A cura di Aldo Giraudo
Titolo originale dell’opera: Vie de Don Michel Rua premier successeur de Don Bosco (1837-1910) - © LAS, Roma, 2009.
Traduzione dal francese di Antonella Fasoli
Revisione generale sulle fonti archivistiche di Aldo Giraudo
Il centenario della morte del beato Michele Rua offre l’occasione per fare fare il punto sulla vita del primo successore di don Bosco. La famiglia salesiana gli deve molto. Che cosa sarebbe diventata se non ci fosse stato don Michele Rua?
In passato già altri si sono impegnati a scrivere la sua vita. Già all’indomani della scomparsa, l’amico di sempre Giovanni Battista Francesia (1838-1930) pubblicava un libro di 220 pagine, D. Michele Rua, primo successore di Don Bosco (Torino, 1911), il cui unico limite è forse l’eccessivo entusiasmo per il protagonista. Più tardi, coll’inizio dei processi di beatificazione e canonizzazione affluirono numerose testimonianze sulle sue virtù.
Così, sul principio degli anni Trenta, il redattore del Bollettino Salesiano, Angelo Amadei (1868-1945), che aveva facile accesso agli archivi centrali della Congregazione, iniziò a raccogliere un gran numero di documenti, confluiti in una monumentale opera di tre volumi, per un totale di 2.388 pagine, Il Servo di Dio Michele Rua (Torino, 1931-1934). Amadei si era informato accuratamente. Ad esempio, aveva fatto ricorso persino alle cronache locali delle Figlie di Maria Ausiliatrice. Ma nel suo desiderio di non trascurare nulla, accumulò testimonianze e fatti, accostandoli secondo un criterio puramente cronologico, anno dopo anno, senza mai preoccuparsi di costruire un vero e proprio racconto. L’unica eccezione a questo suo modo di procedere è costituita da un interessante e dettagliato ritratto morale di don Rua, collocato tra gli anni 1898 e 1899. Per il resto tutto appare mescolato in un enorme zibaldone: ‹‹un bazar, un guazzabuglio», come mi disse un giorno don Ceria, parlando del decimo volume delle Memorie biografiche, opera dello stesso autore redatta con identici criteri. Inoltre Amadei non precisò la fonte delle sue informazioni, ignorando del tutto il metodo dei riferimenti. La sua biografia, dunque, seppur estremamente meritoria, dev’essere utilizzata con prudenza. Aggiungiamo, per amor di precisione, che i confratelli gli chiesero una versione ridotta dell’opera, pubblicata con il titolo: Un altro Don Bosco, Don Rua (Torino, 1934, 703 pagine).
Uno dei colleghi del tempo, Augustin Auffray (1881-1955), che a Torino dirigeva il Bulletin Salésien francese, fu invece molto attento a non cadere negli stessi limiti letterari e compose una vera biografia di don Rua: Un saint formé par un autre saint. Le premier successeur de Don Bosco, Don Rua (Paris-Lyon, 1932, 412 pagine), opera subito tradotta in italiano. Auffray ha costruito intelligentemente la sua storia dividendola in 49 capitoli, accuratamente organizzati e con una certa eleganza di stile. È vero che un lettore critico oggi potrebbe arricciare il naso di fronte alle sue immagini e ai suoi voli pindarici, tuttavia il libro si presenta come la prima decorosa biografia di don Rua, piacevole da leggere e sufficientemente fondata (anche lui, tuttavia, dimentica il riferimento alle fonti).
Un altro letterato, questa volta italiano, Eugenio Ceria (1870-1957), che nel redigere gli ultimi volumi delle Memorie biografiche di don Bosco si era ispirato al metodo e allo stile di Auffray, dopo la seconda guerra mondiale pubblicò una Vita del Servo di Dio don Michele Rua, primo successore di san Giovanni Bosco (Torino, 1949, 600 pagine) solidamente documentata, ben costruita e ben scritta. Anch’egli beneficiava di una conoscenza diretta di don Rua che aveva incontrato personalmente. I suoi 46 capitoli sono di gran lunga migliori rispetto a quelli di Amadei. Le note sono ridotte al minimo, limite piuttosto grave agli occhi degli eruditi. Ma dal momento che possedeva informazioni di prima mano, è probabile che se ne ritenesse legittimamente dispensato. La sua biografia di don Rua appare a tutt’oggi di qualità eccellente.
In occasione del centenario forse bastava ripubblicare e tradurre quest’opera di Ceria. Tuttavia, io credo che una biografia non sia mai definitiva. La documentazione esistente deve sempre essere reinterpretata in funzione delle domande sollevate dai ricercatori. Nuovi documenti, e abbondanti, sono stati rintracciati, come rileviamo dal DVD Documenti di don Rua, approntato nel 2007 a cura del Comitato di studi storici don Rua 2010, che bisognerebbe sfruttare più sistematicamente. Ma numerose lettere e altri documenti di don Rua giacciano ancora del tutto sconosciuti negli archivi ispettoriali salesiani di diverse parti del mondo. La conoscenza della sua teologia di riferimento resta ancora imperfetta. Non disponiamo di studi sulla sua predicazione. Sappiamo che seguiva con cura i missionari inviati in America: quale forma prendeva la sua direzione sempre così attenta? In quale misura incoraggiava (o moderava) l’italianità, allora molto accentuata, della Società Salesiana? Fino a che punto la formazione salesiana progredì sotto il suo rettorato? Inoltre restano ancora da studiare le gravi questioni relative ai direttori-confessori e alla separazione giuridica tra la Congregazione Salesiana e l’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice, che meriterebbero un’analisi più accurata rispetto a quanto ho fatto in questa sede ...
Insomma, con questo libro non ho avuto la pretesa di rinnovare radicalmente l’argomento. Anzi, riconosco a più riprese il mio debito nei riguardi dei biografi predecedenti, soprattutto di don Ceria, non soltanto per la biografia di don Rua, anche per i suoi Annali della Società Salesiana. Confesso inoltre, con rincrescimento, di non aver potuto disporre di documenti di prima mano, che forse mi avrebbero fatto modificare il racconto in alcuni punti. La mia è stata soprattutto una rilettura, abbastanza libera, della documentazione raccolta nel Fondo Don Rua, depositato presso l’Archivio Centrale Salesiano di Roma, messa a disposizione dei ricercatori in microfilm. Soprattutto non ho potuto beneficiare delle ricerche tuttora in corso alla vigilia del centenario del 2010. Mi auguro che arrivi presto qualcuno capace di colmare tali lacune.
Tolone, 31 gennaio 2009.
ABBREVIAZIONI
Amadei | A. Amadei, Il Servo di Dio Michele Rua, 3 voll., Torino, SEI, 1931-1934. |
Annali | E. Ceria, Annali della Società Salesiana, Torino, SEI, 1941-1951. |
ASC | Archivio Salesiano Centrale - Roma |
Auffray | A. Auffray, Le premier successeur de Don Bosco, Don Rua (1837-1910), Lyon-Paris, Vitte, 1932. |
Ceria, Vita | E. Ceria, Vita del Servo di Dio Don Michele Rua, Torino, SEI, 1949. |
Documenti | G. B. Lemoyne, Documenti per scrivere la storia di D. Giovanni Bosco, dell’Oratorio di s. Francesco di Sales e della Congregaz. Salesiana, 45 volumi, in ASC A050-A094 (FdB 966A8-1201A9). |
Don Bosco en son temps | F. Desramaut, Don Bosco en son temps (1815-1888), Torino, SEI, 1996. |
Epistolario | Giovanni Bosco, Epistolario, a cura di Francesco Motto, voll. 1-4, Roma, LAS, 1991-2003. |
Epistolario Ceria | Epistolario di S. Giovanni Bosco, per cura di D. Eugenio Ceria, 4 voll., Torino, SEI, 1955-1959. |
FdB | ASC, Fondo Don Bosco. Microschedatura e descrizione, Roma, 1980. |
FdR | ASC, Fondo Don Rua. Microschede e descrizione, Roma, 1996. |
Francesia | D. Michele Rua, primo successore di Don Bosco. Memorie del Sac. G. B. Francesia, Torino, Ufficio delle “Letture cattoliche”, 1911. |
L.C. | Lettere circolari di Don Michele Rua ai Salesiani, Torino, S.A.I.D. Buona Stampa, 1910. |
MB | G. B. Lemoyne, A. Amadei, E. Ceria, Memorie biografiche di Don Giovanni Bosco, 19 voll., San Benigno Canavese e Torino, 1898-1948. |
Positio 1935 | Sacra Rituum Congregatione. Taurinen. Beatificationis ac Canonizationis Servi Dei Sac. Michaelis Rua. Positio super introductione Causae, Roma, Guerra et Belli, 1935. |
Positio 1947 | Sacra Rituum Congregatione. Taurinen. Beatificationis et Canonizationis Servi Dei Michaelis Rua. Positio super virtutibus, Romae, Guerra e Belli, 1947. |
RSS | Ricerche Storiche Salesiane, Roma, LAS. |
La città di Torino nel decennio 1830-1840
A differenza del contadino Giovanni Bosco, che scopre la città soltanto all’età di quindici anni quando arriva come studente a Chieri, Michele Rua nasce a Torino, capitale del Regno di Sardegna, dove abiterà per tutta la vita. Sarà sempre un cittadino, il figlio di una città del periodo pre-industriale, che lentamente si evolveva da un passato, di cui va andava fiera, a un’epoca più liberale di monarchia costituzionale.
Negli anni 1830 Torino contava 100.000 abitanti e godeva di buona fama in Europa.[1]Gli stranieri lodavano ‹‹la regolarità delle case, la spaziosità e nettezza delle vie, la comodità dell’acqua che chiamano Dora, le amenissime passeggiate, l’ottima polizia, la gentilezza degli abitanti, il celebre museo, gli splendidi caffè e molte altre bellezze [...] Vi hanno qui [...] dei comodi e bellissimi portici per ogni dove».[2] Questa dignità derivava dalla sua situazione politica. Durante la restaurazione seguita alla parentesi napoleonica, dopo l’unione con la Liguria, la città era diventata la capitale più importante degli Stati italiani dell’epoca, se non per superficie, almeno per organizzazione e forza economica. L’attività degli arsenali per l’approvigionamento dell’esercito e quella delle nuove industrie, soprattutto tessili, attirava gente dalle province. A Borgo Dora sorgevano manifatture che davano occupazione a parecchie centinaia di lavoratori, con ciminiere che ammorbavano l’aria.
A Torino si viveva ancora sotto il regime reazionario della Restaurazione. Il re aveva potere assoluto. I ministri rendevano conto a lui solo. Nel 1821, dopo qualche giornata di disordini, questo sistema, per un attimo sembrò vacillare all’annuncio di un’imminente costituzione, ma venne subito ripristinato dal re Carlo Felice. Questi si preoccupò in particolare dell’educazione dei giovani, come testimonia il Regolamento per le scuole fuori dell’Università, promulgato nel 1822. Era necessario, si legge nelle reali patenti che lo introducono, rimettere ordine nell’istruzione pubblica del Regno, i cui antichi ordinamenti erano stati sconvolti dalla rivoluzione e dall’introduzione di nuove ordinanze, rese ormai caduche a partire dalla ‹‹felice epoca del maggio 1814». Si intendeva così provvere all’educazione morale e scientifica dei giovani nelle scuole comunali, pubbliche e reali del Regno. La riorganizzazione delle antiche discipline, grazie alle quali ‹‹i sudditi de’ nostri reali predecessori salirono a rinomanza di colti, non meno che di saggi», appariva la strada più adatta per formare giovani simili ai loro antenati, i quali ‹‹stimavano essere un solo indivisibile Vero le Scienze, il Trono, e Dio».[3] Si era convinti che la religione, la monarchia e la scienza avrebbero contribuito insieme a plasmare le menti e i cuori dei ragazzi in quegli anni di restaurazione. Ma purtroppo a Torino l’istruzione era accessibile soltanto alle famiglie sufficientemente fortunate.
Di fatto la grande città non presentava soltanto un aspetto ordinato e civile. Al suo interno abbondavano i poveri, spesso senza dimora. ‹‹Dalle statistiche che le congregazioni di carità hanno stilato, risulta che Torino, con 125.000 abitanti, conta 30.000 poveri», si scriveva nel 1845. I mendicanti pullulavano e importunano i passanti. ‹‹Siamo circondati, siamo giornalmente assediati dagli accattoni; e tale è il loro numero che, anche nella supposizione che tutti fossero veramente poveri e non viziosi, non sarebbe però possibile di avere né i mezzi né il tempo di fermarsi con tutti, e di soccorrerli tutti. Ond’è che siamo costretti a proseguire il nostro cammino senza badare né alle loro lagrime né ai loro più commoventi scongiuri, che pure, in teoria, non dovrebbero mai ferire indarno l’orecchio di un uomo qualunque, e particolarmente di un Cristiano».[4] I mendicanti ingombravano i viali e le passeggiate intorno alla città. Mentre all’interno li si incontava sotto i portici, alla porta delle chiese e presso i caffè più lussuosi, dove, come lamentava un cittadino, non cessavano di importunare i passanti con sfrontata ostinazione.[5]
Una parte dei poveri di Torino viveva nelle periferie in rapida espansione di Borgo Dora, San Donato e Vanchiglia. Il settore più malfamato ara situato all’estremità di Vanchiglia, nella zona detta il Moschino. Là abitavano pescatori, barcaioli e la parte più misera della popolazione torinese. Scrive un contemporaneo: ‹‹È impossibile a dirsi lo schifo che ti prende quando, o per ufficio di medico, o per studio statistico, t’aggiri per quelle immonde viuzze, segregate dal commercio, ignote all’igiene, e direi umane cloache là esistenti per accusare l’unama ingiustizia, che agli uni tanti beni concede, e niega agli altri il suolo, l’aria ed il sole».[6] Il Moschino era, per la borghesia torinese, un ricovero di banditi della peggior specie, covo di una ‹‹coca» (banda organizzata) temuta ; pericoloso di giorno e inaccessibile la notte persino alla polizia.
Queste condizioni di vita disastrose generavano un disordine morale di pari proporzione. A Torino il numero delle nascite illegittime e degli infanticidi era elevato. Una nascita illegittima su quattro. Mentre negli anni 1830-1840 se ne contava solamente una su dodici a Genova, la seconda grande città dello stato, una su tredici nelle altre città e una su quarantotto nell’insieme del regno. Come nei romanzi francesi dell’epoca, il povero trovava conforto rifugiandosi in osterie malfamate, coll’ingresso più basso rispetto al piano stradale, così efficacemente descritte da uno scrittore del tempo: ‹‹Lo sconosciuto aprì l’uscio a vetri e si trovò in uno stanzone più lungo che largo, colle pareti affumicate, col pavimento composto d’assi inchidati, tutto ronchioso pel fango racatovi ed appiccatovi qua e colà dai piedi degli avventori, con un’atmosfera grassa, densa, impregnata di acri odori, in cui il fumo faceva con pieno successo le funzioni che per la strada adempiva la fitta nebbia di quella sera invernale».[7]
Nella grande città che si stava industrializzando era particolarmente penalizzata l’infanzia povera. Nel 1840, un cittadino si lamentava con il Vicario di città: ‹‹Ad ogni angolo, ad ogni attraversamento di portici si è assediati da una turba di quei décrotteurs [lustrascarpe] che fanno a gara per prevenire ciascheduno il passeggiero, e lo inseguono quand’egli è già passato, sempre gridando con un tono ed un fare insolente, anche alla distanza di venti passi».[8] Le manifatture rovinavano i più piccoli. Nello stesso anno, un giornalista denunciava la piaga: ‹‹Chi avrà posto piede in una manifattura e specialmente in un setifizio sarà rimasto sorpreso dolorosamente scorgendo uno sciame di fanciulli, colla bestemmia ad ogni momento sulla bocca inconsapevole, smunti, laceri e sudici avvolgersi nel fango, battersi l’un l’altro, ed avviarsi coi piccoli furti, colle piccole truffe per la via del delitto; e sarà rimasto raccapricciato pensando al tristo avvenire che aspetta quelle bionde testoline a cui poche cure basterebbero per rendere tutti i vezzi, tutte le grazie, tutte le virtù (che anche questa tenera età ha le sue virtù) della fanciullezza».[9] Questi ragazzi vivevano nelle strada. A Torino si deploravano le loro malefatte: ‹‹Una fra le tante piaghe che rodono la società, e che malgrado la più marcata solerzia per parte dell’autorità ed agenti di polizia non si riesce che a lenire è certamente la classe dei borsajuoli i quali infestano non soltanto le contrade o le piazze ma giungono persino a violare i reali palazzi e le chiese. Giorno non varca senza che pervengano lagni di esportazione di tabacchiere, orologi, borse, fanari o fazzoletti, per quali consumare si mettono in campo le più destre manovre».[10] La bella Torino, dunque, presentava un aspetto davvero poco smagliante.
Fortunatamente Torino aveva anche una tradizione di carità molto solida. La città disponeva di una quantità di opere pie: ospedali, ambulatori, ospizi, orfanotrofi, rifugi o asili. Oltre alle antiche istituzioni caritative, il 10 giugno 1837 si aprì un Ricovero di Mendicità, destinato alle persone di ambo i sessi e di tutte le età, della città e della provincia. Ciascuno vi riceveva quotidianamente diciotto once di buon pane e due minestre abbondanti. Quando la salute lo richiedeva, ai mendicanti veniva dato anche vino e un menù migliore. Portavano un’uniforme e dormivano in grandi cameroni separati. Se accettavano di lavorare, avevano diritto a metà del ricavo. Fin dall’inizio il loro numero salì a 498 unità. Nel 1838 il settecentesco Albergo di Virtù venne riformato col nome di Ospedale di Carità e strutturato in forma di scuola professionale a spese della beneficenza pubblica e privata. Gli apprendisti potevano sperare di essere successivamente accettati nei laboratori dove avevano imparato il lavoro. Poi c’erano le istituzioni private. Tra queste l’Opera Pia Barolo, che comprendeva un Rifugio per carcerate e prostitute pentite e un monastero di penitenti chiamate Maddalene. Quest’opera benfica si ingrandirà ben presto. Ma l’istituzione caritativa torinese più importante era certamente la Piccola Casa della Divina Provvidenza, fondata dal canonico Giuseppe Cottolengo. Egli nel 1832 aveva trasferito nel quartiere di Valdocco un piccolo ospedale per miserabili, iniziato tre anni prima, che presto si sviluppò ed ora accoglieva una quantità di ‹‹famiglie» di orfani, di invalidi, di sordo-muti, di epilettici, di handicappati mentali, di prostitute e anche un piccolo seminario. Nel 1840, nel cuore maledetto del Moschino, ai confini del sobborgo di Vanchiglia, sorse un’istituzione tra le più interessanti. Il giovane sacerdote don Cocchi vi fondò un centro per i ragazzi abbandonati, l’‹‹Oratorio» dell’Angelo Custode, modellato sull’Oratorio romano di san Filippo Neri.
La famiglia Rua nella fabbrica della Fucina
Durante la Restaurazione, su invito di qualche intellettuale (Gioberti, Balbo, d’Azeglio), l’esercito venne riformato e potenziato. Si sognava di fare l’unità d’Italia, della quale il Regno di Sardegna ambiva essere il motore. Si imponeva uno stato piemontese forte. In Borgo Dora venne costruita un’importante industria d’armi, detta Fucina delle canne. La fabbrica aveva anche un suo ‹‹cappellano». Nell’area abitava il personale dirigente. La famiglia del controllore Giovanni Battista Ruà, nella quale nasce il nostro Michele, abitava proprio alla Fucina.
A differenza del lettore italiano, il lettore francese non nota l’accento posto sulla a del cognome Ruà nei documenti amministrativi della prima parte del XIX secolo.[11] C’è una certa assonanza tra questa parola e il termine francese roi, che significa re. Don Amadei lo faceva notare nella biografia di don Rua. Ma si sbagliava. All’origine del cognome non c’è il patronimico Des Rois.[12] Nella Francia dell’Ancien Régime, roi (cioè re) si pronunciava roa o ancora roé, mai roua. Non complichiamo dunque il problema. Forse la forma francese roua, non roi, è la più plausibile. Se, come sembra, l’antenato dei Ruà apparteneva a una popolazione di lingua francese, si chiamava all’inizio semplicemente Roua, parola trasposta in lingua italiana come Ruà. L’ipotesi è ancora più verosimile se si pensa che il patronimico Rouat è attualmente molto diffuso in Francia e nel Canada francese. Ad ogni modo, già dalla metà del XIX secolo, l’accento finale scomparve e, secondo l’uso italiano, si spostò sulla prima parte del dittongo. La vecchia pronuncia venne definitivamente dimenticata.
Un doppio matrimonio rende complicata la presentazione della famiglia di Michele Rua.[13] Il padre, Giovanni Battista, nacque probabilmente nel 1786, se si presta fede all’atto del suo primo matrimonio che gli attribuisce ‹‹circa 28 anni» (il certificato di battesimo e di famiglia non sono stati rintracciati). Giovanni Battista si sposò la prima volta il 25 aprile 1814 con la diociottenne Caterina Grimaldi, dalla quale ebbe cinque figli.[14] Tre di loro morirono in tenera età. Intorno al 1827, all’età di 31 anni morì anche Caterina.[15] Giovanni Battista sposò allora in seconde nozze Giovanna Maria Ferrero, di 34 anni, la madre del nostro Michele, alla quale affidò i due figli di primo letto, Pietro Fedele e Giovanni Battista Antonio.
