprendere, né ad accettare che il fratello possa dedicarsi allo studio. Tutti sono turbati, ma chi soffre più di tutti è Mamma Margherita, che era coinvolta in prima persona e aveva giorno dopo giorno la guerra in casa: “Mia madre era afflittissima, io piangeva, il cappellano addolorato”[10].
Di fronte alla gelosia e all’ostilità di Antonio, Margherita cerca la soluzione ai conflitti famigliari, inviando per circa due anni Giovannino alla cascina Moglia e successivamente provvede in modo irremovibile, di fronte alla resistenze di Antonio, alla divisione dei beni, al fine di permettere a Giovanni di studiare. Certamente è solo il dodicenne Giovannino che se ne va da casa, ma anche la Madre vive questo profondo distacco. Non dimentichiamo che don Bosco nelle Memorie dell’oratorio di questo periodo non ne parla. Tale silenzio fa pensare ad un vissuto difficile da elaborare, essendo in quel tempo un ragazzino di dodici anni, costretto ad andarsene da casa per l’impossibilità di convivenza con il fratello. Giovanni soffre in silenzio, attende l’ora della Provvidenza e con lui Mamma Margherita, che non vuole chiudere il cammino del figlio, ma aprirlo attraverso vie speciali, affidandolo ad una buona famiglia. La soluzione presa dalla mamma e accettata dal figlio era una scelta temporanea in vista di una soluzione definitiva. Era fiducia e abbandono in Dio. Madre e figlio vivono una stagione di attesa.
Dal sogno dei nove anni, quando è la sola ad intuire la vocazione del figlio, “chissà che non abbia a diventare prete”, è la più convinta e tenace sostenitrice della vocazione del figlio, affrontando per questo umiliazioni e sacrifici: “Sua madre allora, che voleva secondarlo a costo di qualunque scrifizio, non esitò a prendere la risoluzione di fargli frequentare le scuole pubbliche di Chieri nell’anno seguente. Quindi si diede premura di trovar persone veramente cristiane presso le quali potesse collocarlo in pensione”[11]. Margherita segue con discrezione il cammino vocazionale e formativo di Giovanni, tra gravi strettezze economiche.
Lo lascia sempre libro nelle sue scelte e non condiziona per nulla il suo cammino verso il sacerdozio, ma quando il parroco cerca di convincere Margherita perché Giovanni non intraprenda una scelta di vita religiosa, così da garantirle una sicurezza economica e un aiuto, subito raggiunge il figlio e pronuncia delle parole che resteranno scolpite tutta la vita nel cuore di don Bosco: “Io voglio solamente che tu esamini attentamente il passo che vuoi fare, e che poi seguiti la tua vocazione senza guardar ad alcuno. Il parroco voleva che io ti dissuadessi da questa decisione, in vista del bisogno che potrei avere in avvenire del tuo aiuto. Ma io dico: in queste cose non c’entro, perché Dio è prima di tutto. Non prenderti fastidio per me. Io da te non voglio niente; niente aspetto da te. Ritieni bene: sono nata in povertà, sono vissuta in povertà, voglio morire in povertà. Anzi te lo protesto. Se tu ti risolvessi allo stato di prete secolare e per sventura diventassi ricco, io non verrò a farti neppure una sola visita, anzi non porrò mai più piede in casa tua. Ricordalo bene!”[12]. E credo che don Bosco se lo sia ben ricordato.
Ma in questo cammino vocazionale non manca di essere forte nei confronti del figlio, ricordandogli, in occasione della partenza per il seminario di Chieri, le esigenze legate alla vita sacerdotale: “Giovanni mio, tu hai vestito l’abito sacerdotale; io ne provo tutta la consolazione che una madre può provare per la fortuna di suo figlio. Ma ricordati che non è l’abito che onora il tuo stato, è la pratica della virtù. Se mai tu venissi a dubitare di tua vocazione, ah per carità! non disonorare quest’abito! Deponilo tosto. Amo meglio avere un povero contadino, che un figlio prete trascurato nei suoi doveri”[13]. Don Bosco non dimenticherà mai queste parole di sua madre, espressione sia della coscienza della dignità sacerdotale, che frutto di una vita profondamente retta e santa.
Il giorno della Prima Messa di don Bosco ancora una volta Margherita si rende presente con parole ispirate dallo Spirito, sia esprimendo il valore autentico del ministero sacerdotale che la consegna totale del figlio alla sua missione senza alcuna pretesa o richiesta: “Sei prete; dici la Messa; da qui avanti sei adunque più vicino a Gesù Cristo. Ricordati però che incominciare a dir Messa vuol dire cominciar a patire. Non te ne accorgerai subito, ma a poco a poco vedrai che tua madre ti ha detto la verità. Sono sicura che tutti i giorni pregherai per me, sia ancora io viva, o sia già morta; ciò mi basta. Tu da qui innanzi pensa solamente alla salute delle anime e non prenderti nessun pensiero di me”[14]. Lei rinuncia completamente al figlio per offrirlo al servizio della Chiesa. Ma perdendolo lo ritrova, condividendo la sua missione educativa e pastorale tra i giovani.
Don Bosco aveva apprezzato e riconosciuto i grandi valori che aveva attinti nella sua famiglia: la sapienza contadina, la sana furbizia, il senso del lavoro, l’essenzialità delle cose, l’industriosità nel darsi da fare, l’ottimismo a tutta prova, la resistenza nei momenti di sfortuna, la capacità di ripresa dopo le batoste, l’allegria sempre e comunque, lo spirito di solidarietà, la fede viva, la verità e l’intensità degli affetti, il gusto per l’accoglienza e l’ospitalità; tutti beni che aveva trovato a casa sua e che lo avevano costruito in quel modo. È talmente segnato da questa esperienza che, quando pensa a un’istituzione educativa per i suoi ragazzi non vuole altro nome che quello di “casa” e definisce lo spirito che avrebbe dovuto improntarla con l’espressione “spirito di famiglia”. E per dare l’impronta giusta chiede a Mamma Margherita, ormai anziana e stanca, di lasciare la tranquillità della sua casetta in collina per scendere in città e prendersi cura di quei ragazzi raccolti dalla strada, quelli che le daranno non poche preoccupazioni e dispiaceri. Ma lei va ad aiutare don Bosco e a fare da mamma a chi non ha più famiglia e affetti. Se Giovanni Bosco impara alla scuola di Mamma Margherita l’arte di amare in modo concreto, generoso, disinteressato e verso tutti, la mamma condividerà fino in fondo e fino alla fine la scelta del figlio di dedicare la vita per la salvezza dei giovani. Questa comunione di spirito e di azione tra figlio e madre segna l’inizio dell’opera salesiana, coinvolgendo tante persone in questa divina avventura. Dopo aver raggiunto una situazione di tranquillità, accetta, non più giovane, di abbandonare la quieta vita e la sicurezza dei Becchi per recarsi a Torino in una zona periferica e in una casa spoglia di tutto. È una vera ripartenza nella sua vita!
Don Bosco dunque, dopo aver pensato e ripensato come uscire dalle difficoltà, andò a parlarne col proprio Parroco di Castelnuovo, esponendogli la sua necessità e i suoi timori.
- Hai tua madre! Rispose il Parroco senza esitare un istante: falla venire con te a Torino.
D. Bosco, che aveva preveduto questa risposta, volle fare alcune riflessioni, ma D. Cinzano gli replicò: - Piglia con te tua madre. Non troverai nessuna persona più adatta di lei all´opera. Sta tranquillo; avrai un angelo al fianco! D. Bosco ritornò a casa convinto dalle ragioni postegli sott´occhio dal Prevosto. Tuttavia lo trattenevano ancora due motivi. Il primo era la vita di privazioni e di mutate abitudini, alle quali la madre avrebbe naturalmente dovuto andare soggetta in quella nuova posizione. La seconda proveniva dalla ripugnanza che egli provava nel proporre alla madre un ufficio che l´avrebbe resa in certo qual modo dipendente da lui. Per D. Bosco sua mamma era tutto, e col fratello Giuseppe, era abituato a tenere per legge indiscutibile ogni suo desiderio. Tuttavia dopo aver pensato e pregato, vedendo che non rimaneva altra scelta, concluse:
- Mia madre è una santa e quindi posso farle la proposta!
Un giorno dunque la prese in disparte e così le parlò:
- Io ho deciso, o madre, di far ritorno a Torino fra i miei cari giovanetti. D´ora innanzi non stando più al Rifugio avrei bisogno di una persona di servizio; ma il luogo dove mi toccherà abitare in Valdocco, per causa di certe persone che vi dimorano vicino, è molto rischioso, e non mi lascia tranquillo. Ho dunque bisogno di avere al mio fianco una salvaguardia per levar via ai malevoli ogni motivo di sospetto e di chiacchiere. Voi sola mi potreste togliere da ogni timore; non verreste volentieri a stare con me? - A questa uscita non attesa la piadonna rimase alquanto pensosa, e poi rispose: - Mio caro figlio, tu puoi immaginare quanto costi al mio cuore l´abbandonare questa casa, tuo fratello e gli altri cari; ma se ti pare che tal cosa possa piacere al Signore io sono pronta a seguirti. - D. Bosco l´assicurò, e ringraziatala, concluse: - Disponiamo dunque le cose, e dopo la festa dei Santi partiremo. Margherita si recava ad abitare col figlio, non già per condurre una vita più comoda e dilettevole, ma per dividere con lui stenti e pene a sollievo di più centinaia di ragazzi poveri ed abbandonati; vi si recava, non già attirata da cupidigia di guadagno, ma dall´amor di Dio e delle anime, perché sapeva che la parte di sacro ministero, presa ad esercitare da D. Bosco, lungi dal porgergli risorsa o lucro di sorta, lo obbligava a spendere i propri beni, e inoltre a cercare elemosina. Ella non si arrestò; anzi, ammirando il coraggio e lo zelo del figlio, si sentì maggiormente stimolata a farsene compagna ed imitatrice, sino alla morte[15].
Margherita vive all’oratorio portando quel calore materno e la saggezza di una donna profondamente cristiana, la dedizione eroica al figlio in tempi difficili per la sua salute e la sua incolumità fisica, esercitando in tal modo un’autentica maternità spirituale e materiale verso il figlio sacerdote. Di fatti si stabilisce a Valdocco non solo per cooperare all’opera iniziata dal figlio, ma anche per fugare ogni occasione di maldicenza che potesse sorgere dalla vicinanza di locali equivoci.
Lascia la tranquilla sicurezza della casa di Giuseppe per avventurarsi con il figlio in una missione non facile e rischiosa. Vive il suo tempo in una dedizione senza riserve per i giovanetti “di cui erasi costituita madre”. Ama i ragazzi dell’oratorio come suoi figli e si adopera per il loro benessere, la loro educazione e la vita spirituale, dando all’oratorio quel clima famigliare che fin dalle origini sarà una caratteristica delle case salesiane. “Se esiste la santità delle estasi e delle visoni, esiste anche quella delle pentole da pulire e delle calze da rammendare. Mamma Margherita fu una santa così”[16]. Nei rapporti con i ragazzi ebbe un comportamento esemplare, distinguendosi per la sua finezza di carità e la sua umiltà nel servire, riservandosi le occupazioni più umili. Il suo intuito di madre e di donna spirituale risulta nel riconoscere in Domenico Savio un’opera straordinaria della grazia.
Anche all’oratorio tuttavia non mancano situazioni di prova e quando ci fu un momento di tentennamento per la durezza dell’esperienza, dovuta a una vita molto esigente, lo sguardo al Crocifisso additato dal figlio basta a infonderle energie nuove: “Da quell´istante più non isfuggì dal suo labbro una parola di lamento. Parve anzi d’allora in poi insensibile a quelle miserie”[17].
Bene riassume don Rua la testimonianza di Mamma Margherita all’oratorio, con la quale visse quattro anni: “Donna veramente cristiana, pia, di cuore generoso e coraggiosa, prudente, che tutta si consacrò alla buona educazione dei suoi figli e della sua famiglia adottiva”.
Era nata povera. Visse povera. Morì povera con indosso l’unico abito che usava; in tasca 12 lire destinate a comprarne uno nuovo, che mai acquistò.
Anche nell’ora della morte è rivolta al figlio amato e lo lascia con parole degne della donna saggia: “Abbi grande confidenza con quelli che lavorano con te nella vigna del Signore… Sta’ attento che molti invece della gloria di Dio cercano l’utilità propria… Non cercare né eleganza né splendore nelle opere. Cerca la gloria di Dio, abbi per base la povertà di fatto. Molti amano la povertà negli altri, ma non in se stessi. L’insegnamento più efficace è fare noi per i primi quello che comandiamo agli altri”[18].
Margherita che aveva consacrato Giovanni alla Vergine Santissima, a Lei lo aveva affidato agli inizi degli studi, raccomandandogli la devozione e la propagazione dell’amore a Maria, ora lo rassicura: “La Madonna non mancherà di guidare le cose tue”.
Tutta la sua vita fu un dono totale di sé. Sul letto di morte può dire: “Ho fatto tutta la mia parte”. Muore a 58 anni nell’oratorio di Valdocco il 25 novembre 1856. Al cimitero l’accompagnano i ragazzi dell’oratorio piangendola come “Mamma”.
Don Bosco addolorato dice a Pietro Enria: “Abbiamo perduto la madre, ma sono certo che essa ci aiuterà dal Paradiso. Era una santa!”. E lo stesso Enria aggiunge: “Don Bosco non esagerò a chiamarla santa, perché essa si sacrificò per noi e fu per tutti una vera madre”[19].
Concludendo
Mamma Margherita fu una donna ricca di vita interiore e dalla fede granitica, sensibile e docile alla voce dello Spirito, pronta a cogliere e realizzare la volontà di Dio, attenta ai problemi del prossimo, disponibile nel provvedere ai bisogni dei più poveri e soprattutto dei giovani abbandonati. Don Bosco ricorderà sempre gli insegnamenti e ciò che aveva appreso alla scuola della mamma e tale tradizione segnerà il suo sistema educativo e la sua spiritualità. Don Bosco aveva sperimentato che la formazione della sua personalità era vitalmente radicata nello straordinario clima di dedizione e di bontà della sua famiglia e ha voluto riprodurne le qualità più significative nella sua opera. Margherita intrecciò la sua vita con quella del figlio e con gli inizi dell’opera salesiana: fu la prima “cooperatrice” di don Bosco; con bontà fattiva divenne l’elemento materno del sistema preventivo. Alla scuola di don Bosco e di Mamma Margherita ciò significa curare la formazione delle coscienze, educare alla fortezza della vita virtuosa nella lotta, senza sconti e compromessi, contro il peccato, con l’aiuto dei sacramenti dell’eucarestia e della riconciliazione, crescendo nella docilità personale, famigliare e comunitaria alle ispirazioni e mozioni dello Spirito Santo per rafforzare le ragioni del bene e testimoniare la bellezza della fede.
Per tutta la Famiglia Salesiana questa testimonianza è un ulteriore invito ad assumere un’attenzione privilegiata alla famiglia nella pastorale giovanile, formando e coinvolgendo i genitori nell’azione educativa e evangelizzatrice dei figli, valorizzandone l’apporto negli itinerari di educazione affettiva e favorendo nuove forme di evangelizzazione e di catechesi delle famiglie e attraverso le famiglie.
Mamma Margherita oggi è un modello straordinario per le famiglie. La sua è una santità di famiglia: di donna, di moglie, di madre, di vedova, di educatrice. La sua vita racchiude un messaggio di grande attualità, soprattutto nella riscoperta della santità del matrimonio. Ma occorre sottolineare un altro aspetto: uno dei motivi fondamentali per cui don Bosco vuole sua madre accanto a sé a Torino è per trovare in lei una custodia al proprio sacerdozio. “Piglia con te tua madre”, gli aveva suggerito il vecchio parroco. Don Bosco prende Mamma Margherita nella sua vita di prete e di educatore. Da bambino, orfano, era stata la mamma a prenderlo per mano, da giovane prete è lui che la prende per mano per condividere una missione speciale. Non si capisce la santità sacerdotale di don Bosco senza la santità di Mamma Margherita, modello non solo di santità famigliare, ma anche di maternità spirituale verso i sacerdoti.
[1] G. B. Lemoyne,Scene morali di famiglia esposte nella vita di Margherita Bosco. Racconto ameno ed edificante, Torino,Libreria Salesiana 1886, 1 (Abbreviazione: SM).
[2] SM, 31.
[3] MB = G. B. Lemoyne,Memorie biografiche di Don Giovanni Bosco,poi:Memorie biografiche del Venerabile Servo di Dio Don Giovanni Bosco,voll. 1-9, S. Benigno Canavese - Torino 1898-1917; G.B.Lemoyne - A. Amadei,Memorie biografiche di San Giovanni Bosco,vol. 10, Torino 1939; E. Ceria, Memorie biografiche del Beato Giovanni Bosco,voll. 11-15, Torino 1930-1934; Id.,Memorie biografiche di San Giovanni Bosco,voll. 16-19, Torino 1935-1939, Vol. I, p. 174.
[4] SM, 120.
[5] MB I, 43-44.
[6] SM, 100
[7] Papa Francesco nel suo intervento a Torino il 21 giugno 2015.
[8] Documenti per scrivere la storia di D. Giovanni Bosco. Dell’Oratorio di S. Francesco di Sales e della Congregazione Salesiana, in Archivio Storico Centrale (110), Roma, vol. I, 61.
[9] Bosco G., Memorie dell´Oratorio di Francesco di Sales dal 1815 al 1855, (MO). Introduzione, note e testo critico a cura di A. Ferreira da Silva, pp. 256, Roma, LAS 1991, p. 48.
[10] Ibidem
[11] SM, 186.
[12] SM, 193
[13] SM. 199.
[14] SM, 204.
[15] MB II, 518-521.
[16] Parole dette da don Teresio Bosco al Card. Joseph Ratzinger nella sua visita a Valdocco.
[17] SM, 279.
[18] SM 345.
[19] Pietro Enria, testimonianza al processo ordinario per la Canonizzazione di don Bosco.
Profili di santità Salesiana: Interiorità e spiritualità:
Beato Alberto Marvelli
Elisabetta Casadei
Chi è Alberto Marvelli
Un giovane che ha vissuto “una vita tutta di corsa”, morto a soli 28 anni. Un educatore appassionato; un ingegnere meccanico della Fiat; un giovane sportivo, amante della bicicletta e della montagna; un “onesto cittadino”, che durante la seconda guerra mondiale non ha avuto paura di rischiare la propria vita per salvarne tante altre; un politico per vocazione, assessore alla ricostruzione, stimato anche dai suoi avversari politici.
La sua “avventura” in una frase: «L’amore non è mai riposo»
Se volessimo riassumere tutta la sua vita in una sola frase, potremmo forse riassumerla con una nota trovata in uno dei suoi quaderni spirituali: «L’amore non è mai riposo»[1]. È questa l’”avventura dello Spirito” che Alberto Marvelli ha vissuto nella sua breve vita. Una vita innamorata, vissuta nella tensione a trasformarla in un continuo atto d’amore: «La mia vita non sia che un atto d’amore»[2], scriveva nel suo Diario.
Tuttavia, il cammino dello Spirito, come ogni altro cammino, ha bisogno di una direzione; ed Alberto, all’età di vent’anni, quando sta per terminare l’Università ed è già da tanti anni educatore nell’Oratorio don Bosco di Rimini, si sente sollecitato dallo Spirito a dare una direzione più determinata alla sua vita e - direi – un’accelerazione. Scrive nel suo Diario:
Fare il punto. Questa frase si usa spesso in marina per orientarsi, ed anche in altri campi. Ma la si può dire molto a ragione per la vita spirituale. Fare ogni tanto il punto per constatare il cammino compiuto, per vedere se vi è un progresso o un regresso, e per riprendere con più lena la via, la nostra via, quella che il Signore affida a tutti, distinta, ma con il medesimo fine: la salvezza.
[…] voglio stabilire un programma di vita che comprenda tutta la mia vita spirituale, morale, in ogni più piccola espressione. I vantaggi che mi prefiggo sono di infinito valore, perché infinita è la grazia e la misericordia del Signore.
Il programma generale si compendia in una parola: santo. […] Per questo, dunque, mi occorrono: preghiera, azione, sacrificio[3].
“Preghiera”, “azione” e “sacrificio” sono le tre colonne della spiritualità del beato Marvelli, quelle indicate da Pio XI ai giovani di Azione Cattolica negli anni ’30 del secolo scorso. Svilupperò quindi il mio intervento intorno a questi tre punti.
La preghiera
Per Alberto è il segreto di tutto, il tesoro più prezioso, il primo e il più necessario apostolato.
La preghiera di Marvelli non è però una preghiera “parolaia”, fatta cioè di molte parole o pratiche religiose: per lui «la preghiera – scrive – è rendere partecipe Gesù della nostra vita»[4]; è «porre ogni nostra fatica, lavoro, divertimento sotto lo sguardo di Dio, affinché Egli sia sempre presente in noi»[5].
Un’amicizia quindi intima e segreta, da coltivare durante tutto l’arco della giornata. Ciò non significa, tuttavia, che Alberto non dedichi momenti specifici alla preghiera. Sentite cosa scrive ancora nel suo programma di vita:
Fare ogni mattina mezz’ora di meditazione senza mai tralasciarla, salvo casi imprevedibili. Mezz’ora al giorno di lettura spirituale e possibilmente anche più. Ascoltare ogni mattina la S. Messa ed accostarmi ai SS. Sacramenti, senza defezioni, salvo anche qui motivi di forza maggiore. Confessarmi usualmente una volta la settimana e recarmi dal Direttore spirituale molto spesso. Recitare giornalmente il S. Rosario e dire l’Angelus al suono del mezzogiorno e dell’Ave Maria»[6] .
Più che un programma di vita di un laico, sembra essere quello di un monaco! Tuttavia, sappiamo che Alberto rimane fedele a questi impegni fino all’ultimo giorno della sua vita, anche quando è assessore, professore e libero professionista.
I testimoni raccontano che quando usciva dall’ufficio del Municipio a tarda ora, prima di andare a casa, si recava in Chiesa per ricevere la Santa Comunione e così faceva anche durante il periodo militare, rinunciando alle ore di riposo, per andare a piedi alla chiesa più vicina alla caserma.
Gli amici dell’Università raccontano che Alberto rimaneva digiuno tutta la mattina per poter ricevere la santa comunione al termine delle lezioni; e la sorella – appena scomparsa – racconta che al termine della Messa Alberto rimaneva sempre a lungo in chiesa, tanto che dovevano sempre andare a chiamarlo per andare a casa.
L’Eucaristia e la preghiera a Maria Ausiliatrice sono i pilastri della sua spiritualità, che potremmo definire “cristo-centrica” e “filialmente mariana”.
Termino, citando un altro frammento del Diario di Alberto, in cui descrive proprio uno di quei momenti in cui si fermava a lungo in chiesa dopo la santa Comunione:
Ogni qualvolta mi accosto alla S. Comunione, ogni qualvolta Gesù nella sua Divinità ed Umanità entra in me, a contatto con la mia anima, è un accendersi di santi propositi, è come un fuoco che arde, il quale entra nel mio cuore, una fiamma che brucia e consuma, ma che mi rende così felice. […] allora, mi abbandono tutto ad un colloquio intimo con Gesù; la mia umanità scompare, potrei dire, lì vicino a Lui; tutti i dubbi, tutte le incertezze sono sparite, gli ostacoli appianati, i sacrifici resi gioiosi, le difficoltà gradite[7].
Azione
Attratto dall’Eucaristia, quel fuoco d’amore, in cui si sentiva profondamente amato da Cristo, diventa subito “passione per le anime”, perché «l’eucaristia è amore – scrive – e l’amore non è mai riposo»[8]:
«L’Eucaristia ci impegna a fondo, patto d’amore, alleanza suggellata nel più profondo del nostro essere. […] La Comunione non è azione facile, gesto abitudinario, un modo di socchiudere gli occhi o di mettere la testa fra le mani[9].
Per Alberto l’Eucaristia è “tremendamente”, “drammaticamente” impegnativa; un dono che gli “sconvolge” la vita. «Che cosa non potrà esserci chiesto – si domanda – se lui stesso abbiamo ottenuto?»[10].
Ecco allora perché il campo d’azione del giovane Marvelli è tanto ampio: abbraccia i giovani, dei quali è appassionato educatore; e quelli che non riesce ad attirare all’Oratorio o all’Azione Cattolica, li va a cercare a scuola, scegliendo di essere professore di tecnologia e disegno tecnico.
La sua azione abbraccia i poveri, per i quali apre la prima mensa della città e in cui è lui stesso a distribuire le pietanze ogni domenica mattina; da assessore li va a cercare a casa per chiedere loro se hanno bisogno di aiuto nel compilare i moduli delle richieste di aiuti, per riparare le loro case, distrutte dalla guerra; paga di tasca propria per coloro che hanno perduto tutto, fino a firmare le garanzie in banca per far ottenere loro il credito necessario per riparare la casa o avviare un’attività economica.
La sua azione abbraccia la cultura, perché ha capito che per ricostruire una città distrutta al 98%, è più importante ricostruire le coscienze, dilaniate dagli odii e dalle sofferenze della guerra, e offuscate da ideologie (fascista e comunista) che sfigurano la dignità della persona. Per questo, raduna i laureati cattolici, riapre l’Università popolare e invita nella sua città i più rinomati politici, professori e predicatori italiani.
La sua azione, infine, abbraccia la politica, perché, come dirà negli anni venturi Paolo VI, è la più alta forma di carità. Per questo, Marvelli ha il coraggio di lasciare la tessera dell’Azione Cattolica e di prendere quella di un partito politico, al fine di candidarsi sindaco alle prime elezioni a suffragio universale; scelta che non è compresa neppure dai suoi più stretti collaboratori di Azione Cattolica; tanto che, una sera, lo invitano in sede per dar ragione delle sue scelte e Alberto, tagliando corto, lascia sul tavolo la tessera di AC e si mette in tasca quella della neonata Democrazia Cristiana, dicendo: «Ora il mio apostolato è questo».
Sacrificio
Alberto comprende ben presto che la croce è la legge della vita cristiana, perché appartiene prima di tutto alla vita di Cristo.
A soli 15 anni perde il papà, a cui è tanto legato, esempio di saggezza umana e di vita cristiana; ancor prima perde un fratellino, travolto da un’auto a folle velocità, e più tardi perde il fratello Lello, disperso in Russia, il quale si era offerto di arruolarsi al posto di Alberto (più utile a casa con la mamma e i fratelli); poi i tanti amici nella vicenda tragica della seconda guerra mondiale.
Alberto non è nato santo: ha dovuto lottare come ognuno di noi. Però ha avuto un maestro: Domenico Savio. Questo mite lottatore ha dato infatti ad Alberto uno dei consigli più preziosi per la sua vita e che Alberto ha tenuto sempre caro, utile a “tirare fuori le unghie” quando era necessario: «Morire ma non peccare».
Marvelli aveva coraggio e volontà, più volte ha rischiato la vita per salvare quella degli altri; ha saputo vincere nella vita, perché sapeva vincere se stesso.
Vorrei concludere con una lettera che Alberto scrisse ad un amico, che aveva appena perso la mamma: la vorrei dedicare a tutti coloro che hanno perso, di recente, una persona cara, oppure non riescono a rassegnarsi alla sua perdita. Ascoltatela come se Alberto la scrivesse proprio a voi e possiate sentire il suo abbraccio dal Cielo:
Carissimo Vittorio,
ho appreso ieri la triste notizia della scomparsa della tua cara Mamma. […] Avrei voluto esserti vicino in questi giorni, ma ancora non mi è stato possibile venire. Ti sono unito nella preghiera e nel ricordo della cara Mamma. Abbi fede, Vittorio, il Signore manda le prove e visita col dolore chi più ama: piangi, perché anche la nostra parte umana soffre e soffre atrocemente sotto la sferza del dolore, ma sappi renderti una ragione di questo dolore. Solo attraverso la sofferenza, possiamo giungere alla vera vita. […] Sono passato anch’io attraverso momenti di dolore, quando più volte la morte ha portato via con sé in Cielo il babbo e i fratelli, e so quanto poco servano le parole umane a lenire la ferita profonda dell’anima nostra; ma sempre mi ha confortato sentire gli amici vicini. In qualunque cosa possa esserti utile, ricordati che in me hai più di un amico, un fratello. Sono a tua disposizione in tutto. Ti abbraccio, Vittorio, con tanto affetto […]. Alberto Marvelli[11].
[1] Quaderno spirituale: Appunti e riassunti, 2, in A. Marvelli, La mia vita non sia che un atto d’amore. Scritti inediti, (a cura) E. Casadei, Messaggero, Padova 2005, p. 92.
[2] Diario, 26 febbraio 1941.
[3] Diario, 18 settembre 1938.
[4] Appunti spirituali: Gesù con la samaritana, b, in A. Marvelli, La mia vita, 342.
[5] Diario, 18 settembre 1938.
[6] Diario, 18 settembre 1938. Cf. inoltre, ivi, Pasqua 1935.
[7] Diario, febbraio 1938. Cf. inoltre, ivi, gennaio 1938.
[8] Quaderno spirituale: Appunti e riassunti, 2, in A. Marvelli, La mia vita, 92.
[9] Ib., 93.
[10] Ib.
[11] Lettera a Vittorio, in A. Marvelli, La mia vita, 322-323.
Don Francesco Cereda,
Ognuno di noi può fare un “esercizio di lettura” del poster della Strenna per il 2016: “Con Gesù percorriamo insieme l’avventura dello Spirito”. Non c’è bisogno di essere dei semiologi per interpretare i segni di un disegno, perché esso è eloquente per se stesso; si tratta di lasciare parlare ciò che l’immagine evoca in noi. Provo per questo a tratteggiare qualche suggestione a partire dai simboli che nel poster appaiono.
La basilica di Don Bosco a Castelnuovo, che sta sullo sfondo, ci ricorda che siamo appena usciti dal Bicentenario della nascita del nostro caro Padre e Fondatore. La memoria grata di questo evento, a lungo preparato e vissuto con profondità ovunque, ma specialmente sui luoghi salesiani, è una ricchezza che deve portare abbondanti frutti carismatici; quindi non può essere subito dimenticata, ma deve essere ravvivata nei suoi aspetti essenziali.
Il cammino di un popolo si snoda a partire dalle nostre umili origini dei Becchi; è una fiumana di gente. Siamo numerosi: la Famiglia Salesiana, i giovani, i laici; camminiamo tutti insieme e siamo contenti di farlo. Il simbolo del cammino richiama le parole della strenna: “percorriamo insieme”. Dal Bicentenario siamo usciti con una identità carismatica rafforzata e quindi con un senso di appartenenza più marcato. Il cammino è festoso; il cammino favorisce l’incontro e l’incontro sostiene il cammino; senza incontro non c’è cammino.
Noi camminiamo con Gesù. Egli è la direzione del cammino; noi tutti siamo diretti verso di Lui. Gesù è anche alla testa del cammino; Egli ci indica la strada, perché è la via; così infatti Egli ci dice: “Io sono la via”. Il cammino è la via percorsa dallo stesso Gesù. Egli però è soprattutto compagnia; come con i discepoli di Emmaus Egli si fa compagno amichevole di viaggio, soprattutto dei giovani. Gesù con una mano invita il giovane a camminare con Lui e a seguirlo; con l’altra gli offre sostegno e vicinanza; esprime amorevolezza; egli è il “volto della misericordia”.
Il cammino con Gesù è un’avventura; è un’avventura dello Spirito. Per questo Gesù rivolge l’invito al giovane: “su, vieni al mio seguito!”. Noi possiamo dire di sì o di no. Non sappiamo dove ci porterà il cammino della sequela di Gesù. Lo Spirito, che è il maestro interiore, ci suggerisce e ci convince ad accogliere l’invito di Gesù e a essere suoi discepoli. Lo Spirito è una presenza discreta e silenziosa; Egli scompare e non si nota per far posto a Gesù. Tu “non sai da dove venga e dove vada, perché egli soffia dove vuole”. Il suo soffio è impercettibile, ma anima e dà vita. Non si vede, ma è presente.
Il cammino con Gesù, che è un avventura dello Spirito, provoca l’incontro. Nel primo piano del poster c’è l’incontro disponibile del giovane con Gesù. Il giovane porta nel cuore lo spirito di Don Bosco. Se nella preparazione al Bicentenario siamo stati invitati a ripartire da Don Bosco; ora il nostro impegno è “ripartire da Gesù” nel nostro modo specifico salesiano. Il centro e il primato va dato al Signore Gesù: mettiamoci al seguito di Cristo sui passi di Don Bosco.
Il poster, opera dell’artista spagnolo David González Arjona.
Come pellegrini percorriamo insieme con Gesù e con i fratelli l’avventura dello Spirito
Don Franco Di Natale
Nessuno può arrestarsi nel suo cammino perché la vita ci spinge da dentro (C. Maria Martini)
Abbiamo ciò che cerchiamo. Non dobbiamo fare altro che corrergli dietro. È lì da sempre e se gli diamo tempo si rivelerà a noi (Thomas Merton)
Non pochi elementi ci incoraggiano a riflettere sul tema del pellegrinaggio.
Oggi, quando le reti e gli strumenti della comunicazione umana hanno raggiunto sviluppi inauditi, sentiamo la sfida di scoprire e trasmettere la “mistica” di vivere insieme, di mescolarci, di incontrarci, di prenderci in braccio, di appoggiarci, di partecipare a questa marea un po’ caotica che può trasformarsi in una vera esperienza di fraternità, in una carovana solidale, in un santo pellegrinaggio[3].
Dobbiamo sempre ricordare che siamo pellegrini, e che peregriniamo insieme. A tale scopo bisogna affidare il cuore al compagno di strada senza sospetti, senza diffidenze, e guardare anzitutto a quello che cerchiamo: la pace nel volto dell’unico Dio. Affidarsi all’altro è qualcosa di artigianale, la pace è artigianale. Gesù ci ha detto: «Beati gli operatori di pace» (Mt 5,9). In questo impegno, anche tra di noi, si compie l’antica profezia: «Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri» (Is 2,4)[4].
Per grazia di Dio sono uomo e cristiano, per le mie azioni grande peccatore, per condizione un pellegrino senzatetto della più umile specie, che va errando di luogo in luogo. I miei averi sono un sacco sulle spalle con un po’ di pane secco e una Sacra Bibbia che porto sotto la camicia. Altro non ho»[9].
Tutta l’esperienza di fede descritta nei testi della Sacra Scrittura è attraversata dalla categoria del pellegrinare, del camminare, del fare un viaggio, dell’andare verso un luogo. Essa rappresenta «il tratto costitutivo e permanente della sua esistenza. Ed essendo l’esistenza biblica paradigma dell´esistenza cristiana, esso è anche il tratto costitutivo della nostra esistenza»[11].
Lo stesso Orante dell’AT quando descrive la realtà dei credenti afferma che essi sono: «pellegrini come i nostri padri»[12].
Il cammino, nel racconto veterotestamentario, comincia proprio nel momento più tragico della storia della salvezza, quando Adamo ed Eva, dopo il peccato primordiale, vanno errando, allontanandosi sempre più dal giardino dell’Eden verso un nuovo giardino non più fertile e bello da vedersi, ma arido e difficile da lavorare. La storia dell’uomo sarà segnata da questo particolare modo di essere: «io sarò ramingo e fuggiasco sulla terra e chiunque mi incontrerà mi potrà uccidere» (Gen 4,14).
La storia di Abramo, «arameo errante» (Dt 26,5), deve essere necessariamente letta alla luce del pellegrinare verso la terra promessa. Egli, costituito per vocazione pellegrino, dovrà prendere possesso della terra di Canaan, simbolo dell’Eden perduto, mettendosi in cammino lungo i difficili sentieri delle carovane del tempo, ma soprattutto intraprendendo il difficile cammino dell’obbedienza a Dio che apre il cammino in maniera imprevedibile e non tenendo conto dei ragionamenti e delle logiche degli uomini. Abramo obbedì a Dio partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità e partì senza sapere dove andava: «Il Signore disse ad Abramo: Vattene, dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò. Farò di te un grande popolo e ti benedirò» (Gen 11,8)[13].
Il lungo peregrinare dell’antico popolo di Dio che si incammina sulle vie dell’Esodo, narrazione fondativa dell´identità di Israele in quanto popolo, lasciandosi alle spalle la schiavitù dell’Egitto, costituirà il cuore dell’esperienza di fede dell’antico popolo di Dio. Mosè sarà il condottiero che per quarant’anni guiderà il popolo «con braccio teso e mano sicura» (cfr. Sal 136,12). Si tratta di un cammino lungo l’intera esistenza di tutti coloro che intraprendono il viaggio attraverso cui Israele fa l’esperienza dell’amore di Dio che si prende cura e libera gratuitamente, (cfr. Es 16, 35). Il tempo del duro peregrinare nel deserto costituirà il modello del vero rapporto con Dio, il simbolo dell’amore di Dio per il popolo «La condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore» (Os 2,14).