Michele, nato il 9 giugno 1837 e battezzato l’11 giugno 1837 nella chiesa di santa Maria della Neve e dei Santi Simone e Giuda, a Torino,[16] era il quarto ed ultimo figlio di Giovanna Maria. I precedenti si chiamavano Giovanni Battista (nato il 2 luglio 1829), Maria Paola Felicita (nata il 7 marzo 1834) e Luigi Tommaso (nato alla fine del 1834). Maria Paola Felicita morì alla nascita di Michele, perciò egli si trovò in casa con due fratellastri, Pietro Fedele (22 anni) e Giovanni Battista Antonio (17 anni), e due fratelli, Giovanni Battista (8 anni) e Luigi Tommaso (3 anni). Si può facilmente capire perché Michele si rimasto molto affezionato a quest’ultimo.
Michele e la scuola della Fucina
Tutto lascia intendere che Giovanna Maria si prendesse cura particolare dell’educazione dell’ultimo nato, il suo preferito.
Michele imparò a leggere e a scrivere, studiò il catechismo diocesano. Ci dicono i primi biografi che aveva un’eccellente memoria. Le lezioni di catechismo si impressero definitivamente nel suo cuore e lo spirito ne rimase impregnato per il resto dei suoi giorni. A distanza di un secolo e mezzo, il dogmatismo e il moralismo di quel catechismo verrà ingiustamente disprezzato da molti sacerdoti e laici. In realtà quello strumento è stato in grado di offrire a giovani menti, come quella del piccolo Rua, una struttura religiosa destinata a durare nel tempo. Vi si imparava che cosa si dovesse pensare e credere su Dio e su Cristo, sul tremendo giudizio divino nei riguardi dei peccatori, sulla vita oltre la morte, sulle principali virtù cristiane, sui comandamenti di Dio e della Chiesa, sui peccati e sui sacramenti.[17] I cristiani formati a tale scuola non avevano più bisogno di andare in cerca di altre sicurezze.
Qui citiamo solo le ‹‹premesse» di quel catechismo che la famiglia Rua prendeva molto sul serio. La pratica degli esercizi quotidiani del cristiano riportava ogni giorno il pensiero ai principali punti della dottrina. Consisteva, al mattino, in una preghiera di adorazione, ‹‹Vi adoro, mio Dio e vi amo con tutto il cuore...», a cui seguivano il Padre nostro, l’Ave Maria, il Credo, l’invocazione all’Angelo Custode, l’elenco dei comandamenti di Dio, dei precetti della Chiesa, dei Sacramenti; poi venivano proclamati gli atti di fede, di speranza, di carità e di dolore. Alla sera si recitava il ‹‹Vi adoro», il Padre Nostro, l’Ave Maria, la preghiera all’Angelo Custode e l’atto di dolore.[18]
In questa famiglia piemontese di vecchio stampo, si diventava cristiani così, quasi senza accorgersene. Michele imparò a servire la messa, cosa che gli fornì anche occasione di commettere una birichinata. Diventato Rettor Maggiore la confesserà tranquillamente. Nel 1894, a Cavaglià, comune piemontese presso Biella, si celebrava l’inaugurazione di una scuola salesiana. Il vecchio arciprete, esecutore testamentario del fondatore morto di recente, faceva gli onori di casa a don Rua e a un gruppo di personalità invitate per l’occasione a pranzo. Giunto il momento del dessert, don Rua si alzò per il brindisi: ‹‹Io non so, monsignor arciprete, se ella ricorda un ragazzino vivace e birichinello, che veniva a servirle la Messa, quand’era in Torino Rettore della chiesa dei Catecumeni e che dopo soleva vuotare l’ampollina del vino. Ebbene, monsignore, quel ragazzo, le cui birichinate ella con tanta bontà dissimulava, regalandogli anzi ogni volta qualche soldo, quel ragazzo sono io, e vengo ora a dimandarle sincero, benché tardivo perdono». Il fratello dell’arciprete, raccontando l’aneddoto aggiunse: ‹‹Si può immaginare la schietta ilarità dei commensali, e insieme la loro ammirazione per tanta modestia nel confessare così pubblicamente un fatto della propria fanciullezza. Il vecchio anfitrione piangeva come un bambino».[19]
Presto Michele fu pronto a ricevere i sacramenti della cresima e dell’eucaristia. Secondo i registri parrocchiali di San Gioachino, ricevette la confermazione dall’arcivescovo Luigi Fransoni il 25 aprile 1845. Non aveva ancora otto anni. Alla stessa età venne ammesso alla prima comunione.[20]
Nel secondo semestre del 1845, anno decisamente fecondo di avvenimenti per lui, Michele perse il padre. Giovanni Battista Ruà morì ‹‹all’età di sessant’anni circa». I fratellastri si allontanarono dalla casa paterna. Malgrado la morte del marito, Giovanna Maria e i figli mantennero l’alloggio nella fabbrica, dove il figlio primogenito era impiegato.
Il secondo evento di quell’anno che, alla lunga, avrà per lui importanza determinate, è l’incontro con don Bosco: ‹‹Ho conosciuto il Servo di Dio nel settembre del 1845, quando avevo otto anni», testimonierà al processo di canonizzazione. Don Bosco aveva trent’anni. Sacerdote da quattro, era uno dei cappellani del Rifugio Barolo, dov’era stato chiamato ad assumere la direzione di un Ospedaletto ancora in costruzione. Fin dall’infanzia egli aveva il dono di attirare attorno a sé i ragazzi e i giovani per divertirli e istruirli. Era la sua passione ed otteneva sempre molto successo. Arrivato a Torino nel 1841, ben presto iniziò a raccogliere e organizzare un gruppo di ragazzi che catechizzava nella cappellina del Convitto ecclesiastico, adiacente alla chiesa di San Francesco d’Assisi, dove frequentava corsi di Pastorale (confessione, direzione spirituale e predicazione). Quando, tre anni più tardi, diventò cappellano al Rifugio Barolo, i ragazzi andarono a trovarlo nella sua stanza. Il numero esiguo del primo giorno crebbe ben presto. Lo aiutavano gli altri due cappellani. La marchesa di Barolo aveva concesso loro, nell’ala già terminata dell’Ospedaletto, una stanza che era stata adibita a cappella dedicata a san Francesco di Sales. Pregavano, cantavano, giuocavano, ascoltavano belle istruzioni e splendidi racconti. Al Rifugio, nell’autunno del 1844, l'‹‹Oratorio di San Francesco di Sales» assunse una fisionomia simile a quella dell’Oratorio dell’Angelo Custode di don Cocchi in Vanchiglia.
Ma la marchesa aveva preavvistato i cappellani sulla provvisorietà del loro insediamento. Quando nell’agosto successivo si inaugurò l’Ospedaletto, l’Oratorio di san Francesco di Sales dovette sgomberare i locali. Si rese dunque necessario trovare un’altra cappella e un terreno da gioco per i ragazzi, diverso dalla strada adiacente al Rifugio. Tra maggio e giugno si tentò l’insediamento in un cimitero fuori uso, san Pietro in Vincoli, provvisto di cappella. Le autorità competenti li cacciarono. Allora presentarono domanda all’amministrazione cittadina, che il 18 luglio 1845 concesse per la domenica pomeriggio l’uso della chiesa dei Mulini presso il fiume Dora. Furono tollerati solo fino a dicembre. I giovani infatti sconfinarono immediatamente nella piazza attigua, con allarme dei residenti, preoccupati della pulizia e della tranquillità del quartiere. Tutto quel movimento in Borgo Dora destava interesse e attirò l’attenzione di molti su don Bosco. Michele Rua ne fece la conoscenza quando l’Oratorio si trovava provvisoriamente ai Mulini. La signora Rua non permetteva al figlio minore di frequentare i ragazzi di strada: dunque, per quanto ne sappiamo, fu un compagno di classe a parlargli di don Bosco e accompagnarlo presso di lui al Rifugio. All’istante, Michele restò affascinato da quel sacerdote benevolo e sorridente.
Il Risorgimento a Torino
A Torino gli anni che seguirono l’incontro di Michele con don Bosco furono turbolenti. Si stava avviando il processo del Risorgimento italiano. In Roma nel 1846 a papa Gregorio XVI era subentrato il ‹‹liberale» Pio IX. Le persone più aperte lo avrebbero voluto capo di una crociata emancipatrice e unificatrice di tutta la penisola. Ci si doveva sbarazzare soprattutto del giogo austriaco che umiliava il Lombardo-Veneto. Il 4 marzo 1848, i Piemontesi si diedero una legge fondamentale, lo Satuto, che abrogava il carattere assoluto della monarchia. Venne eletto un parlamento e nel regno di Sardegna incominciò a farsi strada l’idea liberale. Tutti i cittadini, anche ebrei o valdesi, furono dichiarati uguali. L’amor di patria suscitava entusiasmi ovunque, anche tra il basso clero, a cominciare dai seminaristi, con grande dispiacere dell’arcivescovo conservatore Luigi Fransoni. Il 23 marzo il re Carlo Alberto dichiarò guerra all’Austria per la liberazione della Lombardia. Purtroppo venne sconfitto e dovette abdicare in favore del figlio Vittorio Emanuele II (23 marzo 1849). Intanto a Roma, Pio IX, che non era disposto ad accettare questo genere di crociate militari, costretto da una rivoluzione, si rifugiò nel Regno di Napoli. Fu proclamata la Repubblica Romana, e il papa, agli occhi dei patrioti più accesi, si tramutò nel simbolo del conservatorismo oscurantista ostile al Risorgimento d’Italia.
Nel frattempo Michele Rua cominciava a pensare al sacerdozio. L’atmosfera sociale non era certo favorevole alle vocazioni, come spiegherà don Bosco nella prefazione di una sua opera: ‹‹In quell’anno (1848) uno spirito di vertigine si levò contro agli ordini religiosi e contro alle Congregazioni ecclesiastiche; di poi in generale contro al clero e a tutte le autorità della Chiesa. Questo grido di furore e di disprezzo per la religione traeva seco la conseguenza di allontanare la gioventù dalla moralità, dalla pietà; quindi dalla vocazione allo stato ecclesiastico. Mentre gli istituti religiosi si andavano così disperdendo; i preti erano vilipesi, taluni messi in prigione, altri mandati a domicilio coatto: come mai umanamente parlando era possibile coltivare lo spirito di vocazione?».[21]
Michele frequenta la scuola dei Fratelli
In quegli anni tormentati, Michele non frequentava ancora l’Oratorio di don Bosco, che dal 1846 si era trasferito definitivamente a Valdocco in casa Pinardi, dove una tettoia era stata trasformata in cappella. Sua madre non lo permetteva. Tutta la famiglia assisteva alla messa domenicale nella cappella della Fucina. Il ragazzo tuttavia si manteneva in contatto con don Bosco. Qualche volta, in compagnia del fratello maggiore Luigi, lo visitava all’Oratorio. Ma soprattutto poteva vederlo e probabilmente anche parlargli nella scuola. Forse era stato lo stesso don Bosco ad indirizzarlo alla scuola del quartiere di Santa Barbara, gestita dai Fratelli delle Scuole Cristiane. Infatti il prete di Valdocco era in confidenza con il provinciale dei Fratelli. Nel 1845 aveva dedicato la sua Storia ecclesiastica ‹‹all’esimio Fratello Hervé-de-la-Croix, provinciale dei Fratelli delle Scuole Cristiane», pregandolo di accettare l’umile omaggio di ‹‹quest’operetta [...]; non sia più mia ma sua». Lo storico dell’istituto, Georges Rigault, dopo aver citato il fatto, scrive: ‹‹Giovanni Bosco si interessava molto alla pedagogia lasalliana. Aveva preso a guida di questo studio la sicura competenza dell’Ispettore provinciale. Approfondiva la sua conoscenza innata dell’animo infantile in frequenti conversazioni con lui e attraverso la lettura della Guida delle scuole e delle Dodici virtù di un buon maestro».[22] La cosa è molto verosimile.
Nell’ottobre del 1848, Michele cominciò dunque a seguire le lezioni nella scuola comunale di Santa Barbara, situata in via Borgo Dora n. 29, che frequentò per due anni. Se le nostre informazioni sono corrette, venne iscritto subito al secondo anno della primaria superiore. Il programma prevedeva che si imparassero, ‹‹oltre alle scienze religiose, i precetti di composizione letteraria, il sistema dei pesi e delle misure in uso nel Piemonte, il sistema metrico-decimale recentemente adottato, la geografia dell’Asia e dell’Africa, la storia dei duchi di Savoia, da Amedeo VII a Carlo Emanuele II, elementi di storia naturale, di disegno e di calligrafia».[23] Questi corsi completavano dunque l’istruzione di base ricevuta nella scuola primaria inferiore.
I Fratelli ritenevano che l’educazione dovesse avere il primato sull’istruzione. Nella scuola, Michele affinò l’educazione ricevuta in famiglia. Gli allievi delle classi elementari erano invitati a leggere il trattatello del fondatore, san Giovanni Battista de La Salle, sulle Regole della buona creanza e dell’educazione cristiana. Ai tempi di Michele, in tutte le scuole dei Fratelli, gli allievi erano aspramente ripresi se davano l’impressione di trascurarle. Devevano quindi tenere un contegno all’insegna della ‹‹modestia». Le Regole li ammonivano: ‹‹niente contribuisce di più alla grazia del corpo, all’onestà stessa dei costumi della precisione, con la quale un giovane osserva lo stato naturale e il movimento delle parti del corpo». Ora, ‹‹i giovani sono troppo soggetti ai difetti che offendono, in quest’ambito, la modestia e l’onestà. La buona creanza comporta che si tenga la testa dritta e alta, senza inclinarla da una parte o dall’altra; che non la si giri a destra e a sinistra con distrazione».
Come vediamo dai titoli dei vari capitoli, il libretto sulla ‹‹buona creanza» abbondava di direttive puntuali. Riguardavano, in ordine di successione, la testa e le orecchie, i capelli, il viso, la fronte e lo sguardo, il naso, la bocca, le labbra, i denti e la lingua, il modo di parlare e di pronunciare, di sbadigliare, di tossire e di sputare; il modo di tenere la schiena, le spalle, le braccia e i gomiti, le mani, le dita, le unghie, le ginocchia, le gambe e i piedi. Ripetere tali norme di comportamento in auge nell’ordinatissima società francese del XVIII secolo, suonerebbe oggi a dir poco bizzarro e superato. Ma alla base di quelle precisazioni, che paiono eccessive a chi vive in un modo individualista come il nostro, non v’era altro che un estremo rispetto di sé e degli altri. Il contegno in pubblico doveva essere perfettamente disciplinato. ‹‹I ragazzi non interromapano mai coloro che parlano con domande, anche se serie ed opportune. Quando si chiede loro qualcosa, devono rispondere con modestia; far seguire al sì e al no gli appellativi Signore, Signora, Signorina. Si deve impedire loro di fissare sfrontatamente coloro con i quali conversano, di ascoltare chi parla ad altri, mentre non prestano alcuna attenzione a ciò che loro si dice; di ridere o di sghignazzare parlando; di trattare di cose che conoscono appena. In una parola, bisogna convincerli che è loro dovere ascoltare, parlar poco e non parlare a sproposito».
Michele Rua, di indole attenta e riservata, assimilava senza difficoltà quei principi di buona educazione. Grazie ad essi, da adulto, non farà fatica ad adattarsi alla ‹‹buona società».
Nelle scuole dei Fratelli la disciplina era ferrea. Il trattato del fondatore La Guida delle delle scuole cristiane (tradotto in italiano a Torino dall’editore Pomba nel 1834) ne illustrava le regole con dovizia di particolari. I Fratelli erano invitati a leggere e a rileggere il lungo trattato. Non sappiamo con quale puntualità lo applicassero a Santa Barbara, anche se dobbiamo supporre che i Fratelli dell’Ottocento non transigessero sulle loro tradizioni. In ogni caso l’insieme del trattato ci restituisce esattamente l’ambiente educativo nel quale crebbe Michele tra gli undici e i tredici anni. Ecco alcune di queste disposizioni, talvolta sorprendenti.
Silenzio nella scuola: ‹‹Il maestro farà ben comprendere agli alunni che possono parlare ad alta voce soltanto in tre momenti, e cioè durante la recita delle lezioni, del catechismo e delle preghiere. Anche il maestro osserverà questa norma, e non parlerà ad alta voce che in tre occasioni: 1) durante la lettura, qualora dovesse intervenire per correggere, non essendovi alcun alunno capace di farlo; 2) durante il catechismo; 3) durante le riflessioni e l’esame di coscienza. Al di fuori di queste circostanze, parlerà a voce alta solo quando lo riterrà strettamente necessario, e farà in modo che queste occasioni siano molto rare. Quando gli scolari camminano in classe, debbono farlo a capo scoperto, con le braccia incrociate, posatamente, senza trascinare i piedi sul pavimento o far rumore con gli zoccoli, per non rompere il silenzio che deve regnare sempre nell’aula. Sarà facile per il maestro far osservare il silenzio se avrà cura che gli alunni stiano sempre seduti al loro posto, con il busto eretto, con il viso rivolto in avanti e appena un po’ girato verso di lui; che tengano in mano il libro di testo e seguano la lettura; che tengano le mani e le braccia bene in vista; che non si tocchino l’un l’altro con le mani o con i piedi; che non si scambino oggetti o sguardi di intesa; che stiano composti colle gambe e non si tolgano mai le scarpe o gli zoccoli; che quelli che scrivono non si sdraino sul banco e non assumano posizioni sconvenienti».[24]
La Guida delle scuole contiene un lungo capitolo sui metodi correttivi. Non senza ragione, riteneva l’autore. In effetti, ‹‹la correzione degli alunni è una delle cose più importanti nell’arte dell’insegnamento, quella a cui bisogna fare più attenzione nell’infliggerla con giustizia e con frutto, sia per coloro che la subiscono che per gli altri che vi assistono».[25] Le punizioni erano inflitte con la ferula (un listello di legno o di cuoio per colpire la mano tesa del colpevole), con la bacchetta o con lo staffile (tre colpi, cinque se veniva opposta resistenza), e tramite le ‹‹penitenze», che generalmente consistevano in una pagina da scrivere o in un testo da imparare a memoria. Giovanni Battista de La Salle sapeva che i fanciulli vanno compatiti, ma aggiungeva: ‹‹Se si ha troppo riguardo alla fragilità umana ed un’eccessiva comprensione, lasciando far loro ciò che vogliono, si avranno solo ragazzi viziati, sregolati e pieni di insubordinazione».[26] Questo educatore metteva in secondo piano il bisogno di lasciar esprimere l’allievo, tanto esaltato ai nostri giorni. Secondo lui il comportamento abituale del maestro avrebbe facilitato tutto: ‹‹I maestri si impegneranno ad essere molto cordiali e disponibili, e ad avere un atteggiamento affabile, onesto ed aperto, senza tuttavia assumere un’aria né meschina né troppo familiare; che facciano di tutto per i loro scolari per guadagnarli tutti a Gesù Cristo e che si persuadano che l’autorità si acquisisce e si mantiene di più, nella scuola, con la fermezza, la severità e il silenzio che con le percosse e la durezza».[27]
Date queste premesse, si comprende perché a Santa Barbara facesse enorme sensazione l’arrivo di don Bosco, sacerdote che privilegiava i rapporti di amicizia con i giovani. Don Rua testimonia: ‹‹Mi ricordo che quando D. Bosco veniva a dirci la santa Messa e non di rado a predicare nelle domeniche, appena entrava in cappella, pareva che una corrente elettrica muovesse tutti que’ numerosi fanciulli. Saltavano in piedi, uscivano dai loro posti, si tringevano attorno a lui e non erano contenti sinché non arrivassero a baciargli le mani. Ci voleva un gran tempo perché egli potesse giungere in sagrestia. In quei momenti i buoni Fratelli delle Scuole Cristiane non potevano impedire quell’apparente disordine e lasciavano fare».[28]
Presso la scuola dei Fratelli, Michele si dimostrò allievo devoto, serio, impegnato e diligente: riportava regolarmente giudizi ‹‹onorevoli». Le pagelle, giunte fino a noi, lodano la sua ‹‹buona condotta» e la sua ‹‹applicazione» nelle classi di seconda e terza ‹‹elementare superiore».[29] Conserverà un bellissimo ricordo della sua scuola. Le lezioni dei Fratelli sulla dignità del contegno in società e sulla Guida delle scuole influenzeranno il suo comportamento per tutta l’esistenza.
Lo studio del latino con don Bosco
Michele, all’età di tredici anni, sul principio dell’estate 1850, cominciò a frequentare le lezioni di latino per l’ammissione alla classe di ‹‹grammatica». Lo fece sotto la guida di don Bosco che aveva messo gli occhi su di lui perché sperava di farne, in fututo, un collaboratore del suo apostolato.
Verso la fine degli anni 1840 don Bosco stava diventando, nella città di Torino, agli occhi dei suoi ammiratori un personaggio carismatico, quasi taumaturgico. La stampa cattolica iniziò a celebrarlo nel 1849. Un’articolo del Conciliatore Torinese sosteneva che egli possedesse ‹‹una virtù prodigiosa» sul cuore dei giovani. Questo ‹‹nuovo discepolo di Filippo Neri» era in grado di operare prodigi.[30] L’agiografia salesiana fa risalire proprio a questi anni una moltiplicazione di ostie, una moltiplicazione di castagne e anche la resurrezione temporanea di un ragazzo di quindici anni, perché potesse confessare una colpa grave prima di spirare definitivamente. La gente all’interno e all’esterno dell’Oratorio, tendeva ad attribuirgli dei miracoli, anche quando egli negava d’esserne l’autore.
Don Bosco aveva bisogno di collaboratori, soprattutto perché ora, accanto all’Oratorio propriamente detto, era stato creato un piccolo centro di accoglienza. I ragazzi ospiti andavano al lavoro e a scuola in città. Da tre anni egli cercava nel proprio ambiente dei giovani disposti a seguirlo. Li circondava di particolari attenzioni, li istruiva e si sforzava di orientarli verso i propri obiettivi, cioè il ministero pastorale a servizio dei ragazzi poveri ed abbandonati. Ma le delusioni si moltiplicavano. Le reclute nelle quali poneva le sue speranze una dopo l’altra lo abbandonavano.
In quel momento arrivò all’Oratorio Michele Rua. Nelle vacanze estive del 1850, iniziò le lezioni di latino in compagnia di altri due giovani. L’insegnante, Felice Reviglio, era un compagno un po’ più avanzato negli studi. Dopo un paio di settimane, don Bosco fece una verifica dei loro progressi. Il primo biografo, Francesia, è categorico: Michele risultò ‹‹negligente». Giudizio che stupì chi lo conosceva. Del resto lo si può capire. Abituato, nella scuola dei Fratelli, a un insegnamento metodico, perfettamente organizzato, in classi strutturate, non poteva che rimanere disorientato dalle lezioni di un compagno inesperto, pieno di buona volontà. Ma appena si rense conto che ciò dispiaceva a don Bosco, si rimboccò le maniche, come riferisce il biografo, e superò facilmente i due compagni di ventura.[31]
Don Bosco progressivamente lo introdusse nel tipo di vita che desiderava per lui. La preghiera e l’allegria occupavano un ruolo centrale. Michele inaugurò questo nuovo periodo partecipando, verso la metà di settembre 1850, a un corso di esercizi spirituali organizzato per i ragazzi dell’Oratorio nel piccolo seminario di Giaveno. Il santo vi portò un centinaio di giovani, ai quali si unirono altri venti del paese. Il ritiro si svolse secondo uno schema semplificato degli esercizi spirituali di sant’Ignazio, ben noto a don Bosco. La meditazione mattutina era assicurata dal curato di Giaveno, Innocenzo Arduino, le istruzioni del mattino e della sera erano tenute dal teologo Felice Giorda. Sermoni, preghiere, letture pie, scandivano le giornate dei partecipanti. Come rinforzo venne anche Roberto Murialdo, direttore dell’Oratorio dell’Angelo Custode, per aiutare nelle confessioni. Allora non si concepiva un ritiro senza conversione e dunque senza confessione.[32]
Il raccoglimento dei partecipanti fu sincero. I predicatori assolsero bene al loro compito. Il 12 settembre don Bosco constatò con soddisfazione che quel giorno, uscendo di cappella, neppure uno dei giovani profittò della ricreazione prevista tra le quattro e le cinque del pomeriggio. Tutti avevano preferito ritirarsi nella ‹‹camera di riflessione».[33] A Michele piacerà raccontare come in quell’occasione avesse imparato da don Bosco ‹‹l’esercizio della buona morte» e l’importanza di farlo regolarmente e con cura.
Qualche giorno dopo il santo educatore invitò un gruppetto dei suoi oratoriani migliori, tra i quali il giovane Rua, a passare una settimana ai Becchi. Amava molto quella piacevole collina, coperta di vigneti e di alberi da frutto sparsi qua e là nei prati e ombreggiata lungo i pendii da piante maestose. Là lo portavano i ricordi dell’infanzia. Una piccola cappella sul lato della casa del fratello Giuseppe, dedicata alla Madonna del Rosario, gli permetteva di celebrare la messa sul luogo. Durante le escursioni nel territorio, i contadini offrivano ai ragazzi uva e frutta. Rua, che era abituato alla vita monotona e chiusa della città, godette dell’aria aperta della campagna. Tornò rinvigorito e ancor più affezionato al padre spirituale.
Le classi ginnasiali
Poi Michele entrò nel ginnasio. In quel tempo le classi ginnasiali, dette di ‹‹grammatica» duravano tre anni. Secondo Francesia, al termine delle vacanze del 1850, ‹‹don Bosco, volendo che i suoi allievi frequentassero un corso regolare, ne parlò ad un bravo sacerdote che a quei tempi aiutava l’Oratorio e teneva aperta una scuola privata di latinità. Egli si chiamava don Pietro Merla, da Rivara, tutto zelo per la gioventù studiosa. A questi affidò i suoi allievi, i quali poterono fare assai bene i due primi corsi di latino».[34]
Al principio dell’anno scolastico 1851-1852, Michele Rua cominciò a seguire le lezioni di Giuseppe Carlo Bonzanino, in via Guardinfanti 19. Dopo un mese, nell’ottobre 1851, raggiunti risultati di eccellenza in latino, venne autorizzato a passare al terzo anno di grammatica. La scuola del Bonzanino non assomigliava affatto a quella dei Fratelli, ma almeno non si perdeva tempo. Agostino Auffray, dotato di fertile immaginazione e ben informato, descrive quel professore in modo pittoresco:
‹‹Era un tipo, questo Bonzanino. Aveva l’insegnamento nel sangue e vi si dedicava anima e corpo. I suoi successi, che erano costanti, si spiegavano per la qualità della sua istruzione: chiara, metodica, pratica. La sua esperienza di antica data faceva istintivamente riferimento agli elementi essenziali, risolveva i problemi solo con i principi, e sapeva infondere nelle sue lezioni piuttosto austere sia l’entusiasmo che l’intelligenza. [...] Abitava presso la chiesa di San Francesco d’Assisi, nella stessa casa in cui Silvio Pellico, di ritorno dal carcere, aveva scritto Le mie prigioni. Tutte le mattine sotto il portico della sua abitazione, si riversavano gruppi di ragazzi, soprattutto delle classi più altolocate, che si suddividevano in tre corsi di latino e di greco. Li teneva tutti e tre insieme. Gli uni studiavano mentre gli altri seguivano la lezione e viceversa. Si poteva, a proprio piacimento prendere parte, nella stessa mattina, alla spiegazione di Cornelio Nepote, di Cesare o di Sallustio, di Fedro, Ovidio o Virgilio. Nessuna parete né fisica, né morale separava le classi. Il professore pretendeva solo due cose: l’attenzione, i compiti ben fatti e le lezioni imparate come si deve. Per il resto, piena libertà. Il metodo era vantaggioso per gli allievi capaci. Quelli che avevano delle lacune nella loro istruzione, le colmavano facilmente, seguendo in aggiunta il corso inferiore. Coloro che erano audaci nello spirito e avevano solide facoltà intellettuali, potevano passare al corso superiore. Bonzanino ebbe allievi che entravano in quinta in ottobre, passavano in quarta a Pasqua e terminarono l’anno in terza. Il sabato mattina, totalmente consacrato a redigere la composizione che assegnava i posti [la graduatoria di merito] della settimana, offriva uno spettacolo veramente curioso: gli allievi "sgobboni" si affrettavano a concludere il compito del loro corso per concedersi il lusso di agganciarsi alla composizione della classe superiore. Il piccolo Michele profittò mirabilmente di questo ambiente stimolante. Uno dei suoi compagni, Francesia salesiano fantasioso che ritengo la fonte di queste notizie , testimonia che Rua, quando era in terza, si obbligava a seguire i corsi delle due classi precedenti, per rafforzarsi negli elementi delle lingue antiche».[35]
Michele brillava negli studi. Secondo Francesia, testimone oculare, benché avesse accanto dei condiscepoli molto dotati, non impiegò molto a conquistare il primo posto e a mantenerlo.[36]
Lo stesso Francesia racconta uno scherzo di cui Michele fu vittima innocente. A quel tempo in Piemonte si usava, il terzo giovedì di Quaresima, organizzare uno scherzo che consisteva nel recapitare ad un malcapitato una sega vera o di carta. Accadeva sempre che il destinatario, ignaro della trappola, venisse messo in ridicolo. Nel 1852, gli allievi di Bonzanino decisero di recapitare la sega al professore. Rua che aveva subodorato il progetto, cercò inutilmente di dissuadere i compagni. Quel giovedì mattina, quando Rua entrò in classe dopo gli altri allievi dell’Oratorio, uno di loro gli disse: ‹‹Tu che sei ancora in piedi, da’ al professore questa lettera di don Bosco». Rua la prese e la consegnò. Appena il professore sentì da chi proveniva la lettera, aprì il plico, che conteneva una sega in cartoncino. Allora si alzò infuriato contro Michele, dicendo che non si sarebbe mai aspettato tale insolenza da uno dei giovani di don Bosco, tanto meno da parte sua. Più tardi, quando capì che la vera vittima era lo stesso Rua, il professore si placò. Quel giorno era la vigilia di san Giuseppe, onomastico del professor Bonzanino. In serata, don Bosco inviò i suoi ragazzi ad augurargli buona festa. Ma Rua si teneva in disparte e non osava farsi notare. Allora il professore gli si avvicinò: ‹‹Non essere triste. È colpa mia, non ho capito che lo scherzo era destinato a te, non a me». Don Rua non dimenticherà mai l’accaduto. ‹‹Fu una gran prova», confidò ancora nel 1909 a Francesia che glielo ricordava, non tanto per l’umiliazione subita, ma per aver lasciato intendere di voler giocare un brutto tiro a un professore amato.[37]
Michele si distingueva nell’Oratorio di don Bosco, che era in piena evoluzione. Bisogna ricordare che quel centro giovanile stava diventando un’opera-pilota a Torino. Verso la fine del 1847, con una supplica si informava l’arcivescovo Fransoni che il sacerdote Giovanni Bosco e il teologo Borel, addetti alla direzione spirituale dell’Oratorio S. Francesco di Sales, avevano aperto un nuovo Oratorio tra il viale dei Platani e il viale del Re e chiedevano di delegare il curato della Madonna degli Angioli per la benedizione di quella cappella. Il nuovo Oratorio, posto sotto la protezione di S. Luigi Gonzaga, era situato nel quartiere ancora periferico di Porta Nuova. Inoltre, a seguito di una grave disavventura accaduta a don Cocchi, conclusa nel 1849 con la chiusura dell’Oratorio dell’Angelo Custode in Vanchiglia, l’arcivescovo aveva affidato a don Bosco anche la responsabilità di quel primo Oratorio torinese. Tali annessioni non garbavano ad alcuni dell’ambiente ecclesiastico. Don Bosco venne rimproverato per le sue eccessive pretese. L’invidia avvelenava le relazioni. I bisticci terminarono soltanto con un decreto arcivescovile datato Lione, 31 marzo 1852. Mons. Fransoni, esiliato in Francia, nominava don Bosco ‹‹direttore e capo spirituale» dell’Oratorio S. Francesco di Sales, al quale dovevano essere considerati ‹‹uniti e dipendenti» gli Oratori dell’Angelo Custode e di S. Luigi Gonzaga.[38]
La casa annessa all’Oratorio di S. Francesco di Sales, benché misera, vedeva aumentare il numero degli ospiti, spesso fanciulli abbandonati, costretti a cercare lavoro in qualche cantiere. Per tutti questi giovani la cappella della tettoia Pinardi diventava troppo piccola. Don Bosco si decise a costruire una vera e propria chiesa, dedicata naturalmente a san Francesco di Sales, che venne benedetta il 21 giugno 1852. Nel frattempo si costruì anche un edificio nuovo accanto al vecchio.
Michele viveva ancora in famiglia, ma era solito trascorrere la maggior parte del suo tempo libero all’Oratorio. Intanto cresceva. Osservatore nato, capiva al volo le intenzioni di don Bosco e lo aiutava come poteva a tenere un po’ d’ordine e di disciplina sia tra gli interni che tra gli esterni. Ben vestito, sempre educato, con una certa gravità nei modi, secondo le Regole della buona educazione e di civiltà di Giovanni Battista de La Salle, già alla sua età incuteva soggezione. Giovanni Cagliero ci ha lasciato un quadro pittoresco del Michele di quei tempi fra i compagni, quadro probabilmente arricchito da Auffray, da cui traggo la citazione:
‹‹Noi l’avevamo come sorvegliante nell’andare e tornare dalla scuola, e confesso che facevamo un bel contrasto con lui. Tanto noi eravamo spensierati, chiassosi, quasi indisciplinati, quanto lui rimaneva calmo, riservato, diligente. Non lo ascoltavamo sempre, ma ci incuteva soggezione sia in classe che nello studio e anche durante la ricreazione, con i suoi discorsi piacevoli e la sua devozione fuori dal comune. Ancora mi pare di vederlo, la domenica mattina, di guardia vicino alla fontana. Don Bosco confessava prima della messa e Rua vegliava affinché nessuno dei penitenti assolti mancasse alla comunione per leggerezza, venendo a bere un goccio di acqua fresca [ricordiamo che un tempo le regole del digiuno eucaristico erano strettissime]. Durante la messa il suo raccoglimento ci stimolava a pregare. Metteva fine alle chiacchiere e dopo la comunione, se il nostro sguardo o la nostra mente si distraevano, ci richiamava al dovere, sussurrando a bassa voce: "Ringrazia Nostro Signore!" Nei nostri colloqui non finiva mai di elogiare don Bosco e non cessava di raccomandarci la corrispondenza al suo amore per noi, con una docilità esemplare. Aveva una grande delicatezza, non tollerava nessun discorso equivoco tra gli artigiani che provenivano da fuori e quelli che alloggiavano da poco tempo presso don Bosco; tanto più tra gli allievi del prof. Bonzanino o di don Picco, che sembravano tutti avviati allo stato ecclesiastico».[39]
I compagni di allora, divenuti adulti, riconobbero che Rua non aveva chi gli fosse pari nello svolgimento assiduo dei suoi compiti. Naturalmente, quando don Bosco, nel corso di una conferenza, chiese dei volontari che si impegnassero a recitare giornalmente le Sette Allegrezze di Maria, Michele Rua fu uno dei dodici che si presentarono (5 giugno 1852).
Michele Rua veste l’abito chiericale
Le vacanze del 1852 furono decisive per il nostro Michele. A quindici anni mostrava già una maturità eccezionale. Come aveva fatto nel 1850, a settembre partecipò, con una cinquantina di compagni, al ritiro che don Bosco organizzava per i giovani nel piccolo seminario di Giaveno. Al ritorno, lasciò l’abitazione di famiglia alla Fucina ed entrò come ‹‹interno» nella casa annessa all’Oratorio. Infine, durante le giornate ai Becchi, divenute tradizionali per un gruppo di giovani dell’Oratorio, don Bosco gli fece indossare la tonaca. Non ci fu alcun ritiro preliminare. Ora il giovane adolescente raddoppiò l’impegno, osservando il suo maestro spirituale. Le giornate passate accanto a don Bosco avevano per lui lo stesso valore di una meditazione. Al processo di canonizzazione gli capiterà di fare la seguente deposizione: ‹‹L’osservare don Bosco nelle sue azioni anche minute mi faceva più impressione che leggere e meditare qualsiasi libro divoto».[40]
La cerimonia di vestizione, che coinvolgeva anche il compagno Giuseppe Rocchietti, ebbe luogo il 3 ottobre 1852, festa del Rosario, nella piccola cappella vicino alla casa di Giuseppe Bosco. La presiedette il curato di Castelnuovo, don Cinzano. Fu lui a benedire le tonache dei due giovani. Poi don Cinzano aiutò Rocchietti, più grande di età, a indossare la sua tonaca mentre il teologo Giovanni Battista Bertagna faceva altrettanto per il nostro Michele. Alla fine della vita don Rua ricordava ancora quanto don Bosco gli aveva detto in quell’occasione. ‹‹Mio caro Rua, tu ora hai iniziato una nuova vita. Ti sei incamminato così verso la Terra Promessa, ma bisogna attraversare il Mar Rosso e il deserto. Se mi aiuti, noi riusciremo ad attraversarlo e arriveremo». Don Ceria, interpretando questa riflessione, scrisse che don Bosco applicava al suo discepolo il detto degli Atti degli Apostoli: ‹‹Dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni». (Atti 14, 21).[41]
Il suo ritorno in Oratorio con la veste talare fece sensazione: appariva come ‹‹un angelo» secondo i primi biografi. Forse fu così. In ogni caso la tonaca, che gli si addiceva, gli conferiva un’aria molto simpatica e aggiungeva un tocco di bellezza all’espressione serena del suo viso e alla dignità naturale del suo contegno. C’è da dire che la indossava con evidente rispetto.
La sua condizione di chierico lo avvicinava un po’ di più a don Bosco. Finalmente dopo molte esitazioni, si decise a chiedergli la ragione di un gesto che faceva quando lo incontrava alla scuola dei Fratelli. Agli altri ragazzi offriva di solito un’immaginetta, mentre a Rua tendeva la mano sinistra e con la destra la colpiva come per tagliarne via un pezzo dicendo: ‹‹Prendi, Michelino, prendi!». Che cosa volevano dire l’atto e le parole? ‹‹Vedi, Rua: don Bosco voleva dirti che con te un giorno avrebbe fatto a metà. Comprenderai meglio in seguito».[42]
Per completare gli studi secondari, Michele entrò nella scuola di don Matteo Picco, situata in via dei Fornelletti, vicino alla chiesa di Sant’Agostino. Era una scuola aristocratica, ma don Picco amico di don Bosco riceveva gratuitamente i suoi ragazzi. Rua, allievo perfetto, concluderà in un solo anno scolastico (1852-1853) i corsi di umanità (latino e greco) e di retorica. Si trovò a suo agio in quell’ambiente dove potè allacciare nuove relazioni che gli sarebbero state preziose in futuro. Questi corsi di liceo terminavano con un esame chiamato licenza. Michele si dimostrò brillante come sempre negli studi. Uno degli esaminatori, Domenico Cappellina, che godeva di una certa fama nel mondo letterario piemontese, disse al professore: ‹‹Mi permetta che le invidii un allievo di tanto valore. Non mancherà di fare una splendida carriera !».[43]
Quell’anno scolastico fu contrassegnato da tre avvenimenti. La sera del 1° dicembre 1852, la casa dell’Oratorio vacillò a causa del crollo dei muri dell’edificio in costruzione. A notte fonda, la madre di don Bosco si accorse di uno scricchiolio diede l’allarme. Una cinquantina di giovani dormiva nella casa. Si precipitarono in cortile, sotto gli alberi, e poi verso la cappella. Rua faceva parte di quel numero. Fortunatamente non ci furono feriti. Il danno, di ingenti dimensioni, fu solo materiale.
Il secondo fu un evento di portata storica. Nel febbraio del 1853, il vescovo di Ivrea, mons. Luigi Moreno, e don Bosco lanciarono la collana popolare delle Letture cattoliche, che avrebbe dato ancora più lustro all’opera di Valdocco.
Il terzo avvenimento colpì don Rua e la sua famiglia: il 29 marzo 1853, morì il fratellastro maggiore Giovanni. Questa morte lo colpì moltissimo. ‹‹Io non vidi mai l’amico più afflitto di quella volta! So che si era al principio di primavera, ma pioveva, ed era una mestissima giornata Ci eravamo fatto un poco di scuola, ed accortomi della sua pena, non potei trattenermi dal dirgli: Che hai di così grave che ti rende tanto triste? Egli, alzando gli occhi al cielo disse sospirando: Mi è morto mio fratello! Che poteva dirgli mai di consolante? Si era nella sacristia dell’Oratorio festivo, si tralasciò la scuola, e si andò in chiesa a pregare e fu un lungo pregare».[44]
Questa morte ebbe conseguenze sulla vita della famiglia Rua. La madre di Michele, ormai sola lasciò l’alloggio della Fucina per trasferirsi all’Oratorio di san Francesco di Sales, in casa Bellezza. Ormai libera del suo tempo, lo trascorse in gran parte nella stireria di don Bosco con la madre di lui, Margherita, che dal 1846 badava all’economia della casa. Così i legami tra l’opera di don Bosco e il nostro Michele si consolidavano.
Michele e la filosofia
Nel luglio del 1853, Michele fu ammesso a studiare filosofia presso il seminario di Torino. Un seminario povero, a dire il vero, vittima dei moti rivoluzionari del 1848. Malgrado gli ordini reiterati dell’arcivescovo Fransoni, i seminaristi, alla fine del 1847 e all’inizio del 1848, continuavano a infervorarsi per le manifestazioni patriottiche. Ora questo arcivescovo, di temperamento conservatore, vedeva nelle tendenze liberali un’attentato all’autorità, quella dello Stato e quella della Chiesa. L’arcivescovo minacciava di non ammettere alle ordinazioni i trasgressori.