La stessa esperienza del pellegrinaggio nelle tre più importanti feste liturgiche dell’anno ebraico, la Pasqua, la Pentecoste e la Festa delle Capanne (feste dette di pellegrinaggio) (cfr. 2Re 23 e Dt 16,1-17), ripresenterà, attraverso un movimento prettamente liturgico, l’esperienza fondamentale del popolo di Dio[14]. Il salmo 122, detto dei pellegrini che salgono a Gerusalemme, rende evidente la partecipazione interiore e la gioia di coloro che si mettono in viaggio verso la città santa, luogo della dimora del Dio tre volte santo: «Quale gioia, quando mi dissero: Andremo alla casa del Signore. E ora i nostri piedi si fermano alle tue porte, Gerusalemme! Gerusalemme è costruita come città salda e compatta. Là salgono insieme le tribù, le tribù del Signore, secondo la legge del Signore, per lodare il nome del Signore»[15]. Afferma De Virgilio:
L’orante in cammino “alza gli occhi verso i monti” per contemplare Dio come custode di Israele (Sal 121; 123; 127); esprime la gioia del suo incedere verso la città di Davide, fino ad arrivare davanti alle sue porte (Sal 122) e chiedere per sé e i suoi fratelli il dono della “pace” (Sal 122,8-9). La beatitudine consiste nel camminare sulle vie del Signore (Sal 128), nel pregarlo “giorno e notte” (Sal 134), nel gioire del ricordo dell’arca dell’alleanza portata in pellegrinaggio nella città beata (Sal 132), nel contemplare l’opera fedele di Dio che libera i prigionieri di Sion, i quali, come torrenti in piena, fanno ritorno in patria in mezzo a canti di festa (Sal 126)[16].
È possibile rileggere anche il Nuovo testamento a partire dalla categoria del peregrinare.
La riflessione teologica contenuta nel cosiddetto prologo di San Giovanni ci pone chiaramente in questa prospettiva: «Il verbo si è fatto carne e piantò la sua tenda tra di noi». Si tratta della convinzione che Dio cammina in mezzo a noi e guida il percorso di coloro che vogliono contemplare la luce e la gloria di Dio. Da questo momento in poi anche l’uomo, di cui i Magi sono immagine luminosa[17], ricondotto all’amicizia con Dio si muove per un cammino ricco di speranza perché illuminato da una stella che conduce sempre alla contemplazione del Dio-con-noi.
L’evangelista Luca dovendo presentare ai discepoli l’esperienza dell’evangelizzazione e il mistero della Pasqua di Cristo, non teme di parlare del grande viaggio che Gesù intraprende verso Gerusalemme, la città santa: «Mentre stanno compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, egli prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme»[18].E’ proprio qui che la tipologia del pellegrinaggio costituisce una chiave di lettura teologica della stessa missione del Signore, che inizia a Nazareth (cfr. Lc 4,16-30) e si conclude a Gerusalemme (cfr. Lc 9,51; 19,28; 24,47), da dove riprende il suo cammino sino ai confini del mondo. Anche i primi discepoli vivono la dimensione dell’evangelizzazione come un luminoso cammino della Parola che pian piano, da Gerusalemme sino a Roma, si fa largo nella storia degli uomini[19].
Nel suo progetto narrativo si coglie come la forma del “camminare” rappresenta una dimensione costitutiva della novità cristologica: il discendere del Figlio nella storia (Lc 1,34-38; cfr. Gv 1,14), il camminare per le strade degli uomini recando loro il vangelo (Lc 4,18.43), la chiamata a seguirlo rivolta ai discepoli (Lc 5,1-11), la strada del suo pellegrinaggio diventa via di sequela (Lc 5,11), di evangelizzazione (Lc 9,1-6; 10,1-20) e di visita nelle “case degli uomini”, prima di fare l’ingresso a Gerusalemme e in particolare nel “tempio”, il cuore del mondo ebraico. Infine l’ascensione al Padre costituisce l’ultimo tratto del peregrinare del Figlio nella storia (Ef 4,9-10)[20].
Infine il libro dell’Apocalisse immagina il discepolato come un grande viaggio che prende le sue mosse nella stessa creazione di Dio, che si incarna negli eventi, non sempre felici della storia umana, e che si compie nella semplicità del Regno di Dio, rappresentato dalla Gerusalemme celeste.
Interessante la riflessione di Carmine Di Sante che sintetizza gli elementi tipici dell’immagine biblica, e rilegge la metafora dell´esistenza umana, attraverso tre elementi che definiscono la stessa metafora:
Il primo è quello dell´origine o punto di partenza. Ogni viaggio presuppone sempre una partenza, e quando si parte si parte sempre da un luogo dove si era già sostato, poco importa se a lungo o per breve tempo. Viaggiare è lasciarsi alle spalle un già noto per mettersi in cammino verso un oltre. Il secondo tratto è il fine o punto di arrivo. Ogni viaggio presuppone una meta, un «dove» verso il quale ci si muove e che è la ragione stessa del viaggio, la forza nascosta che lo sollecita, lo alimenta e lo porta a compimento. Appunto perché sua ragione d´essere, il fine o meta è il tratto più importante del viaggio che coincide con il suo stesso senso. Il terzo tratto infine è la distanza o spazio intermedio che separa il punto di arrivo dal punto di partenza. Concretamente parlando, il viaggio è proprio questo spazio che si distende tra l´uno e l´altro e che il movimento si illude di annullare progressivamente. In questo spazio - del provvisorio, e dell´imprevedibile, cioè dell´ignoto - si cela l´avventura, nel duplice senso ambivalente di affascinante, per il nuovo che riserva, ma anche di temibile o pauroso, per le minacce che nasconde. Se avventura infatti (che etimologicamente vuol dire «ciò che sta per venire o arrivare») è ciò che accade al soggetto umano al di fuori dell´arco progettuale, sorprendendolo, il viaggio è avventura per eccellenza perché in esso ogni tratto dell´andare è evento e accadimento, promessa di vita ma anche minaccia di morte come nel caso del «folle volo» dantesco (Inferno, c. 26). La ragione per la quale il viaggio è, pressoché universalmente, metafora dell´umano è nella sua potenza di avventura che in esso si custodisce[21].
L’indispensabile interiorità apostolica e la consapevolezza della necessità di proporre cammini di piena configurazione a Cristo porta ad una maggiore coscienza del significato e delle esigenze dell’essere educatore-pastore: si cresce in una più completa e profonda conoscenza vitale di Cristo, Buon Pastore, e in un’autentica esperienza di fede[22].
La figura biblica del pastore che conduce nel cammino, peregrinando da una terra all’altra, trae origine dall’esperienza quotidiana dell’antico popolo di Dio[23]: infatti per molto tempo[24], Israele è stato un popolo di pastori e comprende pienamente che il pastore è colui che, con vigile dedizione, custodisce il gregge a lui affidato e lo conduce verso fertili pascoli. Egli, oltre ad essere una guida affidabile, è il compagno di viaggio instancabile, pronto a condividere tutto con le sue pecore: le notti gelide, i lunghi itinerari e le soste snervanti, la terribile sete, il sole infuocato del giorno, la paura di imprevedibili animali e di avidi razziatori, le lunghe ed estenuanti marce, il freddo della interminabile notte, l’imprevedibilità del buio; è il salvatore, che, con sicurezza, accompagna il gregge su sentieri che conducono a pascoli erbosi.
Il testo di Gen 48,15 presenta Giacobbe, ormai vicinissimo alla morte, nel momento in cui dà la benedizione ad Efraim ed a Manasse, figli di Giuseppe. È forte il legame alla vita nomade dei patriarchi:i suoi padri,Abramo ed Isacco, hanno camminato davanti a Dio. Egli, ora, attraverso una vera e propria confessione di fede, intende esprimere la consapevolezza della presenza di Dio nella sua vita, una presenza che, da sempre, lo ha accompagnato: «è stato il mio pastore da quando esisto fino ad oggi». Si tratta della presentazione dell’esperienza religiosa di Giacobbe: lo stesso Dio davanti al quale hanno camminato i padri Isacco e Giacobbe è il pastore che si è preso cura di lui sempre, il Dio fedele alle promesse fatte ai Padri[25].
Il Salmo 23, inteso come «culmine poetico dei testi pastorali dell’Antico Testamento»[26], è una preghiera personale di fiducia, che esprime compiutamente l’abbandono fiduciale in Dio salvatore malgrado le difficoltà ed i momenti di smarrimento[27]. Esso si apre con una dichiarazione di fede in «Jahvè mio pastore», che esprime non solo la certezza che Dio guida il suo popolo, ma anche il convincimento che Dio è il salvatore che preserva dai costanti pericoli a cui è sottoposto il gregge di Dio, per introdurre ad una terra erbosa in cui la salvezza è, allo stesso tempo, opera di Dio ed accoglienza dell’uomo, e la totale fiducia di chi trova stabilità e pace fondandosi solo su Dio[28]. La riflessione si svolge in un clima di completo abbandono in Dio riconosciuto come il Dio che ha amato il suo popolo e che continua a manifestargli la sua predilezione[29]. All’immagine del terreno arido e bruciato, da cui il pastore è costretto a fuggire a causa dell’aridità estiva, si contrappone l’immagine di straordinari oasi verdeggianti, ricche di erbosi pascoli e di acque fresche, dove il gregge trova riparo e salvezza. Il riferimento all’Esodo rimane sempre vivo e pregnante[30]: è il tempo del definitivo ritorno per il possesso dei beni messianici: «Essi pascoleranno lungo tutte le strade, e su ogni altura troveranno pascoli. Non avranno né fame né sete e non li colpirà né l’arsura né il sole, perché colui che ha misericordia di loro li guiderà, li condurrà alle sorgenti d’acqua» (Is 49,9-10); è la partecipazione della pace segno della benedizione di Dio comunicata attraverso il possesso della terra promessa, simbolo della piena comunione con Dio[31].
Di fronte alla duplice via del bene e del male, il gregge si pone sulle strade sicure indicate con fermezza dal pastore: è il cammino dei giusti su cui Dio stesso veglia instancabilmente, che solo conduce alla salvezza. La salvezza del gregge è un dono libero gratuito di Dio che esprime il suo disegno d’amore e lo straordinario legame del popolo nei confronti di Dio stesso. L’attraversamento del periglioso mare dell’Esodo, della notte oscura, dei pericoli del deserto è possibile solo grazie alla presenza di colui a cui «sarà dato il nome di Emmanuele, che significa Dio con noi» (Mt 1,23). Il bastone tenuto con fermezza da Mosè nell’Esodo dall’Egitto è ora in mano al pastore, segno di autorità e di fedeltà: si aprono nuove strade e si imbandiscono nuovi banchetti per coloro che sono fedeli al Dio dell’alleanza. Ormai le paure della notte sono passate e la luce brilla per coloro che prendono possesso dei beni promessi.
Il Salmo 80 nel suo incipit: «Tu pastore d’Israele, ascolta, tu che guidi Giuseppe come un gregge» (Sal 80,1) rivela l’atteggiamento orante del popolo di Dio, che riconosce la fedeltà di Dio ed a lui si affida con totale abbandono[32], mentre esprime drammaticamente la pesante situazione che il popolo è costretto a sopportare: «Perché hai aperto brecce nella sua cinta e ne fa vendemmia ogni passante? La devasta il cinghiale del bosco e vi pascolano le bestie della campagna» (Sal 80,13-14). Il popolo orante, in una chiara ripresentazione liturgica, attualizza l’Alleanza con Jahvè «da te mai più non ci allontaneremo, facci rivivere e noi invocheremo il tuo nome» (Sal 80,19) e pone gli interrogativi della propria esistenza. Lo stesso processo è possibile distinguere in diversi altri Salmi, in cui il popolo, nel contesto liturgico, esprime il compimento dell’Alleanza: «E noi, tuo popolo e gregge del tuo pascolo, ti renderemo grazie per sempre; di generazione in generazione narreremo la tua lode» (Sal 79,13). Il popolo richiama Dio alla fedeltà del suo amore: «Perché le genti dovrebbero dire: “Dov’è il loro Dio?”» (Sal 79,10); «O Dio, perché ci respingi per sempre, fumante di collera contro il gregge del tuo pascolo?Ricordati della comunità che ti sei acquistata nei tempi antichi» (Sal 74,1-2). La domanda orante del popolo diventa vera espressione di fede nel Dio, che con braccio teso, si mette alla guida del suo gregge operando mirabili prodigi. Il canto si apre quindi alla celebrazione delle meraviglie che Dio ha compiuto nell’esodo: «Sul mare la tua via, i tuoi sentieri sulle grandi acque, ma le tue orme non furono riconosciute. Guidasti come un gregge il tuo popolo per mano di Mosè e di Aronne» (Sal 77,20-21).
È fuor di dubbio quindi che anche in questo testo, l’immagine del «pastore» richiama espressamente il cammino dell’esodo, compiuto dall’antico popolo di Dio, nel deserto, quando il Signore ha accompagnato «il suo gregge», «il suo popolo», attraverso sentieri pericolosi ed aspri[33]. Si tratta, dunque, di una ripresentazione dell’agire di Dio nella storia: da un «tempo antico» (Dt 32,7) contraddistinto dalla presenza di Dio, ad un angoscioso «tempo presente» (cfr. Ef 5,16) contrassegnato dall’infedeltà dell’uomo. L’esodo di liberazione, la presa di possesso della terra della promessa, conducono l’orante a ricomprendere la vicinanza di Dio verso il quale è la partecipata invocazione «Dio degli eserciti, ritorna! Guarda dal cielo e vedi e visita questa vigna» (Sal 80,15). Egli, al di là dell’infedeltà dell’uomo, porta a compimento il suo progetto di salvezza e suscita nell’uomo la certezza di essere condotto alla salvezza.
Questa immagine, che trova il suo fondamento nella storia della salvezza, segna dunque il punto di incontro che lega l’amore appassionato di Dio per il popolo dell’Alleanza e la risposta fiduciosa di un popolo che riconosce il Dio della salvezza. È Dio che rivela se stesso come «pastore» agli uomini che, da popolo sperduto come un gregge, in cui ognuno seguiva la sua strada[34], ricostituito da una presenza rinnovatrice, diventa «suo popolo», «gregge del suo pascolo» e «gregge della sua eredità»[35], pronto a riconoscere Dio come il Signore della vita e della storia ed a diventare lode perenne e testimone dell’amore di Dio.
L’evolversi dell’intervento di Dio così come è presentato dalla Bibbia manifesta l’intimo legame che coinvolge il pastore ed il suo gregge. Il cammino del popolo di Dio diventa quasi un paradigma entro cui cogliere le dinamiche dello stesso incontro di Dio con l’uomo.
È inoltre significativo il fatto che ad alcuni personaggi dell’Antico Testamento sono assegnate le funzioni del «Pastore»: Mosè ed Aronne guidarono come un gregge il popolo di Dio[36], Giosuè è costituito capo affinché «la comunità del Signore non sia un gregge senza pastore» (Num 27,17), Davide ed i successivi Re d’Israele sono chiamati pastori del popolo[37], ed anche di Ciro si dice: «Io dico a Ciro: “Mio pastore”; ed egli soddisferà tutti i miei desideri, dicendo a Gerusalemme: “Sarai riedificata”; e al tempio: “Sarai riedificato dalle fondamenta”» (Is 44,28)[38]. Molti di questi capi del popolo, a causa della loro cattiva condotta, sono venuti meno alla loro missione e si sono macchiati di infedeltà, dimostrandosi indegni di guidare il popolo di Dio, per cui Dio stesso annuncia di assumere personalmente il compito di pastore del suo popolo, attraverso l’invio di un Pastore eccezionale, che amerà in maniera totale e disinteressata il suo gregge e lo condurrà alla salvezza definitiva. Ben presto, quindi, questo appellativo, assume un carattere tipicamente religioso e spirituale, tanto da prendere un eminente contenuto messianico, riservando il titolo di «Pastore d’Israele» ad una persona che dovrà venire.
Sono i Profeti, in maniera particolare, che aiutano il popolo ad operare questo passaggio[39]e che attribuiscono il titolo di «pastore d’Israele» al futuro discendente di Davide[40]. Egli sarà innanzitutto servo di Jahvè, perché sottomesso totalmente a Dio, sarà anche re, in quanto costituito dalla potente mano di Dio a capo del suo popolo, e infine sarà l’unico pastore per il nuovo Israele radunato da tutte le genti.
Nel cap. 10 di Giovanni troviamo l’autorivelazione di Gesù che si definisce: il Buon Pastore e la porta delle pecore da cui entrare e uscire[41]. Per Giovanni, Gesù è il Signore che manifesta definitivamente il nome, la realtà stessa di Dio. È forte il richiamo al primo esodo storico che condusse l’antico popolo di Dio dalla schiavitù dell’Egitto alla libertà della Terra promessa, ed al secondo esodo, quello compiuto nello Spirito ed annunciato dai Profeti (cfr. Is 40,11; Ez 34), che portò dalla disgregazione all’unità. È possibile evidenziare, nelle intenzioni di Giovanni, la certezza dell’inizio di un terzo Esodo, compiuto con a capo Cristo unico Signore, che dalla schiavitù della legge della carne, introduce nella definitiva liberazione nello Spirito. Gesù è il vero Pastore che conduce il suo gregge ad acque sicure e lo fa riposare in pascoli di erbe fresche, preparandogli una mensa di cibi abbondanti e vini succulenti.
In questa parte vengono offerti alcuni spunti per ripensare la pastorale a partire dalla categoria del pellegrinaggio secondo le indicazioni del magistero, della tradizione della Chiesa e del carisma salesiano[42].
Numerosi autori hanno indagato sulle diverse tipologie di pellegrinaggio[43] identificandone alcune caratteristiche che così possono essere sintetizzate: la volontà di percorrere le vie in cui si è realizzata la storia della salvezza; il desiderio di celebrare le meraviglie operate da Dio e di riviverle nel culto liturgico o nelle devozioni popolari; la necessità di compiere un cammino penitenziale capace di rinnovare la propria vita, di rinvigorire il desiderio di rinnovamento; l’esigenza di esercitare la carità in modo semplice ed efficace; l’aspirazione di vivere in solitudine per riscoprire l’Unico necessario; la necessità di vivere un’esperienza si solidarietà, di comunione e di fratellanza con chiunque condivide parte del cammino.
La sensibilità pastorale di oggi suggerisce alcune attenzioni che la persona del pellegrino dovrà avere[44]. In primo luogo la coscienza della propria umanità: il punto di partenza non può non essere che la percezione della propria creaturalità, dell’essere viandante nel mondo, un pellegrino verso l’eternità. Il pellegrino si sente chiamato a riconoscere i semi di Dio nella propria vita e decide di mettersi in cammino, rinunciando alle proprie sicurezze, sapendo di vivere non un’esperienza transitoria, ma la vera realtà della propria esistenza. Egli dovrà affidarsi alla via con tutto quello che ciò comporta: la strada sarà il luogo delle tentazioni, della fatica, della stanchezza, delle difficoltà, delle nostalgie, dell’imprevedibilità, della responsabilità e delle ripartenze.
In seconda istanza occorre una chiara coscienza della meta: il pellegrino non è un girovago, un vagabondo. Il suo camminare è intriso di terra e di cielo, porta i caratteri del finito e si apre all’infinito. Egli ha una meta, anela ad un incontro personale. Il pellegrino è una persona che sa guardare avanti, è un uomo di speranza, che cresce nella fede nella stessa misura che il suo cammino apre cammini per altre persone. La fatica del cammino e le preoccupazioni del quotidiano trovano un compimento che aprono il cuore alla festa e alla gioia.
Inoltre risulta fondamentale la necessità di rompere con il passato: il pellegrino cammina senza rimpianti, con grande libertà nel cuore e nella mente; egli deve lasciare dietro di sé ogni cosa: i propri spazi vitali, le persone, i beni accumulati e le consuetudini radicate. Ciò esige una sincera conversione del cuore, la capacità di abbandonare i vecchi idoli per accogliere il dono imprevedibile di Dio, l’intelligenza di trovare i veri motivi per il proprio camminare.
Il bisogno di condividere appare una prerogativa fondamentale. Il pellegrino non è mai una persona sola, ma uno che nutre in se stesso la nostalgia del popolo, della comunità. Camminare significa prepararsi ad incontrare altri individui da conoscere e da amare, intrecciare la propria storia con la storia di altre persone, essere complici per l’effettivo raggiungimento della meta comune. Il pellegrino vive così un’intensa esperienza di Chiesa, popolo peregrinante nella storia, in attesa del suo Signore.
E infine, grande importanza deve essere data al momento del ritorno alla vita di ogni giorno: il pellegrino riporta la propria esperienza di itineranza nell’ordinario quotidiano. Si tratta di riportare alla memoria, fare memoria degli atteggiamenti che hanno cambiato il cuore e dato nuovo sapore alla vita, di instaurare nuove relazioni e di essere pronti a spendersi per la edificazione del Regno di Dio.
Il tema del pellegrinaggio mette in risalto alcuni aspetti del nostro carisma che vorrei ricordare:
Ci piace guardare a Don Bosco non come ad un uomo inerte, fermo, sicuro delle sue convinzioni, ma come all’uomo del dialogo, della parola dialogante, del cammino tenace anche se a volte incerto[45].
Una vita, un lungo cammino quello di D. Bosco: dai primi passi del piccolo bovaro con una pagnottella di pane bianco in una mano e un libro nell’altra per mettere i piedi ai suoi strani sogni; al cammino che, in una gelida mattina, lo porta a lasciare la casa dei Becchi, la mamma Margherita, le sue sicurezze per andare alla cascina Moglia; al faticoso camminare a Chieri da una bottega all’altra, da un negozio all’altro, da un libro all’altro; al testardo camminare per le strade di Torino e dintorni, alla ricerca dei suoi ragazzi, di un luogo per l’oratorio; al lungo camminare per fondare la sua Congregazione, per andare a cercare offerte per le sue opere. All’ultimo viaggio, quello che il nostro Padre desiderò per tutta la vita: «Negli ultimi anni a chi gli chiedeva: “Dove andiamo D. Bosco?”, lui rispondeva “Andiamo in Paradiso”»[46].
La nostra prassi pastorale è particolarmente sensibile alla proposizione di itinerari di educazione alla fede: essi tengono conto di un punto di partenza, indicano delle mete e presentano delle tappe per aiutare a conoscere, vivere, contemplare e celebrare il mistero della Pasqua, fonte di gioia e di vita.
Il punto di partenza è la situazione culturale, sociale e psicologica e religiosa del giovane. Indichiamo come obiettivo finale l’incontro nella fede con Dio Padre per Gesù Cristo, per la grazia dello Spirito Santo, nella Chiesa, percorrendo un cammino costante di maturazione globale ed integrale. Per conseguir questa meta, l’itinerario offre modelli e testimoni, indica tappe, atteggiamenti e decisioni per un viaggio progressivo e adeguato. L’immagine del cammino ci induce, però, a fare tutto questo operando una chiara scelta esperienziale: vogliamo rispondere agli interrogativi dei giovani: alle comunità e ai gruppi si chiede di narrare la propria esperienza di fede, un’esperienza positiva che segnali le vie percorse per il superamento delle difficoltà. Il Rettor Maggiore ci indica un approccio nuovo rispetto al passato, volto a privilegiare la condivisione del vissuto, di quella “vita buona del Vangelo” concreta e quotidiana, che si costruisce con l’amare e il generare, lavorare e riposare, educare, condividere gioie e dolori, accompagnare e prendersi cura delle fragilità, promuovendo la libertà e la giustizia[47]. «Si tratta di cercare i giovani nella loro realtà, con le loro risorse e difficoltà, e scoprire le sfide dei contesti culturali, sociali e religiosi in cui vivono, dialogando con loro per proporre, attraverso la pedagogia dell’accompagnamento, un cammino di incontro vivo e comunitario con Gesù Cristo»[48].
Occorre non dimenticare che il pellegrino guarda l’orizzonte, contempla l’assoluto, sogna, rifugge dalle rigidità, dal tutto stabilito e programmato. Il pellegrino è uno che si ricorda da dove è partito, quali sono le sue radice, quali desideri ha custodito nel suo cuore. Il percorrere l’avventura dello Spirito ci dà la possibilità di dare priorità all’esperienza religiosa fondata non su un impersonale “sentito dire”, ma su una esperienza personale, sulla conversione che tocca la vita dei discepoli (pastori e giovani). Ne deriva, soprattutto per noi consacrati/e e adulti della FS, la necessità di sviluppare una teologia cristiana più umile, meno dogmatica nel presentare Dio e l’uomo, sempre rispettosa del “Mistero” che pian piano si svela e coinvolge la nostra vita. Necessita sviluppare la coscienza che si cammina facendo un passo alla volta, senza salti pericolosi, senza impazienze, ma senza fermarsi mai. Occorre trovare il “passo giusto”, quello adeguato alle proprie forze, che ci accompagni per tutta la vita. Certamente non sfugge, in una simile impostazione, quanto è intimamente caro alla nostra tradizione: la valorizzazione della dimensione corporale, della dimensione estetica, della dimensione festiva che segnano una equilibrata personalità umana, e un rinnovato interesse per i piccoli, gli ultimi, i giovani poveri, coloro che vivono nelle periferie geografiche o che sono periferia esistenziale. Ne deriva il desiderio di una comunicazione più esperienziale e vitale, e meno concettuale perché i giovani possano avere “vita in abbondanza”[49]. «L’essere umano aperto all’esistenza, pulsando al ritmo del grande cuore universale, spinto dall’anima del mondo, è un torrente in crescita, che da ruscello diventa fiume, e poi sgorga nell’oceano immenso che chiamiamo Dio. È proprio dell’uomo camminare, uscire da sé, aprirsi alla trascendenza, avere il coraggio di rompere con la schiavitù per camminare libero verso un orizzonte di speranza»[50].
La strenna del Rettor Maggiore, secondo la dimensione del cammino sin qui prospettata, ci obbliga a valorizzare il linguaggio simbolico, che ci permette di parlare di Dio in modo esperienziale, dell’amore ricevuto e donato; ci ricorda il bisogno della interiorità, la certezza che Dio abita nel profondo del nostro cuore. Si apre un cammino che si conclude con l’incontro con Dio. Essa ci richiama alla necessità essere testimoni coerenti, e ci ricorda, inoltre, il ruolo dell’amorevolezza nel nostro sistema preventivo: in modo particolare l’importanza che i giovani danno ai rapporti di prossimità e di amicizia. Si tratta del punto di partenza per creare spirito di comunità e capacità di incontro con gli altri, con la comunità cristiana e con Cristo. Si deve dare più attenzione nei nostri cammini, prima che ai discorsi astratti, alle esperienze forti, da vivere da protagonisti, che aiutino ad interpretare e ad approfondire la propria vita e a giungere all’incontro personale e comunitario con Dio[51].
Occorre non dimenticare che il pellegrino scopre “fratelli”, “compagni di viaggio” che non appartengono al sangue: essi sono fratelli di fede e di sogni, fa esperienza non di una fraternità passiva, inconsistente, ma di una fraternità da costruire, di cui appassionarsi, per cui val la pena di fare qualsiasi sacrificio. Necessita riscoprire il piacere di “camminare in cordata”, il senso della “carovana” con coloro che accarezzano lo stesso sogno e che hanno nel cuore la stessa passione. L’idea del cammino rivela la necessità di un discernimento comunitario che «aiuti […] a non fermarsi sul piano, pur nobile, delle idee, ma inforchi occhiali capaci di cogliere e comprendere la realtà, e quindi strade per governarla, mirando a rendere più giusta e fraterna la comunità degli uomini»[52].
La comunità di cui parliamo è la Comunità Educativo-Pastorale. «È il nostro essere Chiesa, la nostra pastorale specifica inserita nella pastorale ecclesiale. L’educazione e l’evangelizzazione sono frutto della convergenza di persone, interventi, qualifiche, in un progetto condiviso e attuato corresponsabilmente. La Pastorale Giovanile Salesiana da azione di singoli operatori diviene coordinamento dei diversi interventi, ricerca d’intesa e di complementarietà tra tutti, ricerca di collaborazioni, sforzo di organicità e di progettazione»[53].
In questo anno giubilare, sogniamo una Famiglia salesiana non appagata di se stessa, ma “inquieta”, la quale di fronte ai mutamenti, ai nuovi deserti, alle incertezze e alle debolezze, sia disposta a “camminare” insieme ai giovani verso le mete che, magari ora sono nel cuore di Dio, ma che presto saranno dono per tutti noi. L’Anno Santo della misericordia ci troverà pronti a camminare costruendo ponti, abbattendo mura, aprendo nuove vie di comunicazione, e promuovendo inediti terreni di incontro perché i nostri giovani siano sempre felici, nel tempo e nell’eternità.
[1] Circa lo sviluppo e l’intensità del tema della Nuova Evangelizzazione nei testi del Magistero pontificio e conciliare dal 1934 al 2012 cfr. Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, Enchiridion della Nuova Evangelizzazione. Testi del Magistero pontificio e conciliare 1939-2012, LEV, Città del Vaticano 2012.
[2] EG, 246.288.
[3] EG, 87.
[4] EG, 244.
[5] Francisco J. Castro Miramontes, Verso Santiago. Diario di un pellegrinaggio, ETS, Milano 2015.
[6] La Lumen Gentium intitola il cap. VII nel seguente modo: «Indole escatologica della Chiesa peregrinante e sua unione con la Chiesa celeste». Cfr. EV 1, p. 225.
[7] Per il tema della storia del pellegrinaggio cfr. J. Richard, Les récits de voyages et de pèlerinages, Brepols, Turnhout 1981; V. Bo, Il pellegrinaggio cristiano nella storia, in “Credere oggi” 15 (1995) 3, 5-15; N. Terrin, Pellegrini e pellegrinaggio, nella storia comparata delle religioni, in “Credere oggi” 15 (1995) 3, 5-15, 16-31; F. Cardini, Il fiorire dei pellegrinaggi in età medievale, in “Credere oggi” 15 (1995) 3, 43-52; J. Vidal, Il pellegrinaggio nella tradizione cristiana, in “Concilium” 32 (1996) 4, 58-75; A.B. Lafont, Sulle tracce dei primi pellegrini, in “Il mondo della Bibbia” 119(2013)4, 5-8; M.F. Baslez, Pellegrinaggi nel mondo greco-romano, in “Il mondo della Bibbia” 119(2013)4, 11-13; D. Jaffé, Le feste ebraiche di pellegrinaggio, in “Il mondo della Bibbia” 119(2013)4, 15-17; B. Caseau, Sulle tombe dei martiri cristiani, in “Il mondo della Bibbia” 119(2013)4, 19-22; J. Chabbi, Nella tradizione musulmana, in “Il mondo della Bibbia” 119(2013)4, 25-27; Richard Jean,Il santo viaggio. Pellegrini e viaggiatori nel Medioevo,Jouvence, Roma 2003; P. Parolin, Pellegrinaggio e Misericordia. Ricerca del senso della vita e attenzione al prossimo, in “L’Osservatore Romano” (18 Novembre 2015), CLV (2015) 264, 5. Circa l’aspetto sociologico e psicologico del pellegrinaggio cfr. A. Dupront, Tourisme et pèlerinage. Réflexions de psychologie collective, in “Communication” 10 (1967) 10, 97-121; M. Maragno (ed.), Il pellegrinaggio nella formazione dell’Europa. Aspetti culturale e religiosi, Centro Studi Antoniani, Padova 1990; L. Dani, La secolarizzazione del pellegrinaggio, in “Credere oggi” 15 (1995) 3, 64-75; E. Fizzoti, Aspetti psicologici del pellegrinaggio, in “Credere oggi” 15 (1995) 3, 76-82; L. Andreatta, Pellegrinaggio sentiero di pace, Piemme, Casale Monferrato 2003; J. Ries, L’universo del pellegrinaggio. Aspetti religiosi e culturali, in Communio” 25 (1997) 151, 9-17; M. Sodi (ed.), Pellegrini alla porta della misericordia, Edizioni Messaggero Padova, Padova 2000; D. Hervieu-Léger, Il pellegrino e il convertito. La religione in movimento, Il Mulino, Bologna 2003; L. Andreatta, Sostare lungo il cammino. Il pellegrinaggio in un mondo che cambia, Piemme, Casale Monferrato 2004; Ruggero Zucchelli, Profilo del pellegrinaggio. Rivisitazione di 25 anni d´impegno nella pastorale dei pellegrinaggi, Nuova editrice cremonese, Cremona 2007; P. Asolan,Il santo viaggio. Appunti di pastorale del pellegrinaggio, Lateran University Press, Città del Vaticano 2013.
[8] Cfr. J. Barrio Barrio, Peregrinos de la fe y testigos de Cristo resucitado. Camino de Emaús y camino de Santiago, in Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti (ed.), Pellegrini al Santuario, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2011, 37-49. Oggi, grazie anche al magistero di Papa Francesco, suscita particolare interesse accademico, la cosiddetta Teologia del popolo che propone un rinnovamento pastorale fondato sull’opzione per i poveri e sul ruolo centrale del popolo di Dio in condizione perenne di discepolato (per l’approfondimento vedi E. C. Bianchi, Introduzione alla teologia del popolo. Profilo spirituale e teologico di Rafel Tello, WMI, Bologna 2015. Questo testo contiene uni interessante prefazione di Jorge Mario Bergoglio).
[9] Anonimo russo, La via di un pellegrino, Milano 1972, 15.
[10] G. De Virgilio, La categoria biblica del pellegrinaggio e il suo simbolismo. Per una rilettura nel contesto della pastorale giovanile, in “Note di Pastorale Giovanile”, 38 (2004) 2, 38; cfr. Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti (ed.), Il pellegrinaggio nel grande Giubileo del 2000, in EV, 17, 367-401; Id., Pellegrini al Santuario, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2011.
[11] Di Sante C., Il senso del pellegrinaggio nella bibbia, in “Note di Pastorale Giovanile” 29 (1995) 6,17. Sulla stessa linea si pone De Virgilio quando afferma: «Nel decidere il pellegrinaggio il credente raccoglie la propria esistenza per affidarla alla protezione di Dio. Preparazione, itinerario, tappe intermedie, riti di purificazione, preghiere, fino a raggiungere la meta, fanno parte della grande storia della comunità ebraica e cristiana. Si può affermare che nei testi ispirati l’idea del pellegrinaggio fa da sfondo a tutta la storia della salvezza, dai racconti della creazione all’epilogo invocativo del libro dell’Apocalisse. Brani narrativi, composizioni salmiche, eventi miracolosi, elaborazioni legislative, racconti edificanti, lotte e guerre, insegnamenti sapienziali, aspetti morali, discorsi escatologici, preghiere e apologhi sono abilmente collocati lungo la narrazione della storia del cammino del popolo. Un simile procedimento si individua nei vangeli (cfr. il viaggio di Gesù verso Gerusalemme) e nella letteratura del Nuovo Testamento (cfr. i percorsi negli Atti)» (De Virgilio G., La categoria biblica del pellegrinaggio e il suo simbolismo. Per una rilettura nel contesto della pastorale giovanile, in “Note di Pastorale Giovanile”, 38 (2004) 2, 39). Per l’approfondimento del tema cfr. anche R. De Zan, Il pellegrinaggio nella Sacra Scrittura: luogo di conversione e di perdono?, in “Rivista Liturgica” 86 (1999) 5-6, 591-602.
[12] Sal 39,15. Cfr. R. De Zan, Le forme di «cammino sacro» nell’Antico Testamento, in “Credere oggi” 15 (1995) 3, 32-42.
[13] Cfr. G. Ravasi, Abramo e il popolo di Dio pellegrino, in Communio” 25 (1997) 151, 18-26. Occorre, anche, registrare il “pellegrinaggio” di Giacobbe con la sua famiglia a Betel (Gn 35,1-8), e il cammino dei patriarchi verso un santuario o un luogo sacro: a Sichem (cfr. Gn 12,6), a Mamre (cfr. Gn 18,1), a Bersabea (cfr. Gn 26,23-25) e a Betel (cfr. Gn 28,12).
[14] Il presente motivo è facilmente rilevabile nella sezione dei salmi delle ascensioni (120-134). Cfr. D. Jaffé, Le feste ebraiche di pellegrinaggio, in “Il mondo della Bibbia” 119(2013)4, 15-17. Cfr. J. L. Ska, Antico Testamento. 2. Temi e letture, 143-158.
[15] Sal 122,14.
[16]G. De Virgilio, La categoria biblica del pellegrinaggio e il suo simbolismo. Per una rilettura nel contesto della pastorale giovanile, in “Note di Pastorale Giovanile”, 39 (2004) 2, 42.
[17] Cfr. Mt 2,1-12.
[18] Lc 9,51. Un interessante articolo di Freyne presenta Gesù pellegrino dentro la tradizione religiosa ebraica. Cfr. S. Freyne, Gesù il pellegrino, in “Concilium” 32 (1996) 4, 45-57. Cfr. anche H. Langkammer, Il pellegrino Cristo e la sua sequela, in Communio” 25 (1997) 151, 27-37; G. Colzani, Gesù Cristo pellegrino e ospite, in “Via Verità e Vita” 48 (1999) 5, 16-19.
[19] Rilevante risulta a proposito l’esperienza di Paolo che, per annunciare a tutti la Buona Novella, si mette in viaggio sulle strade del mondo allora conosciuto. Damasco, Antiochia, le fiorenti città greche dell’Asia minore, la Grecia, Roma saranno testimoni dell’opera missionaria dell’Apostolo delle Genti.
[20] G. De Virgilio, La categoria biblica del pellegrinaggio e il suo simbolismo. Per una rilettura nel contesto della pastorale giovanile, in “Note di Pastorale Giovanile”, 39 (2004) 2, 43. La riflessione del De Virgilio tiene del seguente articolo: R. De Zan, Le forme di «cammino sacro» nell’Antico Testamento, in “Credere oggi” 15 (1995) 3, 334-36.