I seminaristi si intestardirono. A Natale, in cattedrale, alcuni seminaristi si mostrarono con la coccarda nazionale sul petto, al momento della messa pontificale dell’arcivescovo. Il Rettore del seminario che non riusciva a contenere il loro spirito ribelle, presentò le dimissioni, che mons. Fransoni si affrettò a rifiutare. L’agitazione non si placò. Il 9 febbraio 1848, quando a Torino fu annunciato lo Statuto, i chierici si mostrarono di nuovo in città con il petto o il cappello ornati di coccarde tricolori simboliche. Fecero lo stesso, qualche giorno più tardi, acclamando un corteo di corporazioni laiche. Di conseguenza a tutti i chierici che avevano partecipato alle manifestazioni venne rifiutata l’ordinazione. E l’arcivescovo prese la drastica decisione di chiudere il seminario di Torino. I seminaristi rientrarono a casa loro. Qualcuno trovò posto nelle diocesi vicine. Poi, quando scoppiò la guerra, l’amministrazione civile trasformò il seminario in ospedale militare. L’arcivescovo, imprigionato per un certo periodo a Fenestrelle, fu costretto in seguito ad andare in esilio a Lione. Così, quando Michele entrò nell’edificio come allievo esterno, il seminario era ancora per gran parte requisito. Cercò i suoi professori nel sottotetto dove alloggiavano.
Durante l'anno scolastico 1853-1854 ebbe come professori don Cipriano Mottura e don Giuseppe Farina, assistiti da un ripetitore, il canonico Berta. Di quell’anno Rua ci ha lasciato due quaderni intitolati: Quesiti di Logica 1853-1854.[45] Si trattava di un corso dettato, scritto con molta cura, sul processo della conoscenza e sull’esposizione dei suoi risultati. Il nostro seminarista imparava ad amare la chiarezza della frase, le relazioni ben costruite, giudiziosamente distribuite e perfettamente coerenti. In futuro i suoi confratelli se ne renderanno conto. Nel primo anno di filosofia egli seguì anche dei corsi di fisica, di cui ci restano gli appunti.
Gli studi non costituivano però che una piccola parte delle occupazioni di Michele. Del resto in seminario si tenevano solo due ore di lezione giornaliere. Rua doveva assicurare l’assistenza generale della casa dell’Oratorio di san Francesco di Sales. Gli spettava la sorveglianza dello studio, della cappella, del cortile e del refettorio. A ciò si aggiunse, all’ultimo momento, una lezione settimanale di catechismo e la cura della biblioteca in allestimento. E quando, nel 1854, don Bosco creò per i suoi giovani una mini-conferenza di S. Vincenzo de Paoli, istituzione apparsa a Torino da quattro anni solamente, ne assunse il segretariato e vi organizzò il lavoro a servizio dei poveri del quartiere.[46]
Un avvenimento importante per lui segnò quei mesi. Il 26 gennaio 1854, all’avvicinarsi della festa solenne di san Francesco di Sales, don Bosco, che insisteva nella sua idea di creare una società al servizio della sua opera, riunì in camera quattro giovani tra i più promettenti: i chierici Michele Rua e Giuseppe Rocchietti, i ragazzi Giacomo Artiglia e Giovanni Cagliero, e propose loro, come leggiamo in un appunto di Rua, di ‹‹fare, coll’aiuto del Signore e di S. Francesco di Sales, una prova di esercizio pratico della carità verso il prossimo, per venirne poi ad una promessa, e quindi se parrà possibile e conveniente di farne un voto al Signore».[47] Cominciava così a delinearsi la futura Società Salesiana.
Tre giorni più tardi, la sera della festa di san Francesco di Sales, i quattro fecero la loro apparizione ad una premiazione di un genere un po’ particolare. Durante la settimana gli allievi erano stati invitati a scrivere su un foglio di carta i nomi di quattro o cinque compagni che a loro parere si fossero distinti per una condotta religiosa e morale esemplare. I fogli erano firmati. Un registro autografo di don Bosco ci informa che ‹‹quell’anno, alla premiazione solenne di san Francesco di Sales, tra i chierici, furono eletti eccezionalmente Rua Michele e Rocchietti Giuseppe. Tra gli studenti, ebbero l’onore di un premio: Bellisio, Artiglia, Cagliero. Scrutatori: il più grande dei fratelli Turchi, Savio Angelo, Pepe L., Comollo».[48]
Questa specie di elezione, molto democratica, era per don Bosco uno dei tanti modi escogitati per stimolare i suoi ragazzi a diventare buoni cristiani. Per ottenere il suo scopo pensava niente valeva più dell’esempio vivo, ma anche dell’esempio raccontato o scritto. Ecco perché, nella serie delle Letture cattoliche, proprio in quello stesso gennaio 1854, in riedizione adattata, pubblicava per loro la storia di un giovane ammirato ed amato, che aveva conosciuto nella scuola e poi nel seminario di Chieri. La vita di Luigi Comollo ‹‹morto nel seminario di Chieri, ammirato da tutti per le sue virtù» era di continuo proposta per l’edificazione dei suoi giovani. Si può stare sicuri che il chierico Rua ne facesse tesoro, poiché troviamo, allegata a uno dei suoi quaderni di filosofia, una lunga nota di ‹‹esempi» di Luigi Comollo.
Infermiere dei malati di colera
Le vacanze estive furono un po’ movimentate per lui che dovette diventare di punto in bianco infermiere dei colerosi. Ma caliamoci nel contesto.[49]
Il 21 luglio 1854, un manifesto del sindaco affisso agli angoli delle strade di Torino, annunciava le norme igieniche da osservare nelle case, nei laboratori, nelle botteghe per l’arrivo imminente del colera in città. I ‹‹contagiosi» dettavano legge. Si dovevano costruire ospedali speciali, detti lazzaretti, per isolare i malati. Gli abitanti di Valdocco appresero che la municipalità avrebbe adibito a questo scopo un immenso capannone in Borgo Dora. Questo ospedale avrebbe avuto una capacità di centocinquanta letti e sarebbe stato fornito di una dépendace con farmacia, cucina, servizi igienici, locale per disinfezioni e stanze per il personale di servizio. I giornali informavano di continuo sullo stato del contagio. Il vicario generale della diocesi, mons. Ravina, con una circolare trasmise ai parroci le istruzioni del governo, sollecitando la loro collaborazione. Nello stesso tempo i preti di Torino potevano leggere un opuscolo con le disposizioni impartite dall’arcivescovo di Genova al suo clero: misure profilattiche ed igieniche, facilitazioni per l’esercizio del ministero e l’interdizione di fuggire dalla città. Infatti la tentazione era forte. Il 3 agosto, secondo le statistiche della Compagnia ferroviaria, un quarto della popolazione di Torino risultava aver abbandonato la città.
All’Oratorio di san Francesco di Sales, il chierico Rua si sentì pienamente coinvolto. Per far fronte al contagio don Bosco, già dal primo allarme, aveva organizzato la casa. I locali dove erano ammassati un centinaio di giovani, vennero adattati e puliti. Per facilitare un frequente cambio di biancheria raddoppiò la scorta di vestiario. A fine luglio l’epidemia cominciò a devastare la città e toccò la zona vicina all’Oratorio, Borgo Dora, dove la popolazione stava per essere letteralmente decimata dal flagello. Il clero regolare e diocesano si spese senza riserva al servizio dei colerosi. Il parroco di Borgo Dora si distinse in modo particolare. In parrocchia abbondavano i malati: ce ne furono ottocento, di cui cinquecento morirono a metà ottobre, secondo un testimone. Non contenti di amministrare i sacramenti ai malati, i preti prestavano loro i servizi di infermeria a rischio della vita. Il curato don Agostino Gattino pagò con tanta sofferenza il prezzo della sua dedizione.
Don Bosco era convinto di non darsi da fare abbastanza, limitandosi a difendere la sua opera contro un tale pericoloso flagello. La municipalità cercava infermieri volontari: ‹‹Chi vuole andare ad assistere i colerosi al lazzaretto e nelle case private?», chiese un giorno ai suoi ragazzi. Così poté presentare quattordici nomi alle autorità. Ci manca la lista completa, ma sappiamo che tra quelli c’erano sicuramente il diciassettenne Rua, il sedicenne Cagliero e il quattordicenne Anfossi. Don Bosco diede istruzioni pratiche ai suoi giovani infermieri. La malattia attraversa due stadi, spiegò con ogni probabilità. All’inizio, c’è un attacco improvviso che, salvo un soccorso immediato, spesso è fatale; poi segue la reazione, nel corso della quale la circolazione sanguigna tenta di ristabilirsi. L’infermiere del coleroso deve combattere l’attacco procurando al più presto una reazione, poi favorire tale reazione in maniera appropriata. Al tempo tali reazioni erano procurate con applicazioni di medicamenti bollenti e con frizioni energiche, avvolgendo in calda lana mani e piedi del malato, più soggetti a crampi e a raffreddamento.
Si stabilì un orario e i giovani si sparpagliarono, alcuni al lazzaretto di Borgo San Donato, altri nelle case del quartiere. Di giorno e di notte c’era, all’Oratorio, un incessante via vai. I giovani di don Bosco adempivano coraggiosamente al loro nuovo compito, sicuri che non sarebbero stati colpiti dalla malattia, seguendo scrupolosamente le raccomandazioni del loro direttore: fare attenzione alla pulizia, ma soprattutto fuggire il peccato ed affidarsi a Maria.
Cominciò così un’esperienza del tutto nuova per il chierico Rua. Doveva però superare l’orrore suscitato dal malato di colera. ‹‹Oh! Che morte spaventosa, quella dei malati di colera», scriverà don Bosco alla fine dell’anno, descrivendo ciò che aveva visto e udito. ‹‹Vomito, dissenteria, crampi alle braccia e alle gambe, mal di testa, affanno, soffocamento... Avevano gli occhi infossati, la faccia livida, gemevano e si agitavano; insomma, in questi sventurati, ho visto tutto il male che un uomo può sopportare senza morire». L'Armonia del 16 settembre dedicò ai giovani dell'Oratorio un paragrafo della Cronaca della carità del clero in tempo di colera: ‹‹Animati dallo spirito del loro padre più che superiore, D. Bosco, si accostano coraggiosamente ai colerosi, inspirando loro coraggio e fiducia, non solo colle parole, ma coi fatti, pigliandoli per le mani, facendo le frizioni, senza dar vista del menomo orrore e paura. Anzi entrati in casa di un coleroso si volgono tosto alle persone esterrefatte, confortandole a ritirarsi se hanno paura, mentre essi adempiono a tutto l’occorrente, eccettuato che si tratti di persone del sesso debole, chè in tal caso pregano che alcuno di casa resti, se non vicino al letto, almeno in luogo conveniente. Spirato il coleroso, se non è donna, compiono intorno al cadavere l'estremo uffizio».[50]
Nessuno degli infermieri volontari dell’Oratorio fu toccato dalla malattia. La loro dedizione fece grande impressione in città.
Il secondo anno di filosofia
Quando si stava preparando al secondo anno di filosofia, unico seminarista del suo corso, il nostro chierico, a quanto pare, in un primo tempo non prestò molta attenzione all’arrivo di un nuovo allievo a Valdocco, Domenico Savio. Ma dovette presto ricredersi. Era stato raccomandato a don Bosco dal suo maestro, don Cugliero. Un ragazzo che si segnalava per l’intelligenza e la pietà. ‹‹Qui in sua casa può aver giovani uguali, ma difficilmente avrà chi lo superi in talento e virtù. Ne faccia la prova e troverà un altro san Luigi».[51] Domenico era intenzionato a seguire lo stesso percorso di studi fatto da Michele quattro anni prima. Quest’ultimo testimonierà un giorno che, ‹‹fin dalle prime settimane della sua presenza nell’Oratorio», aveva provato per lui ‹‹una grande stima, che aumentò regolarmente» giorno dopo giorno. Un ‹‹fraterno affetto» li legò l’uno all’altro.[52] Tra il 1854 e il 1857, Domenico sarà successivamente allievo del prof. Bonzanino e di don Picco, con un anno di intervallo in cui frequentò la scuola nell’Oratorio stesso.
A partire dall’autunno 1854, Rua dovette occuparsi ogni domenica dell’Oratorio di san Luigi, presso la stazione di Porta Nuova. Questo per lui significava percorrere a piedi due volte al giorno un tragitto piuttosto lungo. Nel frattempo il suo ruolo nell’Oratorio di san Francesco di Sales assumeva sempre maggiore importanza. Un allievo del tempo testimonierà: ‹‹Ciò che mi stupì maggiormente quando entrai all’Oratorio, nel 1854, insieme con Domenico Savio, fu il vedere che don Bosco dava le sue preferenze di lavoro e di occupazioni al chierico Rua, mentre v’era qualcun altro, ad esempio il chierico Rocchietti, un po’ più adulto di lui e dell’aspetto più atto al comando. Davvero che mi faceva meraviglia il veder coteste preferenze per il chierico Rua, ma poi mi accorsi, com’egli da tutti i giovani fosse realmente temuto e amato, come loro superiore e come rappresentante di don Bosco, il quale evidentemente, aveva per lui una stima ed un affetto speciale».[53]
I voti privati di Michele Rua
Don Bosco a poco a poco, insieme ad altri, andava plasmando il giovane Rua, il quale, senza clamore, si preparava ad entrare nella società religiosa progettata da don Bosco. In autunno, con il permesso del suo direttore spirituale e confessore, cominciò a comunicarsi tutti i giorni.[54] Quei mesi furono il periodo del suo apprendistato spirituale, del suo noviziato, se si vuole, cosa che avrebbe comportato conferenze dottrinali specifiche ed esercizi appropriati. Le ‹‹conferenze» erano tenute da don Bosco nella sua stanzetta la domenica sera, secondo consuetudine dopo le preghiere. Tutto il futuro della sua opera era racchiuso in quel gruppetto di discepoli che intendeva formare lentamente, in base al proprio ideale educativo. Gli esercizi ai quali li sottoponeva erano quelli che faceva lui stesso: giornate spossanti di lavoro tra gli oratoriani, preghiere in comune, celebrazioni liturgiche, catechesi, lezioni serali, assistenza, giochi movimentati... Non chiedeva null’altro che una vita di dedizione totale al servizio della gioventù abbandonata, oltre alla frequentazione regolare dei sacramenti e a un sobrio programma di pratiche devote, come la visita al santissimo Sacramento. Le stesse pratiche suggerite ai giovani dell’Oratorio. A questo si limitava il suo insegnamento. Non pretendeva nulla di più. Il resto lo affidava alle mani di Dio. E la grazia operava in loro attraverso il suo esempio. Don Bosco andava e veniva, pregando, divertendosi, lavorando sotto gli occhi di tutti. Si doveva solo cogliere l’insegnamento che scaturiva dalla sua vita. Rua nutriva lo sguardo e il cuore facendo tesoro delle sue silenziose lezioni di virtù. Sull’inginocchiatoio e all’altare lo ammirava spesso, profondamente raccolto, immerso in una preghiera umile e fiduciosa. In cortile e in refettorio lo trovava sempre pieno di buonumore e di vitalità, preoccupato unicamente di mantenere tra i giovani un’allegria di buona qualità. Se lo scorgeva per strada, scopriva un uomo desideroso di non perdere mai l’occasione di entrare in contatto con i giovani. Nella vita di tutti i giorni rimaneva colpito dalla sua naturalezza e dalla sua bontà, dal suo umore perennemente uguale, dalla sua cortesia sempre sorridente. Se gli parlava nell’intimità della sua stanza, ne usciva contento per l’incontro paterno e autenticamente amichevole. Faceva bene, vivere all’ombra di don Bosco.
Il profitto spirituale fu rapido e serio, tanto che il maestro ben presto giudicò il discepolo pronto per affrontare il grande passo. La sera dell’Annunciazione, il 25 marzo 1855, nell’umile stanza di don Bosco, Michele Rua seminarista al secondo anno di filosofia, pronunciò i voti privati di povertà, castità ed obbedienza, nelle mani di colui che era il suo padre nella fede. Nessun fasto nella cerimonia. Da una parte un sacerdote in piedi e, dall’altra, di fronte a un crocifisso, un chierico inginocchiato che mormorava una formula di cui non ci è dato di conoscere il tenore. Non c’erano testimoni. ‹‹Eppure scrive prudentemente don Auffray tra queste quattro mura, nasceva qualcosa di grande... Origine sempre oscura delle opere in cui Dio mostra tutto il suo compiacimento!».[55]
4 - LA NASCITA DELLA SOCIETÀ SALESIANA
Lo studio della teologia
All’inizio dell’anno scolastico 1855-1856, il chierico Rua cominciò gli studi di teologia frequentando le lezioni del seminario. I suoi professori erano il teologo Francesco Marengo, autore di un De institutionibus theologicis (teologia fondamentale) e il teologo Giuseppe Molinari, autore di un De sacramentis in genere (teologia dei sacramenti). C’erano due ore di lezione la mattina e un’ora e mezzo il pomeriggio. Rua vi aggiungeva due o tre volte la settimana una lezione privata di greco o di ebraico con l’orientalista professore universitario abate Amedeo Peyron. Infatti ci teneva molto a leggere e a comprendere la Bibbia. Nello stesso tempo preparava l’esame di maestro, come rileviamo dalla presenza nei quaderni di quel periodo di esercizi di francese, di aritmetica e di scienze naturali.[56] Michele era veramente accanito nel lavoro intellettuale.
Curava soprattutto la teologia. Sono stati conservati quattro suoi quaderni dal titolo De Religione. Iniziano distinguendo la religione nella sua pratica (il culto) e la religione come fenomeno sociale (le religioni), poi mostrano la necessità della Rivelazione, l’integrità e la verità dell’Antico e del Nuovo Testamento che la tramandano. Il corso, a giudicare dalla calligrafia accurata, sembra sia stato dettato. Si cerca di provare che esiste una sola religione rivelata autentica che è la religione cristiana della Chiesa cattolica. Al termine, tutto il trattato è sintetizzato dal nostro seminarista in trentuno pagine di tabelle sinottiche che rivelano un uomo innamorato della chiarezza e della coerenza.
Il trattato De Deo uno et trino, che veniva dopo quello di teologia fondamentale De Religione, sicuramente fu lasciato per gli anni successivi. Sembra che il teologo Giuseppe Molinari, tenesse i corsi ciclicamente, e avesse iniziato subito ad impartire al suo allievo lezioni di sacramentaria, cominciando dal trattato De gratia. Si trova in effetti, negli stessi archivi salesiani, uno studio, scritto da Rua, di 206 pagine sulla grazia, problema cruciale nella Chiesa di quel periodo. È seguito da una lunga serie di note, più o meno ordinate, sull’Eucaristia (96 pagine). Gli altri sacramenti vengono trattati più frettolosamente in questi manoscritti: abbiamo uno schema sinottico di due pagine sul Battesimo, 34 pagine di note sulla Confessione e 17 sull’Estrema Unzione. Il tutto in un latino scolastico, come si usava a quei tempi. L’analisi di queste tesi consentirà una migliore conoscenza del pensiero di don Rua nel corso della sua vita sacerdotale.
La nascita di una società religiosa in un contesto turbolento
Nel frattempo don Bosco rifletteva. La sua opera si era consolidata con l’arrivo a Valdocco, nell’ottobre del 1854, di un prete di età matura, don Vittorio Alasonatti. Ne fece il suo secondo e gli conferì il titolo di prefetto. Intanto cominciava a strutturare in modo più preciso i ritmi e le attività della casa e dell’intera istituzione. Ma sarebbe riuscito a creare quella società religiosa, che appariva necessaria per reggere l’opera degli Oratori?
Dal punto di vista politico, il momento sembrava contrario a una tale iniziativa.[57] Tra il novembre 1854 e il maggio 1855, il governo piemontese, animato soprattutto dal ministro della Giustizia e dell’Interno Urbano Rattazzi, mise a punto e fece discutere in Parlamento una legge sui conventi, che mirava a interdire sul territorio, con ogni misura possibile, gli ordini e le congregazioni dei religiosi e delle religiose, in particolare gli ‹‹ordini mendicanti» nocivi, secondo i liberali, alla moralità del paese e ‹‹contrari all’etica moderna del lavoro». La nuova legge spogliava i monaci delle loro proprietà. La destra clericale reagì denunciando la violazione dello Statuto e dei concordati con la Santa Sede, e presentò la legge come un attentato deliberato al diritto di associazione e di proprietà, precursore dell’irruzione del socialismo e del comunismo nel paese. Nello stesso tempo l’estrema sinistra gridava contro l’oscurantismo ecclesiastico, rievocava la fine di Giordano Bruno, il filosofo che nel XVI secolo era stato accusato di eresia e arso vivo; polemizzava contro il processo di Galileo, altra mente troppo moderna, e contro l’Indice dei libri proibiti. Approfittando poi del dibattito acceso attorno alla proposta di legge, accusava i papi, tra cui Pio IX, allora protetto dai Francesi, di avere sempre preso le parti dello straniero a svantaggio dell’Italia. Mirando ad ampliare il progetto di legge che riteneva troppo debole, chiedeva la soppressione di tutti gli ordini religiosi esistenti: con i contemplativi e i mendicanti, bisognava eliminare anche le corporazioni votate alla predicazione e all’insegnamento. Insisteva perché tutti i beni ecclesiastici fossero municipalizzati o provincializzati... Insomma l’atmosfera era elettrica.
Alla fine di una serie di vicende, la legge Rattazzi venne approvata dalle due camere e firmata dal re il 29 maggio 1855. Le opere situate nel Regno di Sardegna e dipendenti da religiosi non dediti alla predicazione, all’educazione o all’assistenza dei malati non erano più riconosciute come enti morali; di fatto non esistevano più. Bisogna scorrere l’elenco annesso al decreto di applicazione della legge per comprendere il disorientamento psicologico causato da tutto ciò in Piemonte: ventuno congregazioni maschili e quattordici congregazioni femminili vennero colpite dalla legge. ‹‹Che sconcerto! che terribile malcontento! quanti infelici colpiti da scomunica!», esclamava don Bosco in una lettera a un amico.[58]
Questa legge avrebbe costituito un punto di riferimento costante per don Bosco. Gli avrebbe fatto temere per i suoi collaboratori l’epiteto sconveniente di frati; l’avrebbe indotto ad evitare ogni parvenza di ente morale per la sua società religiosa e gli avrebbe suggerito di mantenere ad ogni costo i diritti civili dei suoi membri. Questi diritti avrebbero distinto la sua società da qualunque altra corporazione religiosa.
La morte di Margherita Bosco e di Domenico Savio
Il seminarista Rua, durante il primo anno di teologia, fu toccato dalla morte di tre persone care.
Il 5 novembre 1856, all’età di soli 28 anni, morì, affetto da un’infezione polmonare, il teologo Paolo Rossi, direttore dell’Oratorio San Luigi, a Porta Nuova, dove Michele si recava la domenica mattina. Il peso del suo incarico ricadde su di lui e lo svolse meglio che poté.[59]
Nella casa dell’Oratorio di san Francesco di Sales, l’arrivo di don Alasonatti aveva definitivamente relegato nella propria stanza di lavoro la madre di don Bosco, Margherita, che per molto tempo era stata l’economa della casa. I ragazzi e i visitatori non la dimenticavano, ma lei si era ritirata. Nel novembre del 1856 fu colpita da una violenta polmonite. Da quel momento Giovanna Maria Rua rimase senza sosta al suo capezzale, insieme con la sorella di Margherita, Marianna Occhiena. Tutta la casa pregò per la sua guarigione. Per parecchi giorni tenne tutti tra il timore e la speranza. Quasi ad ogni ora i giovani si affacciavano l’uno dopo l’altro alla sua stanza per avere notizie. La comunità attendeva ogni sera di sapere qualche novità da don Bosco e da don Alasonatti. Il figlio Giuseppe arrivò da Castelnuovo. L’angoscia aumentò quando le fu somministrata l’unzione degli infermi. Infine, il 25 novembre Margherita spirò. I funerali furono modesti, ma molto commoventi. Venne celebrata una messa solenne nella chiesa dell’Oratorio. Poi i ragazzi in pianto accompagnarono la bara fino alla parrocchia; i versetti del Miserere si alternavano con qualche nota della banda musicale dell’Oratorio. Il corteo avanzava molto composto, destando grande impressione negli astanti. La signora Gastaldi affermò di non avere mai assistito a un funerale tanto commovente.[60] Conseguenza importante per i Rua: alla fine degli anni Cinquanta, Giovanna Maria sarà una seconda ‹‹mamma Margherita» per i ragazzi di don Bosco.
Il terzo lutto che colpì l’Oratorio fu la morte di Domenico Savio. L’8 giugno precedente, Domenico aveva fondato, con i chierici Michele Rua e Giuseppe Bongiovanni, la Compagnia dell’Immacolata. Si erano stilate poche regole, intessute di risoluzioni pratiche, che avrebbero migliorato il clima spirituale dell’intera opera. La ‹‹grande stima» che Michele provava per Domenico era accresciuta ‹‹in occasione della costituzione di questa associazione», dichiarerà don Rua al processo di canonizzazione del ragazzo.[61] Domenico era sempre stato di salute cagionevole. Il 1° marzo 1857 un’infezione polmonare lo obbligò a lasciare la comunità e a rientrare in famiglia. Quel mattino aveva partecipato all’esercizio della buona morte e si era congedato serenamente da don Bosco e dai compagni. Otto giorni più tardi spirava. Era un santo, proclamarono subito i compagni, che iniziarono ad invocarlo. Questo genere di preghiera si dimostrava efficace, attesterà ancora don Rua al medesimo processo.[62] Da parte sua, don Bosco, che era dello stesso avviso, cominciò a raccogliere, soprattutto con la collaborazione di Michele, le testimonianze delle sue notevoli virtù per scrivere la Vita del giovanetto Savio Domenico che avrebbe pubblicato dal 1859.[63]
Il primo progetto costituzionale di don Bosco
Ritorniamo al 1857. Le buone relazioni che intratteneva con il ministro Rattazzi rassicurono don Bosco, ansioso di passare alla realizzazione del suo progetto di fondazione religiosa. Questo temuto anticlericale apprezzava molto la sua ‹‹carità filantropica», gli raccomandava dei giovanetti bisognosi e gli faceva versare, quando don Bosco li richiedeva, dei cospicui sussidi. Si deve far risalire probabilmente al maggio 1857 una conversazione decisiva che don Bosco ebbe con lui al ministero, nel corso di una visita di ringraziamento. Rattazzi gli chiese se aveva pensato al futuro della sua opera: Perché non costituiva una società di laici e di ecclesiastici? Ma, osservò don Bosco, il governo piemontese non è ostile a questo tipo di associazioni? Rattazzi gli replicò che non doveva fondare una corporazione religiosa tradizionale, cioè una società di manomorta, ma una società nella quale ciascuno dei membri conservasse i suoi diritti civili, si sottomettesse alle leggi dello Stato, pagasse le tasse ecc., insomma una società di liberi cittadini.
Per don Bosco fu un’illuminazione. Anche se di fronte alla Chiesa la sua sarebbe stata una Congregazione, di fronte allo Stato avrebbe avuto la forma di una società di beneficenza che rispondesse a questi criteri. Alla fine del 1857 o al più tardi all’inizio del 1858, egli dette da copiare a Rua, sotto il titolo di ‹‹Congregazione di S. Francesco di Sales», un quaderno di una quindicina di pagine che spiegava l’origine, lo scopo, la forma, i voti, il governo e come essere accettati in questa società.[64] ‹‹Lo scopo di questa Congregazione scriveva allora Rua copiando don Bosco si è di riunire insieme i suoi membri ecclesiastici, chierici ed anche laici, a fine di perfezionare se medesimi imitando per quanto è possibile le vistù del nostro divin Salvatore».[65] Niente di complicato, soprattutto niente voti solenni, vincolanti dal punto di vista giuridico. ‹‹Tutti i congregati tengono vita comune stretti solamente dalla fraterna carità e dai voti semplici che li stringono a formare un cuor solo ed un’anima sola per amare e servire Iddio». Don Bosco aveva tenuto conto degli avvertimenti di Rattazzi: ‹‹Ognuno nell’entrare in congregazione non perderà il diritto civile anche dopo fatti i voti, perciò conserva la proprietà delle cose sue, la facoltà di succedere e di ricevere eredità, legati e donazioni».[66] Sarà una società di liberi cittadini.
Don Bosco decise di sottoporre questo progetto al papa. Egli era noto in Vaticano fin dal 1849, quando i suoi giovani avevano partecipato ad una colletta a favore di Pio IX, che li aveva fatti ringraziare. Sarebbe andato a Roma in compagnia di Michele che gli avrebbe fatto da segretario.
A Roma con don Bosco nel 1858
Il viaggio Torino-Roma, in treno, poi in nave, infine in vettura postale, durò quattro giorni, dall’alba del 18 febbraio 1858 fino alla tarda sera del 21 febbraio. A Roma don Bosco fu ospite della famiglia de Maistre, in via del Quirinale n° 49. Anche Rua in un primo tempo alloggiò lì, ma se ne andò ben presto a cercare un posto dai Rosminiani, a rischio di alzarsi prestissimo ogni mattina per raggiungere don Bosco.[67] I nostri due pellegrini, che prevedevano un soggiorno di uno o due mesi in città, organizzarono il loro tempo. Don Bosco ci teneva a mettere a punto lo statuto della sua società in gestazione. Rua avrebbe consegnato lettere a domicilio, avrebbe trascritto vari testi con la sua bella grafia, in particolare il libro di don Bosco Il mese di maggio, e avrebbe accompagnato don Bosco per la città.
Con il passare delle settimane, entrambi visitarono Roma accuratamente da veri pellegrini appassionati di architettura e di storia, e come apostoli curiosi delle esperienze pastorali della città dei papi. Se ne andavano a piedi, talvolta sotto la pioggia e al riparo di un solo ombrello, a meno che qualche nobile signore non si offrisse di accompagnarli con il suo calesse. Raccoglievano il maggior numero di notizie del giorno, pittoresche ed edificanti, lette o sentite per caso, per consegnarle poi al loro diario, che volevano molto dettagliato. Visitarono la chiesa del Gesù, il Panteon, San Pietro in Vincoli, San Luigi dei Francesi, Santa Maria Maggiore, San Giovanni in Laterano, e ovviamente San Pietro in Vaticano, Castel Sant’Angelo e dintorni. Per don Bosco che aveva appena pubblicato una vita di San Pietro, la visita più commovente fu certamente quella del 2 marzo, in compagnia di Michele e della famiglia de Maistre, al carcere Mamertino. ‹‹Solo a vederlo fa orrore», scriverà don Bosco a don Alasonatti.[68] Alla presenza della famiglia de Maistre, don Bosco celebrò la messa su un piccolo altare accanto alla ‹‹colonna di San Pietro».
Don Bosco e Rua si conformavano alle pratiche devozionali dei luoghi. Il 23 febbraio, a san Pietro in Vincoli si veneravano eccezionalmente le catene dell’apostolo. ‹‹Noi abbiamo avuto la consolazione di toccare queste catene con le nostre mani, di baciarle, di mettercele al collo e sulla fronte», dice il diario di viaggio. Il 25, salirono in ginocchio i ventotto gradini della Scala Santa. Il 13 marzo, fecero una sosta a Santa Maria degli Angeli dove vollero lucrare l’indulgenza plenaria. Presso l’altar maggiore, venerarono un numero impressionante di reliquie. ‹‹Avendo così soddisfatto la nostra devozione racconta il diario siamo rientrati a casa verso le sei, molto stanchi e con un buon appetito». I nostri due torinesi si interessarono molto alle opere romane di beneficenza per confrontarle con le loro. Visitarono così la casa Tata Giovanni, il cui stile di vita sembrava molto simile a quello di Valdocco; videro una scuola di carità tenuta dalla consulta romana di S. Vincenzo de Paoli a Santa Maria dei Monti; furono a San Michele, vasto istituto che accoglieva ‹‹oltre ottocento persone di cui trecento sono giovanetti»; contattarono anche parecchi Oratori legati alla tradizione di san Filippo Neri.
Il momento più importante per entrambi fu ovviamente l’incontro con il papa, che don Bosco aveva sollecitato già dal suo arrivo a Roma. L’8 marzo, al ritorno da una giornata faticosa, don Bosco aprì una lettera che lo entusiasmò. ‹‹L’apro, la leggo ed era del tenor seguente: si previene il Signor abate Bosco che S. Santità si è degnata di ammetterlo all’udienza domani nove di marzo dalle ore undici e tre quarti ad un’ora». Il giorno successivo, accompagnato dal chierico Rua, si presentò in Vaticano, molto emozionato, con una mantelletta da cerimonia sulle spalle. ‹‹Occupati da mille pensieri», si misero a salire le scale ‹‹più macchinalmente che ragionevolmente», dice il diario. Le guardie nobili, ‹‹vestite da parer tanti principi», li impressionavano. Al piano dei saloni pontifici, guardie e camerieri ‹‹abbigliati in gran lusso» li salutarono e si inchinarono profondamente per prendere la lettera dell’udienza che don Bosco teneva tra le dita. Lo spettacolo senza fine dei viavai nell’anticamera occupò il loro spirito per un’ora e mezzo di attesa.
Quando un prelato fece loro segno di entrare, don Bosco, afferma la cronaca, dovette, ‹‹farsi forza e violenza per non perdere l’equilibrio della ragione». Rua lo seguiva con le copie rilegate delle Letture cattoliche, il loro regalo per il Santo Padre. Fecero le tre genuflessioni protocollari: una all’ingresso del salone, una seconda a metà e una terza ai piedi del pontefice. E tutta la loro apprensione svanì, quando scoprirono ‹‹un uomo il più affabile, il più venerando, e nel tempo stesso il più bello che possa dipingere un pittore». Poiché il papa era seduto alla scrivania, i nostri due visitatori non poterono baciargli il piede come avevano previsto: gli baciarono solo la mano. Ma Rua, ricordando la promessa fatta ai chierici di Valdocco, gliela baciò a due riprese, una volta per lui e una volta per i suoi compagni. Restavano in ginocchio, e don Bosco, per rispetto dell’etichetta, avrebbe continuato a conversare così. ‹‹No gli disse Pio IX alzatevi!». Quando il papa ebbe ben compreso che aveva a che fare con l’apostolo dei ragazzi di Torino, moltiplicò le domande sugli Oratori, sui giovani, i chierici, e ricordò l’offerta ricevuta a Gaeta. Don Bosco gli consegnò i volumi delle Letture cattoliche. ‹‹Ci sono quindici legatori nella nostra casa», spiegò. Il papa si assentò un istante e tornò con quindici medagliette dell’Immacolata per i rilegatori, una un po’ più grande per Rua e uno scrigno contenente una bella medaglia per don Bosco. Si disponeva a congedare entrambi, quando quest’ultimo chiese di potergli parlare da solo. Rua fece una genuflessione in mezzo alla stanza e si ritirò. Don Bosco, rimasto con Pio IX, parlò del suo progetto di società religiosa e il papa lo esortò a chiedere i voti ai suoi collaboratori. Rua fu richiamato e l’udienza si chiuse con una solenne benedizione su don Bosco, sul compagno, su quelli che condividevano la sua missione, sui collaboratori e benefattori, infine sui giovani e su tutte le sue opere. Don Bosco e Rua fecero rientro verso le Quattro Fontane, colmi di venerazione e di gratitudine per il pontefice che li aveva trattati in modo così paterno.
L’udienza pontificia successiva del 6 aprile, che vide insieme con don Bosco e Michele Rua anche il teologo Leonardo Murialdo, un altro santo apostolo dei giovani piemontesi, allora direttore dell’Oratorio S. Luigi, fu in realtà un congedo. Don Bosco consegnò al papa una lettera di Gustavo di Cavour, che proponeva una riconciliazione in merito alla sorte di mons. Fransoni, l’esiliato di Lione, e al futuro della diocesi di Torino, priva di pastore da nove anni. Il documento venne trasmesso al cardinale Antonelli. Il papa mostrò verso don Bosco una ‹‹bontà stupefacente». Nel corso di una conversazione di tre quarti d’ora, Pio IX gli accordò tutti i favori spirituali e tutte le benedizioni che egli chiedeva. E vi aggiunse quaranta scudi d’oro perché procurasse una colazione ai giovani oratoriani. Leonardo Murialdo e Michele Rua ‹‹gongolavano di gioia», scrisse l’indomani a don Alasonatti.[69] E, il 14 aprile, i nostri due pellegrini, carichi di informazioni e di emozioni su Roma, la sua storia, le sue chiese, le sue opere di carità e soprattutto il suo venerando pontefice, ripresero in senso inverso la strada di Torino, dove arrivarono, con il treno di Genova, il 16 aprile.
L’avventura di questo viaggio rafforzò ancora di più il legame tra il maestro e il discepolo. In luglio, don Bosco, ebbe l’occasione di rispondere con una lettera in latino a Rua che gli aveva chiesto un consiglio. Questa lettera rivela non solo il tipo di spiritualità attiva insegnata da don Bosco, ma anche lo stile delle loro relazioni, diventate ormai del tutto fraterne. Eccola qui tradotta tutta intera:
Figlio mio,
La gioia e la grazia del Signore nostro Gesù Cristo sia sempre nei nostri cuori. Mi hai chiesto alcuni consigli salutari, lo farò volentieri e in poche parole.
Sappi dunque e ricordati che non sono paragonabili le sofferenze del tempo presente alla gloria futura che sarà rivelata in noi. Dunque, cerchiamo questa gloria con costanza e con coraggio.
La vita dell’uomo sulla terra è come fumo di poca durata, è per noi come una traccia che svanisce, un’ombra che appare, un’onda che fluisce. Di conseguenza dobbiamo stimare poca cosa i beni di questa vita e cercare con ardore quelli del cielo.
Gioisci nel Signore; sia che tu mangi, sia che tu beva, qualsiasi cosa tu faccia fa’ tutto a maggior gloria di Dio.
Ti saluto, figlio mio. Prega per me il Signore nostro Dio.
Il tuo confratello
Sac. Bosco
Sant'Ignazio presso Lanzo, 26 luglio 1858.[70]
Per don Bosco il chierico Rua era ormai un consocius, un confratello.
Il trattato "De Deo uno et trino"
Il viaggio di Roma si era frapposto alla serie di trattati di teologia che il chierico Rua continuava a seguire nel seminario di Torino. Nel luglio 1859, agli esami di fine anno, si classificò primo su sette candidati con una valutazione più che ottima.
Gli archivi salesiani conservano cinque suoi quaderni di appunti della fine degli anni Cinquanta, intitolati De Deo uno et trino (Dio uno e trino), di cui il secondo è datato 1859. Sono in tutto 132 pagine. Il loro contenuto è interessante. Trattano, in ordine di successione, dell’esistenza di Dio, della sua essenza, dei suoi attributi, sia ‹‹negativi» cioè l’eternità, l’immensità, l’immutabilità, la libertà e l’unità ; sia ‹‹positivi» cioè la santità, la veracità, la scienza, la bontà, la giustizia e la provvidenza. Il terzo quaderno tratta più specificamente della Trinità e inizia con la definizione di ‹‹processione» e di ‹‹relazione», mostra che in Dio ci sono tre persone realmente distinte, cerca di determinare l’originalità della posizione della seconda e della terza persona, insiste sulla consustanzialità delle tre persone e infine cerca di risolvere le obiezioni contro la definizione di Trinità. Si trattava quindi di uno studio del tutto classico, come ci si può aspettare dai teologi scolastici del XIX secolo. Parlava all’intelligenza, molto poco al cuore.
Alla stessa epoca risalgono alcuni quaderni di Rua intitolati De iustitia et iure 1859-60 (La giustizia e il diritto).
La teologia dogmatica e la teologia morale non sembrano aver appassionato il seminarista Rua. Egli seguiva i corsi coscienziosamente e brillava agli esami. Nel febbraio 1860 gli esaminatori si congartularono con lui, attribuendogli un giudizio egregio. Ma Rua preferiva la Bibbia o piuttosto la Storia sacra, di cui aveva iniziato a compilare tutta una serie di quaderni (ne sono stati conservati diciotto in totale), con l’obiettivo di pubblicare un’opera (che in realtà farà mai), partendo dai sei giorni della Creazione, raccontati minuziosamente in ottanta pagine, fitte fitte. Si riesce a capirlo, senza condividerlo in tutto. L’ermeneutica biblica, ai tempi del giovane Rua, balbettava appena.
Michele lavorava tantissimo. Possiamo immaginarlo se pensiamo al suo orario. Durante la giornata, i suoi incarichi all’Oratorio di san Francesco di Sales o a quello di san Luigi occupavano le ore centrali. Doveva recuperare di sera, non durante la notte perché don Bosco non lo permetteva, o il mattino prestissimo. Negli inverni più rigidi, molto frequenti a Torino, era in piedi dalle due o alle due e mezzo, come testimonierà più tardi il professor Alessandro Fabre entrato nell’Oratorio nell’ottobre del 1858. Pregava da solo, in ginocchio sul pavimento, vicino a un tavolo dello studio. Quando suonavano le tre, passava nelle camerate dove dormivano i sei, sette, dieci o anche quindici collaboratori perché si svegliassero a quell’ora. In estate ciò poteva forse essere gratificante, ma in inverno era piuttosto duro. ‹‹Quante volte capitò scriverà più tardi uno di questi ragazzi di trovare ai piedi del letto l’acqua della brocca gelata! Allora si apriva la finestra della mansarda, ci si sporgeva verso la grondaia e, con le mani dentro la neve, ci si lavava la faccia». Nello studio lavoravano con poca luce: qualche lumicino a olio, soprannominato cappuccino per il caratteristico spegnitoio a forma di cappuccio.14 Alle cinque e mezzo questi giovani coraggiosi erano raggiunti dagli altri studenti. Così, ogni mattina Rua poteva dedicare tre ore allo studio della teologia prima della messa.
L’organizzazione della Società di san Francesco di Sales
L’anno 1859 fu contrassegnato sul piano politico dal processo di unificazione italiana sotto la guida del Piemonte e, all’interno di Valdocco, dalla fondazione della Società che don Bosco aveva sognato di creare.
La guerra vittoriosa contro l’Austria in Lombardia, conclusa l’11 luglio con l’armistizio di Villafranca, e alcune sommosse popolari nel territorio pontificio della Romagna, fomentate da agenti piemontesi e ratificate in agosto-settembre dai propri rappresentanti a Torino, fecero sì che bruscamente tutto il Nord della penisola passasse sotto il controllo del Regno di Sardegna. Per il papa Pio IX si trattò di un grave oltraggio all’autorità pontificia. Valdocco si schierò dalla sua parte, senza alcuna esitazione. Don Bosco, autore di una Storia d’Italia considerata favorevole all’Austria e poco entusiasta sulla questione dell’unità italiana, venne giudicato un pericoloso reazionario dalla Gazzetta del popolo, che il 18 ottobre lo punzecchiava violentemente. Il 9 novembre don Bosco indirizzò al pontefice una lunga lettera in cui gli assicurava la totale disapprovazione del clero e di tutti i buoni cattolici nei riguardi dei comportamenti del governo piemontese. Il papa gli rispose con un Breve elogiativo che don Bosco fece subito pubblicare nel giornale conservatore L’Armonia, suscitando la collera dei suoi avversari.