[21] C. Di Sante, Il senso del pellegrinaggio nella bibbia, in “Note di Pastorale Giovanile” 29 (1995) 6, 19. Cfr. anche P. Philibert, Pellegrinaggio verso la pienezza. Immagine dell’esistenza cristiana, in “Concilium” 32 (1996) 4, 112-128; L. Soravito, Il pellegrinaggio della vita, in “Via Verità e Vita” 48 (1999) 5, 46-52.
[22] Cfr. Dicastero per la Pastorale giovanile Salesiana, La pastorale giovanile salesiana. Quadro di riferimento, Direzione Generale Opere Don Bosco, Roma 2014, 96.119.
[23] Il pastore delle greggi, a causa delle infelici condizioni climatiche ed ambientali, nel periodo della primavera sino all’autunno, era solito condurre le pecore lontano dalle proprie terre, presso pascoli migliori. Se, per molto tempo, questo compito fu assolto dagli stessi componenti della famiglia del proprietario del gregge, con l’andare del tempo, questa mansione venne affidata dal padrone ad un pastore assoldato che riscuoteva la piena fiducia del padrone, ma che avrebbe anche potuto non ricambiare questa fiducia. Nell’Antico Testamento troviamo alcune testimonianze di questa occupazione (cfr. Gen 4,2; 29,7-10; 30,31-43; 37,2; Es 3,1; 1Sam 16,11; 17,15; Am 1,1; 7,14). Tutta la storia di Israele è costellata da numerose figure di pastori. La tradizione jahvistica conserva la notizia che Abele divenne pastore di greggi. Gli stessi Patriarchi vengono considerati come allevatori semi-nomadi di pecore e di capre. Abramo e Lot governavano pastori al loro servizio e possedevano greggi così numerosi tanto che il pascolo era diventato insufficiente: «Dall’Egitto Abram risalì verso il Negheb, con la moglie e tutti i suoi averi; Lot era con lui. Abram era molto ricco in bestiame, argento e oro. [...] Ma anche Lot, che accompagnava Abram, aveva greggi e armenti e tende, e il territorio non consentiva che abitassero insieme, perché avevano beni troppo grandi e non potevano abitare insieme. Per questo sorse una lite tra i mandriani di Abram e i mandriani di Lot» (Gen 13,1-2.5-7). Isacco viene benedetto dal Signore con numerosi greggi ed armenti (cfr. Gen 24,35). Rachele si presenta mentre conduce il bestiame del Padre, «era infatti una pastorella» (Gen 29,9), Giacobbe ricorda a Labano di aver custodito pazientemente e scrupolosamente il gregge che gli era stato affidato (cfr. Gen 31,38-42). Le sette figlie del sacerdote di Madian accudiscono il gregge del padre (cfr. Es 2,16). Giuseppe, divenuto vice-re in Egitto, raccomandò ai suoi parenti di presentarsi al faraone come pastori (cfr. Gen 46,31-34). Lo stesso Mosè arriva all’Oreb mentre conduce il gregge del suocero Ietro (cfr. Es 3,1). Iesse presenta il figlio Davide a Samuele come «il più piccolo, che ora sta a pascolare il gregge», (1Sam 16,11). Ed infine Amos di se stesso dice «ero un mandriano e coltivavo piante di sicomoro. Il Signore mi prese, mi chiamò mentre seguivo il gregge. Il Signore mi disse: Va’ profetizza al mio popolo Israele» (Am 7,14-15). Inoltre, negli scritti veterotestamentarii troviamo descritte alcune caratteristiche del pastore: egli indossa un solo abito (cfr. Ger 43,12); porta una borsa; costruisce recinti con le pietre affinché, di notte, le pecore non si disperdano (cfr. Nm 32,16); per proteggersi dai briganti e dagli animali selvatici, usa come oggetti di difesa un bastone ricurvo nella parte superiore ed appuntito in basso ed una fionda (cfr. Sal 23.4; 1Sam 17,34-40); suona la zampogna per allietare le ore serali o il rito della tosatura (cfr. Gdc 5,16; 1Sam 25,7); cammina sempre davanti al suo gregge, ha grande cura delle sue pecore per le quali procura il cibo (cfr. Ez 34,8), e l’acqua dei ruscelli (cfr. Sal 23,2) dei pozzi (cfr. Gen 21,30).
[24] Dal tempo dei Patriarchi fino alla conquista della Terra promessa la pastorizia sembra essere l’attività principale di Israele. E anche quando, dopo che il popolo di Dio si stabilisce nella terra promessa ai Padri, la sedentarietà, determinata dall’agricoltura, diventerà l’occupazione preminente e la situazione costitutiva della vita, la pastorizia sarà considerata come parte integrante della vita quotidiana, e il tempo legato alla cura delle greggi sarà sempre ricordato con nostalgia e ad esso sarà attribuito un particolare significato simbolico (cfr. Gen 49, 24; Sal 23; 78,52-53).
[25] La terminologia usata dal testo sacro è estremamente significativa: essa evoca il «cammino» come simbolo del rapporto tra Dio e il suo popolo e lo «stare accanto» come immagine della fedeltà di Dio che porta a compimento ogni sua promessa (cfr. G. Ravasi, Il libro della Genesi (12-50), “Guide Spirituali all’Antico Testamento”, Città Nuova, Roma 1993, pp. 220-225; G. Von Rad, Genesi. Capitoli 25,19-50,26, “Antico Testamento” 4, Paideia, Brescia 1972, pp. 581-592.
[26] A. Kothgasser, Il Vescovo come successore della missione del Buon Pastore, in M. Sodi (ed.), «Ubi Petrus ibi ecclesia». Sui sentieri del Concilio Vaticano II. Miscellanea offerta a S.S. Benedetto XVI in occasione del suo 80° genetliaco, Las, Roma 2007, p. 439.
[27] Per un approfondimento cfr. M. Cimosa, Mia luce e mia salvezza è il Signore. Commento esegetico-spirituale dei salmi (Salmi 1-50), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2004, pp. 202-209; A. Weiser, I Salmi 1-60, Paideia, Brescia 1984, pp. 235-240.
[28] Gli stessi temi si sviluppano in Sal 27,9 in cui, in un contesto di supplica e di ringraziamento si invoca la presenza liberatrice del Dio salvatore: «Salva il tuo popolo e la tua eredità benedici, guidali e sostienili per sempre»; in Sal 48,15 in cui, in un contesto di celebrazione di Sion, monte santo di Dio, si professa la fede dei Padri: «questo è Dio, il nostro Dio in eterno, e per sempre; egli è colui che ci guida in ogni tempo»; e in Sal 77,21 in cui, mentre si ricordano le meraviglie compiute da Dio, si afferma che: «guidasti come un gregge il tuo popolo per mano di Mosè e di Aronne».
[29] A questa visione, fa eco il simbolismo del pastore nel Siracide in cui si mette in risalto l’atteggiamento di Dio che educa il suo popolo. Egli rimprovera, corregge, ammaestra e guida come un pastore il suo gregge (cfr. Sir 18,12-13).
[30] Lo stesso tema è sviluppato in Sal 78 in cui si riflette sul senso della storia di Israele, ed in particolare, si raccontano le meraviglie dell’Esodo. L’uscita dall’Egitto è metaforicamente simboleggiata all’uscita del gregge dall’ovile, guidato dalla mano forte e sicura del pastore: «Fece partire come pecore il suo popolo e li condusse come greggi nel deserto. Li guidò con sicurezza e non ebbero paura, ma i loro nemici li sommerse il mare. Li fece entrare nei confini del suo santuario, questo monte che la sua destra si è acquistato» (Sal 78,52-54).
[31]Il Salmo richiama chiaramente il cammino del deserto, le acque amare di Mara e il dono della manna e delle quaglie (cfr. Es 15,22-16,12-36). Nel lungo cammino verso la liberazione del suo popolo Dio è come un pastore con il suo gregge. Egli, per Israele, prepara una mensa nel deserto.
[32] Per un approfondimento cfr. M. Cimosa, Perché Signore mi nascondi il tuo volto?. Commento esegetico-spirituale dei salmi (Salmi 51-100), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2004, pp. 247-256; A. Weiser, I Salmi 1-60, Paideia, Brescia 1984, pp. 235-240; A. Weiser, I Salmi 61-150, Paideia, Brescia 1984, pp. 599-606.
[33] Cfr. Sal 78,52.
[34] Cfr. Is 53,6.
[35] Cfr. Sal 79,13; Mi 7,14.
[36] Cfr. Sal 77,21; 78, 72.
[37] Cfr. 2Sam 5,2; 7.7; Ez 32, 23-24; 37,24-25; Nm 27,17 ; Ger 23,1-2; 25,34; 25,35.Nella stessa storia di Davide non è difficile ritrovare il sentimento di ammirazione per il piccolo pastore ultimo tra i figli di Iesse che Dio elegge per pascere il gregge che è il suo popolo: «Io ti ho preso dal pascolo, mentre seguivi il gregge, perché tu fossi capo del mio popolo Israele (2Sam 7,8), «Tu pascerai il mio popolo Israele, tu sarai capo d’Israele» (2Sam 5,2). Egli rappresenta realmente il pastore autorevole, perché quando lo chiama «lo allontanò dalle pecore madri per farne il pastore Giacobbe, suo popolo, d’Israele, sua eredità. Fu per loro un pastore dal cuore integro e li guidò con mano intelligente» (Sal 78,71-72).
[38] La reciprocità tra il pascere ed il regnare è messa ben in risalto dal Vescovo San Basilio Magno: «Avete conosciuto che Abele, il quale per primo fu accetto al Signore, fu pastore. Chi lo ha imitato? Il grande legislatore Mosè, che dopo essere fuggito dal faraone e dai suoi propositi, divenne pastore sul monte Oreb; e mentre pascolava entrò in colloquio con Dio. Chi lo imitò dopo Mosè? Il patriarca Giacobbe che, in verità, mostrando la sua pazienza nel pascere, nella piccola immagine del pascere raffigurò tutta la sua vita […]. Davide dalla pastorizia giunse a regnare. L’arte del pascere e l’arte del regnare sono arti simili. […]. Vuoi sapere qual è la dignità del pastore? Il Signore è il mio pastore. E come l’arte di pascere è simile all’arte del regnare? Il Signore è il re della gloria. […]. Pastore buono? Rifiuta il falso e si compiace della verità: Io sono il Buon pastore. Impara chi sia il pastore e chi sia buono: Il buon pastore offre la vita per le pecore, il mercenario, invece, che non è pastore, e non è padrone delle pecore, quando vede arrivare il lupo, fugge»Basilio Magno, Omelia in Mamantem Martyrem, in PG 31, pp. 595-595.
[39]Cfr., in maniera particolare, Ez 34-37 e Ger 23. Il tema del pastore, durante il tempo dell’esilio e nell’immediato post-esilio babilonese, nei secoli quinto e quarto a.C., acquisisce un’accezione che richiama gli ultimi tempi, quelli escatologici del Messia liberatore.
L’oracolo di Ger 23,1-8 è una invettiva contro i falsi pastori che fanno perire e disperdono il gregge portandolo a distruzione, a dispetto del compito loro affidato. Lo stesso Jahvè, di cui il profeta è portavoce, afferma che radunerà le sue pecore che saranno affidate a pastori che le condurranno in pascoli di salvezza. Lo stesso oracolo contiene la promessa del Messia, il germoglio di Davide che regnerà da vero re, esercitando il diritto e la giustizia. Il re Messia sarà il vero pastore d’Israele, che colmerà di ogni bene il gregge del Signore.
L’oracolo del Ez 34 stigmatizza i pastori bugiardi che si comportano da mercenari, non curandosi del gregge. Essi, invece di mettersi a servizio del popolo, secondo la missione ricevuta da Dio, approfittano del loro compito per opprimere ed uccidere. Anche Ezechiele si fa portavoce delle promesse di Dio: egli stesso sarà il pastore che si prenderà cura di tutte le sue pecore, delle disperse, delle ferite, delle perdute e le farà pascolare in luoghi fertili. Non solo, ma lo stesso Jahvè assicura la venuta del Messia pastore, il re davidico, che condurrà al pascolo il suo popolo. È l’annuncio di un’era escatologica in cui un nuovo Davide, servo di Dio, unico pastore per tutti guiderà le pecore di Jahvè, facendole saziare su prati erbosi e dissetare lungo fiumi ricchi di acque.
[40] Cfr. Ez 34,23.
[41] Cfr. Gv 10, 7.14.
[42]Circa il significato teologico del pellegrinaggio cfr. L. Sartori, Pellegrinaggio e religiosità popolare, Messaggero, Padova 1983; Idem, Il significato teologico del pellegrinaggio, in “Credere oggi” 15 (1995) 3, 83-92; C. Chenis, Il pellegrinaggio segno dell’«andar per fedi» e momento della pietà popolare, in “Salesianum” 65 (2003) 3, 491-519; M. Mazzeo, Cittadini del mondo e «pellegrini», in “Via Verità e Vita” 55 (2006) 3, 28-31.
[43] Cfr. D. Carrasco, Coloro che intraprendono un viaggio sacro. Le forme e le diversità dei pellegrinaggi, in “Concilium” 32 (1996) 4, 30-44 (con acclusa bibliografia).
[44] Per l’approfondimento della tematica cfr. V. Elizondo, Le opportunità pastorali dei pellegrinaggi, in “Concilium” 32 (1996) 4, 144-155; L. Andreatta, Pellegrini come i nostri Padri. Per una pastorale eucaristica e penitenziale del pellegrinaggio, Piemme, Casale Monferrato 1991; S. Lanza, Accoglienza e pellegrinaggio. Annotazioni Teologico-Pastorali nella prospettiva del Giubileo del Duemila, in “Lateranum” 62 (1996) 3, 585-621.
[45] Cfr. Memorie Biografiche di San Giovanni Bosco, 19 vol. (da 1 a 9): G. B. Lemoyne, (10) A. Amadei; da 11 a 19, E. Ceria, 1 vol. di Indici E. Foglio, San Benigno Canavese-Torino 1898-1939 (Indici, 1948). G. Bosco, Memorie dell´Oratorio di S. Francesco di Sales dal 1815 al 1855, Introduzione, note e testo critico a cura di A. Da Silva Ferreira, LAS, Roma 2010; P. Braido (ed.), Don Bosco nella Chiesa a servizio dell´umanità. Studi e testimonianze, LAS, Roma 1987; ID., Don Bosco prete dei giovani nel secolo delle libertà, 2 voll., LAS, Roma 2012.
[46] A. Sicari, Ritratti di Santi, Jaca Book, Milano 1987, 119. Cfr. Dicastero per la Pastorale giovanile Salesiana, La pastorale giovanile salesiana. Quadro di riferimento, o.c., 24-27.
[47] Cfr. la Strenna 2016 del Rettor Maggiore Don Ángel Fernández Artime. Sullo stesso tema cfr. A. Scola, Un nuovo umanesimo. Per Milano e le terre ambrosiane, Centro Ambrosiano, Milano 2014.
[48] Dicastero per la Pastorale giovanile Salesiana, La pastorale giovanile salesiana. Quadro di riferimento, o.c., 31. Cfr. anche CG20, n. 360.
[49] Cfr. Gv 10,10.
[50] Francisco J. Castro Miramontes, Verso Santiago. Diario di un pellegrinaggio, ETS, Milano 2015, 15.
[51] Cfr. Dicastero per la Pastorale giovanile Salesiana, La pastorale giovanile salesiana. Quadro di riferimento, o.c., Roma 2014, 119-125. Cfr. Dicastero per la Pastorale giovanile Salesiana, La pastorale giovanile salesiana. Quadro di riferimento, o.c., 105-131.
[52] Discorso del Santo padre alla 66a Assemblea Generale della Conferenza Episcopale Italiana (Roma, 19-22 maggio 201°), in “Notiziario della Conferenza Episcopale Italiana” 48 (2014) 154.
[53] Dicastero per la Pastorale giovanile Salesiana, La pastorale giovanile salesiana. Quadro di riferimento, o.c., 108.
Un’esperienza della paternità di Dio
Rubén Escribano
Buongiorno!
Per cominciare voglio ringraziare per l´opportunità che mi è stata data di essere qui e di vivere con voi queste giornate. Ho avuto la fortuna di partecipare nel 2009, quando ero un novizio, e ora mi è stata data la possibilità di rivivere questa esperienza che ha sicuramente molto di nuovo da dirmi.
Quando mi è arrivato l´invito per condividere con voi la mia esperienza vocazionale e il mio percorso spirituale, sono nati in me due sentimenti contrastanti. Immediatamente è sorta in me una certa paura: Dove vado? Che vergogna! ... Con tante persone importanti che parteciperanno e che sicuramente possono fare meglio, io cosa vado a dire? ... Però pensandolo con un poco di calma, il sentimento è cambiato. Mi ha preso un senso di gioia e di gratitudine. Gioia non per venire a sedermi qui - infatti si noterà che la paura e la vergogna non sono passati del tutto - ma perché nel corso del tempo ho scoperto che il protagonista della mia storia non sono stato io, ma è Dio che ha fatto grandi cose in me.
Mi piace dire che tutta la mia esperienza di Dio è e continua ad essere una storia di paternità. Non perché risulta bello dirlo, ma perché così l’ho scoperto man mano nella mia vita.
Il punto di partenza della mia storia è probabilmente molto simile a quello della maggior parte di coloro che siamo qui. Sono nato in una famiglia normale; figlio di una giovane coppia; primo di tre fratelli. L´unica particolarità è che la mia famiglia non era cattolica. I miei nonni paterni e i miei genitori appartenevano ai Testimoni di Geova, che come sapete, hanno idee molto distanti da noi cattolici.
La mia prima infanzia la trascorro in questo ambiente. Per me normale. Non ho alcun ricordo negativo legato al tema della religione. Mi ricordo di alcune idee, di alcune regole che oggi mi sembrano qualcosa di scioccante, ma che all’interno di quell’ambiente in cui ho vissuto mi risultavano del tutto normali.
Presto però la mia vita avrà una svolta. Quando avevo circa 8-9 anni, per varie ragioni, i miei genitori hanno deciso di separarsi e in seguito di divorziare. La separazione dei miei genitori sarà la causa che provoca la graduale uscita dall’ambiente dei Testimoni. Poco dopo la separazione praticamente non c’è più alcun rapporto con loro, se non con la famiglia di mio padre che oggi rimangono testimoni.
Da questo momento trascorro un´infanzia normale. Senza grandi alti e bassi. Sotto l´aspetto religioso è una fase segnata dall´assenza di Dio e da tutto ciò che ha a che fare con la religione.
L´adolescenza è stata una tappa più complicata a tutti i livelli. Ho deciso di interrompere i miei studi senza completare la scuola superiore, che in Spagna è il corso che apre la porta all’Università. A questa decisione arrivo dopo aver trascorso due anni della mia vita a non fare nulla per quanto riguarda gli studi. Opto per degli studi più tecnici orientati alla contabilità. Al termine del corso della durata di un anno, inizio, a 18 anni appena compiuti, a lavorare.
Nel frattempo, grazie ad una persona molto vicina a me, vengo a sapere che nella parrocchia del mio quartiere, una parrocchia salesiana che ha il centro giovanile e un centro sociale, vi è una scuola sportiva che dipende dal centro giovanile; lì hanno una squadra di pallavolo maschile. Mi incoraggio a tentare la fortuna con la sola intenzione di avere la possibilità di allenarmi e giocare in un posto vicino a casa. Questo sarà il mio primo contatto con il mondo salesiano.
Mi accolgono, senza alcun problema, non solo nella squadra, ma a poco a poco mi si aprono altre porte. Come sezione del centro giovanile, la scuola sportiva svolgeva anche il suo itinerario educativo e di fede. Si offrivano momenti di preghiera tutti i venerdì, alcune collaborazioni che ti facevano sentire parte del centro, la partecipazione alle attività durante il fine settimana, ritiri, e soprattutto i gruppi di fede e, come nel mio caso, i gruppi di valori i cui destinatari eravamo quelli che non ci consideravamo credenti o eravamo in ricerca.
La cosa non si fermò qui. Una volta che entri nell´ambiente salesiano e lasci che questo ambiente entri dentro di te ... non c´è più niente da fare!! L´anno successivo mi propongono di far parte di un nuovo progetto. Si vuole avviare una scuola di sport, al fine di dare la possibilità ai più piccoli che chiedono di partecipare a questo progetto, di iniziare a praticare qualche sport. Vista la mia situazione e che avrei potuto coniugare perfettamente questo impegno con il lavoro, accetto la proposta.
Sapevo che questo era un passo importante almeno a livello di responsabilità all´interno del Centro Giovanile. Non ero più un semplice destinatario ma ora c´erano alcuni elementi che dovevo curare e vivere. Guardando questo ora, sono convinto che questo anno è stato decisivo per quello che sarebbe venuto dopo. Mi ha aiutato in particolare scoprire man mano nella mia vita qualcosa che era dentro di me, ma a cui io non ero in grado di dare un nome. Questa esperienza, il contatto con i ragazzi e con gli altri animatori di questo ambiente, mi ha fatto porre delle domande sulla mia vita di fede. La maggior parte degli animatori parlavano di processo, del fatto che il loro essere animatori era un modo per rispondere a ciò che Dio stava loro chiedendo, che il loro impegno di donazione era parte della loro vita di credenti ... ed io non sentivo niente di tutto questo. E´ stato il contatto più personale con i miei animatori, con i salesiani che erano nel Centro Giovanile, il loro modo di vivere, quello che facevano, il senso che davano, le conversazioni più serie, quello che condividevano, ciò che mi ha portato a mettere in discussione la mia vita di fede. Perché loro vivevano quell´esperienza a partire da Dio, e tuttavia Dio nella mia vita non contava nulla.
Senza troppe ansie ho cercato di affrontare questo che stavo vivendo. Come animatore mi invitavano ad alcune attività più specifiche che mi aiutavano molto a iniziare un percorso in cui mi nascevano molte domande e non molte risposte. Ricordo gli Esercizi spirituali per animatori, la Pasqua giovanile, la preghiera del venerdì in parrocchia, ma soprattutto ancora una volta il gruppo e il parlare di questi temi con il salesiano incaricato. Quasi senza accorgermene ho iniziato una catechesi. Spesso mi fermavo per parlare dei miei dubbi, per condividere esperienze e sentimenti... senza saperlo avevo cominciato un accompagnamento rivolto soprattutto a scoprire Dio nella mia vita. E´ stato un bel processo che mi ha aiutato a cambiare pian piano dall´interno. Ho scoperto elementi che prima non erano affatto importanti, ma che ormai stavano diventando essenziali per me. Il potere leggere qualche libro su Dio o sulla spiritualità (qualcosa di semplice), il fare piccoli passi nel cammino della preghiera personale, mi andava cambiando.
Il lavoro principale è stato quello di smantellare l´immagine di un Dio lontano, un Dio castigatore... e iniziare a scoprire nella mia vita e nella mia storia un Dio ben diverso, un Dio che è Padre e che è misericordia.
Questo processo di ricerca "si conclude" con uno dei momenti più belli e importanti della mia vita. Qualche dubbio era rimasto, ma lo stile di vita che conducevo in questo momento, l’avere sperimentato l´importanza della fede in comune e tutto il processo di catechesi – accompagnamento che avevo vissuto, mi hanno portato a fare il passo e battezzarmi.
Come ho detto prima, i miei inizi come animatore sono andati in parallelo con la mia esperienza lavorativa. Sono stati anni che mi hanno aiutato a crescere in aspetti anche importanti. Mi hanno aiutato soprattutto a scoprire il progetto che Dio aveva in mente per me. Erano degli anni felici, ma mi rendevo conto che era una vita che non mi riempiva. Avevo la mia libertà economica, non dovevo rispondere a nessuno di quello che facevo, non mi richiedeva molto ... eppure sentivo che quel modo di vita non era fatto per me.
Dopo la decisione di farmi battezzare, il mio coinvolgimento come animatore cresce, nella vita parrocchiale; inizio anche un´esperienza come catechista. Tutto questo insieme ai pensieri che giravano riguardo il lavoro, mi hanno aiutato a rendermi conto che la mia vita doveva essere orientata al servizio degli altri nell’ambiente e nella Famiglia salesiana.
Il mio itinerario formativo continua. Io non appartengo a un gruppo di valori, ma ora faccio parte di un gruppo di preparazione alla cresima. In questo stesso anno comincio un accompagnamento più serio per cercare soprattutto di rispondere a ciò che Dio vuole da me. Evidentemente l´ambiente salesiano mi aveva segnato, e un’idea girava nella mia testa: voglio fare con altri ragazzi quello che hanno fatto con me, per aiutarli a essere felici e essere in grado di trovare Dio nella loro vita.
Dopo la cresima e con le cose un po´ più chiare, decido di lasciare il lavoro (cosa che a casa non fu vista molto bene) e iniziare un’esperienza comunitaria per vedere se questo desiderio di essere salesiano è ciò che Dio vuole da me. Alcuni anni molto intensi per ripulire certi atteggiamenti e certe carenze cristiane, ma due anni pieni di Dio. Ho dovuto riprendere gli studi, essendo già abbastanza avanti nell’età. Questo mi ha portato a condividere la classe con compagni di 16-17 anni ... quando io ne avevo quasi 23… una sfida che è diventata un’esperienza che mi ha aiutato a discernere.
Dopo l´anno di aspirantato e l’anno di prenoviziato, in cui mi sono potuto confrontare con la vita salesiana e sono cresciuto nel mio rapporto con Dio, ho deciso di fidarmi di Lui e mi sono buttato nell´incredibile esperienza del Noviziato.
Il Noviziato l’ho fatto qui a Roma, a Genzano. Un anno che è stato un regalo a tutti i livelli. E´ stato l´anno che grosso modo mi ha portato a prendere coscienza della presenza di Dio nella mia storia. E´ stato un anno in cui ho vissuto una vera paternità di Dio, in cui ho potuto sperimentare l´importanza della preghiera, in cui ho potuto vedere il volto di Dio in ognuno dei fratelli e dei giovani con i quali condividevo la vita e la vocazione. Ho fatto la professione l´8 settembre 2009. Quel giorno ho passato tutta la mattina, emozionato. L´adolescente ateo, ora era un figlio di Don Bosco.
Gli anni di filosofia sono stati nel loro insieme un periodo in cui bisognava fare atterrare tutto ciò che si era precedentemente vissuto. Dopo l´entusiasmo iniziale toccava vivere il giorno per giorno. I ritmi non erano più tanto marcati. Toccava imparare ad essere salesiano vivendo come tale. Le diverse esperienze che ho vissuto, buone e meno buone, mi hanno aiutato a capire che il mio processo non era affatto finito.
Gli anni di tirocinio, come sapete, due anni completamente pastorali, li ho fatti in una casa popolare di Salamanca. Facendo sintesi, ritengo che le esperienze che ho avuto in questa tappa sono state al 100 per 100 salesiane. Ancora una volta ho visto la mano paterna di Dio nella mia vita, e non solo; ma ho anche sentito in qualche modo la sua presenza educativa.
Attualmente sto studiando al secondo anno di teologia. Lo scorso giugno ho fatto la professione perpetua. Negli esercizi che abbiamo avuto prima della celebrazione ci sono stati molti momenti in cui ho rivisto la mia vita e non potevo che ringraziare Dio per tutto il mio cammino.
Vorrei concludere sottolineando la convinzione con cui ho iniziato:
A partire dalla mia esperienza credo che Dio non si deve cercare. È Dio che ci cerca, che è vicino a noi, e che finisce per trovarci. A noi tocca renderci conto della sua presenza e accoglierlo nella nostra vita come Padre. Da lui sgorga una sorgente che trasforma la nostra vita e quella di chi ci sta intorno. Questo è quello che ho vissuto.
Don Bosco: Lezioni di life Coaching
Don Bruno Ferrero
Ho scelto questo titolo soprattutto per la parola “life”. Nella cultura il termine “life coaching” si sta affiancando sempre di più a educazione, strategie di formazione e simili. Nessun santo o grand’uomo è stato un “passatore di vita” come don Bosco. Per essere un Life Coach bisogna sapere che cos’è la vita. Don Bosco era pieno di vita.
PRIMA LEZIONE: LE APPARENZE NON CONTANO.. 1
SECONDA LEZIONE: QUALCUNO SU CUI ALZARE LO SGUARDO.. 2
TERZA LEZIONE: L’ATTRAZIONE È UNA QUALITÀ SPIRITUALE. 3
QUARTA LEZIONE: NON GUARDARE MAI INDIETRO.. 4
QUINTA LEZIONE: LA VITA È UNA MISSIONE PER CONTO DI DIO.. 5
SESTA LEZIONE: LA FELICITÀ È LA DIMENSIONE NORMALE DELLA VITA.. 6
SETTIMA LEZIONE: USA L’INTELLIGENZA EMOTIVA.. 7
OTTAVA LEZIONE: IN QUALUNQUE MOMENTO IO SONO QUI PER TE. 8
NONA LEZIONE: IL MIGLIOR NOME DELLA PROTEZIONE È DISCIPLINA.. 10
DECIMA LEZIONE: ESTRAI LE POTENZIALITÀ INFINITE CHE DIO HA MESSO IN TUTTI11
UNDICESIMA LEZIONE: LA VIA PIÙ BREVE PER ARRIVARE A DIO.. 12
DODICESIMA LEZIONE: INSEGNA L’ARTE DI MERAVIGLIARSI14
IO DICO CHE GIOVANNI BOSCO È VIVO.. 15
Torino è una città graziosa, ma quel posto era brutto. Anche se lo sfondo delle vicine Alpi lo ingentiliva parecchio. In alto, su un rondò di raccordo, campeggiava la sinistra sagoma di quella forca che il reale governo teneva sempre pronta a esemplare punizione dei malfattori e a inutile monito degli aspiranti tali. Quel sito aveva nome Valdocco, secondo un´etimologia che storici e studiosi non hanno mai potuto decisamente decifrare. Era umido e cespuglioso. Le poche case intorno erano piuttosto malfamate, dei mulini, un cimitero poco lontano.
La città era dall’altra parte, elegante, benestante. Dopo la Forca, un ospedale e il manicomio sembravano una barriera contro il resto del mondo. Proprio qui arrivò un giovane prete che non possedeva nulla di materiale, neanche un abito decente.
Chi lo incontrava la prima volta vedeva un «pretarello basso, modesto nel viso e nell´atteggiamento» dal portamento «un po´ dondolante — secondo la testimonianza di un antico alunno — a guisa di quello dell´amico del contadino, il bue, di cui sembrò riportarne e la mitezza di carattere e la forza e la costanza nel tiro». Qualcosa della tempra dell´antico contadino rimase sempre in lui, com´era naturale che fosse.
Chi però non si fosse lasciato sviare dalla prima impressione e lo avesse osservato più attentamente non avrebbe durato fatica a scorgere nel suo volto «lo stampo di un uomo creato da Dio per qualche cosa. Quello che in lui colpisce è la finezza del sorriso, l´occhio furbo e un´aria di bontà superiore e di volontà indomita» (Saint Genet, corrispondente di Le Figaro).
Aveva un segno particolare: Giovanni Bosco aveva i capelli ricciuti. Studente a Chieri era noto a tutti per i suoi capelli ricciuti e, chierico nel seminario, quando usciva per recarsi in Duomo, veniva subito riconosciuto dai suoi piccoli amici, che lo indicavano come "il chierico dai capelli ricciuti (´/ cérich di] rìssolinl)" . Negli ultimi anni di sua vita alcuni giovani dell´Oratorio lo chiamavano a volte confidenzialmente Don Béro (Don Agnellino).
“Una volta, venuto a visitarlo in Valdocco un ricchissimo negoziante senza fede e unicamente per curiosità, lo vidi poi uscire tutto confuso, e lo sentii esclamare per tre o quattro volte: «Che uomo, che uomo è questo!»
Oggi tutto il mondo conosce questo posto e quest’uomo: Valdocco e don Bosco.
Quando il buon Dio decise di creare il padre, cominciò con una struttura piuttosto alta e robusta.
Allora un angelo che era lì vicino gli chiese: «Ma che razza di padre è questo? Se i bambini li farai alti come un soldo di cacio, perché hai fatto il padre così grande? Non potrà giocare con le biglie senza mettersi in ginocchio, rimboccare le coperte al suo bambino senza chinarsi e nemmeno baciarlo senza quasi piegarsi in due!».
Dio sorrise e rispose: «È vero, ma se lo faccio piccolo come un bambino, i bambini non avranno nessuno su cui alzare lo sguardo».
Se parliamo di educazione, non possiamo dimenticare che il primo elemento (forse il più importante) è la persona dell’educatore. Nessuno guida un altro dove non è mai stato. Il coaching per i ragazzi individua e sviluppa i requisiti principali di cui un adolescente ha bisogno per affrontare al meglio la vita. Il primo è un adulto da prendere a modello nella vita. Una persona speciale, capace di trasmettere passione e da cui attingere forza, che lo faccia sentire al sicuro, apprezzato e ascoltato.
Maria, nel sogno, era stata chiara: «Renditi umile, forte e robusto». Comincia da te stesso.
Il Cardinal Salotti, avendo approfondito la conoscenza della vita di don Bosco confessava di essere stato colpito non tanto dal suo «prodigioso apostolato» quanto «dall’edificio sapiente e sublime della sua perfezione cristiana». Un edificio costruito negli anni dell’infanzia e della giovinezza, accanto alla madre e a saggi maestri.
Ciò che colpisce prima di tutto è la sua forza. Quella fisica, certo, ma soprattutto quella interiore. L´obiettivo del piccolo Giovanni era quello di studiare e, percorrendo la sua biografia, arriviamo alla conclusione che probabilmente egli frequentò la prima classe elementare a nove anni, nell´inverno 1824- 1825, poiché a quei tempi nelle campagne gli scolari frequentavano le lezioni ordinariamente da novembre a marzo, durante la "stagione morta". Ma poiché la scuola distava quattro chilometri, suo primo maestro fu probabilmente un contadino che sapeva leggere e scrivere e successivamente don Giuseppe Lacqua, presso il quale era "perpetua" la zia materna Marianna Occhiena. Dalla stessa biografia veniamo anche a conoscenza che nella famiglia Bosco c´era tensione a causa del fratellastro Antonio, di sette anni più vecchio, il quale non voleva che Giovanni studiasse. Per evitare "serie conseguenze", la madre fece allontanare da casa il dodicenne Giovanni, inviandolo alla ricerca di un posto da garzone presso qualche contadino. E così nell´inverno del 1827, egli dovette lasciare la propria famiglia per cercare lavoro a pochi chilometri da casa presso la cascina Càmpora e successivamente a una ventina di chilometri presso la cascina Moglia, come garzone vaccaro. Qui venne accolto per compassione, dopo un doloroso girovagare. Testimoniò al riguardo il contadino Giorgio Moglia:
«Io aveva l´età di circa quattro anni, quando un giorno passò vicino ad un prato poco lontano dalla casa dei miei genitori a Moncucco Torinese un ragazzo dai tredici ai quattordici anni, il quale andava verso casa nostra. Mio prozio Giuseppe Io interrogò. «Dove vai?» — «Vado a cercare un padrone» — «Che cosa sei buono a fare?» — «Faccio ciò che mi comandate finché sia capace di farlo». Una mia zia Anna di circa 15 anni, udendo questo dialogo e rincrescendole di dover andare essa al pascolo, insistette che lo prendessero i miei parenti al loro servizio. Allora il mio prozio volle sapere dal giovinetto che cosa pretendesse di paga; ed egli rispose: «Datemi quello che volete». E fu accolto tosto in casa nostra; in seguito si conchiuse ogni cosa con la madre del ragazzo. Questo ragazzo era Giovanni Bosco».
Don Bosco adulto non scrisse di questa esperienza, in quanto tale soggiorno dovette essere molto angoscioso. Per questo comprendeva così bene l’esperienza analoga di tanti dei suoi ragazzi.
Don Bosco non era, per natura, l´uomo paziente, mite e dolce che conosciamo. Dei due figli di Mamma Margherita, Giuseppe e Giovanni, si sarebbe detto che il più salesiano era il primo, non il secondo. Giuseppe infatti è ricordato come un fanciullo mite, affettuoso, docile e paziente: tale resterà per tutta la vita. Correva incontro agli ospiti, discorreva volentieri con loro e si faceva subito voler bene. Antiche testimonianze descrivono invece Giovannino come un fanciullo piuttosto serio, un po´ taciturno, quasi diffidente; non concedeva familiarità ad estranei, non si lasciava accarezzare, parlava poco, era attento osservatore.
«Ero ancora piccolino assai — scrive nelle sue Memorie dell´Oratorio - e studiava già il carattere dei miei compagni. Fissando taluno in faccia, ne scorgevo i progetti che quello aveva in cuore».
Nel sogno fatto dai nove ai dieci anni si manifesta certamente già un fanciullo riflessivo e generoso, sensibile e zelante nel difendere i diritti di Dio, ma rivela anche un temperamento focoso, impulsivo e persino violento, quando si avventa con impeto sui piccoli bestemmiatori per farli tacere a «colpi di pugni».
Un giorno gli venne offerto, a colazione, un uovo battuto, con caffè e latte; ed egli l´accettò e prese a mettervi lo zucchero.
«Padre, gli disse nella sua ingenuità la suora, ve l´ho già messo lo zucchero!»
Ed egli, sempre affabile e sorridente, le rispose: « Non sapete che Don Bosco deve copiare la dolcezza di S. Francesco di Sales?»