In questo clima teso, Rua concluse velocemene alcune tappe che lo separavano dal sacerdozio. L’11 dicembre, mons. Giovanni Antonio Balma gli conferì la tonsura e i quattro ordini minori; il 17 dicembre ricevette il suddiaconato che lo votava al celibato. Sarà dunque in qualità di suddiacono che qualche giorno più tardi parteciperà alla riunione di fondazione della Società Salesiana.
Nel mese di dicembre, don Bosco dava alla sua Società una struttura semplice ma sufficiente. La sera di venerdì 9 con un discorso ai collaboratori aveva annunciato per la domenica 18 un’assemblea riservata a coloro che avessero voluto impegnarsi con lui. Chi non lo desiderava era invitato a non presentarsi.
Il regolamento ricopiato da Rua aveva un capitolo intitolato ‹‹Governo della Congregazione». Il primo articolo specificava: ‹‹La Congregazione sarà governata da un Capitolo composto di un Rettore, prefetto, economo, direttore spirituale o catechista e due consiglieri (subito passati a tre sull’originale)». Per definire questo gruppo di governo, don Bosco aveva volutamente optato per il termine ‹‹Capitolo», cioè ‹‹collegio», piuttosto che per quello di ‹‹consiglio», usato nei modelli di costituzioni a cui si ispirava. Le decisioni avrebbero dovuto essere prese di comune accordo. L’autorità del Rettore non sarebbe stata assoluta, il governo sarebbe stato collegiale.
Gli articoli successivi spiegavano le modalità dell’elezione del Rettore e i compiti del prefetto e del direttore spirituale. In questa sede, i tre articoli riguardanti il direttore spirituale sono di grande importanza. Vi leggiamo :
Art. 2 - Il Direttore spirituale avrà cura speciale dei novizi, e si darà la massima sollecitudine per far loro imparare e praticare lo spirito di carità e di zelo che deve animare colui che desidera dedicare interamente la sua vita al bene dei giovani abbandonati.
Art. 3 - È pure ufficio speciale del Direttore spirituale invigilare sulla condotta del Rettore con abbligo stretto di avvisarlo se scorgerà qualche trascuranza nell’osservare le regole della Congregazione.
Art. 4 - Ma è poi cura speciale del Direttore invigilare sopra la condotta morale di tutti i congregati».
L’assemblea del 18 provvide all’elezione di quest’organismo. Quella sera, alle ore 21, furono in diciotto ad affollare la piccola stanza di don Bosco. Due preti: don Bosco stesso e don Alasonatti, poi il diacono Angelo Savio, il suddiacono Rua, tredici chierici e infine un giovanotto laico. L’assemblea fu verbalizzata dal suo segretario Alasonatti. Secondo questo documento, i presenti affermavano, con la loro sola presenza, l’intenzione ‹‹di promuovere e conservare lo spirito di vera carità che richiedesi nell'opera degli Oratorii per la gioventù abbandonata e pericolante, la quale in questi calamitosi tempi viene in mille maniere sedotta a danno della società e precipitata nell'empietà ed irreligione». Decidevano di comune accordo di ‹‹erigersi in Società o Congregazione che avendo di mira il vicendevole aiuto per la santificazione propria si proponessero di promuovere la gloria di Dio e la salute delle anime specialmente delle più bisognose d'istruzione e di educazione».
Dopodiché si procedette all’elezione dei membri della direzione della novella Società. Recitarono una breve preghiera invocando lo Spirito Santo e all’unanimità pregarono don Bosco, ‹‹iniziatore e promotore» della Società, di accettare l’incarico di Rettore. Dato che temeva forse i capricci dei suoi giovani, non sempre teneri con l’austero don Alasonatti, don Bosco acconsentì, a condizione di poter scegliere lui stesso il prefetto del Capitolo, che sarebbe appunto stato lo stesso Alasonatti, prefetto dell’Oratorio. L’assemblea non poté che dare la sua approvazione. Il gruppo poi, sicuramente su iniziativa di don Bosco, decise che, per gli altri incarichi, cioè quello di direttore spirituale, di economo e dei tre consiglieri, l’elezione sarebbe avvenuta con votazione segreta. E fu così che quella sera l’assemblea dette il proprio voto ‹‹all’unanimità», secondo il verbale, al suddiacono Michele Rua per l’incarico di ‹‹direttore spirituale» della nuova Società. Sarebbe stato, al fianco di don Bosco, il custode delle anime, colui che con la fiducia di tutti, si sarebbe occupato della formazione dei nuovi aderenti e avrebbe curato che il loro fosse uno spirito autenticamente religioso e cristiano. Don Bosco sapeva di poter contare su questo giovanotto che non aveva ancora ventidue anni. Angelo Savio venne eletto economo; Giovanni Cagliero, Giovanni Bonetti e Carlo Ghivarello furono designati come consiglieri.[71] La struttura era completa.
5 MICHELE RUA GIOVANE PRETE
La preparazione
Quando venne nominato direttore spirituale della nascente Società Salesiana, Michele Rua stava concludendo i suoi studi di teologia presso il seminario di Torino e si preparava all’ordinazione sacerdotale. In alcuni dei suoi quaderni, per esempio in quelli contenenti il trattato De legibus (sulle leggi), troviamo le date di quell’anno 1859-1860. Era sempre molto attivo. A partire dal 1855, nell’Oratorio di san Francesco di Sales erano state progressivamente istituite le cinque classi ginnasiali. Era suo il compito di sorvegliarle.
Sempre discreto nel mostrare i suoi sentimenti, non si vedevano in lui espressioni di pietà esagerate. Il suo temperamento riflessivo lo induceva a moderare le parole e i gesti. Era la ragione a governarlo. Manteneva sempre la calma. Quando era il momento della preghiera, vi si immergeva con semplicità. Nel resto del tempo, come don Bosco, faceva del suo lavoro una preghiera. Lo affermano alcuni testimoni. Giacinto Ballesio, entrato all’Oratorio nel 1858, testimonierà che ‹‹il chierico Rua era il primo per la sua pietà semplice, sicura e degna. A vederlo pregare, sia nello studio sia sotto i portici durante le preghiere della sera, o ancora in chiesa, il suo viso luminoso, il suo contegno, ci facevano capire che il suo spirito e il suo cuore erano in Dio. Vedeva il Signore, vedeva Gesù, lo sentiva, se ne deliziava, e faceva pregare anche noi».[72]
Inutile, perciò, cercare effusioni mistiche nei suoi taccuini personali. Non era il suo genere. Tutto avveniva nel segreto della sua anima, nella sua relazione costante con Dio.
Tuttavia non immaginiamolo solo riservato e silenzioso. ‹‹Il chierico Rua, secondo lo stesso testimone, quantunque dignitoso e composto, era il re della ricreazione, dei canti, dei giochi che sapeva condire con qualche buon consiglio, e buon avvertimento od esempio».[73]
Il 17 marzo 1860, Rua iniziò nella casa dei Preti della Missione (Lazzaristi), un ritiro preparatorio al diaconato, ordine che gli sarà conferito il 24 dello stesso mese. L’ordinazione sacerdotale si avvicinava.
Nel frattempo Pio IX continuava a soffrire e don Bosco cercava di sostenerlo. Vennero organizzati plebisciti nei territori al nord di Roma, in vista della loro annessione al Piemonte. Indignato, il papa scomunicò gli ‹‹invasori e gli usurpatori». E don Bosco scriveva a lui, ultimo successore di san Pietro, mandando un’offerta dei suoi giovani, esprimendo la sua piena adesione alla politica papale e trasmettendo informazioni sui progetti di conquista dei territori degli Stati pontifici.[74] A Torino, sostenere Pio IX causava non pochi problemi. Fu perquisita la casa del conte Cays, l’abitazione del canonico Ortalda, di don Cafasso ed anche di don Bosco. Il 26 maggio la direzione dell’Oratorio subì una perquisizione piuttosto severa. E, qualche giorno dopo, le scuole della casa furono ispezionate in modo maldestro.
La prima frase di una lettera di don Bosco al nostro Rua, che stava per essere ordinato sacerdote, si comprende meglio in questo contesto. In luglio presso i Preti della Missione, nel corso del ritiro che lo preparava direttamente al sacerdozio, Rua, scrivendo in francese, aveva chiesto a don Bosco dei consigli utili ed egli rispose in latino quanto qui traduciamo:
Al carissimo figlio Michele Rua, che saluto nel Signore.
Mi hai mandato una lettera scritta in francese, e hai fatto bene. Sii francesce soltanto nella lingua e nel discorso, ma di animo, di cuore e di opere sii intrepidamente e generosamente romano.
Ascolta attentamente quanto ti dico. Ti aspettano molte tribolazioni, ma con esse il Signore Dio nostro ti concederà anche tante consolazioni.
Mostrati esemplare nelle opere buone; continua a farti consigliare; fa’ con sostanza ciò che è buono agli occhi di Dio.
Combatti contro il diavolo, spera in Dio, e, per quanto posso, sarò sempre con te.
La grazia del Signore nostro Gesù Cristo sia sempre con noi. Ti saluto.
Sac. Giovanni Bosco.[75]
Michele Rua avrebbe dovuto mostrarsi fedele a Roma, nelle parole e negli atti. Non aveva certamente bisogno di alcuna lezione. In ogni caso non la dimenticherà mai. Quanto all’avvertimento sulle tribolazioni che lo attendevano, l’aveva già sentito dalle labbra di don Bosco e si disponeva serenamente a soffrire.
Michele Rua è ordinato presbitero
Venne ordinato prete il 29 luglio 1860 da mons. Balma, ausiliare dell’arcivescovo Fransoni in esilio. Fu ordinato nella villa del barone Bianco di Barbania, dove il vescovo passava le vacanze. La villa si trovava a Caselle, in fondo alla vallata di Lanzo. Siccome la linea ferroviaria Torino-Lanzo, non era ancora stata costruita, il diacono Rua partì da Valdocco il 28 luglio in compagnia di due giovani chierici, Celestino Durando e Giovanni Anfossi, e fece la strada a piedi, alla maniera dei poverelli, come scrive don Francesia.[76] Tuttavia, arrivato a destinazione, non andò a letto (il mattino seguente il suo letto era ancora intatto), preferendo passare la notte in preghiera. Il giorno seguente durante le cerimonie dell’ordinazione, nella cappella di sant’Anna della villa, il suo comportamento riuscì a ‹‹strappare le lacrime» a qualche presente, stando alle espressioni un po’ sentimentali del suo biografo Francesia.[77]
Rientrò a Torino in giornata e il mattino successivo celebrò in tutta semplicità la prima messa, assistito da don Bosco, davanti alla numerosa comunità dell’Oratorio. Cinquant’anni dopo, un testimone, allora giovane chierico, ricordava ancora il suo ‹‹viso sereno e raccolto» nell’avvicinarsi all’altare, il ‹‹volto radioso» nell’atto della consacrazione e il ‹‹fervore da serafino» nel distribuire la santa eucaristia.[78] Quella sera la comunità lo sentì dare la buonanotte. Il suo discorso semplice, diretto e familiare suscitò l’applauso.
Ma la vera festa dell’Oratorio non finiva lì. Fu organizzata la domenica seguente, il 5 di agosto. Don Rua cantò messa. L’Oratorio dell’Angelo Custode di cui si occupava, come sappiamo, rafforzò il gruppo con centinaia di interni dell’Oratorio di san Francesco di Sales. Fu un giorno di gioia, di affetto e di venerazione. I componimenti, infarciti di iperboli, che gli archivi salesiani hanno conservato, abbondarono sia in prosa che in versi. In uno di essi veniva definito, ‹‹il modello dei giovani, l’esempio dei chierici, il degno emulo di Domenico Savio». In un altro, si ammirava in lui ‹‹un nuovo S. Pietro per il suo amore verso Gesù Cristo, un nuovo S. Giovanni per l’amore delle cose celesti, un nuovo Luigi Gonzaga per la purezza della sua vita, un nuovo S. Bernardo per il suo amore alla Vergine, e un nuovo don Bosco per la sua dedizione alla gioventù». Sarebbe stato un degno successore di don Bosco.[79] Michele riteneva che si esagerasse. Protestò. Il grido ripetuto di Viva don Rua! era troppo per i suoi gusti: domandò che almeno si aggiungesse anche un Viva don Bosco!
Auffray immagina il trattenimento musicale e teatrale di quel giorno: ‹‹Non lontano dal figlio, la signora Rua assisteva a questa festa come in un sogno, dominando a stento l’emozione che le stringeva il cuore nel vedere l’unico sopravvissuto dei suoi quattro figli, elevato a tale onore. In un angolo della sala, il vecchio don Picco, il professore di latino e greco di dieci anni prima, assaporava questo modesto trionfo del migliore dei suoi allievi, mentre, alla destra del novello sacerdote, don Bosco sorrideva con una felicità tanto intensa quanto contenuta. Tutti i cuori erano immersi in un’atmosfera di rara cordialità. Era una famiglia che festeggiava il suo figlio maggiore, sotto lo sguardo tenero del padre».[80]
Il lavoro del giovane sacerdote
È difficile parlare in modo adeguato della quantità di lavoro che ricadde sul giovane don Rua con l’inizio dell’anno scolastico 1860-1861. Aveva la responsabilità di tutte le classi ginnasiali dell’Oratorio, che nel luglio del 1861 contavano 317 allievi, ripartiti in cinque classi, numero che aumenterà di anno in anno. Dirigeva la sua gente senza clamore. Viveva nel silenzio con un’operosità impressionante che lo rendeva più austero di quanto non fosse nella realtà. Era impeccabile e coloro che lo avvicinavano ammiravano la sua bontà e la sua discrezione.
Inoltre la domenica continuava ad occuparsi, insieme con il direttore teologo Roberto Murialdo, dell’Oratorio dell’Angelo Custode in Vanchiglia, quartiere ingrato, come sappiamo. Il chierico Ballesio che lo accompagnava racconterà le faticose domeniche dell’estate 1861. Partiva da Valdocco all’alba e passava tutta la mattina con i giovani dell’Angelo Custode, in chiesa o in cortile, con i suoi attrezzi da gioco, le altalene, le corse e i giochi. A mezzogiorno rientrava a Valdocco, accompagnato dai ragazzini che lo tiravano per le maniche e, arrivato a destinazione, mangiava ciò che rimaneva. Senza riposarsi, tornava subito in Vanchiglia per impegnarsi in chiesa e in cortile. Le cerimonie religiose del pomeriggio erano brevi, inframmezzate dal catechismo. Don Rua non era un oratore enfatico, raccontava la storia sacra e predicava chiaramente. Infine, quando si faceva notte, rientrava a Valdocco, sempre in ritardo per la cena. Allora, come riferisce Ballesio, ancora pregava o studiava.[81]
Su un quaderno intitolato Libro dell’esperienza,[82] il vice-direttore Rua racconta le varie attività di quest’Oratorio: il mese di Maria, la cresima del 1861, accuratamente preparata giorno per giorno nella settimana precedente, la festa dell’Assunzione, la festa del direttore e la cresima all’Oratorio di san Francesco di Sales nel 1862... Questo Libro dell’esperienza ci fornisce così il programma della festa anticipata del santo patrono dell’Oratorio dell’Angelo Custode, il 29 settembre 1861: messa di comunione celebrata da don Rua, pranzo per tutti, messa cantata e vespri solenni presieduti da don Leonardo Murialdo, con l’accompagnamento della banda musicale di Valdocco. Predicò il teologo Borel. All’avvicinarsi della notte, si fecero i fuochi d’artificio. La giornata terminò in chiesa con un cantico all’Angelo Custode e l’Angelus. Nell’ottobre del 1861, in una lettera, l’arcivescovo Fransoni dall’esilio si congratulò con don Bosco per il buon lavoro compiuto nell’Oratorio dell’Angelo Custode. Don Rua sarà per tutta la vita il sostenitore dell’Oratorio di estrazione popolare, anche e soprattutto quando i suoi confratelli preferiranno la scuola e il convitto.
Per preparare un esame che gli avrebbe permesso di ascoltare le confessioni, don Rua seguì l’insegnamento di teologia morale del canonico Zappata. Disponiamo di una serie di sei quaderni, 372 pagine in tutto. Erano dettati o ricopiati? Non si sa esattamente. La copertina del primo ci presenta un programma che verteva sulle azioni umane, la coscienza, i peccati, i comandamenti di Dio e della Chiesa, la fede. Tutte nozioni che ci si potrebbe aspettare piuttosto all’inizio della formazione teologica.[83] In seguito vengono le leggi, la censura, la giustizia e il diritto, i contratti, la disciplina dei sacramenti, precisamente del battesimo, della penitenza - con una nota sulle indulgenze -, dell’estrema unzione e del matrimonio. Molto coscienzioso e dotato di un’eccellente memoria, don Rua registrava tutto. Fatto tesoro di queste lezioni e superato l’esame, il 27 giugno 1862 gli sarà conferita la patente di confessore dal canonico Zappata.[84]
Contemporaneamente, don Rua preparò l’esame di abilitazione all’insegnamento nelle prime classi ginnasiali, diploma che il Rettore dell’università di Torino firmerà il 21 settembre 1863.[85]
Infine si deve far risalire a questo periodo un’iniziativa preziosa per i futuri storici di don Bosco. In un giorno della primavera 1861 venne costituita all’Oratorio una ‹‹commissione delle fonti», composta da quattordici membri. Essi si prefiggevano di raccogliere testimonianze e documentazione dei ‹‹doni meravigliosi» e dei ‹‹fatti straordinari» attribuiti a don Bosco, della sua ‹‹maniera unica di educare la gioventù», dei suoi grandi ‹‹progetti futuri», poiché a loro pareva che tutto in lui rivelasse ‹‹qualche cosa di sovrannaturale». Don Rua era segretario della commissione. Tre degli assistenti, i chierici Ghivarello, Bonetti et Ruffino, furono designati come redattori.[86] Fino alla morte di don Bosco, don Rua avrà a cuore di far raccogliere dai collaboratori dell’Oratorio tutti gli elementi utili all’esatta conoscenza del maestro tanto ammirato e venerato.[87]
Direttore a Mirabello
Michele Rua stava per ricevere un nuovo incarico. Il 14 maggio 1862, don Bosco fece un passo decisivo per assicurare la coesione della sua società. Quella sera convocò i suoi collaboratori nella propria camera, per la prima professione dei voti religiosi previsti dalle Regole, scritte già da quattro anni. Quanti furono coloro che si raccolsero attorno a lui nella piccola stanza? Quindici, venti, ventisei? Il numero varia secondo le liste e le cronache, che includono o escludono i semplici spettatori e i postulanti assenti per forza maggiore. Ad ogni modo, non c’era posto per sedersi. Don Bosco, vestito solo con la cotta e la stola, seguì il cerimoniale classico, fissato dal documento costitutivo Società di S. Francesco di Sales, al capitolo Formola de' voti: canto del Veni Creator, responsorio, orazione, litanie della beata Vergine, Pater, Ave e Gloria in onore di san Francesco di Sales. Ma, a questo punto, anziché seguire il rito e far venire i collaboratori uno per uno davanti a sé per pronunciare i voti, incaricò don Rua, in qualità di direttore spirituale, a recitare la formula frase per frase, in modo che gli altri potessero ripeterla. Tutto procedette in modo rapido, ma non senza gravi inconvenienti, infatti non si saprà mai esattamente chi, quella sera, si impegnò formalmente nella Società di don Bosco.[88] Tuttavia la storia salesiana potrà rilevare, senza dubbi, che nell’anno successivo (1863) la Società contava 22 professi e 17 novizi, suddivisi in due case. Quell’anno, infatti era stata creata una nuova casa, affidata alla direzione del nostro don Rua.
Nell’autunno 1861, don Bosco aveva preso contatti con una famiglia di Mirabello in vista della fondazione di un collegio in quel comune, appartenente alla giurisdizione di Casale. L’affare, sostenuto dal vescovo di Casale mons. Luigi Nazari di Calabiana, amico di don Bosco, si risolse rapidamente poiché in quel periodo la diocesi era priva di un seminario minore. Nell’autunno 1862 si iniziò la costruzione. All’amministrazione civica di Mirabello, interessata alla fondazione di un collegio nel proprio territorio, si rispose che si trattava di un piccolo seminario. Michele Rua, designato ad assumerne la direzione, mise insieme i documenti necessari: un certificato di buona condotta che lo dichiarava ‹‹eccellente, onesto, studioso, dal comportamento irreprensibile», come si addice ad un Rettore di seminario; un certificato di onesta reputazione, consegnato dal vicario capitolare di Torino Giuseppe Zappata; un certificato civile firmato dal sindaco e consegnato dalla polizia municipale di Torino...[89] Infine, il 30 agosto 1863, mons. Calabiana nominava don Rua direttore del Piccolo Seminario San Carlo di Mirabello.[90]
Arrivò a Mirabello il 12 ottobre, con la madre Giovanna Maria, che avrebbe vigilato sulla cucina e sul guardaroba del nuovo collegio. Era l’unico sacerdote. Il resto del personale era costituito da cinque chierici e quattro giovani, non ancora Salesiani. Quando il collegio venne aperto, gli allievi si presentarono in buon numero.