Nelle sue Memorie è registrata questa compiaciuta affermazione: «Io da tutti i compagni, anche maggiori di età e di statura, ero temuto per il mio coraggio e per la mia forza gagliarda».
«È inutile, — dirà a sua volta don Cafasso - vuol fare a suo modo; eppure bisogna lasciarlo fare; anche quando un progetto sarebbe da sconsigliare, a don Bosco riesce»; risentita per non averlo guadagnato alla sua causa, la Marchesa Barolo lo taccerà di «cocciuto, ostinato, superbo».
Sono buoni mattoni. Li sa usare bene per costruire un capolavoro. Il segreto è semplicissimo: guardare e imparare.
Fin da piccolo, don Bosco è una “spugna”che assorbe e impara da tutti: il latino dal vecchio parroco, i giochi di prestigio dai giocolieri delle fiere, ripete pronomi e verbi mentre zappa, impara la musica,a cucire e confezionare giubbotti, pantaloni e panciotti da Giovanni Roberto, la santità da Comollo, impara a confezionare dolci e liquori: «A metà anno non solo preparavo caffè e cioccolato, ma conoscevo le regole e i segreti per fabbricare gelati, rinfreschi, liquori, torte. Il padrone, poiché il suo locale ne ricavava notevoli vantaggi, mi concesse la pensione gratuita. Poi mi fece un’offerta concreta perché lasciassi gli studi e mi dedicassi completamente al suo caffè. Ma io volevo continuare a studiare, ad ogni costo».
La somma di tutto questo fa di don Bosco una “calamita”: un uomo irresistibilmente attraente. Perfino Nietzsche afferma che la percezione della vita interiore delle persone è istintiva. He has a natural aptitude for observing what lies behind a person´s exterior.I giovani poi hanno una naturale attitudine per l´osservazione di ciò che sta dietro l´esterno di una persona. Nietzsche also tells us that his ability to sense what goes on inside others is like having antennae. Hanno delle antenne specialiAntennae pick up signals that are not observable by ordinary means. per captare i segnali che non sono osservabili con mezzi ordinari.Using these antennae, Nietzsche is able to perceive what to other people is hidden. Sono in grado di percepire ciò che per gli altri è nascosto. La nostra antenna spirituale ci rende sensibili alla bellezza morale nelle persone, istintivamente ci fa notare la dimensione morale e spirituale della loro vita. Our spiritual antennae pick up what otherwise we would not give a second thought to.
La bellezza dell’uomo buono è una qualità difficile da definire, ma quando c’è, te ne accorgi: come un profumo. Tutti sappiamo che cos’è il profumo delle rose, ma nessuno si può alzare in piedi e spiegarlo.
“Talora accadeva questo fenomeno, che un giovane udita la parola di Don Bosco, non gli si staccava più dal fianco, assorto quasi in un’idea luminosa...
Altri vegliavano di sera alla sua porta, picchiando leggermente ogni tanto, finché non venisse loro aperto, perché non volevano andare a dormire col peccato nell’anima”.
Michele Rua si affezionò a don Bosco, quel prete accanto al quale ci si sentiva allegri e come pieni di calore. Abitava alla Regia Fabbrica d´Armi, Michelino, dove suo papà era stato impiegato. Quattro dei suoi fratelli erano morti giovanissimi, e lui era molto gracile. Per questo sua madre non lo lasciava andare molte volte all´oratorio. Ma incontrò ugualmente don Bosco dai Fratelli delle Scuole Cristiane, dove andò a frequentare la terza elementare. Raccontò:
«Quando don Bosco veniva a dirci la Messa e a predicare, appena entrava in cappella pareva che una corrente elettrica passasse per tutti quei numerosi fanciulli. Saltavamo in piedi, uscivamo dai nostri posti, ci stringevamo attorno a lui. Ci voleva un gran tempo perché egli potesse arrivare in sacrestia. I buoni Fratelli non potevano impedire quell´apparente disordine. Quando venivano altri preti non capitava niente di simile».
Giovanni Bosco si stava lentamente trasformando in un “pescatore di uomini”.
C’è un episodio comico e tenero, raccontato nelle Memorie Biografiche di don Bosco con la leggerezza dei Fioretti:
«Una sera D. Bosco camminando lungo un marciapiede in via Doragrossa, ora chiamata via Garibaldi, passò innanzi all´invetriata di un magnifico fondaco da panni il cui cristallo teneva tutta l´ampiezza della porta. Un buon giovanetto dell´Oratorio, il quale ivi serviva da fattorino, visto D. Bosco, nel primo slancio del suo cuore, senza riflettere che l´invetriata era chiusa, corre per andarlo a riverire; ma dà col capo nel cristallo e lo riduce a pezzi. Al rovinoso cader dei vetri D. Bosco si ferma e apre la vetrata; il fanciullo tutto mortificato gli si fa da presso; il padrone esce di bottega, alza la voce e grida; i passeggeri fanno crocchio. «Che cosa hai fatto?» domandò D. Bosco al giovanetto; ed egli ingenuamente risponde: «Ho veduto Lei a passare e, pel gran desiderio di riverirla, non ho più badato che doveva aprire la vetrina e l´ho rotta» (Memorie Biografiche 169-170).
Era così semplicemente una creatura allo stato puro. Molte persone hanno bisogno di fingere di essere diversi, di apparire più forti di quello che sono. Per voler essere quello che non sono.
I fiori semplicemente fioriscono. Leggeri, silenziosi, sono quello che sono. La persona semplice è come gli uccelli del cielo. Il canto qualche volta, il silenzio più sovente, la vita sempre. Don Bosco vive come respira. È sempre lui. Mai doppio, mai pretenzioso, mai complesso. L’intelligenza non è arruffamento, complicazione, snobismo. La realtà è complessa senza dubbio. Non riusciremmo facilmente a descrivere un albero, un fiore, una stella, un sasso. Questo non impedisce loro di essere semplicemente quello che sono. La rosa è senza perché, fiorisce perché fiorisce, non si preoccupa per se stessa, non desidera essere vista: ci sono rose bellissime nel giardinetto nascosto della succursale di Maria Ausiliatrice. Don Bosco era “umano allo stato puro”, per questo, dopo duecento anni, il suo profumo è intenso e percepito da gente di tutte le età, di tutte le nazioni, di tutte le religioni.
Don Bosco non dice mai “finora”. L’importante è “d’ora in poi”. «Ci diceva: — Nelle più grandi difficoltà, non perdo mai di vista la meta. Quando incontro un ostacolo, non mi perdo d´animo, faccio come colui, che andando per la strada, ad un punto la trova sbarrata da un grosso macigno. Se non posso levarlo di mezzo, ci monto sopra, o vi giro attorno, oppure lasciata a quel punto l´impresa incominciata, per non perdere inutilmente il tempo nell´aspettare, do subito mano ad altro. Intanto col tempo le cose maturano: gli uomini cangiano e le primitive difficoltà si appianano. Io però non perdo mai di vista l´opera intrapresa».
Nei cinque anni dell’oratorio pellegrino don Bosco conobbe sfratti e delusioni. Dopo l’ultimo sfratto, quello dei fratelli Filippi (dopo un pianto così umano) affittò la tettoia di casa Pinardi. Testimoniò don Giovanni Battista Francesia:
«Quando Don Bosco visitò per la prima volta quel locale, che doveva servire pel suo oratorio, dovette far attenzione per non rompersi la testa, perché da un lato non aveva che più di un metro di altezza; per pavimento aveva il nudo terreno, e quando pioveva l´acqua penetrava da tutte le parti. D. Bosco sentì correre tra i piedi grossi topi, e sul capo svolazzare pipistrelli».
Ma per don Bosco era il più bel posto del mondo.
«Corsi tosto da´ miei giovani; li raccolsi intorno a me e ad alta voce mi posi a gridare: — Coraggio, miei figli, abbiamo un Oratorio più stabile del passato; avremo chiesa, sacristia, camere per le scuole, sito per la ricreazione. Domenica, domenica, andremo nel novello Oratorio che è colà in casa Pinardi. — E loro additava il luogo.
Quelle parole furono accolte col più vivo entusiasmo. Chi faceva corse o salti di gioia; chi stava come immobile; chi gridava con voci e, sarei per dire, con urli e strilli» (MO, 168).
All´entusiasmo dei giovani, don Bosco unì la sua normalità concreta, la sua fantastica forza realizzativa, come racconta ancora don Francesia:
«... nella settimana tutto si trasformò. Furono chiamati operai per scavare e trasportar terreno, muratori per rompere ed innalzar muraglie, falegnami per far palchetti, e non bastando l´opera loro, vi posero mano Don Bosco, il Teologo Carpano, i giovani e l´antico proprietario. Cosicché al mattino del 12 Aprile 1846 il locale era in ordine; e fatte trasportare le panche che erano depositate al Refugio, Don Bosco, per autorizzazione dell´Arcivescovo, benedisse, e dedicò al culto divino, in onore di S. Francesco di Sales il modesto edificio, e vi celebrò la S. Messa, assistito da molti giovani, dai vicini, e da molte persone della città, tra le quali il Sindaco» (PC, 195).
Per tutta la vita, motivava i suoi così:
“Noi non ci fermiamo mai, vi è sempre cosa che incalza cosa. Ora parrebbe necessario Consolidarci meglio e non ampliarci tanto; eppure io vedo che dal momento che noi ci fermassimo, la Congregazione comincerebbe a deperire. Nemanco un giorno di sosta! Non è ancor finito un grande affare, che già un altro ci spinge. Non era ancora imbarcato il drappello destinato all´America, che io correva a Nizza per aprire quella nuova Casa. Stavamo ancora in trattative con Nizza, che già la domanda per Bordighera urgeva. Ciò non era ancor compito, che già bisognava affrettarci e pensare di aprire in Torino la Casa per le Figlie di Maria Ausiliatrice. Intanto viene la necessità di dover andare a Roma. Qui, sempre più una cosa incalza l´altra. Non è ancora ultimato il disegno per i Figli di Maria Ausiliatrice, che già si presenta al Santo Padre quello dei Cooperatori Salesiani. Non si ha tempo a concludere questo, che viene a precipizio il pensiero della Patagonia. La Patagonia stessa è incalzata dal magnifico progetto offerto dal card. Franchi e dal Santo Padre del Vicariato nell´India... e poi altri... e poi altri. La povera testa di Don Bosco è oppressa da tante cose e ne soffre terribilmente. Eppure, avanti, avanti! Il consolidamento della Pia Società deve farsi... e vedo che si fa... contemporaneamente... ma senza fermate ”.
Nessuno può tornare indietro, ma tutti possono andare avanti. Il nostro sogno, il desiderio che dimora nel profondo dell´anima, non è sorto dal nulla. Qualcuno lo ha collocato laggiù. Qualcuno che è l´essenza dell´Amore e vuole unicamente la nostra felicità. E, insieme con quell´idea che si muove sul confine della realtà, ci ha offerto gli strumenti per realizzarla.
Don Bosco aveva la cosa più preziosa che può avere un uomo. Aveva un sogno. Un sogno in cui gli era stata indicata la missione della sua vita: guadagnare a Dio i cuori dei giovani. C’era un particolare importante nel sogno: Maria (perché proprio di Lei si tratta) «presemi con bontà per mano». Don Bosco non lascerà mai quella mano. E Maria non lascerà mai la mano di don Bosco.
C’è un po’ d’ironia nella frase «duecento anni dalla nascita di don Bosco». Quanti anni ha don Bosco? Conosce bene la Bibbia per averla sovente ascoltata. Sa che si tratta di un libro di parola: quel che è detto è detto. Non c´è nulla da aggiungere, c´è solo da seguire, c´è solo da lasciarsi portare dal soffio del Verbo, più ardente del soffio di una bomba. Il ragazzo dei Becchi è stato irradiato da questa voce. Non vuol far altro che trasmetterla, senza cambiarne una virgola. È anche lui nel Libro: chiamato a modulare il proprio respiro sul respiro di Dio. Si toglie le scarpe e cammina verso la scuola, caparbio, perché deve studiare.
Perché don Bosco ha quattromila anni o poco più, come Abramo. «Parti! Ti dirò poi, dove devi andare». Abramo partì e da questo distacco da tutto, da questa sofferenza gli venne un figlio, carne della sua carne, gioia delle sua gioia. Giovanni parte e milioni lo chiamano padre.
La madre sorride. La madre raggiungerà nel sogno il figlio diseredato, l’adolescente strano, il piccolo saltimbanco, il profeta che Dio ha mandato in questi anni che pestano i propri figli nel mortaio dell’ingiustizia.
La sua voce è calma, tanto calma che fa che i ragazzi si avvicinino, essi che del mondo conoscevano solo i latrati. Prende in prestito la voce dell´Infinitamente Piccolo, mai quella dell´Altissimo. Sa bene che non esiste che un Dio. Se preferisce l´infinita dolcezza alla collera infinita, sa bene che entrambe procedono dallo stesso unico infinito: quello dell´amore. È questa la via che ha scelto. Gli proviene dall´infanzia. Gli proviene dai primi anni passati nel grembo di Dio, sotto le gonne della madre.
È lei il suo primo catechismo, colei che per prima gli ha raccontato la storia di Gesù. Sa bene come la pensa Gesù. Gesù chiamò un bambino, lo mise in mezzo a loro e disse: «Vi assicuro che se non cambiate e non diventate come bambini, non entrerete nel regno di Dio. Chi si fa piccolo come questo bambino, quello è il più grande nel regno di Dio. E chi, per amor mio, accoglie un bambino come questo, accoglie me» (Mt 18, 1-5).
Don Bosco è tutto qui. Ha gli stessi occhi e lo stesso cuore di Gesù.
Quelli che scrivono di lui sbagliano clamorosamente quando tentano di trasformarlo in un pedagogista o anche un geniale innovatore sociale. Certo don Bosco si occupò di opere caritative come molti altri, e ancora di giustizia sociale. La sua forza eccezionale è riposta, però, nel fatto che in tutto ciò che faceva egli contava unicamente e completamente su Dio.
«È mirabile davvero, esclamò uno dei presenti, il modo con cui procedono le cose. Don Bosco incomincia, e non si dà mai indietro».
«Per questo, riprese Don Bosco, non diamo mai indietro, perché noi andiamo sempre avanti sul sicuro. Prima d´intraprendere una cosa ci accertiamo che è volontà di Dio che le cose si facciano. Noi incominciamo le opere nostre con la certezza che è Dio che le vuole. Avuta questa certezza, noi andiamo avanti. Parrà che mille difficoltà s´incontrino per via; non importa; Dio lo vuole, e noi stiamo intrepidi in faccia a qualunque ostacolo. Io confido illimitatamente nella Divina Provvidenza; ma anche la Provvidenza vuolessere aiutatada immensi sforzi nostri».
I suoi sforzi hanno sempre il colore dell’infinito.
«Ho anche bisogno che si venga a conoscere l´importanza dei Cooperatori Salesiani. Finora pare una cosa da poco; ma io spero che con questo mezzo una buona parte della popolazione italiana diventi Salesiana e ci apra la via a moltissime cose. L´Opera dei Cooperatori Salesiani... si dilaterà in tutti i paesi, si diffonderà in tutta la Cristianità, verrà un tempo in cui il nome di cooperatore vorrà dire vero cristiano... già mi par di vedere non solo famiglie, ma città e paesi interi a farsiCooperatori Salesiani».
Dal momento che le previsioni di don Bosco si sono avverate, in questo secolo preparatevi a vederne delle belle!
Quando pellegrinava per Torino con i suoi ragazzi, che cosa cercava don Bosco? Cercava un cortile: uno spazio libero che avesse solo il cielo come tetto, un luogo di vero ed intenso piacere. Uno spazio per la vita. Un cortile, uno spazio in cui i ragazzi possano giocare, divertirsi, incontrarsi, lasciar esplodere le energie. Perché i bambini in cortile urlano? È il rumore della vita.
Una dei principi del Life Coaching è proprio la necessità di fornire ai ragazzi un´attività appagante - arte, musica, sport, danza, teatro - cui dedicarsi con entusiasmo, divertimento e gratificazione, in modo da stare insieme ai coetanei, mettersi in contatto con "maestri" adulti, obbligarsi a una disciplina dell´apprendimento “con piacere”.
L´originalità di don Bosco fu d´aver dato un valore pedagogico alla gioia, al buon umore; cioè d´aver non soltanto accettato, ma anche condiviso come educatore, quell´allegria aperta e gioiosa del giovane. Fu la pedagogia della "gioia", in termini moderni della "serenità"; liberatoria quindi dalla nevrosi e stimolatrice di creatività, in quanto infondeva speranza, voglia di lavorare, di studiare, di vivere e di convivere. L´allegria non serve infatti soltanto alla distensione psichica del soggetto, ma è anche uno stimolo creativo ai suoi valori interiori e a un positivo comportamento sociale.
L’inizio della storia cristiana comincia con le parole: «Rallegrati, Maria!» Il giovane San Domenico Savio, con sorprendente maturità, diceva: «Noi qui all’Oratorio facciamo consistere la santità nello stare molto allegri». Quanto a don Bosco, le testimonianze sono concordi:
«Egli però andava assai guardingo nel lasciare anche solo trapelare ai suoi cari le angosce e trambasciamenti dell´animo suo, per le tante avversità incontrate durante la sua scabrosa missione.
Per trovar sollievo aveva composto una canzoncina giocosa, che ancora si ricorda preziosamente nell´Oratorio, come si ricorda il coro: “Andiamo, compagni”.
Mi pare di vederlo D. Bosco in mezzo a noi e ancora udirlo: «C´è Chiapale?»
«Si, signore».
«Bene…Cantiamo la nostra canzone? Intonala». E qui accompagnarci egli stesso colla sua voce dolce e soave e continuare fino al termine del canto, come se fosse giunto a godere la bellezza d´una confortante oasi in un combusto deserto. Servite Domino in laetitia, era il suo motto d´intercalare fra i suoi più diletti; e questa santa allegria formava per lui la base del suo edificio sociale per la sicura educazione della gioventù. Nemico della taciturnità e de´ nascondigli, voleva che i giovani nella ricreazione si esercitassero specialmente nella ginnastica del corpo e nella musica, cui egli stesso prendeva parte assai volentieri, anche per disingannare quelli che per malinteso spirito e scrupolo se ne astenevano.
«Io desidero vedere i miei giovani, diceva, a correre e saltare allegramente nella ricreazione, perché così sono sicuro del fatto mio.
Quindi affidava a´ più pratici negli esercizii suddetti, coloro che per troppa timidità ne fossero ritrosi, perché li animassero gradatamente a stare allegri e a divertirsi cogli altri».
Nel novembre 1846 don Bosco, convalescente dopo una malattia iniziata nel luglio precedente, affittò anche due camere in casa Pinardi, dove andò ad abitare portando con sé dai Becchi mamma Margherita.
«I due pellegrini fecero la lunga strada a piedi. Quando giunsero al rondò, un sacerdote amico di don Bosco li riconobbe, e venne a salutarli. Li vide impolverati e stanchi.
— Bentornato, caro don Bosco. Come va la salute?
— Sono guarito, grazie. Ho portato con me mia madre.
— Ma perché siete venuti a piedi?
— Perché manchiamo di questi — e sorridendo fece scorrere il pollice sull´indice.
— E dove andate ad abitare?
— Qui, in casa Pinardi.
— Ma come farete a vivere senza risorse?
— Non lo so, ma la Provvidenza ci penserà.
— Sei sempre il solito — mormorò il bravo prete scuotendo il capo. Tirò fuori di tasca l´orologio (allora era un oggetto prezioso e raro) e glielo porse:
— Vorrei essere ricco per aiutarti. Faccio solo quello che posso. Margherita entrò per prima nella sua nuova casa: tre stanzette nude e squallide, con due letti, due sedie e qualche casseruola. Sorrise, e disse al figlio:
— Ai Becchi, ogni giorno dovevo darmi da fare per mettere in ordine, pulire i mobili, lavare le pentole. Qui potrò riposare molto di più».
Quando chiedo: «Che cosa hanno fatto madre e figlio quella sera?» Di solito nessuno indovina la risposta. Si sono messi a danzare cantando: «Guai al mondo se ci sente … Forestieri senza niente».
L’inizio della storia salesiana sono queste due persone che danzano e cantano in una stanza dove non ci sono neanche i letti.
Vivere per far felice un altro. Gli indù si salutano con la parola nomaste. È un saluto che riconosce l´essenza divina dentro la persona. Salutare l´essenza divina di qualcuno è un rendere omaggio alla sua potenzialità di bene, alla sua creatività, alla sua realizzazione di sé, in poche parole alle sue qualità superiori.
Amare, senza ulteriori fini. Curarsi del benessere, della felicità, della vita di un altro. Interessarsi a ciò che per un´altra persona è importante e vitale. Agire con gentilezza e a beneficio degli altri. Queste sono le caratteristiche dell´altruismo, della gentilezza amorevole e incondizionata.
A Torino, insieme con don Cafasso - che è chiamato « il prete della forca » - don Bosco comincia il suo ministero in qualità di confessore alle carceri nuove; là « vedere un gran numero di giovinetti dai 12 ai 18 anni, tutti sani, robusti, d´ingegno sveglio; vederli inoperosi, rosicchiati dagli insetti, stentare di pane spirituale e materiale, fu cosa che mi fece inorridire ». Parlò con loro. Venne a conoscere le loro povere storie. L´avvilimento e la rabbia li rendevano spesso feroci. Il delitto più comune era quello di furto. Avevano rubato per fame, per desiderio di qualche altra cosa oltre il pane, o anche per invidia della gente ricca che li sfruttava e li lasciava nella miseria. Erano nutriti di pane nero e acqua. Dormivano in cameroni collettivi e i più spavaldi la facevano da caporioni.
Cercò di capire. «Erano abbandonati a se stessi». Non avevano famiglia e i parenti li respingevano perché essi « li avevano disonorati ».
« Dicevo a me stesso: Questi ragazzi dovrebbero trovare fuori di qui un amico che si prenda cura di loro, che li assista, li istruisca, li conduca in chiesa nei giorni festivi... ». Cerca di farli riflettere; promettono di farsi più buoni. Ma quando ritorna da loro tutto è tornato come prima. Don Bosco piange.
«Perché piange quel prete?»
«Perché ci vuol bene. Anche mia madre piangerebbe se mi vedesse qua dentro».
La sera era il momento più bello, come scrisse Lemoyne:
«Che giorni felici eran quelli, mi diceva uno degli antichi giovani della casa. Alla sera tornando noi studenti dalle scuole di don Picco e di Bonzanino, e gli artigiani dalle officine, ci portavamo in cucina colla nostra scodella in mano aspettando che don Bosco, col suo grembiale e col mestolo in mano, ci versasse la minestra. Avutala, siccome non vi era refettorio, andavamo a sederci sui muricci e sulle zolle del prato e mangiavamo col miglior appetito del mondo».
Anche il cardinale Carlo Salotti scrisse:
«Spesso lo si vedeva, cinto di un grembiule, attorno alla pentola o al paiuolo per preparare ai suoi figli una buona minestra o una saporosa polenta. «To´, mio caro, diceva all´uno, mangia con appetito perché l´ho fatta io». «Fa´ onore al cuoco, e mangiane molto», ripeteva all´altro. «Ti vorrei dare», soggiungeva a un terzo, «anche un pezzo di carne se lo avessi; ma lascia fare a me... appena troveremo un bue senza padrone, voglio che stiamo allegri». Con queste ed altrettali lepidezze, di cui Don Bosco era fecondo, condiva così bene il pranzo e la cena dei suoi figli adottivi, che era un piacere il vederli mangiare con tanto gusto».
Con gli anni le condizioni di vita migliorarono:
«Sul principio del 1851 i ricoverati più non si disperdevano nel cortile o nella casa per mangiare la minestra a pranzo o a cena, ma incominciarono ad assidersi a qualche tavola disposta sotto una tettoia, ed essendo molti cresciuti in età, si era concessa a tutti in più una pagnotta a colazione. Ma nel 1852 ci fu un altro progresso. Don Bosco cessò la distribuzione dei 25 centesimi al giorno ad ogni giovane, perché alcuni, non sapendo regolarsi, li spendevano in ghiottonerie, rimanendo poi senza pane. Aboliti i pentolini, li sostituì con capaci scodelle di stagno, e da quel punto il pane fu provvisto dalla dispensa della casa, aggiungendo regolarmente un po´ di pietanza al pranzo del giovedì e della domenica. Tempo dopo, si distribuiva tutti i giorni pietanza o frutta a mezzogiorno e un bicchiere di vino nelle feste» (MB, IV, 334).
26 dicembre 1887. Don Bosco è gravissimo. Viene a trovarlo Carlo Tomatis, allievo dell’ oratorio dei primi tempi. S’inginocchiò ai piedi del letto, riusciva a dire solo “Oh Don Bosco, Oh Don Bosco!” Quando uscì dalla sua stanza Don Bosco fece un cenno a Don Rua che si curvò su di lui: «Sai che si trova in difficoltà - gli mormorò - Paga loro il viaggio a mio nome».
“Guarda, io sono un povero prete, ma se rimanessi anche solo più con un pezzo di pane, lo farei a metà con te”. Era la frase più ripetuta da don Bosco.
I veri amici sono come le stelle... non sempre le vedi, ma sai che ci sono sempre.
La sera del 7 gennaio 1876, don Bosco fece ai suoi ragazzi queste altre raccomandazioni: «Siate attenti, miei cari figliuoli, che io vi darò alcuni salutari consigli, i quali, se saranno da voi messi in pratica, vi saranno di grande giovamento. Quando vi trovate in studio, in refettorio od in parlatorio, voglio dire in quei luoghi in cui l´ambiente è più caldo, non tenetevi molto coperti; e quando ne uscite procurate di mettervi un fazzoletto al collo, oppure alla bocca e al naso, per alcuni minuti secondi, onde impedire che alla respirazione d´aria calda ne succeda una d´aria fredda, perché ciò potrebbe produrvi un gran male. Così pure quando andate od uscite di camera. Al mattino, quando vi alzate da letto, procurate di astenervi per alcuni minuti dall´uscire dalla camera... [...] Quando siete in letto guardate che le coperte vi coprano il collo, poiché se il collo e le spalle restassero esposte all´aria, poco o nulla vi gioverebbe l´avere indosso anche un materasso» (MB, XII, 28).
Per chi era senza famiglia, per chi si sentiva solo al mondo, per chi aveva perso l´affetto di qualcuno che gli voleva bene, per chi non aveva mai conosciuto amore e si era sempre sentito rifiutato, incontrarsi nell´affetto paterno di don Bosco, materno di mamma Margherita e fraterno della comunità oratoriana era rivivere o vivere per la prima volta. Infatti i ragazzi non venivano a cercare il "prete-don Bosco"; venivano a cercare l´"uomo-don Bosco", il padre, il fratello, l´amico. Perché egli non era un uomo vestito da prete, ma un prete che si arricchiva dell´essere uomo. Non era soltanto una presenza umana, ma una presenza buona e generosa, dalla pazienza inesauribile, che gli permetteva di mettersi al servizio dell´ultimo venuto, in qualunque ora fosse arrivato. Testimoniò don Felice Reviglio:
«... permetteva ad essi di stargli continuamente ai fianchi, cosicché non ancora aveva terminato il suo frugale pranzo o cena, che già i giovani penetravano nel suo piccolo refettorio, e lo circondavano. [...] Malgrado la molestia che gli dovevamo procurare, egli tollerava con bontà gli sfoghi della nostra riconoscenza. Io poi, forse perché più bisognoso del suo zelo, potei più volte, rannicchiandomi sotto la tavola, posare la mia testa sulle sue ginocchia» (PC, 152).
Era un padre disponibile agli incontri, ma li sollecitava anche, come nella "buonanotte" agli artigiani del 31 marzo 1876:
«Tenete adunque questo a mente, che io sono sempre molto contento quando venite a trovarmi e non solo in chiesa, ma anche fuori di chiesa. Ciò che io desidero si è che veniate non solo per fare piacere a me, ma anche perché possiate avere da Don Bosco qualche buon consiglio, che io sono solito dare a quelli che mi vengono vicino» (MB, XII, 151).
E proprio perché i giovani sentivano che don Bosco voleva loro bene, a loro volta volevano bene a don Bosco. Già fin dal primo incontro subivano il fascino della sua autorità-carità, della sua generosità anche eroica.
Egli s´imponeva con lo sguardo; uno sguardo dolce e sintonico fin dal primo approccio. Don Bosco dava molta importanza al primo incontro, come qualsiasi psicoterapeuta valuta fondamentale la prima seduta con il paziente, poiché questi tende a manifestare nel primo colloquio tutte le sue conflittualità. Il primo incontro è l´inizio di una relazione e sia il giovane che il paziente devono sentirsi accettati così che, da quel momento, non si sentano più soli.
Natale Mensio era un ragazzino di Pinerolo entrato all´Oratorio di Valdocco quando ormai il numero dei ragazzi superava i 700. In cortile incontrò Don Bosco che era in procinto di partire per Roma. Il buon padre lo scorse, gli chiese il nome e gli disse: «D´ora in poi noi due saremo amici».
Il ragazzo ne rimase incantato. Qualche tempo dopo Don Bosco, ritornato a Valdocco, si recò, come era solito fare, nell´infermeria a visitare gli ammalati. Vi trovò anche il ragazzino di Pinerolo e, chiamandolo per nome, gli disse: «Oh, Natale Mensio, anche tu qui?»
Il ragazzo non riusciva a capacitarsi come Don Bosco, che aveva incontrato per caso settimane prima in cortile, ricordasse ancora il suo nome. Si fece coraggio e gli domandò: «Don Bosco, come ha fatto a ricordarsi del mio nome?»
«I miei figli io non li dimentico mai!», egli rispose.
Molti ragazzi dell´Oratorio si portavano dentro i segni dell´insicurezza, della disistima, di una grande fame d´amore e di modelli di identificazione. Tutto ciò quale conseguenza di una mancanza cronica d´affetto nella famiglia d´origine. E proprio perché la disponibilità paterna di don Bosco funzionava da "calamita" nei riguardi dei ragazzi che incontrava, questi diventavano subito suoi figli che lo seguivano, lo accompagnavano, quasi lo braccavano, come egli stesso scrisse:
«Una scena singolare era la partenza dall´Oratorio. Usciti di chiesa, ciascuno dava le mille volte la buona sera senza punto staccarsi dall´assemblea dei compagni. Io aveva un bel dire: — Andate a casa; si fa notte; i parenti vi attendono. — Inutilmente. Bisognava che li lasciassi radunare; sei dei più robusti facevano colle loro braccia una specie di sedia, sopra cui, come sopra di un trono, era giuocoforza che io mi ponessi a sedere. Messisi quindi in ordine a più file, portando D. Bosco sopra quel palco di braccia, che superava i più alti di statura, procedevano cantando, ridendo e schiamazzando fino al circolo detto comunemente il Rondò. Colà si cantavano ancora alcune lodi, che avevano per conclusione il solenne canto del Lodato sempre sia.
Fattosi di poi un profondo silenzio, io poteva allora a tutti augurare buona sera e buona settimana. Tutti con quanto avevano di voce rispondevano: — Buona sera! — In quel momento io veniva deposto dal mio trono; ognuno andava in seno della propria famiglia, mentre alcuni dei più grandicelli mi accompagnavano fino a casa mezzo morto per la stanchezza» (MO, 178).
Quando ero ragazzina, mia madre mi chiese quale fosse la parte più importante del corpo.
Mi piaceva moltissimo ascoltare musica, come i miei amici del resto, e pensai che l’udito fosse molto importante per gli esseri umani e risposi: «Gli orecchi».
«No» disse mia madre. «Alcune persone sono sorde eppure vivono felicemente».
Dopo qualche tempo, mia madre mi rifece la stessa domanda: «Qual è la parte più importante del corpo umano?»
Io intanto ci avevo pensato e credevo di avere la risposta giusta.
«Vedere è meraviglioso e molto importante per tutti, quindi devono essere gli occhi».
Lei mi guardò e disse: «Anche questa volta non è la risposta giusta, molti, infatti, sono ciechi e se la cavano benissimo».
Pensavo che fosse solo una specie di gioco tra me e mai madre.
Un giorno, tristissimo per me, perché lo amavo molto, morì il mio caro nonnino. Ero distrutta da dolore. Quel giorno mia madre mi disse: «Oggi è il giorno giusto perché tu possa capire la risposta alla domanda. La parte più importante del corpo sono le spalle».
Sorpresa, chiesi: «Perché sostengono la testa?»
«No» rispose «è perché su di loro possono appoggiare la testa gli amici o le persone care quando piangono. Tutti abbiamo bisogno di una spalla su cui piangere in qualche momento della nostra vita».
Quella volta scoprii quale fosse la parte più importante del mio corpo .
Perché, in quel momento, quella che aveva bisogno di una spalla su cui piangere ero io.
Vi auguro di avere spalle sempre pronte ad accogliere gli amici e le persone che amate quando ne hanno bisogno. Le persone potranno dimenticare quanto dite. Dimenticheranno ciò che avete fatto. Ma non dimenticheranno mai quando avete accolto la loro pena. I veri amici sono come le stelle: non sempre le vedi, ma sai che ci sono sempre. Proprio come don Bosco.
Pur parlando di "famiglia", "affetto" e "confidenza", la pedagogia di don Bosco non era sentimentalista o romantica; diremmo nemmeno tenera, in quanto il numero degli oratoriani andava progressivamente aumentando. Attorno al 1870 Valdocco ospitava sei-settecento ragazzi, dai dodici ai diciotto anni, e non doveva essere facile assisterli e vigilarli, anche perché si trattava di adolescenti, con tutto ciò che comporta tale periodo di crisi evolutiva. Le tensioni non dovevano quindi mancare, anche se la presenza di don Bosco aveva un ruolo equilibratore e disciplinare di fondamentale importanza.
Proprio perché aveva una personalità forte, egli guidava i giovani "fortiter et soaviter", così che la sua autorità e affettività si traducevano in "dolce fermezza". Era un prete che, senza alzare il tono di voce, si faceva ubbidire da centinaia di giovani, a volte anche con una sola parola. Lui stesso ce lo ricordò con un aneddoto del 1846:
«Un giorno un carabiniere, vedendomi con un cenno di mano ad imporre silenzio ad un quattrocento giovanetti, che saltellavano e schiamazzavano pel prato, si pose ad esclamare: — Se questo prete fosse un generale d´armata, potrebbe combattere contro al più potente esercito del mondo. — E veramente l´ubbidienza e l´affezione de´ miei allievi andava alla follia» (MO, 158).
Nell´Oratorio o nell´internato regnava infatti una disciplina "familiare": l´amorevolezza si contemperava cioè con la disciplina, anche se don Bosco non amava il castigo perché non aveva bisogno di scaricare le sue pulsioni aggressive. L´idea infatti che si debba punire "per il bene di chi lo riceve" è spesso una razionalizzazione- alibi per poter scaricare, senza colpevolizzarsi, la propria aggressività.
I ragazzi hanno bisogno di avere delle chiare e comprensibili istruzioni per l’usonei riguardi della vita. Devono conoscere le regole del gioco. Sapere che esistono esperienze da cui si può anche ritornare, ma che molte altre sono senza ritorno.
Con il suo formidabile istinto educativo scrisse allora una breve lista delle cose che i giovani e gli educatori dell´Oratorio dovevano fare o evitare. Perché la conoscenza di un preciso regolamento, semplice e funzionale, è nell´essenza del sistema preventivo.
Ed è l´elemento di cui ha più bisogno l´educazione oggi.
Don Bosco soffriva quando doveva punire, come precisò nella "buonanotte" d´inizio dell´anno scolastico 1863:
«Io, ve lo dico, schiettamente, aborrisco i castighi, non mi piace dare un avviso con l´intimare punizioni a chi mancherà: non è il mio sistema. Anche quando qualcheduno ha mancato, se posso correggerlo con una buona parola, se chi ha commesso il fallo si emenda, io non pretendo di più. Anzi se dovessi castigare uno di voi, il castigo più terribile sarebbe per me, perché soffrirei troppo. [...] Non già che io tolleri i disordini; oh, no! specialmente se si trattasse di certuni che dessero scandalo ai compagni. [...] Ma c´è un mezzo per antivenire ogni dispiacere mio e vostro».
Il suo comportamento era flessibile, così che si lasciava guidare dalle circostanze, dalle situazioni personali, interpretate con il discernimento di una lunga esperienza con i giovani. Come si è già ricordato non sorvegliava per colpire le trasgressioni, ma vigilava con affetto perché non sorgessero occasioni per effettuarle e quindi per meritare i castighi. In caso di errore, adottava quasi sempre il metodo della persuasione e del convincimento. Su certe cose però era fermo e intransigente, poiché sapeva che cedere a un giovane significa spesso «... rovinarlo per l´avvenire» (MB, XI, 279). Nel novembre 1859, ad esempio, licenziò in tronco tutta la banda musicale dell´Oratorio, ricostituendola successivamente con altri elementi poiché, nella ricorrenza della festa di Santa Cecilia, la ventina di giovani che la componevano aveva banchettato secondo le usanze paesane, contravvenendo a un preciso divieto dello stesso don Bosco.
Egli però ben sapeva che il sistema repressivo può impedire un disordine, ma non aiuta a "crescere" e a migliorarsi, come dimostra quanto scrisse in una lettera dell´agosto 1885 a don Giacomo Costamagna:
«Vorrei a tutti fare io stesso una predica o meglio una Conferenza sullo spirito Salesiano che deve animare e guidare le nostre azioni e ogni nostro discorso. II sistèma preventivo sia proprio di noi. Non mai castighi penali, non mai parole umilianti, non rimproveri severi in presenza altrui. Ma nelle classi suoni la parola: dolcezza, carità e pazienza. Non mai parole mordaci, non mai uno schiaffo grave e leggero. Si faccia uso dei castighi negativi, e sempre in modo che coloro che siano avvisati, diventino amici nostri più di prima e non partano mai avviliti da noi» (MB, XVII, 628).
E se proprio doveva castigare, don Bosco raccomandava di non farlo mai in pubblico, ma privatamente, poiché la punizione deve essere giusta, tempestiva e riservata. Egli, ricordò don Giovanni Bonetti, ripeteva spesso ai suoi assistenti: «Se dovete dare un avvertimento, datelo da solo a solo, in segreto, e con la massima dolcezza» (MB, VII, 508), perché i giovani devono «... operare per principio di coscienza e non per paura di castighi...» (MB, XI, 221).
L´essere umano fin dall´infanzia abbisogna per crescere di gratificazioni (affetto, amore, calore, rassicurazione, incoraggiamento, approvazione), ma abbisogna anche di frustrazioni (obblighi, doveri, rinunce, punizioni) per costruirsi l´autostima e l´autofiducia, per allenarsi alla sofferenza e al sacrificio, per imparare a superare le difficoltà della vita.
Il rapporto di coaching si fonda sul dialogo, sull´ascolto attivo, sull´accoglienza e l´alleanza di lavoro ed è finalizzato a esplorare e individuare gli obiettivi di cambiamento che il ragazzopone in quel momento, rafforzando il suo autogoverno tramite l´esercizio delle risorse di cui dispone. In breve possiamo dire che un coach è l´allenatore delle potenzialità e i poteri della persona. Una potenzialità è una forza del carattere che non necessariamente, almeno all´inizio, si esprime in capacità. Quando la potenzialità è individuata, valorizzata, addestrata, incide in modo significativo sulle competenze e diventa un potere in grado di cambiare la realtà.
Nessuno può negare che in questo don Bosco era un maestro. Nel 1849 affidò i pochi soldi della comunità i Valdocco a Giuseppe Buzzetti, allora diciassettenne.
Don Bosco era un “tutt’orecchi”.
"Si dia agio agli allievi di esprimere liberamente i loro pensieri" diceva Don Bosco ai suoi collaboratori. Insisteva: "Li ascoltino, li lascino parlare molto". Don Bosco, per primo, fu un esempio di "ascolto".
Una celebre fotografia lo ritrae durante le confessioni dei ragazzi: tutta la sua persona è in ascolto, assorbita nell´attenzione.
Le Memorie Biografiche (VI, 438-439) ricordano: "Nonostante le sue molte e gravi occupazioni, era sempre pronto ad accogliere in sua camera, con un cuore di padre, quei giovani che gli chiedevano un´ udienza particolare. Anzi voleva che lo trattassero con grande famigliarità` e non si lagnava mai dell´indiscrezione colla quale era da essi talora importunato. Lasciava a ciascuno piena libertà` di far domande, esporre gravami, difese, scuse...
Li riceveva con lo stesso rispetto col quale trattava i grandi signori. Li invitava a sedere sul sofà, stando egli seduto al tavolino, e li ascoltava colla maggior attenzione come se le cose da loro esposte fossero tutte molto importanti... "
La maggior parte dei genitori crede di ascoltare i propri figli. Sembra un´attività` semplice e scontata. Eppure quante volte mamma e papà` ascoltano veramente e sinceramente, con piena attenzione ciò che i figli dicono - o cercano di dire?
"Io parlo, parlo, ma nessuno mi ascolta" brontola Corinna (8 anni). E Giuditta (7 anni): "Allora, la sera, a letto, giro le spalle a tutti quanti, mi metto contro il muro e mi parlo, perché almeno io mi ascolto".
Nella sala-colloqui di un istituto correzionale, un giovane disse amaramente al padre: "Papà, ti rendi conto che in vent´anni è la prima volta che mi stai ad ascoltare?"
Dove c´è la ghianda il coach vede la quercia, il risultato raggiunto, in quanto nutre piena fiducia nello sviluppo delle potenzialità delle persone e nella capacità di ciascuno di trovare in sé le risposte giuste alle proprie esigenze. Occorre saper gestire convinzioni e atteggiamenti limitanti, trasformare la paura del cambiamento in energia tesa alla crescita e alla realizzazione della persona.
“Finora nessun altro figlio di Don Bosco chiamò sopra di sé tanta benevolenza ed ammirazione quanto D. Unia.” Era un contadino. A ventisette anni, nella festa di S. Giuseppe del 1877 venne da Don Bosco e lo pregò di accettarlo, perché voleva farsi prete. Don Bosco lo accettò per il seguente agosto. Veramente la sua intenzione non era di farsi Salesiano; ma dovette fare i conti con Don Bosco. Tornato all´Oratorio il primo agosto, fu mandato a Lanzo per disporsi con gli esercizi a intraprendere gli studi. Lassù un giorno, interrogato da Don Bosco che cosa pensasse di fare dopo il ginnasio:
- Andare al mio paese, rispose con tono risoluto.
- Non ti piacerebbe fermarti con Don Bosco?
- Io ho sempre avuto in mira di essere prete a Roccaforte.
- Ma se il Signore ti volesse per un campo più vasto?
- Se il Signore mi dimostrasse che questa é la sua volontà...
- Ne vuoi un segno?
- Quale sarebbe?
- Se Dio mi rivelasse il tuo interno e io te lo dicessi qui a te, avresti in ciò un segno che egli ti vuole con me?
Unia che non aveva mai inteso un linguaggio simile, non sapeva se dovesse prendere sul serio o per burla quelle parole. Ma Don Bosco stava là in attesa di una risposta.
- Ebbene, ripigliò, mi dica quello che vede nella mia coscienza..
- Tu devi fare la tua confessione, non é vero? Orbene, te la farò tutta io; tu non avrai che di rispondermi: Sissignore.
Difatti cominciò a dirgli tutto il suo passato con tanta esattezza e precisione, che Unia sulle prime credette di sognare: numero, specie, malizia, tutto veniva fuori. Commosso al sommo, il penitente non sapeva più in che mondo si fosse. - Ma, caro Don Bosco, gli domandò a un certo punto, come ha fatto Lei a sapere tutte queste miserie? - Allora, forse per confortarlo, giacché lo vedeva mortificatissimo, proseguì: - So ben altro ancora. Tu avevi undici anni, quando, trovandoti una domenica nel coro della tua chiesa durante i vespri ed essendoti accorto che un tuo compagno dormiva vicino a te con la bocca aperta, tu che avevi susine in tasca, cercasti la più grossa e giù la cacciasti nella gola del dormiente. Il poveretto, sentendosi soffocare, balzò in piedi e si mise a correre di qua e di là, implorando aiuto. La costernazione generale fece sospendere il canto. Ma per questo peccato non occorre altro: tuo cugino prete te ne diede subito la penitenza con una mezza dozzina di scapaccioni. - Non ci volle di più, perché egli si desse per vinto.
Terminato il corso dei Figli di Maria con Don Rinaldi a Sampierdarena e con lui passato a S. Benigno Canavese, fu nel 1882 ammesso al suddiaconato. Non c´era verso d´indurlo a ricevere quel sacro ordine; ma Don Bosco ve lo persuase, e così pure nello stesso anno per il diaconato. Quando però si fu all´ordinazione sacerdotale, che era fissata per la domenica antecedente al 25 dicembre., l´affare si fece più serio che mai. Si mostrò così irremovibile, che gli si concesse di recarsi a Torino per parlare con Don Bosco; avrebbe voluto chiedere almeno una dilazione. Gli pareva di non avere ancora studiato abbastanza e di ritenere ancora troppo del profano, com´egli non si stancava di ripetere. Entrato dunque nella camera di Don Bosco, espose lo scopo della sua venuta e mentre tutto si accalorava, vide che il buon Padre lo guardava in silenzio e sorrideva. - Dunque non vorresti più andare avanti? lo interrogò Don Bosco.
- No, assolutamente no! Io ho la testa rotta e mi voglio fermare come sono.
- E che cosa vorresti fare?
- Lasciar tutto e andarmene a Roccaforte per studiare un poco di più.
- Lasceresti dunque Don Bosco? Proprio tu?
- Sì, io.
- Ebbene, giacché dici che hai la testa rotta, io te la accomodo subito. Prendi la mia. - In così dire si tolse la sua berretta di testa e la pose a Don Unia; quindi: - Ora va dove io ti mando! gl´ingiunse.
- Anche in capo al mondo?
- Anche in capo al mondo!
Paure, dubbi, pensiero di tornare a Roccaforte si dileguarono sotto quella magica berretta in un baleno. Usci senza restituirgliela e la portò sempre con sé; oggi é una preziosa reliquia.
Don Unia andò davvero in capo al mondo. Una vocazione straordinaria lo portò, con licenza dei Superiori, nel grande lebbrosario di Agua de Dios in Colombia, dove con l´eroismo del suo sacrifizio onorò la Congregazione e la Chiesa, contraendovi una malattia che lo condusse anzi tempo alla tomba nel 1895.
Don Bosco non strumentalizzò mai la religione
Un ragazzo appena arrivato dal paese, garzone di muratore si unì alla turba dei ragazzini che andavano al monte dei Capuccini, con la tromba, i giochi, Don Bosco in testa e l’immancabile colazione.
Ecco il suo racconto: «Venne celebrata la Messa, molti fecero la Santa Comunione, poi andarono tutti nel convento a fare la colazione. Credetti di non averne diritto e mi ritirai aspettando di unirmi a loro nel ritorno. Ma Don Bosco mi vide e mi avvicinò: «Come ti chiami?»
«Paolino»
«Hai preso la colazione?»
«No, signore, perché non mi sono né confessato né comunicato».
«Ma non occorre né confessarsi né comunicarsi per avere la colazione».
«Che cosa occorre?»
«Avere buon appetito».
Mi portò vicino al cesto e mi diede in abbondanza pane e frutta. Discesi con lui e nel prato giocai fino a notte. Da quel momento, per molti anni, non abbandonai l’oratorio e il caro don Bosco, che mi fece tanto del bene. Non voleva fare dei proseliti: voleva fare il bene vero dei ragazzi. E questo bene comprende anche Dio!
Se Dio esiste, somiglia a Gesù. Il suo modo di essere, le sue parole, i suoi gesti e reazioni sono dettagli della rivelazione di Dio. In più di un´occasione, studiando com´era Gesù, mi sono trovato sorpreso da questo pensiero: così Dio si preoccupa delle persone, così guarda coloro che soffrono, così cerca i perduti, così benedice i piccoli, così accoglie, così comprende, così perdona, così ama.
Mi risulta difficile immaginare un´altra strada più sicura per avvicinarci a quel mistero che chiamiamo Dio. Mi si è stampato con forza nell´intimo il modo in cui lo vive Gesù. Si vede subito che, per lui, Dio non è un concetto, bensì una presenza amichevole e vicina che fa vivere e amare la vita in maniera diversa. Gesù lo vive come il miglior amico dell´essere umano: l´«Amico della vita». Non è un estraneo che, da lontano, controlla il mondo e fa pressione sulle nostre povere vite; è l´Amico che, dal di dentro, condivide la nostra esistenza e diviene la luce più chiara e la forza.
«I miei genitori erano protezione, fiducia, calore. Quando penso alla mia infanzia, sento ancora oggi la sensazione del calore su di me, dietro di me e intorno a me, provo questo meraviglioso sentimento di vivere non ancora per conto proprio, ma di appoggiarsi interamente, con anima e corpo, agli altri, che si addossavano il peso della mia vita. Sono corso attraverso pericoli e atrocità come luce che penetra in uno specchio. Questo è ciò che io definisco la fortuna della mia infanzia, quella magica armatura che, una volta messa addosso a qualcuno, garantisce protezione per tutta la vita.
I miei genitori erano il cielo. Sapevo (proprio presto, ne sono sicuro) che in loro un altro essere si prendeva cura di me e mi rivolgeva la parola. Non chiamavo questo altro essere Dio: i miei genitori mi hanno parlato di Lui solo più tardi. Non gli davo alcun nome. C’era, e il nome era qualcosa in più. Sì, dietro i miei genitori c’era qualcuno e papà e mamma erano solo incaricati di trasmettermi questo dono da fonte diretta. Era l’inizio della mia fede e il fatto di averla vissuta in questo modo, a mio avviso, spiega perché non ho mai avuto dubbi metafisici».
Così era don Bosco.
Don Paolo Albera: «Don Bosco educava amando, attirando, conquistando e trasformando. [...] Ci avvolgeva tutti e interamente quasi in un´atmosfera di contentezza e di felicità, da cui erano bandite pene, tristezze, malinconie... Tutto in lui aveva per noi una potente attrazione: il suo sguardo penetrante e talora più efficace d´una predica; il semplice muover del capo; il sorriso che gli fioriva perenne sulle labbra, sempre nuovo e variatissimo, e pur sempre calmo; la flessione della bocca, come quando si vuoi parlare senza pronunziar le parole; le parole stesse cadenzate in un modo piuttosto che in un altro; il portamento della persona e la sua andatura snella e spigliata: tutte queste cose operavano sui nostri cuori giovanili a mo´ di una calamita a cui non era possibile sottrarsi; e anche se l´avessimo potuto, non l´avremmo fatto per tutto l´oro del mondo, tanto si era felici di questo suo singolarissimo ascendente sopra di noi, che in lui era la cosa più naturale, senza studio né sforzo alcuno».
C’è ancora chi si affanna intorno alle dimostrazioni dell’esistenza di Dio. La più perfetta dimostrazione di Dio non è difficile.
Il bambino chiese alla mamma: «Secondo te, Dio esiste?».
«Sì».
«Com’è?».
La donna attirò il figlio a sé.
Lo abbracciò forte e disse: «Dio è così».
«Ho capito».
Così don Bosco predicava Dio. Sempre presente e vivo. Dio come compagnia, aria che si respira. Dio come l’acqua per i pesci. Dio come il nido caldo di un cuore che ama. Dio come il profumo della vita.
Dio è ciò che sanno i bambini, non gli adulti.
Un bambino osservava incantato le splendide vetrate di una cattedrale illuminate dal sole.
«Adesso ho capito chi è un santo» disse all’improvviso.
«Sì? Davvero?» fece la catechista.
«È un uomo che lascia passare la luce».
E don Bosco era una radiosa vetrata che lasciava passare la luce di Dio.
Tanto che vicino a don Bosco si sarebbe potuto pregare: «Dacci oggi, o Signore, il nostro miracolo quotidiano».
Dov’è nato don Bosco? La sua casa natia non c’è. Per me è nato in un prato. Il ragazzino dei Becchi faceva le capriole su di un prato. Su quel prato nacque il primo oratorio. La natura dolce e aspra delle colline natie rimasero sempre nella sua anima. Dovunque andava c’era una vite.
Non si accontentava di parlare della natura. Voleva che i suoi ragazzi conservassero il "contatto" con la natura. Inventò l´"agriturismo", il "trekking", le scuole all´aria aperta. Erano questo le celebri "passeggiate". Turismo giovanile ed escursionismo, nelle forme più larghe ed imprevedibili, in clima di improvvisazione e di ottimismo: attraverso le colline del Monferrato e delle Langhe la comitiva dei suoi giovani e dei suoi educatori poteva dare l´impressione del vagabondaggio, del turismo didattico, del teatro popolare ambulante, del pellegrinaggio religioso.
Le vacanze sono la grande opportunità di accompagnare i propri figli nella scuola della natura. Sono tante le cose da fare e da imparare.
È tragico non essere capaci di meravigliarsi. Il bambino si apre alla vita attraverso una catena di “stupori” e di meraviglie. Il compito più importante di un educatore è conservare questa capacità nei ragazzi che crescono: sarà la qualità più preziosa della loro esistenza.
Don Bosco cercava di sviluppare nei suoi ragazzi il sentimento del bello, del naturale, dell´estetico e lo faceva con poetici ritratti della natura. Raccontava ai suoi ragazzi che, quando saliva in camera a notte tarda, dopo una intensa giornata di lavoro: «Giunto sul balcone mi fermava a contemplare gli spazi interminabili del firmamento, mi orizzontava coll´Orsa Maggiore, fissava lo sguardo nella luna, poi nei pianeti, poi nelle stelle; pensava, contemplava la bellezza, la grandezza, la moltitudine degli astri, la lontananza sterminata fra di loro, la distanza da me; e inoltrandomi in questi pensieri, saliva fino alle nebulose e al di là ancora...tanto ne era preso che mi venivano le vertigini. L´universo mi appariva un´opera così grande, così divina...che non poteva reggere a quello spettacolo e mio unico scampo era di correre presto nella mia camera...»
Tutti i giovani a questo punto stavano sorpresi, ritenendo il respiro, aspettando che cosa avrebbe detto ancora Don Bosco; ed egli, fatta breve pausa, ripigliava: «E correva a cacciarmi sotto le lenzuola». I giovani ridevano e don Bosco concludeva: «Solamente là sotto, in quel buco mi sembrava di non essere così piccolo e disprezzabile».
A Marsiglia, in casa di un’insigne benefattrice, presa una viola del pensiero e rivolto alla signora: «Ecco, disse. Le dò un pensiero, il pensiero dell’ eternità». “Con o senza fiori, non dimenticava mai di lasciare pensieri somiglianti, chiunque fosse chi si avvicinava” (Don Ceria).
Solo dalla meraviglia sboccia la gratitudine: dire grazie significa entrare nella logica del dono e della reciprocità. L’uomo moderno si indigna, protesta, si vendica, raramente ringrazia. Eppure tutto quello che abbiamo, lo dobbiamo a qualcuno. Dallo stupore si ritorna al Cielo: è questa la sorgente della spiritualità. C’è un filo che va dalla concretezza della vita alla concretezza della sua origine. Dio non è un’idea, ma una realtà che si è fatta vedere e toccare in Gesù di Nazaret, ed è il “Dio dei viventi” perché logicamente il Creatore della vita non può morire. Così dalla capacità di saperci meravigliare passiamo all’adorazione.
Sarebbe così bello fare uno studio su don Bosco fondatore della prima vera “mistica” per ragazzi. Pensate a quella magnifica intuizione che è l’esercizio della Buona Morte: uno stupendo inno alla vita.
Ciò che rimarrà dopo la morte di un essere umano non è ciò che egli ha raccolto in vita, ma ciò che ha donato. Don Bosco ha donato una vita così ricca che non abbiamo ancora finito di farne l’inventario.
Dico che Giovanni Bosco è vivo
Non dirmi che il nostro padre don Bosco se n´è andato,
oh, non venire a dirmi che il nostro santo è morto,
non credo che se ne sia andato per sempre l´amico,
non pensare che un Padre così possa abbandonarci.
Non è morto, il Padre vive, c´è sempre stato e rimane
lui, che si è preso cura di giovani abbandonati e orfani,
di ragazzi di strada, soli, che aiutava a cambiare...
un angelo dell´abbraccio, che camminava lungo le nostre strade.
Dico che Giovanni Bosco è vivo e ha intrapreso mille iniziative
Non vedi la sua sollecitudine di padre che opera adesso in tutto il mondo?
Non lo senti intonare il suo canto a tante figlie, a tanti figli,
che portano questi riflessi del Padre che amiamo?
Questi figli e queste figlie sono seguaci di puro amore e fede, e sacrificio:
tutti dei giovani, tutti di Cristo...
come il Padre don Bosco, si commuovono nel loro intimo
e si impegnano di fronte al dolore del giovane che si è trovato in difficoltà.
È salesiano chi ha sincronizzato i battiti del suo cuore
sulle lacrime di tanti giovani impoveriti,
vede in Cristo i bambini poveri, e in loro Cristo;
un amore così ti mantiene giovane e ti fa tornare bambino.
Somigli a don Bosco, se ami con questo amore limpido:
coraggio fiducioso... amore, come quando eri ragazzo...
con freschezza e senza rughe... Per favore, non dire mai
è morto! Lui vive, quando i suoi salesiani sono così.
Non dirmi che il nostro padre don Bosco se n´è andato...
non pensare che un Padre così possa abbandonarci.
Il mio cammino di vita interiore e di vita spirituale
Antonio Gonzalez
L´iniziativa di Dio non ti lascia mai solo quando ti chiama e ti chiede qualcosa. Ti offre la potenza del suo Spirito, la mediazione di sua Madre. Ti parla attraverso la sua Parola, le persone, i segni, gli ambienti, gli eventi, ... che possono aiutarti a modellare la calligrafia con cui scrivi la risposta a questa chiamata. È importante che tu stia attento, dunque, a questo modo di Dio di rivolgersi a te mentre percorri il tuo cammino di vita interiore e di vita spirituale.
L’inizio
Nel mio caso, come in quello di molte altre persone, questo cammino ha avuto inizio all’interno della mia famiglia, sin da quando sono nato. Lì ho imparato le mie prime preghiere,... Ero molto piccolo, per cui capivo tutto quello a modo mio. Intuivo che Dio doveva essere qualcuno molto potente, perché quando succedeva qualcosa di importante gli chiedevamo sempre delle cose; quando andavo a letto, mia madre mi aiutava a chiedergli che mi proteggesse e mi aiutasse ad essere buono, se ero malato gli chiedevo che mi guarisse,….
Il mio incontro con Don Bosco
Mai ringrazierò abbastanza Dio per aver posto D. Bosco nella mia vita. Sicuramente è stato un elemento fondamentale nel mio cammino di relazione con Dio. Credo il più determinante.
Per questo la mia testimonianza vuole raccontare come il carisma salesiano è penetrato in me, come i suoi elementi spirituali, il suo stile, hanno configurato pian piano il mio mondo interiore, il mio modo concreto di seguire Cristo... la mia spiritualità in definitiva, e ancora come questo carisma ha alimentato l´espressione della vita interiore nel mio quotidiano. Capisco che descrivo l´esperienza di molte delle persone che siamo entrate in contatto con Don Bosco e che abbiamo scoperto la necessità di renderlo nostro punto di riferimento nel momento di seguire Cristo, partecipando attivamente al suo progetto. Siamo state molte migliaia in questi duecento anni. Mi baserò, come ho detto, sulla mia esperienza per raccontare, sicuro del fatto che è parallelo a quello di molti di noi qui presenti e di tutti coloro che si sono sentiti o si sentono figli di Don Bosco. Penso, quindi, di dare voce a molti cuori. Spero di essere portavoce fedele per queste persone.
Ho preso contatto con il mondo salesiano come oratoriano quando avevo solo sei anni. Lo scorso 2 novembre si sono compiuti 57 anni. Prima di fare nove anni sono entrato come alunno nella scuola salesiana di Cordoba. In una casa salesiana subito fai amicizie e queste diventano la prima ragione per desiderare di continuare ad andare in un posto dove si vive allegramente. A poco a poco l´atmosfera ti va prendendo. Noti che, oltre gli amici, molte persone si preoccupano di te. Avverti il loro affetto. Inoltre così come voleva Don Bosco – ricordate? -: “Che loro si rendano conto di essere amati”. In modo molto naturale la scuola comincia ad essere per molti la loro seconda casa, una casa accogliente. Sei ancora un bambino e inizi ad aprirti alla dimensione trascendente. A questa età, almeno così è stato nel mio caso, è stata Maria Ausiliatrice che ha iniziato a presentare le credenziali più significative in questa dimensione.
C’è stata sempre un’abitudine nella nostra casa di Cordoba che continuiamo a vivere la maggior parte degli alunni quando arriviamo nella scuola: visitare Maria Ausiliatrice. Presto ti sorprendi del posto che occupa la Vergine nella tua vita. Giungi a sentirla realmente come Madre. Frasi che ascoltavi nell’ambiente salesiano: “senza Mª Ausiliatrice i salesiani non siamo niente”; “Lei ha fatto tutto”;… si vanno caricando di coerenza e di senso. Quanta ragione aveva D. Viganó quando disse nel CG XXI: “Vi confesso la mia intima convinzione, sempre più lucida e più alta, che senza un nuovo impegno a ravvivare la devozione a Maria Ausiliatrice, non otterremo gran cosa in tutto il resto” “La Congregazione salesiana… si rinnoverà nella misura in cui la Vergine occupa il posto che le è proprio nel nostro carisma”. Sicuramente Mª Ausiliatrice è uno degli elementi fondamentali del Carisma Salesiano.
La dimensione di Madre di Mª Ausiliatrice si radica definitivamente in te. Io ho la preziosa esperienza di essere entrato nella scuola con una madre e di esserne uscito con due. Però la Madonna mai arriva da sola. Suo Figlio l’accompagna. “Non c’è Cristo senza Maria” era solita dire Teresa di Calcutta. Dalla sua mano inizia a realizzarsi il tuo incontro con Lui.
Sei già adolescente. E giovane… Senza renderti conto ti ritrovi a pensare autonomamente, a prendere le tue prime decisioni importanti,... Dopo il saluto di tutti i giorni alla Madonna finisci col parlare con Gesù. Tu e Lui. La fede che ti hanno trasmesso da piccolo inizia ad essere qualcosa di personale, qualcosa di tuo; inizia a far parte della tua identità. Ti riconosci e ti senti credente. Una vita spirituale realmente tua prende corpo dentro di te.
Ricordate che l’iniziativa di Dio non ti lascia mai solo. L’ambiente salesiano è fondamentale. Offrendo dei valori molto caratteristici ti modella, ti aiuta a crescere, a convertirti definitivamente in figlio di D. Bosco La dimensione trascendente richiama definitivamente al più intimo del tuo essere e si istalla nella tua vita. Come voleva D. Bosco delle sue opere, questa casa accogliente nella quale si convive allegramente non è solo una scuola. E’ anche un’autentica Parrocchia. Ricordate?: Evangelizzare educando e educare evangelizzando. Ormai nessuno deve spiegarti che Dio è l’elemento fondamentale di ciò che D. Bosco desiderava portare ai suoi giovani. La tua esperienza ti porta alla conclusione che stare in una casa salesiana è una fortuna e un privilegio.
Una considerazione speciale merita in questo ambiente l’apporto dei salesiani. Nel mio caso, mai è mancato uno accanto a me che si preoccupasse di me. Non ho incontrato nessuno che fosse regolare. Sempre buoni o migliori. Io almeno, così li ricordo. E ne ho conosciuto molti. Non potrei nominarli tutti, però vorrei includerli tutti nella persona che mi ha aiutato a fare i primi passi di ciò che ora descrivo: D. Fernando Santiago, SDB, che non si trova più fisicamente presente tra noi. Lui è stato fondamentale nel farmi sentire figlio di D. Bosco. Capirete che, per me, non è stato difficile riconoscere ciò che è l’accompagnamento personale del quale parlava D. Bosco ai suoi salesiani, tanto significativo all’ora di costruire la tua vita di relazione con Dio. Parlo di vita interiore; di vita spirituale. Questa stessa esperienza mi consta che l’hanno potuta condividere molte persone.
L’impegno
La vita interiore, la vita spirituale di cui parlo si vivono nella parte più intima del tuo essere, sì, però non rimangono lì. Si proiettano, nel senso che ti richiedono di vivere di fronte agli altri. Da essa giunge nella tua vita l’impegno. In coloro che abbiamo deciso di seguire Gesù, l’impegno è l’espressione naturale di questa vita interiore. Il bisogno di impegnarti può avere diverse origini, però io credo che è tanto più fedele, più disinteressato, più…autentico quanto più è radicato in Cristo.
Centro Giovanile, primi anni all’Università, Famiglia Salesiana, progetto di formazione della tua famiglia,… E’ un periodo fondamentale. Quanto è importante in questi momenti che qualcuno ti aiuti a scoprire che la tua vita interiore, la tua vita spirituale devono continuare a crescere! E lo faranno nella misura in cui le alimenti: formazione, preghiera,… Quando non avviene così corri il rischio di fare tanto per fare, senza un fondamento solido che sostenga ciò che fai. Dio si è preoccupato sempre che potessi contare su persone che mi orientassero e, cosa altrettanto fondamentale, su un gruppo di riferimento.
Sono Salesiano Cooperatore
Devo sottolineare in questo senso la mia promessa come salesiano cooperatore il 31 gennaio 1981. Avevo 28 anni. Dio, attraverso D. Bosco continuava a dimostrare che non mi avrebbe lasciato solo, e mi ha regalato una comunità più grande della mia famiglia propria (Erminia, mia moglie, e io avevamo allora due figli), nella quale avrei potuto approfondire la mia formazione e la dimensione comunitaria della mia fede. Ringrazio di cuore Dio per la mia vocazione di salesiano cooperatore. E’ stata l’atmosfera che ha fornito ossigeno a tutti gli aspetti della mia vita: il mio essere sposo, padre, figlio, fratello, amico, professore,…persona. Ho, inoltre, la fortuna di avere un Centro locale che vive realmente la fraternità e che ti offre l’opportunità di fare crescere la tua vita spirituale.
Vivere di fronte all’altro coinvolge tutto quello che fai. Non misuri né tempo né parcelle. Naturalmente c’è sempre una serie di ambiti a cui dedichi la maggior parte della tua azione pastorale. Nel mio caso:
La mia professione: Sono professore, o meglio, educatore
La mia vocazione mi ha indirizzato verso la professione più bella del mondo: accompagnare i giovani tra i 15 e i 18 anni nel compito di costruire il loro progetto di vita. Che modo bello di restituire una piccola parte di quello che l’ambiente salesiano mi aveva dato! L’interiorità di un giovane merita sempre la pena, specialmente se nella tua interiorità vivi il da mihi animas… Se hai deciso di seguire Cristo, avendo come riferimento D. Bosco, questo acquista subito senso.
Il da mihi animas non è solo una frase. E’ il nucleo della spiritualità salesiana perché inonda il cuore e l’intenzione di D. Bosco. E’ una chiamata di Dio per donarsi ai giovani e aiutarli a promuoversi, a crescere umanamente, sì, però senza perdere di vista che il fine fondamentale è la loro salvezza. L’amore di Dio proiettato nei giovani. E’ ciò che chiamiamo carità pastorale, espressione precisa della nostra spiritualità. D. Pascual Chaves ce lo dice molto meglio: “…si tratta di unacarità apostolica dinamica, cuore dello spirito di Don Bosco, sostanza della vita salesiana, inoltre della forza dell’impegno apostolico dei membri della Famiglia Salesiana”. Don Bosco probabilmente la chiamerebbe cuore oratoriano. La mia vita interiore sempre mi ha spinto ad essere come “un pizzico” di questo cuore oratoriano lì dove mi sono trovato. I miei giovani mi hanno fatto implorare di più; ringraziare di più; in definitiva, pregare di più. E questo mi è servito per fortificare la mia vita spirituale. E’ realmente un’esperienza meravigliosa.
La Famiglia Salesiana
Immediatamente dopo essere uscito dalla scuola ho iniziato a prendere responsabilità nella Famiglia Salesiana, specialmente con gli Ex Allievi e i Salesiani Cooperatori. Dal livello locale fino al mondiale. E in questo continuo ad essere impegnato perché sono convinto che lo Spirito assiste questa Famiglia e che per questo è un’iniziativa di Dio per realizzare la salvezza dei giovani. Chiamò D. Bosco a dar vita a questa iniziativa. E D. Bosco ha sognato un vasto movimento di persone impegnate in questa missione. Ha pensato a me! Ha pensato a noi! Incarniamo la Missione di D. Bosco nei nostri giorni. Il nostro potenziale è enorme, però credo che insieme dobbiamo essere più efficaci. D. Pascual Chaves ci dice nella sua Carta della Identità carismatica della Famiglia Salesiana: “Siamo chiamati a vivere il dono della comunione che metta i doni e i valori di ogni gruppo a disposizione di tutti. Lavorare insieme, rispettando l’autonomia di ogni gruppo, intensificherà l’efficacia”. E in seguito indica obiettivi, passi... Non possiamo sbagliare!
La mia Famiglia: una dura prova
Se alle persone che siamo genitori ci chiedessero una testimonianza sulla realizzazione del nostro progetto di vita, saremmo molti quelli che metteremmo nel nucleo di questa realizzazione la nostra famiglia. Mia moglie ed io lo abbiamo sentito sempre come il nostro primo compito pastorale, il primo a ricevere e percepire l’espressione della nostra vita spirituale. Abbiamo avuto 4 figli, un maschio e tre femmine. E come D. Bosco, sempre abbiamo fatto di tutto per educarli ad essere onesti cittadini e buoni cristiani.
Abbiamo cercato realmente di fare della nostra famiglia una piccola chiesa domestica che fortificasse la vita interiore dei suoi membri. Il superamento di una durissima prova sta misurando fino a che punto Dio è presente nella nostra famiglia. Oggi non vorrei parlare di questo. Magari nostro Padre avesse utilizzato un altro termometro per misurare! Sicuramente, però, nel suo Piano tutto ha senso.
Per sua volontà, otto mesi e una settimana fa, una nostra figlia, di nome Maria Auxiliadora, di 35 anni, medico, sposata con due bambini di 2 e 4 anni, è andata con Lui a godere della sua Gloria in modo inatteso. Credo che potete immaginare che abbiamo vissuto momenti terribili, però è altrettanto sicuro che mai abbiamo sentito Dio tanto vicino a noi. Un avvenimento come questo si può vivere in due modi. Da un punto di vista esclusivamente umano o come opportunità, che abbiamo noi credenti, per abbandonarci nelle braccia di Dio. Il primo ti conduce a un non senso, alla disperazione. Il secondo ti dà forza per vivere la situazione sapendo che Auxi sta con Dio in primo luogo e continua anche a stare con noi in altro modo. E’ ciò che ha scelto la mia famiglia. E questo non ci ha liberato dai momenti difficili, però ci ha fatto pregare più che mai; ha reso più forti i nostri legami filiali e fraterni: tutta la mia famiglia è come un’autentica pigna. Valorizziamo di più. Tolleriamo di più. Amiamo di più. Dio non ci ha lasciati soli. E’ rimasto con noi attraverso molte, molte persone che ci hanno regalato il loro affetto e soprattutto una preghiera che ci fortifica…
Termino la mia testimonianza. Oggi più che mai so che la mia vita spirituale, la mia vita interiore è fortemente radicata in Dio. Però è una certezza umana e per questo piena di vacillamenti che mi fanno pregare grato, sì, però chiedendo: Signore io credo, ma aumenta la mia fede!
Maria, Donna pellegrina che cammina guidata dallo Spirito Santo”.
Maria icona della Chiesa pellegrina
Sr. Maria Ko Ha Fong
Nel racconto dei vangeli una delle caratteristiche di Gesù nettamente percepibili è il suo essere «in cammino». Egli nasce per la via, da neonato deve viaggiare per rifugiarsi in un paese straniero, negli anni di predicazione si sposta con ritmo incalzante, passando da un villaggio all’altro, di città in città, dai luoghi deserti alle piazze, dalla casa alla sinagoga, dalla strada alla campagna, dalla riva del mare alla montagna: quando si avvicina «l’ora di passare da questo mondo al padre» (Gv 13,1) prende «la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme» (Lc 9,51). Infine muore all’aperto, al culmine di una via crucis. Egli stesso è «la via» (Gv 14,6). Con un «seguimi» coinvolge molti a mettersi in cammino insieme a lui: anche dopo la sua morte, i suoi discepoli vengono riconosciuti come «quelli della via» (At 9,2). Pietro ha colto bene l’identità del maestro quando l’annuncia con questa frase sintetica: «Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nàzaret, il quale passò beneficando e risanando tutti» (At 10,38). L’immagine che ha affascinato i primi convertiti al cristianesimo è quella di un Gesù che cammina guidato dallo Spirito Santo e facendo del bene dove passa.
La sua madre gli assomiglia in questo. L’immagine di Maria in cammino emerge nitida nei vangeli ed è sempre stata feconda di riflessione lungo la storia della Chiesa. Maria si trova spesso sulla via; esce, cammina, si sposta molto di più delle donne del suo tempo. I suoi movimenti tra Nazaret, Ain Karim, Betlemme, Gerusalemme, Egitto sono accompagnati da un dinamismo interiore ben più intenso. Tutta la sua vita è un cammino, una «peregrinazione della fede» (Lumen Gentium 58). La mariologia conciliare mette in rilievo questa «pellegrinazione» di Maria, riconoscendo in essa un modello permanente per tutta la Chiesa. Non solo. Maria stessa è via, via che conduce a Cristo, via che porta a «la Via». E’ la Odighitria, colei che indica la via, come bene raffigurata nell’iconografia. Vogliamo seguire questa «pellegrinazione» di Maria sulla traccia offertaci dai vangeli.
La Bibbia è un libro pieno di strade e di viaggi, la storia tra Dio e l’umanità è un intreccio dinamico tra uscire e arrivare, andare e venire, partire e ritornare, tra esodo e avvento. Il camminare di Maria si inserisce in questo movimento, in questo sistema di incontro divino-umano, sempre aperto all’imprevisto, alla sorpresa e alla novità, ma sempre guidato dal vento dello Spirito. Il racconto evangelico su Maria, infatti, si apre con la piccola borgata di Nazaret e si chiude con la città di Gerusalemme. Tutti e due i luoghi sono come spiraglio dove la terra si apre al cielo, come trampolino di lancio dove la casa spalanca la porta ad un cammino. In tutti e due irrompe la «potenza dell’Altissimo». Nella prima lo Spirito discende silenziosamente come «ombra che copre» (Lc 1,35), nella seconda lo stesso Spirito si fa presente attraverso un «fragore di vento impetuoso» (At 2,1). C’è una specie di «inclusione pnematologica» meravigliosa. Da un luogo all’altro si sviluppa la grande avventura non solo di Maria, ma di tutta l’umanità che cammina all’incontro di un Dio sorprendente.