Gli arrivò allora, da parte di don Bosco, una lunga ed affettuosa lettera di obbedienza. Conteneva una serie di utili consigli per la buona conduzione di un collegio. La sua importanza ci induce a presentarla brevemente.[91] Vi si diceva, prima di tutto, che il direttore di Mirabello doveva mantenere sempre la calma, evitare di mortificarsi nel cibo e dormire almeno sei ore per notte, non soltanto per mantenere la salute, ma anche per il bene dei ragazzi che gli erano stati affidati. Don Bosco conosceva il discepolo. Inoltre lo invitava a curare le pratiche di pietà tradizionali, per sé e per il personale: messa, breviario, un po’ di meditazione ogni mattina, una visita al santissimo Sacramento durante la giornata. Gli raccomandava di farsi amare prima di farsi temere! (la severità apparente del discepolo preoccuperà sempre don Bosco). Nel caso dovesse dare ordini o rimproverare, era pregato di far capire in modo chiaro che lo faceva per il bene delle anime. Lo incoraggiava poi ad orientare tutte le sue azioni al bene spirituale, fisico e intellettuale dei giovani che la Provvidenza gli affidava, e prima di prendere una decisione importante era invitato ad elevare l’anima a Dio.
Il direttore, scriveva don Bosco, si deve predere attenta cura del benessere fisico dei maestri e degli assistenti. Soprattutto ha il compito di vegliare sulla salute degli allievi, di parlare spesso con essi, di informarsi delle loro preoccupazioni e di cercare le soluzioni più adatte per risolvere le situazioni difficili. Deve fare in modo che nelle classi i maestri interroghino tutti gli allievi indistintamente. Nessuna amicizia particolare, nessuna parzialità. Gli assistenti siano puntuali nel loro servizio! Il direttore, inoltre si preoccupi di riunire di tanto in tanto maestri ed assistenti, per esortarli a mantenere nel collegio un’atmosfera sana: niente cattive conversazioni, libri pericolisi, immagini oscene o qualsiasi cosa possa mettere a repentaglio la ‹‹virtù regina», la purezza.
Un intero paragrafo della lettera è riservato al personale di servizio. Il direttore metta a capo dei dipendenti una persona di riconosciuta probità, incaricata di sorvegliare non solo sulla qualità del lavoro dei subalterni ma anche sulla loro moralità. Quanto al resto, il personale deve poter assistere quotidianamente alla messa e accostarsi ai sacramenti almeno una volta al mese. Siamo proprio in altri tempi, in una cultura destinata sfortunatamente a sparire. Anche nell’accettazione degli allievi è indispensabile badare con cura al buon costume, dunque rifiutare i candidati pericolosi. Di fronte a fatti di immoralità evidente, dopo un paterno avvertimento, in caso di ricaduta si poceda a espulsione immediata.
Un capoverso della lettera riassume molto bene la condotta del direttore di Mirabello nei confronti degli allievi. ‹‹Fa’ quanto puoi per passare in mezzo ai giovani tutto il tempo della ricreazione, e procura di dire all’orecchio qualche affettuosa parola, che tu sai, di mano in mano che ne scorgerai il bisogno. Questo è il gran segreto che ti rende padrone del cuore dei giovani». Don Bosco insegna al discepolo una pedagogia della presenza che egli conosce molto bene. In generale, ‹‹la carità e la cortesia siano le note caratteristiche di un direttore tanto verso gli interni, quanto verso gli esterni» dell’istituto; egli si sforzi sempre di risolvere tutti i problemi ‹‹per la maggior gloria di Dio». Promesse non mantenute, beghe, spirito di vendetta, amor proprio, tutto merita di essere sacrificato ad majorem Dei gloriam.
Quella lettera molto concreta, leggermente ritoccata nel corso degli anni, sotto il titolo di Ricordi confidenziali ai Direttori sarà destinata a diventare progressivamente la charta magna di ogni direttore di collegio salesiano, uno dei documenti fondamentali per la conoscenza del sistema educativo di don Bosco.[92]
In conformità con le direttive di don Bosco, don Rua cercò di fare della casa di Mirabello un ambiente protettivo e trasformatore. Il suo regolamento ricalcava scrupolosamente quello dell’Oratorio di Torino.[93] Per raggiungere i risultati educativi sperati, don Rua desiderava ciascuno degli allievi trovasse tra le sue mura una gioia serena, radicata innanzitutto su una coscienza in pace con Dio. L’avrebbe nutrita con tutta l’inventiva del suo spirito zelante e si sarebbe impegnato a mantenere un clima di serenità tra i suoi. Voleva una disciplina seria, certo, ma non mai pignola né esagerata, lasciando più spazio possibile alla libertà. I maestri dovevano essere dei padri, o meglio, dei fratelli maggiori, che condividevano con gli allievi tutti i loro giochi, le inquietudini, le occupazioni, testimoniando loro una grande fiducia, legandoli a sé attraverso ogni sorta di dedizione. Dovevano tenere a mente un’unica cosa: ricostruire attorno alle anime dei ragazzi l’atmosfera della famiglia, così necessaria alla maturazione umana e, soprattutto, una vita di pietà profonda, autentica, ragionata, capace di dare a quegli adolescenti la forza di resistere al male, la luce nei giorni del dubbio e, in ogni istante, la fedeltà al dovere. Per conservare questo spirito di pietà, don Rua, conformemente a quanto aveva sperimentato nell’Oratorio di Torino, organizzò tutta una rete di pratiche. Celebrava per loro la messa quotidiana. Era disponibile mattina e sera nel confessionale. Ogni sera, dopo le preghiere, prima di mandarli a dormire, rivolgeva ai suoi figli un breve discorso, accuratamente preparato. Tutte le domeniche teneva al suo piccolo popolo due istruzioni, una in mattinata, nella quale esponeva alcune pagine della Storia Sacra, un’altra al pomeriggio per spiegare le virtù cristiane.
Nel corso dell’anno scolastico, al collegio di Mirabello, si celebrò con sfarzo e fervore la commemorazione del patrono san Carlo (4 novembre), poi l’Immacolata Concezione di Maria (8 dicembre), e le grandi solennità dell’anno liturgico. Tutte queste feste venivano preparate con una novena o un triduo. Ogni mese si faceva un breve ritiro che consisteva nell’esercizio della buona morte, tanto caro a don Bosco fin dai tempi del Convitto di Torino. Infine, ogni anno, in primavera, si teneva un corso di esercizi spirituali di tre giorni, durante il quale cessava la scuola, e gli allievi erano invitati a meditare le verità eterne e i grandi problemi della vita.[94]
I legami tra Mirabello e Torino furono numerosi e stretti. Le visite e le lettere frequenti di don Bosco incoraggiavano il direttore. Don Bosco era preoccupato della vita spirituale dei giovani. Consigliava don Rua sul modo di tener testa all’amministrazione civile di Alessandria che gli faceva storie perché in un presunto ‹‹piccolo seminario» si accettavano allievi per nulla indirizzati allo stato ecclesiastico. Il 26 febbraio 1864, il provveditore agli studi arrivò pesino a minacciare la chiusura dell’istituto.[95] Se ne occupò il vescovo di Casale. Don Bosco consigliò a don Rua di appellarsi al Governo, se necessario. Alla fine non se ne parlò più. Le relazioni che intercorsero tra i due furono anche di natura economica (una volta don Bosco si fece prestare duemila franchi da don Rua) e celebrativa, come quando, il 25 aprile 1865, don Rua andò a Torino con un centinaio di ragazzini di Mirabello per la posa della prima pietra della chiesa di Maria Ausiliatrice.
La casa era molto viva, anche se non tutto perfetto. Alla fine del secondo anno scolastico, don Rua fu costretto a ‹‹bonificare» il collegio con tre espulsioni divenute necessarie. Questi ‹‹lupi» si erano rivelati fin troppo pericolosi per il gregge.[96]
Il 1° giugno 1865, per concludere degnamente il mese di Maria, si mise in scena la commedia latina intitolata Phasmatonices, cioè il vincitore dei fantasmi, opera del vescovo Rosini di Pozzuoli. Era presente mons. Calabiana con una schiera di ecclesiastici e di laici venuti espressamente da Casale per la circostanza. Le persone colte ammirarono la recitazione disinvolta degli attori e l’abilità degli insegnanti, prova tangibile della serietà degli studi in questo collegio.
Il giovane direttore don Rua era perfettamente riuscito nella sua nuovissima esperienza di Mirabello. Ma, dopo due anni, quando si trovava a Torino per la posa della prima pietra della chiesa di Maria Ausiliatrice, don Bosco gli lasciò intendere che pensava di affidargli un nuovo incarico ancor più gravoso.
Don Rua sostituisce don Alasonatti
Nel luglio 1865, don Bosco a Torino si trovava veramente sovraccarico di problemi. I lavori della chiesa di Maria Ausiliatrice erano avviati e il loro costo bisognava pagare le maestranze ogni quindici giorni gli chiedeva un impegno straodinario. Cinque dei suoi sacerdoti erano ammalati, come scriveva a don Rua.[97] Don Vittorio Alasonatti, il prefetto generale, che reggeva l’amministrazione generale dell’opera, era affetto da un cancro alla gola. Aveva dovuto lasciare Torino e trasferirsi nella casa di Lanzo Torinese fondata l’anno precedente. Il 16 luglio, il direttore di quel collegio, Domenico Ruffino, moriva all’età di 25 anni. Così in agosto don Bosco decise di richiamare Rua al suo fianco. L’avrebbe rimpiazzato don Giovanni Bonetti. Ciò avveniva il 18 settembre. Quello stesso giorno gli chiese di pagare una fattura in scadenza.[98] Il 4 ottobre, lo incaricò di fare pubblicità per il collegio di Lanzo.[99] Poi, la notte dal 7 all’8, anche don Alasonatti morì.
Bisognava riorganizzare, urgentemente, la direzione generale della Società Salesiana. Don Bosco procedette in questo modo: dapprima riunì i cinque membri in carica del Capitolo per la sostituzione del prefetto deceduto e del direttore spirituale don Fusero, ammalato. Don Michele Rua fu eletto prefetto e don Giovanni Battista Francesia direttore spirituale. Dopodiché vennero convocati tutti i confratelli dell’Oratorio per l’elezione del terzo consigliere. Al posto di don Giovanni Bonetti, trasferito nella sede di Mirabello, fu nominato don Celestino Durando. Ci si accorse allora che formalmente nessuno dei membri di questo direttivo aveva ancora emesso i voti perpetui, come era richiesto dai canoni. Vi si pose immediato rimedio. Il 15 di novembre, i sacerdoti Rua, Cagliero, Francesia, Ghivarello, Bonetti, più due chierici e due laici pronunciarono i voti perpetui nelle mani del Rettore maggiore. Dalla fine degli anni 1860, dato che don Bosco era spesso assente, quando si fa riferimento al Capitolo dell’Oratorio, si intende parlare soprattutto di don Rua, prefetto, di don Francesia, direttore spirituale, di don Angelo Savio, economo, di Giovanni Cagliero, Carlo Ghivarello e Celestino Durando, consiglieri.
Don Rua rappresenta don Bosco
Don Bosco considerava il prefetto generale Rua il suo alter ego. L’11 gennaio 1866, lo inviò a Mirabello per ricevere, a suo nome, i voti perpetui di due professi della prima ora Francesco Provera e Francesco Cerruti. Il successivo 4 febbraio, don Bosco si trovava al capezzale di Rodolfo de Maistre agonizzante, in sua vece don Rua presiedette la riunione dei direttori raccolti per la solennità di san Francesco di Sales. L’11 febbraio, don Rua scriveva una lunga lettera alla contessa Carlotta Callori, a nome di don Bosco, ‹‹preso da molteplici incombenze».[100]
Tra il 1865 e il 1870, anche se le sue responsabilità comprendevano le case succursali di Mirabello e di Lanzo, il lavoro di don Rua si concentrò pricipalmente sulla casa dell’Oratorio. Si tende a dimenticarlo, ma, sin dal suo ritorno a Valdocco, preoccupato di dare al ginnasio un corpo insegnanti titolati, egli stesso cominciò a prepararsi per ottenere la laurea nella Facoltà di Lettere e Filosofia di Torino. Lo testimonia un certificato di iscrizioneai corsi di Letteratura latina, Letteratura italiana, Letteratura greca, Storia antica e Storia moderna, datato 30 novembre 1865.[101]
Poiché Don Bosco era spesso assente, don Rua di fatto fu il principale responsabile dell’opera di Valdocco. Doveva di continuo risolvere problemi di contabilità, di disciplina, di igiene e pulizia, di ristrutturazione dei locali, di preparazione delle feste. Di questi problemi ci parlano i verbali delle riunioni settimanali del Capitolo, fedelmente redatti dallo stesso don Rua, e qualche annotazione sul suo Libro dell’esperienza. La lettura di questi documenti, forse noiosa, è molto istruttiva. Si apprende, ad esempio, che la vita del salesiano in quel tempo non aveva nulla di idilliaco.[102] Spigoliamo qua e là qualche dettaglio dalle riunioni del Capitolo nell’anno 1866. L’11 marzo si decise di porre maggior attenzione sull’ora della levata del personale e sul modo di preparare le lezioni; il 18 marzo si raccomandò di tenere in ordine il registro della contabilità; l’8 luglio di preparare con maggior cura le cresime (che sarebbero state amministrate il 22 successivo), di non dare punizioni se non in aula e in refettorio e di controllare che i letti fossero in ordine nei dormitori; il 12 agosto, tornando sull’argomento delle punizioni, il Capitolo stabiliva una gradazione, che consisteva nel privare della pietanza, del vino, nel far mangiare in mezzo al refettorio o sulla porta di esso, in ginocchio nel refettorio, sotto i portici, ecc.[103]
La riorganizzazione dell’Oratorio
Si trattava di riprendere in mano una casa di quasi 350 studenti e 350 artigiani che spesso lasciavano a desiderare quanto ad ordine e disciplina. Sotto la direzione di don Alasonatti, uomo di salute malferma ed eccessivo nelle sue reazioni, la grande casa di Valdocco aveva perso un poco del suo spirito. Si imponeva quindi un riassetto. Il riordino della disciplina e il riconsolidamento interno della vita di pietà. Per il nuovo prefetto generale il compito non fu semplice. Si sollevarono critiche al suo operato. La posizione di Rua era scomoda. Ormai, si diceva, egli godeva la protezione di don Bosco e non era più possibile muovere foglia senza il suo permesso. Alcuni si rallegravano dell’ordine energicamente ristabilito dopo la gestione rilassata di Vittorio Alasonatti. Altri, al contrario, che erano arrivati all’Oratorio da fanciulli, divenuti uomini fatti, non si rassegnavano a sottomettersi all’antico compagno. Da qui sorgevano i malumori che don Rua cercava di contenere.
Sopportava. Il compito era pesante. Gli spettava il pagamento dei debiti che erano notevoli. Bisognava occuparsi specialmente del buon andamento dei laboratori con tutta la contabilità annessa per l’acquisto delle materie prime e dei macchinari, la paga degli operai, i conti dei clienti. Don Bosco gli affidava anche la sovrintendenza dei lavori della chiesa in costruzione. Inoltre, come afferma Auffay (non confermato dagli altri storici), sarebbe stato responsabile persino delle Letture cattoliche. La pubblicazione contava allora circa dodicimila abbonati che bisognava mensilmente soddisfare con racconti scritti in uno stile semplice e personale. ‹‹Non era cosa da poco scrivere in modo appropriato, corretto e non troppo difficile, così come sorvegliare tutto il lavoro del numero mensile».[104]
Le feste di consacrazione della chiesa di Maria Ausiliatrice
Nel maggio 1868 la casa dell’Oratorio entrò in ebollizione. Cinque anni dopo aver lanciato l’idea, don Bosco vedeva realizzarsi il sogno di una grande chiesa in onore di Maria Ausiliatrice. Si stavano portando a termine le finiture. La consacrazione era prevista per il mese di giugno, solo quattro anni dopo la posa della ‹‹pietra angolare». In maggio il Capitolo aveva discusso, sotto la direzione di don Rua, della distribuzione dei ruoli. Secondo gli appunti sintetici del verbale, era necessario prevedere portinai, questuanti, accompagnatori ai posti, camerieri ai tavoli, cantinieri, incaricati delle camere degli ospiti, confessori e illuminazione. I festeggiamenti sarebbero durati otto giorni. La cerimonia di consacrazione sarebbe stata il momento più importante. Si dovevano invitare personalità e preparare le cerimonie religiose in forma solenne. C’erano folle di devoti da accogliere, allievi delle case di Lanzo e di Mirabello da ricevere, concerti da organizzare e un’opera teatrale da allestire.
I grandiosi festeggiamenti della consacrazione, avvenuta il 9 giugno, si prolungarono per gli otto giorni successivi e furono all’altezza del fervore religioso che aveva consentito la costruzione della chiesa in tempi da record. Don Bosco li descrive in un fascicolo speciale delle Letture cattoliche, pubblicato subito dopo l’avvenimento.[105]In tutta la sua vita nessun altro evento rivestirà maggiore importanza delle meravigliose giornate tra il 9 e il 16 giugno, con messe e vespri pontificali, discorsi di vescovi, banchetti (per i quali erano arrivati doni da ogni parte dell’Italia del Nord), un saggio ginnico e alcune rappresentazioni teatrali, tra cui i Phasmatonices di mons. Rosini che era giù stato presentato a Mirabello. I fedeli erano accorsi in massa. Don Bosco era raggiante. Al termine di tutto, don Rua poteva scrivere in una nota che nulla aveva turbato ‹‹l’allegria di queste sante giornate».[106]
È difficile immaginare la quantità di lavoro che tale impresa richiese ai vari organizzatori. Giuseppe Bongiovanni, oltre al suo solito lavoro, si diede così da fare per assicurare il servizio dell’altare con il Piccolo clero, che si ammalò il giorno della consacrazione e morì il 17 giugno, ventiquattro ore dopo la conclusione dell’ottava.[107] Dobbiamo dire che don Rua, al quale era affidata l’intera macchina organizzativa, la diresse splendidamente. Ma il suo fisico subì i contraccolpi nel mese successivo. L’arco troppo teso si spezzò. Estenuato, tentò di nascondere lo sfinimento il più possibile, ma dovette darsi per vinto. Il 29 luglio rimanse a letto. Don Ceria afferma che fu colpito da una grave peritonite. Era probabilmente la diagnosi del medico, secondo il quale non gli restava una possibilità su cento di guarigione. Don Rua accettò serenamente la morte e chiese gli ultimi sacramenti.[108]
Quel giorno don Bosco era assente. Quando alla fine del pomeriggio rientrò, trovò la casa in subbuglio. Tutti si precipitavano a dargli notizie del malato. Secondo i testimoni avrebbe replicato: ‹‹Don Rua, lo conosco, non se ne andrà senza il mio permesso». E raggiunse il confessionale. Solo dopo cena salì nella stanza di don Rua. Si intrattenne con lui qualche minuto e quando lo vide convinto di dover presto morire, pare abbia detto: ‹‹Oh, mio caro Rua, non voglio che tu muoia. Hai ancora così tanto da fare per me!» Lo benedisse e uscì. Nel corso della notte il male non peggiorò. Il giorno seguente, dopo aver celebrato la messa, don Bosco fu di nuovo al suo capezzale. Il dottor Gribaudo, che era presente, gli fece segno che non c’era speranza. Don Bosco non si diede per vinto. Sembra che vedendo gli oli santi sul tavolo, abbia rimproverato l’infermiere per la sua poca fede e voltandosi verso il malato abbia detto: ‹‹Vedi, Rua, anche se tu ora ti buttassi giù dalla finestra, non moriresti». Da dove gli veniva questa convinzione? Non si sa. Ad ogni modo, il malato cominciò a soffrire meno. A poco a poco la sua salute migliorò e il pericolo svanì. Quando all’inizio della convalescenza fu in grado di muovere i primi passi fuori dalla stanza, tutta la casa esultò. Lo chiamarono sotto i portici, gli dedicarono una stornellata e gli fu letto un discorso. Quando riacquistò le forze, don Bosco lo mandò in riposo a Trofarello fino al termine dell’estate. Non partecipò alle riunioni del Capitolo tra luglio e novembre. Solo il 13 novembre riprese finalmente il suo incarico nell’Oratorio di Valdocco.
La vita quotidiana del prefetto don Rua
Per lungo tempo la vita di don Rua nell’Oratorio fu vita d’ufficio, piuttosto monotona e senza avvenimenti significativi. Solo i testimoni hanno potuto parlarne con cognizione di causa.[109] La stanza in cui lavorava disponeva dei mobili strettamente necessari. Nessun ornamento. In una stanzetta accanto stavano uno o due segretari, ai quali non si limitava ad assegnare il lavoro, ma li osservava per scoprirene le attitudini e farne eventualmente dei prefetti-economi in altre case. A questo scopo compilò dei piccoli manuali manoscritti, in cui spiegava il metodo di registrazione delle case salesiane. Illustrava la tenuta del registro delle messe, i libri di contabilità e di gestione del collegio, il taccuino delle offerte, i registri dei diversi settori dell’amministrazione di un’opera complessa: sacrestia, cucina, dispensa, laboratori, biancheria. Con pazienza don Rua avviò i suoi segretari alle operazioni amministrative più complesse. All’occorrenza prendeva, come aiuto temporaneo, persone che non riuscivano a trovare sistemazione da altre parti e si ingegnava per rimetterli in sesto.