Sappiamo che nei vangeli i brani espliciti concernenti la madre di Gesù sono pochi, e le sue parole riportate sono ancora più scarse, appena sei: ad eccezione del canto del Magnificat le sue parole si limitano a una frase. Eppure sono testi di straordinaria densità e collocati in punti cardinali della storia della salvezza. L’immagine biblica di Maria ha per me, cinese, qualcosa di simile a un dipinto sulla seta, che ha queste caratteristiche tipiche: poche pennellate, molto spazio bianco, colori tenui, contorni non totalmente definiti, soggetti semplici e senza pretesa, atmosfera di sacro silenzio. Le poche pennellate cadono armoniosamente in posti appropriati e sprizzano energie; grazie ad esse anche lo spazio bianco diventa denso di significato. Il tutto invita a trascendere, a lanciarsi verso l’infinito, a spiare il mistero, a fare esperienza dell’oltre, a dilatarsi nel bello. I pochi racconti evangelici su Maria formano, con il molto spazio bianco che li circonda, un tutto armonioso, dinamico, affascinante. De Maria numquam satis: non solo il parlare di Maria è inesauribile, ma anche la contemplazione dei pochi tratti evangelici su Maria non ha mai fine. Le riflessioni che propongo qui sono frutto di una delle infinite contemplazioni di questo bellissimo capolavoro del Signore, una contemplazione da cui trapela un poco l’occhio femminile e asiatico, e molto, come spero, il cuore salesiano. Sono articolati in sette punti.
1. Dal «quomodo fiet» al «fiat»
Contempliamo Maria nel momento in cui riceve all’improvviso l’annuncio dell’angelo. Al messaggio sorprendente di Gabriele la risposta di Maria non scatta in modo istantaneo ed irriflesso. La sua prima reazione è quella del turbamento, tipico di chi è consapevole di trovarsi di fronte a qualcosa che lo trascende infinitamente, ad una novità insospettata di cui non riesce a cogliere subito il senso. Si tratta di un dubbio scaturito non dall’incredulità ma dallo stupore di fronte alla sproporzione tra la grandezza della proposta e la limitatezza effettiva della capacità di realizzazione. È l’atteggiamento dell’umile e del riflessivo, di chi cioè è cosciente della propria piccolezza e si avvicina al mistero con timidezza e discrezione, attento a penetrarne il senso. È il sentimento del povero che sa meravigliarsi di fronte ai doni gratuiti.
La seconda reazione di Maria è un’obiezione. Maria invoca luce: Quomodo fiet istud? («Come avverrà questo?») e manifesta il dilemma del suo voler acconsentire, ma non sapere come. Ella domanda a Dio che cosa dovrà fare per essere in grado di obbedire. Lo spirito di Maria è come quello del salmista quando prega Dio dicendo: «Fammi conoscere la via dei tuoi precetti e mediterò le tue meraviglie» (Sal 119,27).
Dopo che l’angelo le ha assicurato che è lo Spirito che dilata la sua piccolezza, la potenzia e l’abbellisce, Maria accetta con piena disponibilità, passando così dal quomodo fiet, «come avverrà», al fiat, «avvenga». Il fiat di Maria, come quello insegnatoci da Gesù nel Padre nostro- «Sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra» (Mt 6,10) - è un abbandono fiducioso e un desiderio gioioso di realizzare la volontà di Dio. Con il suo fiat ella ricapitola in sé tutta la schiera degli obbedienti nella fede dell’Antico Testamento e inaugura il nuovo popolo, pronto ad ascoltare la voce di Dio che ora, nella pienezza del tempo, parla per mezzo del suo Figlio.
La dinamica del cammino interiore di Maria risulta ancor più chiara se si prende in considerazione il confronto intenzionale fatto da Luca tra due annunciazioni: a Zaccaria (1,5-22) e a Maria (1,26-38). Zaccaria, anziano e stimato, sacerdote, uomo giusto, rappresentante ideale della religiosità anticotestamentaria, incontra l’angelo in Gerusalemme, nel tempio, durante il culto. Uomo santo, luogo santo, tempo santo: tutto sottolinea la sacralità e la solennità dell’evento. Maria, invece, una sconosciuta ragazza di Nazaret, città disprezzata, da cui non potrebbe venire niente di buono (cf Gv 1,46), incontra l’angelo nella quotidianità semplice e domestica. Ma Dio capovolge le posizioni. L’angelo entra «da lei»: è Maria, in realtà, il tempio dell’Altissimo. Ella «ha trovato grazia presso Dio», il dono divino giunge a lei gratuitamente, non a causa della sua osservanza della legge o in risposta alla sua preghiera di domanda, come è nel caso di Zaccaria. Anche la conclusione dei racconti è diversa: Zaccaria si chiude nel suo mutismo, isolato, perché chi non prende parte di tutto cuore al disegno di Dio e non si lascia coinvolgere con passione non può nemmeno parlarne. Maria invece crede, si apre e diventa collaboratrice di Dio nel salvare il mondo. Nella tradizione iconografica Maria è spesso raffigurata come la platytera (dal greco più ampia), la piccolezza che ospita l’infinito. Colui che i cieli non possono contenere prende dimora nel suo grembo. È lo Spirito che la rende “ampia”, la feconda, la ricolma di grazia, la carica di dinamismo e passione. Lo si vede dal fatto che all’episodio dell’annunciazione si aggancia in continuità quello della visitazione. All’espressione: «l’angelo partì da lei», segue immediatamente: Maria «si mise in viaggio» (Lc 1,38-39).
2. «Camminare in fretta» e «conservare tutto nel cuore»
La premura del cammino verso Ain Karim, come poi la sollecitudine alle nozze di Cana, mostrano lo stile attivo, intraprendente, creativo, risoluto di Maria. Il suo andare in fretta è immagine della Chiesa missionaria che, subito dopo la Pentecoste, investita dallo Spirito Santo, si mette in cammino per diffondere la buona novella fino agli estremi confini della terra. Paolo conosce bene questa fretta: «È l’amore di Cristo che ci spinge» (2Cor5,14).
Maria non guarda alle distanze, ai rischi possibili, non calcola il tempo, non misura la fatica. L’ardore nel cuore le mette ali ai piedi. Ella si sente spinta da quel Dio che porta dentro. Il suo camminare non è solo movimento esterno: è un andare restando nel Signore, un partire dimorando in lui, un viaggiare portandolo dentro di sé. È la forza interiore che muove, dirige, avvolge e dà senso all’azione esteriore; è il silenzio che matura la parola. Ella unisce la contemplazione nell’incontro col mistero alla concreta azione nell’esperienza del servizio; fonde in armonia il più grande trasporto nei confronti di Dio e il più grande realismo nel confronti del mondo e della storia.
Alla sollecitudine e laboriosità esterna corrisponde un’attività vivace interna. Maria «conserva tutte le cose nel cuore meditando» (Lc 2,19.51). Luca ha voluto sottolineare l’atteggiamento riflessivo e sapiente di Maria di fronte al mistero ripetendo questa frase per due volte. È un’espressione che apre profondi spiragli sulla vita interiore di Maria. Ella, Vergine sapiente, Vergine in ascolto, è una donna dal cuore grande, capace di conservare le «grandi cose» operate da Dio in lei nella storia, capace di far memoria delle meraviglie di Dio, capace di collegare dentro di sé il passato con il presente, trasformando tutto in seme di futuro. Ella non capisce subito tutto, ma ospita tutto nel suo cuore, si apre al mistero lasciandosi coinvolgere e rispettando i ritmi della rivelazione storica di Dio.
Gesù insegnerà questo atteggiamento riflessivo di Maria anche ai suoi discepoli: «Ma io vi ho detto queste cose perché, quando giungerà la loro ora, ricordiate che ve ne ho parlato» (Gv 16,14). «Il seme caduto sulla terra buona sono coloro che, dopo aver ascoltato la parola con cuore buono e perfetto, la custodiscono e producono frutto con la loro perseveranza» (Lc 8,15).
I discepoli di Gesù devono imparare da Maria, Maestra sapiente, il segreto dell’unificazione vitale tra interiorità e attività, tra essere e fare, tra credere e operare, tra preghiera e lavoro, tra memoria e creatività, tra concentrazione e diffusione della parola di Dio, tra «conservare tutto nel cuore» e «camminare in fretta», tra l’accogliere il dono di Dio e il farsi dono di Dio per gli altri.
3. «Vedere un segno» e «essere segno»
Maria parte da Nazaret e si mette in cammino dietro un «segno» ricevuto dall’angelo: «Vedi, anche Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia, ha concepito un figlio» (Lc 1,36). Nella modesta casetta del sacerdote Zaccaria, l’anziana Elisabetta attende il figlio dono di una grazia sorprendente. Questo fatto deve essere per Maria una prova della potenza di Dio a cui «nulla è impossibile» (1,37).
Quando Sara, moglie di Abramo, rideva incredula al pensiero di poter ancora partorire in vecchiaia, il Signore le fece questa domanda: «C’è forse qualche cosa impossibile per il Signore?» (Gn 18,14). Isaia invita il popolo scoraggiato e travolto dalla sofferenza a fidarsi di colui che può tutto: «Ecco non è troppo corta la mano del Signore da non poter salvare; né tanto duro è il suo orecchio, da non poter udire» (Is 59,1).
Maria cammina verso la montagna animata dalla fiducia in Dio. Come dirà in seguito nell’esplosione di gioia del Magnificat, il Signore è per lei «Salvatore», «l’Onnipotente», un Dio che «si ricorda della sua misericordia» e la stende «di generazione in generazione su quelli che lo temono» (Lc1,47.49-50).
La fiducia di Maria è rafforzata dal «segno» che Dio le ha offerto, ma, in realtà, ella stessa è un segno di Dio dato all’umanità, «un segno di speranza e di consolazione» (Lumen Gentium 68). Maria, infatti, segna l’aurora che precede il sorgere del sole, segna l’irrompere della salvezza nella storia, segna «la pienezza del tempo» (Gal 4,4). Mentre Isacco, il bambino di Sara, e Giovanni, il bambino di Elisabetta, portano il messaggio che Dio può tutto, il bambino di Maria è il Dio che può tutto, il Dio onnipotente fattosi uomo debole e nascosto.
Nel cammino di fede di Maria, c’è una circolarità tra lo scoprire il segno di Dio negli altri e l’essere segno di Dio per altri. Si tratta della meravigliosa solidarietà tra i credenti. L’incontro tra Maria e Elisabetta rivela nello splendore della sua bellezza.
Maria e Elisabetta: due donne protese verso il futuro del loro grembo, due donne che custodiscono dentro di sé un mistero ineffabile, un miracolo stupendo. La coscienza d’essere oggetto di particolare predilezione da parte di Dio le unisce, la missione comune di collaborare con Dio per un progetto grandioso le entusiasma e le fa esplodere in benedizione e in canto di lode, l’esperienza della maternità prodigiosa le rende solidali. Il prodigio di Dio in Elisabetta è per Maria un «segno» che l’aiuta a pronunciare il suo fiat; il prodigio di Dio in Maria è «segno» per Elisabetta, un segno che suscita in lei una confessione di fede. Così le due donne sono, l’una per l’altra, luogo in cui scoprono Dio, epifania della sua grandezza e motivo per cui lodarlo e ringraziarlo. Nel riconoscersi reciprocamente «segno» di Dio, la loro comunicazione, densa di intuizione e di intesa profonda, permeata dal rispetto per il mistero, si fa benedizione, si fa canto e poesia. Il confronto vicendevole nella fede fa sgorgare la profezia vicendevole, animata dalla forza dello Spirito. Insieme, tutte e due, diventano segno della solidarietà di Dio con tutta l’umanità.
4. Dal fiat al magnificat
Mentre Maria percorre in fretta le vie tortuose della montagna, dentro di lei si snoda un itinerario interiore di fede che va dall’adesione docile del fiat all’esplosione gioiosa del Magnificat, dall’essere visitata da Dio all’essere visita di Dio per altri.
Salendo sulla montagna Maria sente di non essere sola. Il Figlio di Dio è presente, nascosto in lei. Il saluto dell’angelo a Nazaret, «il Signore è con te», che Maria aveva faticato a comprendere, ora si fa esperienza reale e convinzione profonda. Maria, Madre del Dio-con-noi, è ora l’arca della nuova alleanza, la nuova dimora di Dio, nuova trasparenza della presenza divina tra gli uomini, nuovo motivo di gioia per tutti.
Con il suo camminare per vie scomode per raggiungere l’altro a casa sua, Maria inaugura lo stile di Dio, lo stile di «uscire», lo stile di servizio, di abbassamento, di solidarietà verso chi ha bisogno. In lei il Dio incarnato si fa il Dio che entra nella trama umana e permea di sé anche la sfera del quotidiano. La salvezza acquista tonalità domestica. «Oggi devo entrare in casa tua», «Oggi la salvezza è entrata in questa casa» (Lc 19, 5.9): ciò che Gesù dirà più tardi nell’incontro con Zaccheo è in qualche modo realtà anticipata per mezzo di Maria.
Maria porta gioia e speranza. Dalla Galilea alla Giudea ella percorre lo stesso tratto di strada che più tardi farà Gesù. Camminando in fretta sui monti, ella evoca il celebre testo profetico: «Come sono belli sui monti i piedi del messaggero di un lieto annuncio...» (Is 52,7). La buona novella portata da Maria emana gioia contagiosa, fa esultare un bambino nel grembo materno, rende felici due anziani. «I giovani e i vecchi gioiranno. Io cambierò il loro lutto in gioia, li consolerò e li renderò felici» (Ger 31,13). I bambini che nascono e gli anziani che giungono alla pienezza della loro vita si incontrano e si uniscono nell’esultanza, lodando lo stesso Dio «amante della vita» (Sap 113,9).
Lungo tutta la sua vita Maria continua a moltiplicare e a diffondere dappertutto la gioia pura di cui ella è inondata, quella gioia scaturita dal saluto dell’angelo «Rallegrati Maria» e resa più intima e profonda dal suo fiat. Alla nascita di Gesù questa gioia si estende ai pastori di Betlemme attraverso l’annuncio dell’angelo: «Vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo» (Lc 2,10). Portando Gesù nel tempio Maria fa ancora trasalire di gioia l’anziano Simeone e la profetessa Anna. A Cana, poi, la gioia non viene a mancare al banchetto delle nozze grazie all’intercessione di Maria presso il suo Figlio. A Maria, portatrice della Buona Novella e madre del Dio della gioia, si potrebbe applicare la parola del salmista: «Al tuo passaggio stilla l’abbondanza [...], tutto canta e grida di gioia» (Sal 65, 12-14).
Dal fiat al magnificat diventa, quindi, l’itinerario esemplare di ogni cristiano che compie il suo pellegrinaggio della fede passando dall’adesione iniziale al progetto di Dio al pieno godimento della bellezza di questo progetto, attraverso una graduale «salita»: il servizio, la gratuità del quotidiano, l’andare con sollecitudine verso chi ha bisogno, l’incontro di amicizia, lo sforzo missionario nel portare Gesù in casa altrui, l’annunciare la buona novella con gioia suscitando gioia di salvezza nella gioventù che si apre alla vita.
5. «Avvolgerlo in fasce» e «cercarlo con ansia»
Nel racconto della nascita di Gesù Luca riporta il gesto delicato di Maria: «Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia» (Lc 2,7). È un gesto semplice che esprime tutto l’affetto materno, tenero e rispettoso di Maria verso questo bambino che è figlio di Dio e figlio suo. L’angelo che annuncerà la buona notizia della nascita del bambino ai pastori, darà loro questo come segno: «troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia» (Lc 2,13). Venti secoli sono passati e ancor oggi nelle nostre scene natalizie il bambino si presenta con questo segno dell’amore della madre.
A Betlemme Maria insieme a Giuseppe si trova coinvolta in questo mistero, nascosto da secoli nella mente di Dio e diventato realtà davanti ai loro occhi: «Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). Maria e Giuseppe sono i primi testimoni di questa nascita, avvenuta in condizioni umili e povere, primo passo di quell’«annientamento» (cf Fil 2,5-8), che il Figlio di Dio liberamente sceglie per la salvezza di tutta l’umanità. E questo bambino è affidato alla loro cura ed educazione. L’amore tenero della madre, espresso nel momento della nascita, accompagnerà il figlio in ogni fase della vita.
Il lungo periodo della vita nascosta a Nazaret, durante il quale Gesù si prepara alla sua missione messianica, è riassunto da Luca in poche parole. Egli racconta un solo episodio della vita di Gesù adolescente: quello della Pasqua a Gerusalemme, quando Gesù aveva dodici anni. La narrazione è incorniciata da due versetti che sottolineano l’idea della crescita di Gesù: «Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza e la grazia di Dio era sopra di lui» (Lc 2,40). «Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,52). Il viaggio alla città santa di Gesù dodicenne segna una tappa della crescita di Gesù: è l’anticipazione di un altro viaggio a Gerusalemme, che culminerà nella sua Pasqua.
L’episodio segna anche la crescita della madre. Ritrovato Gesù nel tempio dopo tre giorni, Maria gli domanda: «Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre ed io, angosciati, ti cercavamo» (Lc 2,48). Nel «perché» di Maria è il riassunto di tanti perché dell’umanità di fronte al Dio misterioso: la sua ansia esprime l’angoscia di tante persone che cercano faticosamente Dio. Alla domanda della madre, Gesù dà per risposta due altre domande: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» (Lc 2,49). Egli ha un «deve» nel disegno del Padre: con la crescita in età e in sapienza egli cresce soprattutto nella coscienza della sua missione. Anche Maria deve crescere nell’accoglienza dell’identità di Gesù - questo figlio che ella ha avvolto in fasce alla nascita non è solo figlio suo - e cresce nella consapevolezza d’essere anche lei depositaria del mistero di Dio; lo sapeva fin dal momento dell’annuncio dell’angelo, ma ora tutto appare più vivo e reale, e, allo stesso tempo, più duro e più incomprensibile. Accanto a suo Figlio anche Maria ha un «deve» riguardo alle cose del Padre. Madre e Figlio crescono insieme nel reciproco sostegno per realizzare il disegno del Padre.
6. Dal fiat al facite
Maria è diventata Madre di Dio perché ha «creduto nell’adempimento delle parole del Signore» (Lc 1,45): è l’interpretazione del fiat di Maria fatto da Elisabetta, sotto l’ispirazione dello Spirito Santo. A lei fa eco Agostino quando dice: «Maria, piena di fede, concepì Cristo prima nel cuore che nel grembo». Alla pienezza di grazia da parte di Dio corrisponde la pienezza di fede da parte di Maria.
Abbandonata a Dio completamente, impegnata nell’avanzare costantemente nella «peregrinazione della fede», Maria si è sintonizzata lentamente e profondamente con Dio. Per la sua viva fede ella arriva a una forte intesa con lui, a un acclimatamento di tutto il suo essere alla sfera divina, riesce ad avere una profonda intuizione del pensiero di Dio, a saper discernere spontaneamente la sua volontà, a sentir palpitare dentro di sé il cuore di Dio. La Lettera agli Ebrei, elogiando la fede degli antenati di Israele, dice di Mosé che visse «come se vedesse l’invisibile» (Eb 11,27). Così Paolo, avendo raggiunto un grado di unione con Cristo da poter dire «non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20), afferma senza retorica e senza vanto: «Noi abbiamo il pensiero di Cristo» (1Cor 2,16). Tutto questo può essere detto di Maria. A Cana di Galilea la troviamo così, semplice, discreta, fiduciosa accanto al suo Figlio, sicura di essere esaudita perché intimamente sintonizzata con lui.
A Cana Maria riveste un ruolo profetico. È «portavoce della volontà di Dio, indicatrice di quelle esigenze che devono essere soddisfatte, affinché la potenza salvifica del Messia possa manifestarsi». (Redemptoris Mater 12) Le due parole pronunciate da Maria a Cana: «Non hanno più vino» (Gv 2,3) e «Fate quello che vi dirà» (Gv 2,5) mettono in risalto questa dimensione. Maria legge in profondità la storia umana, ne individua i problemi ancora nascosti, raccoglie i gemiti non ancora verbalizzati, scorge la sofferenza ancora senza nome. Ella scopre il nodo essenziale del guazzabuglio e lo presenta al suo Figlio, l’unico che lo può sciogliere (È l’immagine che a Papa Francesco piace tanto: Maria che scioglie i nodi, può trovare un legame biblico qui). E intanto prepara i servi all’accoglienza dell’aiuto divino con un’indicazione sicura.
«Fate quello che egli vi dirà» è una tra le poche espressioni pronunciate da Maria nel Vangelo, l’unica indirizzata agli uomini, che, per questo, a ragione, viene considerata «il comandamento della Vergine». È anche l’ultima parola sua registrata nel Vangelo, quasi un «testamento spirituale». Dopo questo Maria non parlerà più; ha detto l’essenziale aprendo i cuori a Gesù, lui solo ha «parole di vita eterna» (Gv 6,68). In questa espressione di Maria si percepiscono gli echi della formula dell’alleanza sinaitica. A conclusione dell’alleanza il popolo promette: «Quello che il Signore ha detto, noi lo faremo» (Es 19,8; 24,3.7; Dt 5,27). Maria non solo personifica Israele obbediente all’alleanza, ma è anche colei che induce all’obbedienza, ormai non più all’alleanza, ma a Gesù, da cui prende inizio una nuova alleanza e un nuovo popolo. Ciò emerge con maggior evidenza se si legge questa parola di Maria in parallelo con le ultime parole di Gesù Risorto nel Vangelo di Matteo: «Fate discepoli tutti i popoli [...] insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28,19).
Maria conduce, dunque, a seguire Gesù, a obbedire alla sua parola e a considerarlo come riferimento assoluto. Maria aiuta a formare la comunità nuova di Gesù, anzi, aiuta Gesù a farsi degli amici nel senso che Egli stesso ha detto: «Voi siete miei amici, se farete ciò che vi comando» (Gv 15,14).
Il «Fate quello che egli vi dirà» pronunciato da Maria non è un invito teorico, astratto, ma è un’esortazione maturata dalla sua esperienza personale. La parola raggiunge il cuore e la vita dell’interlocutore solo se è scaturita dal cuore e dalla vita di chi parla. Maria, esperta nel fidarsi della parola di Dio, ora può aiutare altri a fare altrettanto. La sua fede è contagiosa: il fiat da leivissuto in profondità diventa un facite convincente rivolto ad altri.
Dal fiat al facite: solo una profonda intesa con Dio e una saggia comprensione della realtà del mondo possono dare efficacia alle nostre parole e azioni. Il facite con cui aiutiamo gli altri, in particolare i giovani, deve scaturire sempre dal nostro personale fiat di adesione a Dio.
7. Da «Ecco concepirai un figlio» a «Ecco tuo figlio»
Maria, la Theotókos, la Madre di Dio, è l’epifania di uno dei misteri, dei paradossi più alti del cristianesimo, delle sorprese d’amore più sconcertanti di Dio fatte all’umanità. L’esperienza unica e prodigiosa di generare nella carne l’Autore della vita ha riempito di stupore la stessa Maria. Il suo Magnificat è, infatti, tutto un’esclamazione di meraviglia e di gioia: «Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente». Elisabetta, coinvolta nel suo stesso stupore, la chiama «madre del mio Signore». La Chiesa riconosce in questo mistero il primo e fondamentale dogma su Maria e per secoli lo contempla nella liturgia. Un antico responsorio di Natale così esclama: «Quello che i cieli non possono contenere, si è racchiuso nelle tue viscere, fatto uomo». Né il ragionamento concettuale, né gli inni e le poesie, né i suoni e la musica, né i colori e l’arte riescono ad esprimere adeguatamente la grandezza di questo mistero.
L’essere madre per Maria non è però un’identità statica che si acquista una volta per sempre. Lungo la sua «peregrinazione della fede» ella ha fatto un cammino di crescita e di maturazione nella sua maternità vivendo tutta una gamma di sentimenti materni. C’è l’attesa silenziosa nel contemplare il lento dipanarsi del segreto dentro di sé, la gioia intima alla nascita e l’amore di tenerezza verso il figlio neonato, la soddisfazione e la fierezza nel presentarlo ai pastori e ai magi. C’è il dolore della fuga e dell’esilio per proteggere e salvare la vita di colui che è la Vita del mondo. C’è dolcezza d’intimità negli anni di Nazaret. C’è poi l’esperienza difficile e sconcertante dello smarrimento di Gesù dodicenne nel tempio. Anche nel corso della vita pubblica di Gesù l’unione della madre con il figlio continua a svilupparsi e ad approfondirsi. Con sobrietà e discrezione Maria è presente «non come una madre gelosamente ripiegata sul proprio Figlio divino, ma come donna che con la sua azione favorì la fede della comunità apostolica in Cristo e la cui funzione materna si dilatò, assumendo sul Calvario dimensioni universali» (Marialis cultus 37).
Come la «peregrinazione della fede» culmina per Maria nell’evento pasquale del Figlio, così anche il suo cammino di maternità. Giovanni Paolo II parla di una «nuova maternità di Maria», che è «frutto del “nuovo amore”, che maturò in lei definitivamente ai piedi della croce, mediante la sua partecipazione all’amore redentivo del Figlio» (Redemptoris Mater 23). Già Agostino ne parlava in modo analogo riflettendo su Maria: Madre non solo del Capo, ma anche delle membra del corpo mistico di Gesù generato dalla sua morte redentiva. Innalzato sulla croce, il Figlio di Maria si rivela «il primogenito tra molti fratelli» (Rm 8,29); intorno a lui si radunano in unità tutti «i figli dispersi di Dio» (Gv 11,52), e Maria si scopre madre di una moltitudine di figli. È Gesù che glieli affida. A Nazaret Maria aveva iniziato il suo cammino di maternità accettando il progetto misterioso di Dio: «Ecco concepirai un Figlio»; ora è questo Figlio che le propone una nuova maternità universale. A Cana, Maria si era posta in mezzo facendo la mediatrice tra suo Figlio e gli uomini; ora è suo Figlio che fa da mediatore tra lei e gli uomini dicendole: «Donna, ecco il tuo figlio!». Il racconto di Giovanni termina con «E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa» (Gv 19,27). Da quel momento, mentre l’umanità redenta accoglie la Madre, Maria accoglie ogni figlio affidatole personalmente dal suo Figlio e lo introduce nel suo cuore materno, per sempre.
Subito dopo l’ascensione di Gesù Ella esercita la sua maternità realizzando la volontà di suo Figlio. Luca ci offre il bellissimo brano all’inizio degli Atti: dopo l’ascensione di Gesù gli undici apostoli tornarono a Gerusalemme in attesa dello Spirito promesso ed «erano assidui e concordi nella preghiera, insieme con alcune donne e con Maria, la madre di Gesù e con i fratelli di lui» (At 1,14). Luca intende mettere in luce la continuità tra il Gesù storico, nato per opera dello Spirito con la collaborazione di Maria, e la nascita della Chiesa per opera del medesimo Spirito e con la medesima collaborazione di Maria. Colei, che ha concepito il Figlio di Dio per opera dello Spirito Santo, ora “concepisce” il corpo mistico di suo Figlio nell’accoglienza dello Spirito. La Madre, che ha avviato Gesù nel suo cammino terreno, ora accompagna la Chiesa nel suo pellegrinare nel mondo e nella storia.
Conclusione
Associare il “pellegrinare” di Maria alla nostra esperienza salesiana è cosa spontanea. Nella preparazione di questa proposta di riflessione emergeva di continuo nella mia mente evocazioni della vita di Don Bosco, di Madre Mazzarello e di tanti fratelli e sorelle della Famiglia Salesiana. La sintonia tra lo spirito di Maria è lo spirito salesiano è forte e non può essere diversamente, dato che Maria è la Madre e la Maestra della Famiglia Salesiana. Non tento qui di illustrare il confronto per timore di rovinarne la bellezza armonica, e spero che le parole dette non invada troppo quello spazio bianco, spazio carico di potenzialità di stupore, di scoperte, di slancio e di rinnovata passione.
Introduzione alle Giornate di Spiritualità della Famiglia Salesiana 2016
Don Eusebio Muñoz
Benvenuti alle Giornate di Spiritualità della Famiglia Salesiana 2016!
Da anni i rappresentanti dei gruppi della Famiglia Salesiana ci incontriamo in questa particolare occasione offerta dalle Giornate. È un incontro che è diventato sempre più importante nel corso del tempo. Questi momenti si possono considerare come tra i più significativi tra quelli che realizza il nostro gruppo.
Questi giorni possono aiutarci a prendere coscienza della nostra realtà. Possiamo capire meglio chi siamo e ampliare l´orizzonte della risposta che diamo a Dio secondo la vocazione salesiana a cui siamo chiamati. Apparteniamo ad una Famiglia Carismatica che ha realizzato un interessante cammino. Il peso specifico della nostra famiglia nella Chiesa, e in molti contesti sociali, dimostra la serietà di ciò che abbiamo fatto. Siamo consapevoli del ricco patrimonio che abbiamo ricevuto. Facciamo sì che le Giornate diventino un canto di ringraziamento a Dio e a tante persone che ci hanno regalato una così immeritata eredità.
L´incontro con persone provenienti da luoghi diversi, appartenenti a vari gruppi della Famiglia Salesiana, ci aiuta a percepire meglio la nostra universalità e, soprattutto, il compito dello Spirito che configura la particolare interiorità che ci caratterizza. La debolezza che ci può accompagnare nel lavoro quotidiano si vive in modo diverso quando ci rendiamo conto che condividiamo le scelte più importanti della nostra vita con molte persone. Don Bosco continua ad illuminare la vita di molti e sono molti di più quelli che lo stanno aspettando. Viviamo questi giorni convinti che non siamo soli a fare il bene. Per nostra fortuna siamo in buona compagnia.
Le Giornate possono anche essere l´occasione per rafforzare il nostro impegno nella formazione. L´organizzazione di questi giorni ci offre un magnifico modello di formazione permanente, che ci permetterà di rispondere, con convinzione ed entusiasmo, alle sfide di ogni giorno. Noi prenderemo in considerazione quattro realtà che assicurano una buona esperienza formativa. Avremo l´opportunità di approfondire alcuni elementi chiave della nostra vocazione, scopriremo che ci sono molti che testimoniano con la loro vita la verità di questa scelta vocazionale, cercheremo di ricreare un ambiente familiare in cui ci si senta bene e, soprattutto, pregheremo insieme. Così certamente torneremo nei nostri ambienti più convinti della fortuna di esserci incontrati con Don Bosco e della possibilità di far giungere la proposta salesiana a tante persone che ci stanno aspettando.
Nell´esperienza che ci viene offerta c’è un chiaro impegno per la qualità. La qualità di ciò che offriamo e, soprattutto, la qualità della nostra testimonianza danno significato alla missione che ci è stata affidata e la rende efficace. In queste Giornate possiamo trovare nuovi motivi per dare sempre più qualità all´importante lavoro che stiamo facendo.
Il tema centrale delle Giornate è fornito dal Rettor Maggiore nella Strenna di ogni anno alla Famiglia Salesiana. Durante queste Giornate cercheremo di approfondire il contenuto della Strenna di quest´anno. Ci viene chiesto di capire che siamo pellegrini e ci sentiamo affascinati dalla proposta che Dio ci fa. Sappiamo che lo Spirito ci accompagna in questa avventura alla quale ci ha invitato a partecipare. Con i giovani realizziamo questo cammino spirituale e ci sentiamo sicuri e fortunati. Sappiamo che Gesù Cristo è con noi per rafforzare la nostra interiorità credente e per dare efficacia al lavoro missionario che facciamo.
Concludo il mio saluto ricordando a tutti uno dei grandi tesori della nostra Famiglia. Maria Ausiliatrice è uno dei migliori regali che ci ha fatto il nostro Fondatore San Giovanni Bosco. Lei è la Madre, la Maestra, l’Ausiliatrice. E’ sempre al nostro fianco. Se la facciamo diventare la confidente della nostra interiorità e la compagna del lavoro missionario che facciamo, ci renderemo conto della verità di ciò che, tante volte, ripeteva don Bosco: la Vergine continua a fare miracoli. Metto nelle mani della Vergine l’esperienza di queste Giornate e prego per ciascuno di voi, per le vostre famiglie e per i gruppi in cui state seguendo Gesù Cristo e Don Bosco.
Il cammino si esprime nell’esperienza comunitaria di fede
Don Rossano Sala
«Ai cristiani di tutte le comunità del mondo
desidero chiedere specialmente una testimonianza
di comunione fraterna che diventi attraente e luminosa.
Che tutti possano ammirare come vi prendete cura gli uni degli altri,
come vi incoraggiate mutuamente e come vi accompagnate»
(Papa Francesco, Evangelii Gaudium, 99)
Un saluto a tutti e a ciascuno di voi.
Vogliamo riprendere questa mattina i grandi temi della Strenna, cercando proprio di essergli materialmente fedeli. Distinguo così in tre momenti la mia esposizione: partendo dall’essere “Con Gesù”, passeremo al “Percorrere insieme”, ed infine parleremo dell’“Avventura dello Spirito”.
Avendo come fuoco comune l’esperienza comunitaria della fede.
Gesù è l’insostituibile, non è l’assente che noi dobbiamo rimpiazzare: egli ci assicura di essere colui che è con noi fino alla fine dei tempi. Propriamente viene per restare per sempre con noi, portandoci l’amore che è Dio.
In principio, nel Dio unitrino, c’è pienezza di comunione, legame amorevole, concordia originaria e beatificante. Ora il motivo e il compimento della creazione non può che essere un vero e proprio “allargamento” di questa comunione, di questo legame, di questa relazione. Non esiste né può esistere una creazione ed un’umanità che esista in alternativa a questo progetto, né logicamente una realizzazione di sé che non vada in questa precisa direzione! In questo senso Gesù è sposo, non una presenza facoltativa; è eternamente insostituibile, non accessorio; è il compimento desiderato, non un estraneo da evitare.
La nostra stessa identità è intrinsecamente relazionale, e non può esistere alcun compimento al di là della comunione. Gesù è figlio, fratello e sposo dell’umanità: tre termini che, in quanto definiscono Gesù vero Dio e vero uomo, definiscono sia Dio che gli uomini nella loro più intima identità.
Il segreto profondo della vita di Gesù sta nel suo rapporto con il Padre, che egli chiama volentieri Abbà. Il punto di osservazione privilegiato, la chiave di volta decisiva, il centro prospettico strategico dei Vangeli è la relazione tra Gesù e il Padre. Spiega J. Ratzinger, introducendo il primo volume del suo Gesù di Nazareth, che
“Senza il radicamento in Dio la persona di Gesù rimane fuggevole, irreale e inspiegabile” (R. Schnackenburg). Questo è anche il punto di appoggio su cui si basa questo mio libro: considera Gesù a partire dalla sua comunione con il Padre. Questo è il vero centro della sua personalità. Senza questa comunione non si può capire niente e partendo da essa Egli si fa presente a noi anche oggi[1].
Il prologo di Giovanni, che attesta Gesù come Logos del Padre fatto carne, è la guida capace di farci comprendere come Gesù si ponga come “unigenito” prima che “primogenito”. La sua singolarità storica affonda sostanzialmente in questa legame profondo e unico: «L’insegnamento di Gesù non proviene da un apprendimento umano, qualunque possa essere. Viene dall’immediato contatto con il Padre, dal dialogo “faccia a faccia”, dalla visione di Colui che è “nel seno del Padre”»[2].
La relazione incomparabile di Gesù con il suo Abbà illumina e spiega la novità inaudita del suo insegnamento e il coinvolgimento dei discepoli, che propriamente saranno chiamati ad entrare anch’essi, per grazia, in questa filialità. Non sarebbe possibile, eliminando questo legame o mettendolo in disparte, cogliere l’originalità di Gesù, che si può percepire in ogni pagina di Vangelo.
Se leggiamo con attenzione la lunga e articolata genealogia di Gesù che l’evangelista Matteo pone all’inizio del suo Vangelo ci accorgiamo come la vita di Dio vuole essere intrecciata e impastata con la vita degli uomini. Non è solo di Dio che si tratta, ma di un discendente della stirpe di Davide, con tutto quello che comporta! La lettera agli Ebrei, in modo sintetico, parla di Gesù come di colui che è in tutto simile a noi, escluso il peccato[3]
Egli ha condiviso con noi la nascita in una famiglia umana, la residenza per molti anni in un piccolo villaggio di periferia; è cresciuto in età, sapienza e grazia obbedendo ai suoi genitori; si è guadagnato da vivere come tutti i figli degli uomini. La vita nascosta di Gesù a Nazareth non è un appendice alla sua missione, ma la sua necessaria e previa preparazione, in cui egli è entrato nel ritmo della nostra umanità con semplicità e coraggio.
È interessante notare che il primo titolo regale che Gesù riceve, all’inizio della sua missione, è il riconoscimento delle sue umili origini, che sembrano contrastare la sua pretesa e la sua parola:
Venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi[4].
Egli vive e lavora in una famiglia artigiana. Ancora oggi l’artigianato è apprezzato dovunque nel mondo perché, a differenza del lavoro in serie, realizza sempre opere d’arte, uniche e irripetibili nel suo genere; l’artigiano lavora con le sue mani, con la sua creatività, con le sue capacità singolari. Questo è il valore dell’artigianato. L’artigiano del legno sa che ogni pezzo di legno è vivo, ha la sua consistenza propria, ha in un certo senso un’anima; ha dentro di sé una speciale vocazione a divenire qualcosa per cui è stato creato e che contiene in sé, che la capacità introspettiva dell’artigiano deve intuire, comprendere e sviluppare.
Per tanto tempo Gesù si è occupato di questo lavoro artigianale, prima di cominciare ad avere a che fare con gli uomini nella sua tutto sommato brevissima missione apostolica: un tirocinio lungo e fedele che poi ha dato i suoi frutti nel suo breve lavoro di evangelizzazione esplicita. La proporzione è interessante 10:1!
La vita di fede, come la relazione educativa, è sempre una plasmazione artistica in nessun modo ripetitiva e omologante. È un lavoro di artigianato finissimo e Gesù mostra con ognuna delle persone che incontra una sensibilità unica nel riconoscere la singolarità di ognuno e nel proporre ad ognuno il cammino che egli in quel momento può fare.
Mai si vede nei Vangeli Gesù che tratta in forma omologante quelli che incontra; sempre invece ha un approccio singolare. Pietro non è trattato allo stesso modo di Giovanni, Bartolomeo non è chiamato come la Samaritana, Zaccheo non è guardato e chiamato allo stesso modo di Levi, così come Tommaso non può essere preso come Nicodemo. La donna siro-fenicia che chiede grazia per sua figlia non è omologabile a Simone il fariseo che accoglie Gesù con freddezza nella sua casa. Il giovane ricco, al quale viene chiesto di lasciare tutto e di seguire Gesù, è diverso dal cieco Bartimeo che vorrebbe seguirlo e viene rimandato a casa ad annunciare la buona novella ai suoi! Ogni anima, ogni ferita, ogni dolore ha in Gesù un approccio specifico, artigianale, originale.
Per ognuno di loro e per ciascuno di noi Gesù ha una parola unica, irripetibile, singolarissima quanto la nostra anima, la nostra situazione interiore, la nostra condizione esteriore. Il suo sentire è finissimo e la sua intelligenza è divina. Il suo sguardo è più che umano, perché partecipa dello sguardo di Dio: «L’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore»[5].
Cor ad cor loquitur, diceva volentieri il beato card. J.H. Newman. Gesù è colui che vede il cuore, colui che conosce l’intimo di ognuno, colui che sa di che cosa abbiamo bisogno prima ancora che glielo chiediamo. Come un artista che scorge il legame unico tra un pezzo di marmo e un’opera d’arte, così Gesù è stato in grado di intravedere in ognuna delle persone che ha incontrato la sua assoluta e propria dignità da riconoscere, sanare e promuovere fino alla propria perfezione, che non è mai la ripetizione di un’altra.
Mi piace adesso pensare a don Bosco, partendo da questi tre punti prospettici della vita di Gesù.
Innanzitutto la sua interiorità. Ne abbiamo parlato abbondantemente nella Strenna del 2014, quella che riguardava la spiritualità, dopo la storia (2012) e la pedagogia (2013). Mi piace entrare, attraverso la visione di una mistica dei nostri tempi, dentro la sua preghiera e il suo rapporto con Dio, ancora troppo poco conosciuto e valorizzato, che è invece il suo magnifico segreto e l’anima del suo apostolato[6]:
Vedo la sua preghiera essenzialmente giovannea, piena di amore, di meraviglia, di affetto per Dio.
Le sue conoscenze sulla preghiera non sono grandi, non sa immaginarsi pienamente il Dio trinitario. Egli vive di qualche immagine del Vangelo e nel Cristo contempla il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo; li ama, porta tutto a loro, sopporta tutto per amore, soprattutto per stupore. Il suo amore per Dio è appassionato; non gli è facile introdurre le persone nel mondo della sua preghiera. Gli manca la distanza: nei confronti di Dio, della fede degli altri e della propria fede. Egli vive in una sorta di immediatezza, personalmente molto bella, di una purezza giovannea; egli non desidera altro che poter amare e contemplare Dio e prova una gioia infantile di potere, lui e gli altri, amare così.
In tutte le opere che compie egli vive della parola del Signore: “quello che avete fatto al più piccolo dei miei fratelli l’avete fatto a me”, e nella spinta immediata a portare tutte le anime al Signore e cercarle nel Suo Nome. Se i suoi confratelli pregano troppo poco, se hanno più gioia nell’azione, nelle imprese, nelle opere, nelle esteriorità, piuttosto che in Dio e nella meraviglia per Lui, allora si rattrista e non sa bene cosa fare. Egli non sa come comunicar loro la sua passione per Dio. Certamente egli ha lasciato loro molto, ma dopo la sua morte essi dovevano ritrovare in lui ciò che egli non aveva potuto comunicare loro[7].
Poi la sua vita prima della sua missione apostolica tra i giovani: semplice, laboriosa, onesta, impegnata. È passato personalmente per tutte le professioni che poi ha insegnato ai suoi ragazzi: contadino, cameriere, sarto, muratore, falegname e quant’altro! Una vita nascosta, artigiana, umile, che lo ha iniziato alla condivisione della vita dei suoi ragazzi dall’interno, dall’esperienza di una povertà condivisa con loro. Per questo si è poi potuto commuovere per ciascuno di loro! Anche lui è stato davvero un artigiano in tutto e per tutto, come Gesù!
Infine la sua capacità di introspezione: a mio parere è possibile definire don Bosco uno “scopritore di talenti”, un “artigiano dell’educazione”, uno che ha saputo riconoscere in ognuno dei suoi ragazzi ciò che gli era proprio, ciò che Dio gli aveva donato come carisma unico. Ha imparato bene la lezione di Gesù. E quella di san Francesco di Sales, il quale affermava che “ogni anima è una Diocesi”! Lo attesta proprio bene il beato Filippo Rinaldi, suo terzo successore, in una conferenza familiare alle Figlie di Maria Ausiliatrice:
Di cento e più che qui voi siete, non una ha un carattere uguale all’altra; eppure dovete vivere insieme e santificarvi. Anche fra i santi quanta differenza! Tra un don Rua, un don Sala, un don Durando, un don Cerruti, un don Bonetti quali diverse energie! Don Sala tutto ponti e costruzioni, don Cerruti tutto libri e numeri, don Bonetti tutto vita e ardore, e don Durando! Eppure don Bosco ne fece grand’uomini, che, se fossero stati al mondo, si sarebbero perduti fra il numero ordinario degli uomini. Come mai si resero tanto celebri nella nostra Congregazione e fuori? Perché don Bosco seppe prenderli come erano e ne cavò il maggior bene che potevano dare[8].
Al centro della nostra Strenna per il 2016 mi pare che ci sia un’esigenza sinodale: camminare insieme, non andare avanti per conto proprio, non voler pensare di fare da soli. Si sta con la comunità, con il proprio Istituto, con la Chiesa universale e particolare. Si cammina come Famiglia Salesiana.
Possiamo e dobbiamo chiamarla profezia e mistica di fraternità.
Profezia perché nel mondo non si vede fraternità. È nota e apprezzata la frequenza con cui papa Francesco esorta le comunità cristiane ad essere il primo luogo in cui si deve fare esperienza della fraternità, del perdono e della stima reciproca. Egli ci chiede di non lasciarci rubare la comunità né l’ideale dell’amore fraterno[9] e conviene a questo punto risentire almeno un suo passaggio esplicito sull’argomento:
Ai cristiani di tutte le comunità del mondo desidero chiedere specialmente una testimonianza di comunione fraterna che diventi attraente e luminosa. Che tutti possano ammirare come vi prendete cura gli uni degli altri, come vi incoraggiate mutuamente e come vi accompagnate […] Perciò mi fa tanto male riscontrare come in alcune comunità cristiane, e persino tra persone consacrate, si dia spazio a diverse forme di odio, divisione, calunnia, diffamazione, vendetta, gelosia, desiderio di imporre le proprie idee a qualsiasi costo, fino a persecuzioni che sembrano una implacabile caccia alle streghe. Chi vogliamo evangelizzare con questi comportamenti?[10].
Mistica di fraternità perché questa esigenza nasce dal cuore del Dio unitrino, il cui amore per noi non è semplicemente unilaterale (cioè un amore di agape, cioè un dono che viene dall’alto, completamente gratuito, totalmente immeritato, inimmaginabile e sconvolgente), ma è anche un amore che desidera reciprocità (un amore di philia, che chiede la corrispondenza amorosa, che vuole farci entrare nel ritmo della dedizione, che intende creare un legame fedele con ciascuno di noi, che vuole renderci autentici partner dell’alleanza capaci non solo di ricevere, ma anche di donare). È anche amore affettivo e passionale, che ci cerca, che desidera entrare con partecipazione nella nostra vita, anche geloso nel senso di colui che davvero ha perso la testa per ciascuno di noi: è un amore di eros.
Vorrei allora in questa seconda parte della mia conversazione parlare un poco di noi tutti che siamo chiamati a camminare insieme: giovani e adulti in cammino nella Chiesa e con la Chiesa oggi.
Cominciamo dai giovani. Quelli di cui tanti parlano male, anche all’interno della Chiesa. Quelli che tanti considerano “nichilisti” ed anche una “generazione incredula”. Molte volte il mondo degli adulti dipinge i giovani come narcisisti, come una generazione che pensa solo a se stessa. Penso che non sia esattamente così e penso che la tesi troppe volte cavalcata anche dal mondo ecclesiale, quella del “nichilismo dei giovani”, sia ingiusta e umiliante per noi e soprattutto per i giovani. Soprattutto questa tesi è cavalcata da coloro che non stanno con i giovani, non condividono nulla con loro e che in fondo non vogliono sentirsi responsabili delle nuove generazioni. Penso che don Bosco non l’avrebbe mai condivisa!
In verità abbiamo a che fare, prima di tutto, con un mondo giovanile che è cresciuto, dopo le varie crisi del nostro tempo, senza padri. Per “padre” qui intendo evidentemente non solo la figura fisica di un padre, ma quell’insieme di limiti, di autorità, di pareti educative e regole condivise che una generazione di solito offre alla generazione successiva, aiutandola nel faticoso cammino di diventare adulta.
Un’immagine suggestiva per noi è quella di Telemaco che segna l’avvento, in una società senza padri, di una dialettica della nostalgia, dell’attesa e dell’invocazione. Siamo sempre più in presenza di giovani che desiderano e si impegnano per il ritorno della buona autorità, dell’autorità paterna giusta e logicamente attraente, segnata da una volontà di ritrovare legami buoni che rifondino la propria condizione filiale. Come suggestivamente ci indica lo psicanalista Massimo Recalcati, Telemaco
guarda il mare, scruta l’orizzonte. Aspetta che la nave di suo padre – che non ha mai conosciuto – ritorni per riportare la legge nella sua isola dominata dai proci che gli hanno occupato la casa e che godono impunemente e senza ritegno della sua proprietà. Telemaco si emancipa dalla violenza parricida di Edipo; egli cerca il padre non come un rivale con il quale battersi a morte, ma come un augurio, una speranza, come la possibilità di riportare la Legge della parola sulla propria terra. Se Edipo incarna la tragedia della trasgressione della Legge, Telemaco incarna quella dell’invocazione della Legge; egli prega affinché il padre ritorni dal mare ponendo in questo ritorno la speranza che vi sia ancora giustizia giusta per Itaca[11].
Penso che questa sia la condizione di tanti giovani, che in fondo si augurano di trovare adulti significativi con cui entrare in una positiva alleanza. Li attendono con nostalgia e sanno riconoscerli non appena qualcuno gli si avvicina con il giusto stile e la retta intenzione. È cosa buona e giusta pensare ai giovani in questo modo.
Alla domanda di Gesù ai discepoli – «Che cosa cercate?»[12] – i giovani oggi rispondono con chiarezza: “cerchiamo in voi adulti significativi”, “cerchiamo in voi maestri di spiritualità”, “cerchiamo in voi santità visibile e vivibile”!
Narcisismo degli adulti? Un fatto piuttosto accertato!
Il vero problema invece non mi pare che siano i giovani, ma gli adulti e la società educante nel suo insieme. Infatti nella riflessione culturale, educativa e pastorale oggi si sta facendo largo una concentrazione di analisi intorno a ciò che potremmo a questo chiamare “la questione degli adulti”: molti testi di indubbio interesse hanno come tema proprio la mancanza di figure adulte che possano essere significative per i ragazzi, gli adolescenti e i giovani oggi[13]. Essi convergono unanimi sulla denuncia di una persistente narcisizzazione della condizione adulta. Il neologismo “adultescenza” – una parola che segnala la presenza di adulti secondo l’età anagrafica, ma adolescenti secondo la maturità umana – è sintomatica della nostra epoca.
Molto conosciuto da tutti è il drammatico dialogo, che ha fatto il giro del mondo, tra il comandante Francesco Schettino e il capo della Capitaneria di porto di Livorno Gregorio de Falco nella tragica notte dell’affondamento della nave Costa Concordia nelle vicinanze dell’isola del Giglio. Lì si vede come la questione si gioca esattamente nel mondo degli adulti: più che un dialogo tra un adulto e un altro adulto appare un dialogo paradigmatico tra un adulto e un “adultescente”, che viene spronato ad assumersi le proprie responsabilità.
Siamo in presenza di un grande e tragico rovesciamento, che segna una trasformazione delle età della vita. Mentre un tempo la figura dell’adulto aveva un potere d’attrazione per ogni adolescente e giovane, che si trovava a desiderare di diventare (finalmente) adulto, oggi assistiamo ad adulti che tentato in tutti i modi di (ri)diventare giovani e di anziani che tentano in ogni modo di vivere la seconda, la terza e la quarta giovinezza. La biologia, purtroppo, è invece spietata: mese più mese meno, intorno ai venticinque anni incomincia a livello cellulare il processo d’invecchiamento!
In sintesi possiamo dire che lo sfondo culturale del nostro tempo ci presenta un mondo di adulti che ama la giovinezza, ma che invidia e si mette in competizione con i giovani; adulti che desiderano essere eternamente giovani, e che quindi entrano in concorrenza con i giovani; adulti troppo occupati per la propria sopravvivenza ad oltranza, quindi incapaci di appassionarsi e per perdere tempo nell’educazione delle giovani generazioni.
La Chiesa è il popolo di Dio. Tutti noi siamo Chiesa. Si cammina nella Chiesa e come Chiesa. Invitiamo i giovani ad essere parte viva della Chiesa, ad esserne partecipi e protagonisti.
Ma troppe volte i giovani stessi si sentono poco attratti dall’istituzione ecclesiale nel suo insieme. Non solo la Chiesa si fa un’idea dei giovani, ma anche i giovani hanno un’idea del cristianesimo, della Chiesa cattolica, dei cristiani e della questione religiosa. Per essere sintetici pongo alla vostra attenzione cinque dimensioni valutative dei giovani sulla Chiesa cattolica nel suo insieme, che dovrebbero darci da pensare[14].
Innanzitutto i giovani hanno un’idea di Chiesa che vive una dinamica di potere poco trasparente, che vuole essere non solo incisiva politicamente, ma che in fondo vorrebbe sostituirsi alla coscienza personale e che sa ben occultare e mimetizzare i propri mali, soprattutto quelli che riguardano la mancata “moralità” dei suoi ministri.
Un secondo aspetto degno di nota è la fastosità della Chiesa. In un tempo di crisi troppe volte la Chiesa è presentata come un luogo di benessere e di ricchezza, oltremodo scandalosa in questo tempo di crisi. Certamente lo stile di papa Francesco è tendenzialmente una ventata di ossigeno su questo punto dolente che caratterizza purtroppo alcuni aspetti di vita della Chiesa e dei suoi ministri.
Un terzo aspetto di valutazione è quello della chiusura conservativa: una certa rigidità, chiusura, arretratezza. Vedono la Chiesa come dentro un’armatura fredda e pesante che la rende impenetrabile e bloccata.
Unaspetto positivo è invece il riconoscimento che la Chiesa rimane l’agenzia fondamentale che custodisce i valori fondanti dell’esistenza umana. È un aspetto sorprendente, ma ben attestato nell’immaginario giovanile, che riconosce alla Chiesa un patrimonio culturale e umano senza paragoni.
Un quinto e ultimo aspetto con cui la Chiesa è compresa dai giovani è l’immagine di una montagna di divieti, in cui la Chiesa è vista come un’agenzia produttrice di norme che regolano autoritariamente la vita dei suoi fedeli. I giovani chiedono conto della legittimità e dell’inattualità di alcune regole imposte alla vita dei fedeli.
Mi pare che questi cinque aspetti valutativi siano per noi importanti per cogliere il pensiero giovanile sulla Chiesa e anche su di noi, che operiamo al suo interno e nel suo nome. Diventano, mi pare, anche aspetti di verifica concreta e di progettualità positiva anche per il nostro modo di fare pastorale giovanile oggi.
Mi chiedo, al termine di questo secondo passaggio, che cosa dobbiamo intendere per “nuova evangelizzazione”?
Da una parte vi sono coloro che fanno leva maggiormente sui destinatari dell’evangelizzazione: la cultura odierna, l’uomo d’oggi e per noi i giovani sono radicalmente diversi e quindi va ripensato l’impianto generale della trasmissione della fede. In questo senso bisognerebbe impegnarsi maggiormente per comprendere “come parlare di Dio ai giovani”.
In altra direzione vi sono coloro che puntano sui soggetti dell’evangelizzazione: la Chiesa, prima di pensarsi adeguata al Vangelo, deve prima di tutto riconoscere di esserne la destinataria privilegiata. In fondo si tratta di prendere coscienza che non vi un momento storico in cui la Chiesa possa dire di essere “a posto con Dio”, ma sempre è chiamata ad una continua conversione al Dio vivente, che è sempre maggiore e sempre avanti! In questo senso bisognerebbe impegnarsi maggiormente per comprendere “perché parlare Dio ai giovani”.
Non si tratta evidentemente di contrapporre queste due “accentuazioni” – una più culturale e l’altra più ecclesiale, una più ad extra ed una più ad intra –, ma di metterle bene in ordine: la ri-evangelizzazione di noi adulti, educatori, consacrati e ministri della Chiesa è la condizione di possibilità per l’evangelizzazione dei giovani! Una Chiesa e degli inviati veramente evangelizzati saranno credibili ed efficaci, perché parleranno con la loro vita, prima che con le loro parole! Insomma: non si può essere apostoli credibili se non si è prima apostoli autentici.
L’opera dell’evangelizzazione non può che essere una rinnovata conformazione a Cristo Signore, il quale rimane sempre «il primo e il più grande evangelizzatore»[15] e quindi il modello a cui ispirarsi sempre di nuovo, proprio perché il Signore Gesù è l’eterna novità: «Se poi vi viene in mente questo pensiero: ma allora il Signore che cosa è venuto a portarci di nuovo?, sappiate che ha portato ogni novità portando se stesso»[16].
Mettiamoci in cammino per i giovani e soprattutto con i giovani. L’idea che lo Spirito ci conduca vero qualcosa di avventuroso mi pare indovinata, perché lo Spirito di Gesù è uno Spiritus Creator, è uno spirito innovativo, che rinnova continuamente ogni cosa. Egli certamente non dice nulla di nuovo, perché ci porta Gesù e ci porta a Gesù, ma lo fa in un modo sempre nuovo e creativo, avvincente e convincente. Certamente avventuroso.
La stessa santità nella Chiesa, che è evidentemente opera dello Spirito Santo, è sempre qualcosa di inedito e di mai visto. Pensateci con attenzione: il santo non dice nient’altro rispetto a quello che è stato già detto nel Vangelo (cioè vi è in lui una perfetta ortodossia ecclesiale), ma lo dice in una maniera del tutto nuova, mai vista e perfettamente adeguata all’epoca in cui vive e opera (vi è sempre una prassi innovativa e inedita). Per questo di solito un’epoca fatica, almeno all’inizio, a comprendere la profezia di un santo o di una santa.
Oggi si parla sempre di più di progetti educativo-pastorali e di comunità educativo-pastorale. L’idea è chiara: è finito il tempo dei battitori liberi, che ha fatto il suo bene ma ha fatto anche il suo tempo! Oggi sempre più la comunione è la via regale e la strategia vincente per l’educazione e l’evangelizzazione dei giovani.
L’avventura è comune e condivisa. Siamo non solo chiamati personalmente, ma convocati tutti insieme. Deve diventare davvero convinzione – un pensiero che in un certo modo ci convince, cioè che vince sulle nostre resistenze – per tutti e per ciascuno che la nostra azione educativo-pastorale è sempre un’esperienza comunitaria e che il soggetto unico e articolato della missione è la Comunità educativo-pastorale, che viene così definita nel recente Quadro di Riferimento della Pastorale Giovanile Salesiana:
comunità: perché coinvolge in un clima di famiglia giovani e adulti, genitori ed educatori, dove l’elemento fondamentale di unità non è il lavoro o l’efficacia, ma un insieme di valori vitali (educativi, spirituali, salesiani...) che configurano un’identità condivisa e cordialmente voluta;
educativa: perché colloca nel centro dei suoi progetti, relazioni e organizzazioni, la preoccupazione per la promozione integrale dei giovani, cioè la maturazione delle loro potenzialità in tutti gli aspetti: fisico, psicologico, culturale, professionale, sociale, trascendente;
pastorale: perché si apre all’evangelizzazione, cammina con i giovani incontro a Cristo e realizza un’esperienza di Chiesa, dove con i giovani si sperimentino i valori della comunione umana e cristiana con Dio e con gli altri[17].
Forse il Rettor Maggiore che meglio di tutti ha messo a tema questa affermazione è stato J.E. Vecchi: per lui, la ragione determinante che ci ha portato in questa direzione della corresponsabilità è precisamente «la nuova stagione che vive la Chiesa. Essa rivela una acuta consapevolezza di essere comunione con Dio e tra gli uomini e prende la comunione come via principale per realizzare la salvezza dell’uomo»[18]. L’affermazione è capitale, perché riordina le priorità di quello che facciamo in ordine al come lo facciamo, mettendo in primo piano che il modo in cui si cammina dice qualcosa di decisivo su dove si vuole arrivare: la comunione, la condivisione e la corresponsabilità non sono da considerarsi dei mezzi esterni ed estrinseci alla nostra missione, ma il cuore stesso della missione, perché ne sono una realizzazione anticipata.
Gli stessi stati di vita del cristiano non sono da considerarsi completi in se stessi, ma fanno emergere la loro ricchezza propria esattamente nell’ottica della comunione:
Non è stato un cammino breve. Il travaglio preconciliare, la riflessione del Concilio, lo sforzo di reimpostare la vita ecclesiale e la pastorale nel post-Concilio, la sintesi dottrinale e la pratica maturata in questi anni che ci portano verso il duemila, i Sinodi sui laici, sui ministri ordinati e sulla vita consacrata e le conseguenti Esortazioni Apostoliche hanno chiarito come le diverse vocazioni si completano, si arricchiscono, si coordinano; anzi, non riescono ad avere una originale identità se non nel vicendevole riferimento all’interno della comunione ecclesiale[19].
Non solo è corretta l’affermazione che non è stato un cammino breve, ma bisogna aggiungere che siamo ancora in cammino, perché necessitiamo ancora di approfondire e rendere concrete queste affermazioni come Chiesa e come Famiglia Salesiana. Pensate solo alle vie che il recente Sinodo sulla famiglia ci ha indicato.
Qui bisogna far maturare una vera e propria spiritualità di comunione e di relazione. Riconoscere innanzitutto che don Bosco fu un grande uomo di relazione e di coinvolgimento, in special modo con i giovani. Il primo dono che egli fa ai suoi è quello di una relazione accogliente, tanto che la qualità dell’incontro educativo è ciò che gli sta più a cuore. E nel prediligere le virtù relazionali come cardini del dialogo educativo e della collaborazione operativa egli è un autentico ed eccellente discepolo di san Francesco di Sales, uomo mite e umile di cuore.
Questo deve tradursi in atteggiamenti concreti, quotidiani, feriali, semplici ed efficaci, che stanno a fondamento di una Comunità educativo-pastorale: una attenta presa di coscienza dei nostri comportamenti relazionali e comunicativi, la pazienza dell’ascolto e la disponibilità a fare spazio all’altro, la scelta di dare fiducia e speranza, la disponibilità ad entrare nella logica dello scambio dei doni, la prontezza a fare il primo passo e ad accogliere sempre con bontà, l’assunzione della quotidiana disciplina che valorizza l’essere insieme, la prontezza alla riconciliazione.
Mi immagino e penso alla Chiesa che cammina non semplicemente ad un gruppo di amici che decidono ogni tanto di fare insieme il rafting tra le correnti impetuose del fiume della vita. Sembrerebbe un’immagine indovinata perché avventurosa e simpatica, ma è sostanzialmente mondana, troppo in discesa e troppo divertente.
La natura, mi pare, ci orienta meglio: mi piace pensare alla Chiesa come ad un gruppo di salmoni che si risolve con decisione irremovibile di risalire altrettanto avventurosamente e con fatica le correnti del fiume, andando controcorrente rispetto a quelli che invece scendono divertendosi. Facendo dei salti impetuosi tra le cascate, passando con prudenza e astuzia tra i pericoli degli orsi affamati, cercando di non rimanere incastrati tra rocce appuntite i salmoni risalgono con grande fatica e sacrificio la corrente. E, una volta arrivati alla meta, muoiono deponendo le uova per dare origine a nuove vite, nuove avventure, nuove possibilità.
L’avventura dello Spirito per Gesù è giungere alla fecondità della croce, la sua avventura tra noi è propriamente quella del chicco di frumento: «In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna»[20]. Non c’è fecondità cristiana che non arrivi al Calvario, monte del dono di sé che rigenera il mondo, e che san Francesco di Sales definisce “monte degli innamorati”, perché solo chi ama davvero, secondo Dio, arriva fino lì.
La prospettiva della donazione offre profondità, sostanza e contenuto alla prossimità pastorale: per la pastorale giovanile significa superare il rischio del “giovanilismo”, di una vicinanza ai giovani neutrale e leggera, incapace di essere incisiva e significativa per la loro vita. Per don Bosco la figura dell’educatore ha una identità ben precisa e per nulla generica: nel piccolo trattatello sul Sistema preventivo lo definisce «un individuo consacrato al bene de’ suoi allievi, perciò deve essere pronto ad affrontare ogni disturbo, ogni fatica per conseguire il suo fine, che è la civile, morale, scientifica educazione de’ suoi allievi»[21]. Cioè deve essere disponibile a perdere se stesso per la salvezza dei suoi ragazzi: «Io vi prometto e vi do tutto quel che sono e quel che ho. Io per voi studio, per voi lavoro, per voi vivo e per voi sono disposto anche a dare la vita»[22].
Siamo ormai nel cuore dell’anno in cui papa Francesco invita la Chiesa tutta a vivere l’esperienza del “Giubileo straordinario della misericordia”.
Conosciamo tutti la tradizionale distinzione tra le opere di misericordia corporale e spirituale, riproposta anche in questo anno giubilare[23]. In maniera a mio parere geniale, in un famoso testo dedicato proprio al tema della misericordia, il card. W. Kasper concretizza in maniera più semplificata il nostro impegno apostolico a favore della misericordia, seguendo una quadruplice distinzione che a mio parere coglie nel segno circa l’identità del carisma salesiano, impegnato in maniera integrale a servizio di ogni giovane e di tutti i giovani. Egli afferma che
la differenziata enumerazione delle opere di misericordia corporale e spirituale non è né ingenua, né arbitraria. Essa corrisponde alla distinzione di una quadruplice povertà; la povertà più facile da comprendere è quella fisica o economica: non avere un tetto sopra il capo e niente nella pentola, avere fame e sete, non avere di che vestirsi e un rifugio per difendersi dalle intemperie atmosferiche, oggi aggiungeremmo essere disoccupati. A ciò si aggiungono le malattie gravi o le gravi disabilità, che non possono essere adeguatamente curate e guarite dalla medicina. Non meno importante della povertà fisica è la povertà culturale: essa significa nel caso estremo analfabetismo, in caso meno estremo, ma comunque determinante, non avere nessuna o solo qualche possibilità di studiare e, quindi, poche prospettive di futuro, essere esclusi dalla partecipazione alla vita culturale sociale. Una terza forma di povertà da menzionare è la povertà in fatto di relazioni; essa prende in considerazione l’uomo come essere sociale: solitudine e isolamento, perdita del partner, perdita di familiari o di amici, difficoltà nel comunicare, esclusione colpevole o imposta dalla comunicazione sociale, discriminazione ed emarginazione fino all’isolamento in una cella carceraria o a motivo di un bando. Infine dobbiamo menzionare la povertà spirituale, che nella nostra situazione occidentale rappresenta un problema serio: mancanza di orientamento, vuoto interiore, mancanza di consolazione e di speranza, disperazione a proposito del senso della propria esistenza, smarrimento morale e spirituale fino a crollare psichicamente. La multiformità e la pluridimensionalità delle situazioni di povertà richiedono una risposta pluridimensionale[24].
A me pare che questa quadruplice povertà sia quella che don Bosco ha incontrato nelle strade di Torino più di centocinquant’anni fa quando, giovane sacerdote, si è commosso di fronte ai giovani ed ha provato la stessa compassione che ha attraversato il cuore di Gesù. Dal cuore di don Bosco nacque l’idea di oratorio, che oggi si concretizza attraverso quello che chiamiamo giustamente “criterio oratoriano”, che deve caratterizzare ogni nostra azione educativo-pastorale e ogni nostra opera apostolica, così sintetizzato all’articolo 40 delle nostre Costituzioni salesiane:
Don Bosco visse una tipica esperienza pastorale nel suo primo oratorio, che fu per i giovani casa che accoglie, parrocchia che evangelizza, scuola che avvia alla vita e cortile per incontrarsi da amici e vivere in allegria.
Nel compiere oggi la nostra missione, l’esperienza di Valdocco rimane criterio permanente di discernimento e rinnovamento di ogni attività e opera.
Ora, se fate un’operazione di connessione, risulta davvero naturale riconoscere il legame tra la quadruplice povertà espressa dal card. Kasper e i quattro pilastri del criterio oratoriano, che fanno l’identità del carisma salesiano di tutti i tempi e di tutte le modalità di esercizio della nostra missione.
Alla povertà corporale corrisponde il pilastro della “casa che accoglie”. Venire incontro alle necessità primarie di tanti giovani (oggi lo chiamiamo anche “promozione umana”) è stato per don Bosco il primo passo: dare un letto, una coperta, un pasto, un luogo di raduno, un ambiente in cui uno possa sentirsi accolto, un ambiente di famiglia dove ci sia una paternità e una maternità in atto. Se pensiamo oggi non solo alla situazione dei profughi che bussano alle porte dell’Europa non possiamo che tornare, per alcuni aspetti, alla situazione della Torino dell’800 che ha visto don Bosco protagonista appassionato e creativo.
Alla povertà culturale certamente corrisponde l’idea di “scuola che avvia alla vita”. Don Bosco si è accorto subito che la risposta ai bisogni primari era necessario ma insufficiente: ecco nascere le scuole serali, le scuole artigiane, i primi contratti di lavoro da lui firmati per garantire la giustizia lavorativa, percorsi solidi di formazione intellettuale e pratica. Dare consistenza culturale significa dare struttura umana definita e dignità personale garantita. Senza cultura si è sempre mancanti di spirito critico e di profondità sociale, tutte condizioni di degrado e di manipolazione da parte di altri.
Alla povertà relazionale don Bosco risponde con “il cortile per incontrarsi tra amici e vivere in allegria”. Il maestro che insegna dalla cattedra, il prete che predica dal pulpito, l’educatore che tiene incontri di formazione, il superiore che comanda dall’alto non sono per don Bosco figure adeguate: per lui la vera relazione nasce e si sviluppa nella relazionale del cortile, luogo degli affetti condivisi, dell’amicizia vissuta e del gioco allegro e spensierato che apre lo spazio alla confidenza e alla familiarità.
Infine risulta evidente come la povertà spirituale trovi la sua corrispondenza nella necessità di offrire ai giovani una “parrocchia che evangelizza”, cioè una proposta sistematica di educazione della fede. Siamo consapevoli della spaventosa ignoranza religiosa e quindi occorre «assumere senza esitazioni la situazione attuale di analfabetismo di fede di molti credenti e di analfabetismo del vivere di tanti contemporanei e incamminarsi verso un nuovo apprendimento della grammatica delle relazioni»[25].
Siamo finalmente giunti al terzo ed ultimo epilogo.
Per essere educatori e pastori, si richiede un atteggiamento fondamentale nei confronti dei giovani: la fiducia e la speranza nei giovani stessi, riconoscendo in loro dei veri e propri protagonisti della loro stessa educazione ed evangelizzazione.
L’accompagnamento necessario, il sostegno e la verifica – di fronte anche ai fallimenti a cui si può andare incontro – non possono far perdere la speranza sulle capacità e le possibilità dei giovani di essere protagonisti della loro stessa vita.
Purtroppo, come giustamente afferma Benedetto XVI, il compito educativo e pastorale è colpito a morte quando siamo in presenza dalla perdita generale della fiducia e soprattutto della speranza, che, nel momento in cui aggredisce la fede e la carità, le svuota come da dentro della sua forza motrice[26]:
L’aspetto più grave dell’emergenza educativa è il senso di scoraggiamento che prende molti educatori, in particolare genitori e insegnanti, di fronte alle difficoltà che presenta oggi il loro compito. Così scrivevo infatti nella citata lettera: “Anima dell’educazione può essere solo una speranza affidabile. Oggi la nostra speranza è insidiata da molte parti, e rischiamo di ridiventare anche noi, come gli antichi pagani, uomini ‘senza speranza e senza Dio in questo mondo’, come scriveva l’apostolo Paolo ai cristiani di Efeso (2,12). Proprio da qui nasce la difficoltà forse più profonda per una vera opera educativa: alla radice della crisi dell’educazione c’è infatti una crisi di fiducia nella vita”, che, in fondo, non è altro che sfiducia in quel Dio che ci ha chiamati alla vita[27].
Il peggior atteggiamento in assoluto per un operatore pastorale è quello di non avere speranza nei giovani a cui è mandato. Questo scoraggiamento è un peccato mortale, che condanna a morte la stessa esistenza della Chiesa e la sua particolare vocazione, perché
c’è un solo peccato mortale: lo scoraggiamento, perché da esso nasce la disperazione e la disperazione in sostanza non è già un peccato, ma è la morte stessa dello spirito. […] Guardati soltanto da una cosa: lo scoraggiamento[28].
La Bibbia e il carisma ci mostrano davvero come sia importante chiedere e coltivare questa fiducia inossidabile che affonda le sue radici nella ostinata consapevolezza che in ogni persona sia stato gettato il seme della bontà e della generosità, anche se la sua condotta di vita mostra effettivamente il contrario:
Così l’evento dell’incarnazione rimane effettivamente il colpo di scena fondamentale di tutto il dramma della storia della salvezza. Nella parabola dei vignaioli omicidi, che la ripercorre sinteticamente, tutto ciò ha una sua chiarezza:
Poi prese a dire al popolo questa parabola: «Un uomo piantò una vigna, la diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano per molto tempo. Al momento opportuno, mandò un servo dai contadini perché gli dessero la sua parte del raccolto della vigna. Ma i contadini lo bastonarono e lo mandarono via a mani vuote. Mandò un altro servo, ma essi bastonarono anche questo, lo insultarono e lo mandarono via a mani vuote. Ne mandò ancora un terzo, ma anche questo lo ferirono e lo cacciarono via. Disse allora il padrone della vigna: «Che cosa devo fare? Manderò mio figlio, l’amato, forse avranno rispetto per lui!». Ma i contadini, appena lo videro, fecero tra loro questo ragionamento: «Costui è l’erede. Uccidiamolo e così l’eredità sarà nostra!». Lo cacciarono fuori della vigna e lo uccisero. Che cosa farà dunque a costoro il padrone della vigna? Verrà, farà morire quei contadini e darà la vigna ad altri»[29].
Così l’inizio della missione salesiana è segnata da un’ostinata e testarda fiducia nei giovani, capace di andare perfino contro il senso comune:
Mentre si organizzavano i mezzi per agevolare l’istruzione religiosa e letteraria apparve altro bisogno assai grande cui era urgente un provvedimento. Molti giovanetti Torinesi e forestieri pieni di buon volere di darsi ad una vita morale e laboriosa; ma invitati a cominciarla solevano rispondere, non avere né pane, né vestito, né alloggio ove ricoverarsi almeno per qualche tempo. Per alloggiarne almeno alcuni, che la sera non sapevano più dove ricoverarsi, avevasi preparato un fienile, dove si poteva passare la notte sopra un po’ di paglia. Ma gli uni ripetutamente portarono via le lenzuola, altri le coperte, e infine la stessa paglia fu involata e venduta[30].
Don Bosco agì in perfetta fedeltà alle parole san Paolo che, tessendo le lodi di Abramo, modello paradigmatico della fede, afferma che «egli credette, saldo nella speranza contro ogni speranza, e così divenne padre di molti popoli, come gli era stato detto: Così sarà la tua discendenza»[31].
Così è la vita cristiana, una vita all’insegna della fede, della speranza e della carità!
Con la stessa ostinata fiducia nei giovani è nato e si è sviluppato il carisma salesiano!
Questa è quindi l’avventura che siamo chiamati a percorrere oggi con Gesù, con la Chiesa e con i giovani!
Grazie!
[1] J. Ratzinger, Gesù di Nazareth, Rizzoli, Milano 2007, 10.
[2] Ivi, 27. «Gesù è interamente “relazionale”, in tutto il suo essere non è altro che rapporto con il Padre. A partire da questa relazionalità va inteso l’uso della formula del roveto ardente e di Isaia; l’“Io sono” si colloca totalmente nella relazionalità tra Padre e Figlio» (ivi, 399).
[3] Cfr. Eb 4,15.
[4] Mt 13,54-58. La versione sinottica di Marco, probabilmente più originale, afferma invece che Gesù è non solo il figlio del falegname, ma falegname egli stesso: «Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo» (Mc 6,3).
[5] 1Sam 16,7.
[6] A questo proposito rimane sempre insuperato li testo classico di E. Ceria, Don Bosco con Dio, SDB, Roma 1988.
[7] A. von Speyr, Das Allerheiligenbuch, Erster Teil, Johannes Verlag, Einsiedeln 1966, 210-211 (traduzione nostra).
[8] E. Ceria, Vita del Servo di Dio don Filippo Rinaldi, SEI, Torino 1951, 303-304.
[9] Cfr. in particolare Evangelii gaudium, n. 87-92 e 98-101.
[10] Ivi, n. 99.100.
[11] M. Recalcati, Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre, Feltrinelli, Milano 2013, 12.
[12] Gv 1,38.
[13] Segnalo alcuni testi particolarmente significativi e utili sulla questione: F. Bonazzi F. - D. Pusceddu, Giovani per sempre. La figura dell’adulto nella postmodernità, Franco Angeli, Milano 2008; G. Cappello (ed.), L’adulto svelato. Gli adolescenti guardano gli adulti, Franco Angeli, Milano 2004; F.M. Cataluccio, Immaturità. La malattia del nostro tempo, Einaudi, Torino 2014; M. Chiarapini, Dove sono gli adulti? Assenti ingiustificati, Milano, Paoline 2013; G. Cucci, La crisi dell’adulto. La sindrome di Peter Pan, Cittadella, Assisi (PG) 2012; S. Laffi, La congiura contro i giovani. Crisi degli adulti e riscatto delle nuove generazioni, Feltrinelli, Milano 2014; C. Lafontaine, Il sogno dell’eternità. La società postmortale. Morte, individuo e legame sociale nell’epoca delle tecnoscienze, Medusa, Milano 2009; L. Manicardi, Memoria del limite. La condizione umana nella società postmortale, Vita & Pensiero, Milano 2011; A. Matteo, L’adulto che ci manca. Perché è diventato così difficile educare e trasmettere la fede, Cittadella, Assisi 2014; P. Sequeri, Contro gli idoli postmoderni, Lindau, Torino 2011; F. Stoppa, La restituzione. Perché si è rotto il patto tra le generazioni, Feltrinelli, Milano 2011.
[14] Per un approfondimento si può vedere: A. Castegnaro (con G. Dal Piaz e E. Biemmi), Fuori dal recinto. Giovani, fede, Chiesa: uno sguardo diverso, Ancora, Milano 2013, 129-149.
[15] Paolo VI, Evangelii nuntiandi, n. 9; Francesco, Evangelii gaudium, n. 12.
[16] Ireneo di Lione, Contro le eresie, IV,34,1.
[17] Dicastero per la Pastorale Giovanile, La Pastorale Giovanile Salesiana. Quadro di riferimento, Roma 20143, 110.
[18] Cfr. Atti del Consiglio Generale 363 (1998), I.3.
[19] Ivi.
[20] Gv 12,24-25.
[21] G. Bosco, Il sistema preventivo nella educazione della gioventù, n. 3.
[22] G.B. Lemoyne, Memorie biografiche di don Bosco, VII, 585.
[23] Cfr. Francesco, Bolla di indizione del giubileo straordinario della misericordia, n. 15.
[24] W. Kasper, Misericordia. Concetto fondamentale del vangelo - Chiave della vita cristiana (Giornale di teologia 361), Queriniana, Brescia 62015, 216-217.
[25] L. Manicardi, La fatica della carità. Le opere di misericordia, Qiqajon, Magnano (BI) 2010, 47.
[26] Sul tema della speranza intesa come “forza motrice” della fede e della carità, insuperata resta la riflessione di C. Peguy, Il portico del mistero della seconda virtù, in C. Peguy, I misteri (Mondi letterari 35), Jaca Book, Milano 19973, 155-282.
[27] Dal Discorso di Sua Santità Benedetto XVI nell’udienza ai Capitolari del 31 marzo 2008.
[28] V. Soloviev, I tre dialoghi e il racconto dell’anticristo, Marietti, Torino 19962, 52.54.
[29] Lc 20,9-16.
[30] Cfr. G.B. Lemoyne, Memorie biografiche di don Bosco, III, 211-213.
[31] Rm 4,18.
La vita nello Spirito Santo in don Giuseppe Quadrio SDB,
Venerabile Servo di Dio
Lodovica Maria Zanet
1. Un giovane prende la parola davanti a teologi e cardinali.
12 dicembre 1946. Mancano pochi giorni al Natale di settant’anni fa, e le aule della Pontificia Università Gregoriana ospitano una solenne disputa sulla «definibilità del dogma dell’Assunzione di Maria Vergine al Cielo, in anima e corpo». Mancano quattro anni a quel 1° novembre 1950 in cui Pio XII avrebbe ufficialmente proclamato tale dogma. La Chiesa, appoggiandosi su una tradizione secolare, sulla Parola di Dio e sull’autorevolezza del Magistero, non ha dubbi sul contenuto del dogma: però si interroga su come articolare, in senso argomentativo, contenuti, natura, premesse e conseguenze dell’Assunzione di Maria. Lo scontro tra gli studiosi è acceso, e tutto si svolge sotto lo sguardo vigile di personalità di spicco della Chiesa del tempo.
Quel giorno, davanti al futuro Paolo VI, allora Sostituto della Segreteria di Stato, a rispondere al fuoco incrociato delle domande (tra cui quelle, temibilissime, del celeberrimo padre Garrigou-Lagrange OP), si presenta un giovane venticinquenne, che esce dagli stenti della Seconda Guerra Mondiale, studia teologia a Roma e trascorre le proprie giornate ad aiutare gli «sciuscià» (ragazzini di strada) delle borgate romane. Si chiama Giuseppe Quadrio, è salesiano da alcuni anni, non ancora diacono. Deve soffermarsi soprattutto sull’aspetto corporeo dell’Assunzione di Maria al Cielo, argomentandone la ragionevolezza, alla luce della fede. Parla in modo calmo e composto. È tutto infiammato dall’amore per la Madonna: non difende la propria posizione, né interviene per mettere in luce se stesso. Attende con pazienza che alcune delle obiezioni che gli vengono rivolte terminino: talvolta gli accademici pongo domande più lunghe delle risposte che essi stessi sollecitano. Ma Giuseppe sa aspettare. La sua attesa è intessuta di sapienza: non si scompone. Quando viene il suo turno, ribatte sintetizzando in pochi passaggi la lunga premessa dell’obiettante. Poi risponde andando al cuore della questione. Quando lui parla, le cose diventano semplici. I punti oscuri, si chiarificano. La verità, riluce nella bellezza sua propria. È un successo straordinario. I Salesiani di don Bosco, i gesuiti della Gregoriana e soprattutto gli autorevoli protagonisti della disputa riconoscono il livello altissimo del suo contributo: il Papa stesso ne sarebbe stato informato.
L’episodio, qui appena accennato, fa già trasparire i molti doni e frutti dello Spirito Santo che arricchiscono Giuseppe Quadrio: sapienza e intelletto, benevolenza e pace, ecc.: la sua saggezza è irriducibile all’impegno umano; il suo insegnare è un carisma che edifica la Chiesa.
2. Cenni biografici: punti di luce e di ombra nella vita di don Quadrio.
Chi è, però, Giuseppe Quadrio? La sua vita non è certo nata a contatto con i libri e il mondo della cultura: è iniziata invece in Valtellina, tra le montagne del Nord Italia, il 28 novembre 1921, in luoghi dove la povertà allora era tanta ma, si diceva, «anche se la casa è povera, mamma e papà si vogliono bene». Il loro «volersi bene» teneva unita la famiglia nelle gioie e nei dolori, era garanzia di fedeltà e si appoggiava a solidi valori cristiani. In una di queste famiglie, circondato da alcuni fratellini, cresce anche Giuseppe. Un «por rafagnín», dicono di lui con un misto di tenerezza e preoccupazione: Giuseppe resterà sempre minuto, con un salute per nulla buona. Crescendo, contrapporrà alle limitate energie fisiche una straordinaria forza di volontà. Giovanissimo, scopre la propria vocazione: sarà sacerdote!
All’inizio, però, si tratta solo di un «pensiero confuso»: Giuseppe lo porta in sé, ma non lo coltiva attivamente. Si lascia anzi coinvolgere dalla compagnia di alcuni ragazzi poco esemplari (le stesse compagnie dalle quali don Bosco avrebbe voluto guarire i suoi giovani!): ha un grande desiderio del bene, però manca ancora degli strumenti (le «virtù eroiche») per perseverare nel bene pur se circondato dal male. Dirà Giuseppe Quadrio, ormai adulto, ricordando quel periodo, ammette di essere entrato allora in contatto con:
«in una parola, tutto il veleno, tutte le sozzure, che il mondo può offrire; […] con il fango del vizio e dell’immoralità. Tutto questo [egli prosegue] mi fece abbandonare il confuso pensiero di farmi prete»[1].
Mentre tutti lo credevano esemplare, lui sperimentava in sé una sofferta scissione tra il bene che voleva compiere e il male in cui ricadeva, più per incapacità di contrapporsi ai compagni, rischiando di perdere la loro amicizia, che per una volontà oggettiva di ribellione e di male. Giuseppe resta un ragazzo buono: che deve però imparare a pagare il prezzo dell’amore e della fedeltà a Gesù, vincere il rispetto umano, rafforzare la volontà del bene. Dice di sé:
«Il bello è che, anche in questo così tristo ed orrendo periodo, tutti mi credevano buono, anzi il più buono, il più pio, il più santo, mentre invece solo Iddio sa, perché nemmeno io riesco a capacitarmene, quanto in basso ero caduto»[2].
Serviva qualcosa che provvidenzialmente lo scuotesse dal torpore in cui stava cadendo: «Il Signore mi aspettava: era ora di finirla»[3]. Due eventi, di segno opposto, lo aiutano. Nel primo caso, si tratta di una cosa bella: il giorno di Tutti i Santi, egli sente le parole di Agostino «se loro, perché non io»?». Prova da quel momento una grande nostalgia dell’essere santo, e comprende che niente è ostacolo a diventarlo, perché Dio è un Padre che accoglie, sostiene, guarisce e vuole tutti nella sua casa: «Leggevo libri di santi, e tanto desideravo di farmi santo anch’io…»[4]). Nel secondo caso, si tratta di una cosa brutta: di una mezza bestemmia, che egli pronuncia. Nessuno l’ha sentita: ma lui e il Signore «sanno». È lo sprone definitivo alla conversione: formula allora alcuni propositi; si impegna a visitare ogni giorno il Santissimo Sacramento vincendo il rispetto umano e l’irrisione dei compagni. Si decide definitivamente per il sacerdozio. Scrive anzi un bigliettino («Io sarò prete. Giuseppe»). E lo nasconde dietro uno specchio, a casa.
Ecco, Giuseppe è così: trasparente come uno specchio – limpidissimo, diranno di lui i confratelli. Ma il suo segreto lo custodisce dietro la superficie. A casa, solo l’irruenza del fratellino farà provvidenzialmente cadere lo specchio: ne uscirà il biglietto, che la mamma potrà leggere, incoraggiandolo nella vocazione. Nella vita salesiana, colpirà constatare che, mentre don Quadrio ha aiutato a decifrare gli infiniti “bigliettini” delle vite dei suoi chierici, pochi sarebbero stati capaci di leggere la sua anima, soprattutto quando nascondeva dietro il sorriso sofferenze grandi. Don Giuseppe salesiano sarà, talvolta, un uomo di comunione lacerato però da una grande solitudine.
Dai salesiani, lui arriva nel 1933: aveva deciso che sarebbe stato missionario, e lo accoglie allora l’istituto di Ivrea. Alcuni anni prima aveva emesso, senza consultarsi con nessuno, il voto di verginità perpetua. Poi, di quel voto si era dimenticato (gli sarebbe tornato in mente alcuni anni dopo, e il padre spirituale per prudenza lo avrebbe sciolto): intanto, però, questa sete di donazione totalizzante cresce e lo «sollecita dall’interno». Brucia le tappe della formazione umana e salesiana: comprova spiccate doti per lo studio, ma soprattutto una personalità tendenzialmente armonica. Attesta il suo assistente di noviziato:
«Fin da novizio era così calmo, sereno, osservante… In lui mi ha sempre colpito il senso di serietà dolce e serena che non dimostrava particolari sforzi… la mia impressione è che in lui non ci fossero gli alti e i bassi che si notano normalmente in altri»[5].
Giuseppe ha allora quindici anni, e dovrà presto capire che la pace – nel senso ebraico di «shalom» – non consiste nell’assenza di conflitti, ma piuttosto nel modo in cui si impara a vivere anche la prova. E la sua prima prova è rinunciare al sogno missionario: i compagni partono; lui resta, si vede prolungato il noviziato per ragioni di età ed è infine destinato a più serrate tappe di formazione teologica. La sua missione consisterà nella docenza, soprattutto universitaria.
Professo perpetuo nel 1943, prete il 16 marzo 1947, Giuseppe Quadrio (che scopre in questi anni di formazione lo Spirito Santo come vero Maestro) deve quindi fare della cattedra il proprio campo di missione. Don Luigi Melesi, tra coloro che meglio lo hanno conosciuto e sono stati testimoni della sua amicizia, dice:
«Era maestro e testimone… La scuola la soffriva, la verità doveva passare tutta attraverso la sua anima. Non vendeva roba degli altri, ma tutta sua, vissuta e sofferta. Buttava un Cristo vivo nella nostra anima… Facevo meditazione a scuola di don Quadrio più che in chiesa al mattino… Lui ci ha evangelizzati, perché portava in sé il Vangelo vivo»[6].
Una tale fecondità non si improvvisa, e don Giuseppe lo sa. Era solito dire che la teologia si fa con le «ginocchia», cioè innanzitutto pregando, lasciandosi attrarre dal Mistero di Cristo. Sa che i «frutti dolci» vengono dalle «radici amare»: impegno, sforzo, sofferenza, per regalare agli altri chiarezza, bellezza, convinzione. E l’amarezza delle radici consiste, qualche volta, nella percezione anche dura del proprio limite e del proprio errore. Il 14 febbraio 1944, pochi mesi dopo i voti perpetui e a un mese dalla tonsura, scrive:
«Oggi la prima pagina brutta della mia vita di studentato teologico: la prima sconfitta. Sono umiliato di me stesso e della mia debolezza…»[7].
Giuseppe Quadrio doveva decidere, con un compagno, chi dei due avrebbe preso la parola in occasione di un incontro accademico. Come lui stesso poi comprenderà, «timore umano», «interesse», «preoccupazione per la bella figura» l’avevano però trattenuto dall’esporsi. Leggendo le Note intime, si coglie tutto il peso di un dramma che si potrebbe sintetizzare così: il chierico Quadrio (sempre elogiato, sino a quel momento, dai superiori) si era illuso di essere migliore di quanto in realtà non fosse; si era soprattutto illuso che una vigorosa forza di volontà potesse renderlo immune dalle cadute. Ma la vita non è così. Scriverà:
«Una volta pensavo che bastasse osservare la Regola per essere un buon salesiano; oggi invece temo che bisogna fare molto di più…»[8].
Trae dalla sconfitta la motivazione per la conversione. Vuole, anzi ormai deve, essere santo. Con parole forti, per certi aspetti sconcertanti, Quadrio è il giovane salesiano che dice:
«O santo, o nulla. Il santo non può vivere alla comune, alla meglio, dando molto a Dio e tenendosi qualcosa anche per sé. Ora io devo e voglio assolutamente farmi santo […]. Non voglio infatti che in me fallisca il piano divino che mi vuole santo.
Assolutamente […] santo, presto santo, gran santo. Il mio peccato mi obbliga, ed è come una freccia confitta nel fianco, che mi spinge, mi urge, mi trasporta […]. Per me la santità, il meglio, il massimo, lo sforzo ad ogni costo, non è più cosa libera, supererogatoria, di consiglio, ma debito di giustizia: davanti a Te offeso, alle anime danneggiate, all’anima mia deturpata»[9].
Quando aggiungerà il proposito dell’«eroismo nella purezza», pare di intuire che “purezza” debba significare per lui, più che un cuore limpido e verginale (di cui già dispone), un cuore integro, che non si lascia disunire e frammentare, accetta la correzione, ha smesso di fare affidamento su se stesso.
Si può allora comprendere un terzo (e ultimo) episodio che segna in negativo la sua vita e dice: qui don Quadrio non era ancora perfettamente docile ai tocchi dello Spirito Santo. Siamo in momenti diversi, tra il 1945 e l’inizio degli Anni Cinquanta, con una recrudescenza nel 1951-52. Compaiono improvvisamente, nel Diario, espressioni dure, che fanno intravedere una crisi profonda.
«Ti offro [Gesù] quest’ora di spasimo… quest’angoscia nascosta senza parole… questa melanconia che mi attanaglia, senza poter lavorare, senza poter pregare… Gli uomini mi hanno derubato, mi hanno lasciato più povero e più simile a Te…»[10].
Don Giuseppe sente addirittura avvicinarsi la morte («Forse stai venendo, o Signore: forse siamo vicini al grande incontro. Fa’ che la mia morte sia più utile che la mia vita trascorsa finora»)[11]. Nel 1952 parla di una «amarissima croce», e di una ora di «sconforto», abbandono e «fallimento»[12]. L’autore del volume – Marino Codi – non esita ad annotare: «a un passo dalla disperazione»; «non si ha idea di che cosa gli abbia procurato tanta sofferenza. Si nota un crescendo preoccupante che non fa presagire nulla di buono»[13].
Eppure questi sono gli anni in cui tutti elogiano don Quadrio e certificano i frutti di santità apportati dal suo insegnamento e dalla sua capacità – a tratti eroica – di relazionarsi agli altri, edificano la comunità “dall’interno”. Dunque: fitte tenebre dentro di lui. Luce, intorno a lui. Contraddizione? Errore di valutazione? No: ma una persona che il «troppo grande amore» per il Signore rende sensibile; una persona che lo Spirito Santo plasma ed educa, sino a renderla attenta ai dettagli più piccoli. Anche una mancanza di amore dato o ricevuto fa soffrire don Giuseppe, che in un personalissimo Confiteor scrive infatti:
«Mi confesso di avere fatto confronto tra il mio agire verso gli altri e l’agire degli altri verso di me, aspettandomi che gli altri mi trattassero come io ho trattato loro nella mia vita. […] Mi confesso di avere disperato della riconoscenza e dell’umanità del mio prossimo senza reagire. Mi confesso di non aver sufficientemente combattuto all’intero e all’esterno questi sentimento, come frutti naturali del mio amor proprio ferito ed esasperato e del mio fisico malato [stava somatizzando con un’ulcera]. Mi confesso di essermi tormentato con la riflessione su questo mio stato d’animo, passando con la spazzola sopra una ferita sanguinante»[14].
Nei Propositi di questo periodo, ritorna intanto su un volontarismo duro: sul “fare” per rendersi degno. Per esempio: «pregherò bene, spesso», «vivrò in abscondito, almeno per qualche tempo»: ma non è dell’anima arresa allo Spirito Santo porre tempi e affannarsi. Quella pace che lui irradia sugli altri (perché santità non vuol dire mancanza di fragilità), deve ancora sperimentarla dentro di sé. Il «frutto dello Spirito» (amore, gioia, pace, benevolenza, mitezza…), in lui dunque non è ancora maturo. Don Quadrio assomiglia al bimbo che nascondeva il bigliettino dietro lo specchio: un’anima limpida, che però cela un segreto e rischia di esserne schiacciata.
Serviva qualcuno che, con un gesto deciso (come aveva fatto, lassù in Valtellina, il fratellino urtando la cornice), facesse cadere lo specchio. E liberasse don Giuseppe da un peso. Questa «rottura» – umanamente scandalosa ma saggia secondo il disegno del Signore – è la malattia: una malattia, non a caso, che lo divora da dentro (come tutto interiore era il suo dramma), senza apparire dall’esterno, e che richiederà numerose trasfusioni, lette in analogia all’infusione della Grazia nell’anima e alla comunione con il Corpo e il Sangue di Cristo. La diagnosi: linfogranuloma maligno. Don Giuseppe ha 38 anni. Sarebbe morto, 3 anni dopo, il 23 ottobre 1963. Malato, egli deve lasciare la presa. È costretto ad arrendersi. Obbligato a riconoscere il proprio limite. Può solo consegnarsi.
Si assiste allora a una fioritura rapidissima: tutto il bene il lui presente (che era molto!), si compie; gli errori, perdono in forza; le piccole imperfezioni, si sciolgono come neve al sole. Si potrebbe sommessamente dire che Quadrio abbia accolto la malattia come una liberazione. Lui docente, ha il coraggio di dichiararsi “inutile”. Scrive ad alcuni confratelli, tra il 1960 e il 1962:
«Là lavoro, qui riposo. Ma sono in attesa (1° ottobre 1960).
Quando e come uscirò [dall’ospedale]? È possibile che questa sia la volta buona e che il buon Dio non mi rimandi ancora una volta a prepararmi meglio. In realtà vivo con l’occhio rivolto là, in attesa che la porta si apra e io possa infilarmi dentro» (6 marzo 1963, a don Ziggiotti)»[15].
In Congregazione si pregava don Rua, per una guarigione. Ma Quadrio scrive:
«Il grande miracolo che don Rua mi ha fatto fin dal primo annuncio è una pace immeritata e soavissima, che rende questi giorni di attesa prolungata i più belli e più felici della mia vita»[16].
«Ogni giorno che passa, sono sempre più contento del mio Dio», diceva. Ora anche il «frutto dello Spirito» è in lui pieno: e don Giuseppe, oggi Venerabile, è ormai pronto per il Cielo.
Ci si può allora soffermare, in conclusione ma anche in un crescendo, su alcune dinamiche della vita nello Spirito Santo, in don Quadrio.
3. Don Quadrio e lo Spirito Santo: un nesso inscindibile.
Ripercorrere in breve la vita di don Quadrio dà la sensazione che la sua parabola terrena sia equivalsa a un arco breve, tutto teso verso il Signore, pieno di zelo per Lui. Anche le cadute – qui accennate perché ogni «avventura nello Spirito» ha i suoi momenti difficili, ed è ingiusto ignorarne la presenza nelle vite dei santi – lo hanno spronato sempre più a quell’amore grande e totalizzante che gli ardeva dentro, e rispetto al quale ogni piccola imperfezione gli appariva grave: quando si ama, nulla è piccolo, nulla indifferente.
Le testimonianze – numerosissime – attestano la sapienza, la pace, l’amore e la gioia, la capacità di consigliare così tipiche di don Quadrio. Ascoltarlo equivaleva, per molti, all’esperienza dei discepoli di Emmaus: un cuore che arde ne incendia altri. I testimoni della sua vita e della sua morte confermano il gusto di don Giuseppe per le cose divine, e la capacità di entrare in dialogo con gli interlocutori, per farsi loro compagno nel cammino verso la Verità. Tra queste qualità, si profilano pertanto numerosi doni e frutti dello Spirito Santo. Argomentare il nesso tra don Quadrio e lo Spirito Santo è, dunque, particolarmente fecondo.
Vi sono però alcune ragioni che rendono la trattazione della vita nello Spirito, in don Quadrio, ancor più probante.
Don Giuseppe Quadrio, innanzitutto, è stato dichiarato «Venerabile» dalla Chiesa nel 2009. Questo significa che il Sommo Pontefice gli ha riconosciuto l’esercizio in grado eroico di tutte le virtù: ma tale grado eroico – come insegna la teologia – è possibile solo «in regime di doni dello Spirito Santo»: Dio solo, infatti, può permettere di credere, sperare, amare «alla sua altezza». Sapere Quadrio Venerabile, significa dunque poter credere che in lui lo Spirito Santo ha dispiegato in pienezza i propri doni.
In secondo luogo, lo stesso don Giuseppe Quadrio si attribuisce un particolare legame con lo Spirito Santo. Vive egli stesso un momento «mistico», nel periodo della Pentecoste dei suoi ventitré anni. Da quel momento, si imporrà un «nome nuovo», che resterà segreto ma con il quale firmerà i propri Diari spirituali: «Docibilis a Spiritu Sancto». È un’espressione latina, difficile da tradurre preservandone la ricchezza semantica, che significa: «Colui che si lascia ammaestrare dallo Spirito Santo». Il lasciarsi ammaestrare però nulla ha della rigidità inerte del «ricevere un’istruzione»: esige ed educa la docilità, la disponibilità interiore, la prontezza di una adesione amorosa, l’apertura a cogliere il novum dello Spirito. Scrive:
«Lo Spirito Santo mi fece una grande grazia sotto Pentecoste. Credo che rimarrà famosa nella mia piccola vita questa Pentecoste»[17].
Ancora:
«Il mio sposalizio con Te, o Dolce mio Spirito, mia anima, mio istinto, mio affanno, mio amore… Tu solo sarai l’affanno dolcissimo che farà palpitare il mio cuore…»[18].
Chi lo conosce, conferma che in quell’anno le sue meditazioni ruotavano intorno al tema della «corrispondenza alla Grazia»: Giuseppe voleva condensare la propria vita nel «sì», come Maria Santissima, da lui tanto amata.
In terzo luogo don Giuseppe, oltre ad essere una persona dalla intensa vita teologale, è teologo: associa alla ricchezza del proprio vissuto la capacità di dire – in modo oggettivo – chi sia lo Spirito Santo e come egli operi, nelle anime e nella Chiesa. Don Quadrio guida alla scoperta dello Spirito Santo con la vita e la dottrina, con il gesto e con la parola.
In quarto e ultimo luogo, la vita del venerabile Giuseppe Quadrio si è interrotta bruscamente, per una malattia grave, nel pieno vigore della prima età adulta. Umanamente parlando, si dovrebbe quindi trattare di una vita spezzata, priva di quei frutti – più abbondanti – che una accresciuta maturità umana gli avrebbe permesso di conseguire. Chi però l’ha incontrato, sa che non è così. Sull’oggettiva incompiutezza umana di una persona morta appena quarantenne, si innesta infatti la compiutezza dell’opera della Grazia in lui: doni e frutti dello Spirito Santo. Occorre allora su alcuni aspetti del cammino di don Quadrio “al passo” con lo Spirito Santo. «Spirituale», è per il cristiano l’uomo animato dallo Spirito.
4. La vita nello Spirito Santo nel Venerabile Giuseppe Quadrio.
In don Quadrio teologo, pastore e maestro sono innanzitutto comprovabili, sin dalla prima giovinezza, i doni dello Spirito Santo: sapienza, intelletto, scienza, consiglio, fortezza, pietà, timor di Dio.
La sua attività di docenza diventa per gli studenti un continuo gustare Cristo e convertirsi a Lui: è il dono della sapienza!
Egli ha il dono della chiarezza espositiva, una chiarezza associata a profondità e intensità dell’enunciazione dei contenuti: è all’opera il dono dell’intelletto, che permette al credente di «approfondire intuitivamente le verità rivelate».
Don Quadrio sa accogliere il bello presente nella creazione, sempre però elevandolo a Dio, per rendergli lode: è il dono della scienza, con il quale attira anche i non credenti (come il medico che lo cura) a una vita di fede.
Dalle pagine di «Meridiano 12», risolve i quesiti di morale dei lettori, senza lasciarsi intrappolare nella casistica, ma senza nemmeno aggirare la sfida dell’applicazione della legge generale al caso particolare: lo soccorre in questo il dono del consiglio, che è un «intuire velocemente ciò che si deve fare».
La fortezza poi lo sostiene nella prova, aiutandolo a celare le proprie sofferenze con il sorriso.
La pietà e il timor di Dio, infine, lo aiutano a sentirsi profondamente figlio – dunque amato oltre ogni proprio merito; sviluppano però in lui anche un vivo senso del peccato, e una percezione, a tratti lacerante, della «malizia che comporta ogni offesa a Dio, anche se possa sembrare insignificante».
Don Quadrio attesta inoltre il frutto dello Spirito Santo che è, come precisa San Paolo, «amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Galati 5,22). L’intera vita del Venerabile Giuseppe Quadrio (ed in particolare gli anni della malattia) offrono, di questi «frutti», una abbondantissima fenomenologia.
Il dominio di sé, per esempio, è costante attitudine a dire a se stesso quei «no» che sono funzionali al bene dell’altro: no al riposo, se c’è un chierico da consigliare; no alla scortesia, se qualcuno continua a entrare in camera interrompendone il lavoro di studioso (ma viene sempre accolto da un sorriso); no alla stanchezza, quando un giovane in formazione deve uscire di Congregazione ed è costretto a partire, quasi fuggiasco, mentre è ancora buio. Don Quadrio stava morendo, ma si fa trovare pronto e lo accompagna a piedi fino alla stazione, perché «è sempre un fratello».
Il dominio di sé sorregge allora la bontà che quasi si ostina a volere per l’altro tutto il bene possibile, e la benevolenza che è anzitutto una «attitudine costruttiva» capace di volgere anche il male in bene: è unanime la testimonianza che don Quadrio sapesse incontrare l’altro nel suo errore, e conquistarlo alla vita buona del Vangelo gettando il ponte discretissimo della confidenza e dell’amicizia.
La mitezza, la pazienza, la pace, la gioia e l’amore si irradiano infine da tutta la sua persona. Così lo descrivono gli amici:
«Il volto di don Quadrio era il riflesso del suo spirito ricco di talenti di umanità e colmo di carismi di grazia. Così si manifestava la tessitura dello Spirito. Il suo volto era aperto, sorridente, sempre accogliente. Era gioviale e allo stesso tempo saggio. Era umile e signorile, mai appariva agitato anche quando viveva un suo dramma interno. Comunicava pace e stimolava a irradiarla[19].
Tutto lodava, tutto incoraggiava, ti riempiva di speranza[20].
La sua intelligenza era funzionale al cuore»[21].
Di sé, don Quadrio avrebbe voluto potersi definire:
«un vero fratello, cordiale, affabile, sorridente, accogliente»[22].
Alcune altre dimensioni di vita nello Spirito si annunciano, allora, in lui e attraverso di lui.
Lo Spirito Santo, il giorno di Pentecoste, porta gli apostoli ad uscire dal luogo dove si trovavano, e li abilita a rendere testimonianza in molte lingue, perché ognuno possa comprendere: don Quadrio aveva, di natura, un carattere timido e introverso, così diverso dall’esuberanza anche fisica di don Bosco e di altre figure della santità salesiana. Il lavoro della Grazia in lui lo porta però a diventare l’accogliente, colui che fa cadere le barriere (della timidezza o dell’indifferenza), dentro di sé e intorno a sé. Già ai tempi dello studentato, annotava:
«Cercherò quelli che non mi avvicinano; incoraggerò i timidi; consolerò gli abbattuti; saluterò per primo chi mi incontra; non lascerò passare tempo notevole senza intrattenermi con tutti; offrirò sempre un favore a tutti; vincerò la timidezza e la ritrosia»[23].
Ancora: lo Spirito Santo esorta l’apostolo Filippo a recarsi in un luogo deserto, attraverso una dinamica per l’uomo assurda. Ma lì Filippo incontra e battezza un uomo. Anche don Quadrio attesta la capacità, a tratti eroica, di giustificare fatiche grandi con il raggiungimento di scopi in apparenza piccoli. Per esempio, ringrazia Dio di avergli prolungato il noviziato perché in quel periodo aveva potuto leggere un buon libro; oppure arriva ad affermare che la malattia mortale non era invano, se gli aveva permesso di conoscere un medico, che grazie alla sua amicizia si era accostato ai sacramenti.
Poi: lo Spirito Santo è «ospite dolce dell’anima, dolcissimo sollievo». Don Quadrio è una persona di grande discrezione – come la «fontana del paese a cui tutti possono attingere acqua», sostiene qualcuno: ma non fa rumore. È l’anima della comunità, senza apparire. È un uomo di comunione, fedelissimo alla vita tra fratelli anche quando sta morendo, e scende in refettorio con la febbre alta.
Infine: lo Spirito Santo crea armonia tra i diversi, e distribuisce i carismi «a ciascuno, come piace a Lui», per «l’edificazione del corpo mistico di Cristo che è la Chiesa». Don Quadrio consegue una straordinaria armonizzazione della propria persona, ed educa i giovani a diventare uomini su cui si possa fare affidamento. È inoltre un sacerdote innamorato della propria vocazione – un prete che ha formato altri preti. Però è anche una persona innamorata delle altre vocazioni, che riserva per esempio parole di indicibile bellezza alla eminente santità connessa alla sponsalità e alla maternità, anche fisiche, della donna. Crede nella propria vocazione, che vive fino all’eroismo. Ma non la assolutizza. Richiama, in questo, don Bosco, che era sì dedicato ai giovani, ma voleva soprattutto che i giovani crescessero in fretta per indirizzarli al servizio della società e della Chiesa. Come don Bosco, Quadrio ama i giovani, non il giovanilismo. Esorta tutti a non resistere allo Spirito Santo, ad affidarsi a Lui, a «dire di sì»:
«Non resistiamo, non esitiamo […], non discutiamo. […] Egli [lo Spirito Santo] bussa tanto spesso alla porta dell’anima… Apriamogli subito, per timore che passi oltre…»[24].
E al nipote Valerio, che si preparava all’ordinazione sacerdotale:
Va bene: ma calma, fiducia, serenità, abbandono: Colui che ha incominciato, compirà l’opera. Lui che non promette, senza mantenere. Affidati perdutamente alla sua grazia, al suo Spirito, al suo amore. Non si tratta tanto di fare, ma di lasciarlo fare, senza frapporre sordità, remore, resistenze, evasioni. Confidenza, docilità, pace. Egli ti prende come sei e ti fa come lui vuole…[25]
Sono, queste, parole che ben illustrano quanto grande sia il cammino percorso, in pochi anni, da don Giuseppe. Davvero, così, il venerabile Giuseppe Quadrio ha vissuto, con Gesù, l’avventura dello Spirito. Precedendo e accompagnando ciascun di noi nella “cordata” verso il Cielo.
Nota bibliografica: Per conoscere sempre meglio la figura del Venerabile ci si può avvalere dei numerosi sussidi pubblicati in questi anni, soprattutto dalla LAS di Roma. Tra questi, si segnalano qui, almeno:
G. Quadrio, Diario e pensieri. Trasparenze d’azzurro, a cura di R. Bracchi, LAS, Roma 2014.
Id., Esercizi spirituali, a cura di R. Bracchi, LAS, Roma 1998.
Id., Lettere, a cura di R. Bracchi, LAS, Roma 1991.
Id., Omelie, a cura di R. Bracchi, LAS, Roma 1993.
AA.VV. (a cura di A. Escudero), Don Giuseppe Quadrio teologo e testimone, LAS, Roma 2012.
M. Codi, Il prete dal sorriso di fanciullo. Vita del Servo di Dio don Giuseppe Quadrio Sacerdote Salesiano (1921-1963), LAS, Roma 1998.
E. Ferasin, Segno vivo di Cristo Maestro. La formazione sacerdotale negli scritti e nell’azione pastorale di Don Giuseppe Quadrio (1921-1963), LAS, Roma 1999.
[1] G. Quadrio, Diario e pensieri. Trasparenze d’azzurro, a cura di R. Bracchi, LAS, Roma 2014, 28.
[2] Ibidem.
[3] Ibidem.
[4] Ibi, 29.
[5] M. Codi, Il prete dal sorriso di fanciullo. Vita del Servo di Dio don Giuseppe Quadrio Sacerdote Salesiano (1921-1963), LAS, Roma 1998, 52.
[6] E. Ferasin, Segno vivo di Cristo Maestro. La formazione sacerdotale negli scritti e nell’azione pastorale di Don Giuseppe Quadrio (1921-1963), LAS, Roma 1999, 127.
[7] G. Quadrio, Diario e pensieri, cit., 82.
[8] E. Ferasin, Segno vivo di Cristo Maestro, cit., 266.
[9] Ibi, 80, 83.
[10] M. Codi, Il prete dal sorriso di fanciullo, cit., 159.
[11] Ibi, 157.
[12] Ibi, 160.
[13] Ibi, 160, 159.
[14] Ibi, 160.
[15] Dalle Lettere.
[16] Ibidem.
[17] E. Ferasin, Segno vivo di Cristo Maestro, cit., 236.
[18] G. Quadrio, Diario e pensieri, cit., 19.
[19] E. Ferasin, Segno vivo di Cristo Maestro, cit., 392.
[20] Ibi, 395.
[21] Ibi, 396.
[22] Ibi, 392.
[23] Ibi, 167.
[24] Ibi, 245.
[25] Ibi, 244