La preghiera faceva da cornice al tempo trascorso in ufficio. Iniziava il lavoro con l'Actiones nostras, un’Ave, la lettura un pensiero di san Francesco di Sales o dell’Imitazione di Cristo, e terminava con l’Agimus tibi gratias.
La maggior parte della corrispondenza dell’Oratorio confluiva nel suo ufficio. Apriva e annotava le lettere, poi le trasmetteva ai segretari che dovevano redigere le risposte. Si riservava solo di firmarle. Gli veniva sottoposta anche una parte delle lettere indirizzate a don Bosco: commissioni, domande di accettazione, piccole offerte... Talvolta don Bosco gli passava lettere troppo lunghe, difficili da decifrare. E don Rua, dopo averle lette attentamente, ne riassumeva il contenuto per permettere al santo di orientarsi nella risposta.
Nel suo ufficio don Rua riceveva fornitori, parenti degli allievi e visitatori occasionali. Una processione che talora durava ore. Se la qualità delle persone e la natura degli affari lo permettevano, dopo uno sguardo e un saluto a chi entrava, dava udienza continuando a leggere, a scrivere e a consultare le sue carte, fino al momento di congedarsi. Si pensi quel che si vuole. Evidentemente voleva risparmiare tempo.
Dalla sua postazione, sorvegliava costantemente la disciplina della casa. Contatti e dialoghi frequenti con i membri del personale gli permettevano di individuare gli abusi e i disordini per correggerli subito. Non faceva affidamento solo sulla memoria e prendeva appunti nel suo Libro dell’esperienza. Si imponeva di vigilare personalmente i luoghi. Prese anche un’abitudine alla quale fu a lungo fedele. Dopo le preghiere della sera, passeggiava lentamente da solo sotto i portici, recitando il rosario, per ammonire coloro che non osservavano il silenzio ‹‹sacro» o non si ritiravano nella stanza, come previsto dal regolamento. Poi faceva il giro di tutta la casa. Gli capitava di ripetere questa specie di controllo nel cuore della notte e concluderlo sempre in chiesa davanti al Santissimo.
La responsabilità di don Rua non si limitava agli allievi. Il numero dei chierici andava crescendo. Bisognava curare anche quelli. Don Rua li affidò alle cure di un assistente, Paolo Albera, futuro Rettore maggiore. Ben presto furono riservate alcune riunioni del Capitolo alle ‹‹valutazioni» dei chierici. Ogni sabato, don Rua teneva loro una lezione di testamentino, cioè di studio di un passo del Nuovo Testamento. Assisteva i giovani chierici nei loro primi passi come educatori salesiani, dando l’esempio di una vita religiosa esemplare.
Soprattutto viveva sotto la direzione di don Bosco, grande sostegno dell’Oratorio, la cui influenza morale colmava la casa, anche quando era fisicamente assente. Nel 1867 don Bosco trascorse due mesi consecutivi a Roma e Rua assunse con estrema naturalezza il comando. Dava comunque l’impressione che non avrebbe mosso un dito senza il consenso di don Bosco. Quanto don Barberis scrive nel 1875 lo si poteva già dire negli anni 1860: ‹‹L'Oratorio è organizzato in modo tale che, per così dire, non ci si accorge dell’assenza di don Bosco da Torino».
7 FORMATORE DEI GIOVANI SALESIANI
Il problema della formazione dei chierici all’Oratorio di Torino
Don Rua, prefetto generale della Società Salesiana, si trovò direttamente coinvolto nel problema della formazione dei giovani chierici dell’Oratorio. Dobbiamo collocare la sua attività nell’evoluzione faticosa della giovane Società Salesiana lungo il corso degli anni Sessanta. Soprattutto perché, anche se in quegli anni don Bosco occupava la scena, il prefetto generale era il suo primo confidente, dunque il consigliere naturale. Egli cresceva nel rapporto abituale con don Bosco, il quale non scherzava quando si trattava della formazione dei suoi figli e dello spirito del proprio metodo educativo.
A partire dal 1864, don Bosco, convinto dell’appoggio di Pio IX al suo progetto, si sforzava di far passare la Società Salesiana da Congregazione di diritto diocesano a istituzione di diritto pontificio. Ciò gli avrebbe consentito così sperava di non dipendere più dai vescovi per l’ammissione agli ordini dei suoi chierici. Sarebbe stato pienamente libero nel giudizio sulla loro idoneità. Sottopose dunque alla Santa Sede il testo delle Regole, con la speranza di ottenerne una sollecita approvazione. Ma si sbagliava. Quell’anno raggiunse solo una prima tappa nel processo di riconoscimento del suo istituto, quella del decretum laudis (decreto di lode), datato 23 luglio. Una serie di tredici osservazioni sul testo costituzionale formulate dalla Congregazione dei Vescovi e dei Regolari aveva alquanto smorzato i suoi entusiasmi.[110] Non solo, come egli segnalò alla Congregazione romana, avrebbe rischiato, in caso di applicazione, di dare alla sua Società le sembianze di una corporazione religiosa tradizionale, con tutti problemi che ciò avrebbe comportato. Inoltre una di quelle osservazioni era chiaramente contraria a concedere la piena facoltà di ammissione agli ordini al solo Superiore Generale: ‹‹Non si può permettere che il Superiore Generale rilasci ai membri del pio Istituto le lettere dimissorie per l’ammissione agli ordini; che ciò sia dunque eliminato nelle Regole». Questo contrastava radicalmente i suoi progetti. Dunque vi si oppose tenacemente.[111]
Nel maggio 1867, finalmente, dopo diciassette anni di ‹‹vedovanza» della diocesi, dovuta all’esilio (1850) e poi alla morte (1862) di mons. Fransoni, un nuovo arcivescovo fece solenne ingresso a Torino. Era mons. Alessandro Riccardi di Netro, trasferito dalla sede di Savona a quella torinese. Ma egli era molto geloso dei diritti e dei doveri del proprio ministero. Durante i suoi tre anni di episcopato avrebbe reso dura la vita a don Bosco, soprattutto in riferimento alla formazione dei chierici.[112]
A Torino, con gli anni, la formazione del clero era più o meno sfuggita alle regole ordinarie. Vari seminaristi si erano rifugiati presso don Bosco, il quale aveva sulla loro condotta di vita e sugli studi ecclesiastici, visioni poco sulpiziane. Per la loro istruzione si era avvalso di alcuni sacerdoti della città, talvolta (per la morale) aveva provveduto egli stesso. Durante gli studi questi chierici prestavano servizi vari per l’educazione e l’istruzione dei giovani. ‹‹Ne ho cinquanta», aveva comunicato don Bosco al Rettore del seminario Alessandro Vogliotti nel giugno del 1866. E, non senza ingenuità, aveva aggiunto: ‹‹Essi impiegano tutta la loro vita nell’assistere, catechizzare, instruire poveri fanciulli specialmente quelli che frequentano gli Oratori maschili di questa città».[113] Durante le vacanze estive del 1866, aveva talmente lavorato a suo favore che le autorità diocesane, cioè il vicario capitolare e il Rettore del seminario, si erano limitate ad esigere, da parte dei chierici residenti presso di lui, la frequenza ai corsi tenuti in seminario. Ora alcuni dimoravano a Lanzo. Ma don Bosco aveva previsto per tutti un unico corpo di docenti a Valdocco stesso. La curia riteneva, non senza ragione, che stesse esagerando.
Tuttavia don Bosco perseguiva i suoi obiettivi. A Roma, nel gennaio del 1867, erano iniziate le mosse in vista dell’approvazione della Società, seconda tappa indispensabile per il passaggio della sua Regola sotto il diritto pontificio. Per questo necessitava dell’appoggio e delle raccomandazione dei vescovi piemontesi, a cominciare da quello di Torino. Per motivi facili da immaginare, la curia torinese aveva subito mosso obiezioni. Quando, l’8 aprile l’arcivescovo Riccardi prese contatto con la nuova diocesi, cominciò a rendegli la vita difficile. Non approvava studi ecclesiastici fatti frettolosamente, in una scuola che includeva i laboratori artigianali e l’Oratorio. L’arcivescovo riteneva insufficiente tale formazione, e questo gli faceva problema dal momento che era responsabile delle ordinazioni dei chierici di don Bosco. Un mese prima dell’inizio dell’anno scolastico 1867-1868, gli scrisse una lettera inequivocabile: in futuro avrebbe ordinato solo allievi del seminario diocesano, dunque il superiore dell’Oratorio di Valdocco si regolasse di conseguenza. Don Bosco si diede subito da fare, tentò di dialogare, ma dovette riconoscere che l’arcivescovo non si sarebbe piegato. Si rivolse allora nuovamente a Roma, ma l’iniziativa irritò mons. Riccardi.
Per presentare le sue ragioni in alto loco l’arcivescovo si servì della stessa campagna messa in atto da don Bosco presso l’episcopato al fine di ottenere le lettere commendatizie a vantaggio della Società Salesiana. Consegnata a don Bosco la sua commendatizia, il 14 marzo 1868 spedì anche una lettera particolarmente pungente al cardinale prefetto della Congregazione dei Vescovi e di Regolari. Sapeva dell’appoggio goduto da don Bosco presso Pio IX e il Segretario di Stato Antonelli. Nonostante questo si sentiva in dovere di esprimere il proprio punto di vista: ‹‹Veramente se non fossi persuaso che codesta Sacra Congregazione modificherà essensialmente le Costituzioni presentate, non mi sarei giammai indotto a questo passo, per quanto la mia opposizione avesse potuto recarmi dei gravi dispiaceri, giacché crederei tradire il mio dovere di vescovo se io mi facessi patrocinatore di una Congregazione, che ove fosse approvata tal quale si propone, non potrebbe riuscire che a gravissimo danno della Chiesa, della diocesi e del clero [...] Il collegio di Torino è già un caos fin d’ora, essendo mescolati artigiani, studenti, laici, chierici e sacerdoti. Lo diverrà sempre di più estendendo la sua sfera di azione». Tre mesi dopo mons. Lorenzo Renaldi, vescovo di Pinerolo, assumeva posizioni analoghe in una lettera alla Congregazione dei Vescovi e dei Regolari.
Con molta perplessità, la commissione romana, invitata a pronunciarsi sulle Regole della Società di san Francesco di Sales, avviò un’inchiesta sui seminaristi di don Bosco. Le conclusioni di mons. Gaetano Tortone, incaricato d’affari della Santa Sede a Torino, non furono favorevoli. Criticò duramente la scarsa qualità degli studi dei chierici, la loro mancanza di spirito ecclesiastico e la loro formazione inadeguata in mezzo ai ragazzi dell’Oratorio. Qualche mese più tardi, anche il giornalista don Giacomo Margotti, personaggio influente nel mondo clericale piemontese, interrogato biasimava lo spirito di indipendenza di don Bosco nella formazione dei chierici.[114]
Nel fronteggiare tale coalizione, don Bosco, poco incline a cedere di fronte a misure che reputava vessatorie, si diede da fare per trovare alleati in Roma. Il 9 settembre 1868, ancora in euforia oer i festeggiamenti di Maria Ausiliatrice, esponeva all’amico cardinale Filippo de Angelis i suoi problemi con mons. Riccardi di Netro, che pretendeva di ordinare solo i chierici passati dai seminari diocesani. Al che obiettava: ‹‹... se io mando i chierici in seminario, dove sarà lo spirito di disciplina della Società? Dove prenderò oltre a cento catechisti per altrettante classi di fanciulli? Chi passerà un quinquennio in semenario avrà volontà di rivenire a chiudersi nell’Oratorio?».[115] Il reclutamento del personale, la sua formazione, la sua perseveranza e il funzionamento di ogni altra iniziativa educativa apparivano minacciati dalle disposizioni dell’ordinario torinese.
Quest’ultimo sembrò averla vinta. Il votum sulle Costituzioni del carmelitano Angelo Savini, consulente per la Congregazione dei Vescovi e dei Regolari, fu contrario a don Bosco.[116] Le autorità romane davano ragione all’arcivescovo. Il 2 ottobre, il segretario della Congregazione dei Vescovi e dei Regolari informava don Bosco del voto negativo in merito alla sua richiesta di approvazione della Società di S. Francesco di Sales, presentando queste motivazioni: ‹‹Sono spiacente significarle non potersi ora approvare le Costituzioni del di Lei Istituto, perché converrebbe modificarle sostanzialmente in due degli articoli principali. Il primo è quello delle Lettere Dimissoriali pei chierici, che debbono essere promossi tanto agli Ordini minori che sacri. Il secondo riguarda gli studi degli stessi chierici che l’arcivescovo esige siano fatti nelle scuole del seminario diocesano».[117]
Era chiaro. Don Bosco desiderava due cose incompatibili tra loro: l’approvazione romana della Congregazione e il mantenimento del proprio sistema di formazione ecclesiastica. L’ostacolo sembrava insormontabile.
Ma la sua manovra in fine avrebbe avuto successo. Ottenne qualche nuova raccomandazione episcopale e aggirò gli ostacoli indirizzandosi sistematicamente all’autorità superiore. Il 15 gennaio 1869, don Bosco fu a Roma deciso a spuntarla. Vi rimarrà un mese e mezzo, prendendo d’assedio i responsabili. Già il 19 il papa lo riceveva in udienza. Era la fase preliminare dell’assalto. Cominciò poi a spiegare alle autorità il suo metodo di formazione dei giovani religiosi: accettazione, anni di prova, stile di formazione degli aspiranti (don Bosco ignorava la parola noviziato), studi, formazione apostolica pratica. ‹‹Il santo Padre dirà nel suo discorso ai Salesiani il 7 marzo seguente era favorevole all’approvazione, ma non poteva concludere niente da solo». In occasione di una nuova udienza, il 23 gennaio, egli aveva soltanto osservato che le lettere dimissorie dei vescovi non erano indispensabili per i giovani entrati nel suo Oratorio prima dei quattordici anni. Comunque, nel corso delle settimane le cose procedettero nel silenzio. In febbraio don Bosco ebbe ancora due lunghi incontri col papa. Nel corso del secondo incontro, apprese che la Congregazione dei Vescovi e dei Regolari finalmente approvava la Società di S. Francesco di Sales. Il decreto di approvazione porta la data del 1° marzo 1869. In esso si concede al superiore la facoltà, per un periodo di dieci anni, di rilasciare lettere dimissorie ai giovani entrati nel suo Oratorio prima dei quattordici anni compiuti.[118] Don Bosco si rese conto di aver finalmente superato la seconda tappa. Quattro giorni dopo il decreto, rientrò a Torino con la certezza di una vittoria completa.
Tuttavia avrebbe presto capito che la sua Regola non era stata approvata del tutto e che non sarebbe stato sufficiente presentare le lettere dimissorie ad un vescovo per ottenere l’ordinazione di un chierico.
Don Rua maestro dei novizi senza titolo
Forte del riconoscimento ottenuto da Roma, don Bosco volle seguire con cura il progresso della sua Società. IL 15 agosto 1869, scrisse ai direttori delle case un’importante lettera circolare sui loro doveri verso i confratelli: due conferenze al mese, rendiconto mensile obbligatorio per tutti.[119] Le statistiche dichiareranno, per l’anno 1869, 62 professi e 31 ascritti (novizi), suddivisi in quattro opere salesiane. Quell’anno don Rua ricevette la responsabilità diretta della formazione di questi ascritti e divenne così maestro di novizi senza averne il titolo, per evitare che la Società apparisse come una Congregazione religiosa tradizionale. A dire il vero la sua responsabilità si estendeva a tutte le tappe del periodo di prova (parola usata da don Bosco) dei candidati alla vita salesiana, dal postulato all’ordinazione. Tuttavia la distinzione tra le varie tappe era piuttosto sfumata a Valdocco.
Cinque anni più tardi, quando l’incarico di don Rua sarebbe passato a don Giulio Barberis, in un documento preparato per le autorità romane, don Bosco chiariva le modalità di questa formazione, usando lo stile a lui congegnale di domanda e risposta.[120] Il suo testo riflette a grandi linee l’incarico assegnato a don Rua negli anni precedenti: selezione dei candidati, regolamentazione della loro vita religiosa attraverso determinate attività, insegnamento spirituale loro impartito, formazione pratica alla loro vita futura.
Secondo don Bosco, il ‹‹noviziato», se lo si voleva chiamare così, non era un assoluto: ‹‹Abbiamo il noviziato, ma le pubbliche leggi, i luoghi dove viviamo, non permettono di avere una casa separata, che serva esclusivamente a questo scopo. Il noviziato, che noi chiamiamo tempo di prova, si fa in un tratto della casa principale che è in Torino». Questo noviziato non poteva essere di tipo monastico. ‹‹Nell’accettazione dei soci si bada in modo speciale alla virtù dei medesimi; perché la nostra Congregazione non è destinata ad accogliere convertiti, che desiderino di attendere alla preghiera, alla penitenza, alla ritiratezza; ma di accogliere individui di vita costumata, fondati nella virtù e nella religione, i quali vogliano dedicarsi al bene della gioventù soprattutto dei fanciulli più poveri e pericolanti. Per questa ragione finora abbiamo accettato soltanto giovanetti da più anni conosciuti, e vissuti nelle nostre case con vita sotto ad ogni rapporto esemplare», scriveva don Bosco.[121]
I giovani venivano formati nell’azione, anche durante il ‹‹noviziato». Così voleva don Bosco, che nel 1874 spiegava ai suoi corrispondenti romani: ‹‹In questo tempo i novizi sono occupati anche a fare il catechismo ogni qual volta ne sia di bisogno, ad essistere i fanciulli dello stabilimento, e talora anche a fare qualche scuola diurna o serale, a preparare i più ignoranti alla cresima, alla comunione, a servire la santa messa e simili. In ciò consiste la parte più importante della prova. Chi non avesse attitudine a questo genere di occupazioni, non sarebbe accettato nella Congregazione».
Questo era il programma ideale, certamente. Ma come si attuava nella realtà e quali erano i risultati? Come si svolgeva la vita quotidiana di don Rua e dei suoi ascritti tra il 1869 e il 1874? Abbiamo detto che il noviziato in quanto tale non esisteva. D’altra parte ufficialmente non esisteva alcuna Congregazione religiosa a Valdocco. Semplicemente di tanto in tanto qualcuno si decideva a restare con don Bosco. E quando un ragazzo gli confidava la sua intenzione, don Bosco lo mandava da Rua.
Don Bosco sicuramente aveva forzato la realtà dei fatti quando nella sua nota accennò a pratiche di pietà speciali per i ‹‹novizi». Scriveva: ‹‹Ogni mattino, preghiera vocale, meditazione, terza parte del Rosario, e più volte alla settimana fanno la S. Comunione. Lungo la giornata hanno lettura spirituale, visita al SS. Sacramento con lettura di materia ascetica, esame di coscienza e comunione spirituale. Ogni sera dell’anno, all’ora stabilita, si raccolgono in chiesa, cantano una lode sacra, di poi si legge la vita del Santo di quella giornata; e dopo il canto delle Litanie Lauretane assistono alla benedizione del col SS. Sacramento».[122] A Torino queste pratiche corrispondevano in realtà a quelle degli allievi stessi.
Don Rua, con regolarità, ogni giovedì faceva una conferenza spirituale ai suoi ascritti, come assicura la lettera di don Bosco: ‹‹Ogni settimana il maestro dei probandi fa loro una conferenza morale sulle virtù da praticarsi e sui difetti da fuggirsi, prendendo per lo più per argomento qualche articolo delle costituzioni».[123]
In un verbale del Capitolo presieduto da don Rua l’8 novembre 1867, troviamo scritto: ‹‹Si diano i voti di applicazione e di condotta ai chierici come agli altri studenti». Di fatto, a partire da quel momento, si faranno regolari riunioni mensili dedicate ai voti dei chierici, come rileviamo dai verbali di don Rua. Ci mancano i registri contenenti questi voti o giudizi. Tuttavia, un tratto del paragrafo sul ‹‹Registro della condotta dei chierici e coadiutori», contenuto nelle ‹‹Norme [di don Rua] sulla tenuta dei registri» per le case salesiane, ci informa sull’oggetto di tali giudizi. Si valutava la diligenza e la pietà dell’interessato. ‹‹Sotto il nome di diligenza s’intende l’osservanza delle regole generali della casa e l’adempimento dei doveri della propria occupazione; sotto il nome di pietà s’intende la condotta religiosa, cioè la frequenza ai SS. Sacramenti, assistenza alle sacre funzioni, contegno in chiesa, ecc.». In due sedute di tal genere, il Capitolo ritenne necessario incrementare l’assistenza dei chierici in chiesa, nel dormitorio, nello studio e in altri luoghi![124] Il ‹‹maestro» dei probandi si intratteneva personalmente con ciascuno di loro, normalmente una o due volte al mese. I probandi dell’Oratorio erano dunque ben seguiti.
‹‹Si diventava novizi senza saperlo [...] Il noviziato salesiano presentava in quegli anni un aspetto piuttosto curioso, concludeva un po’ perplesso, ma come sempre benevolo Agostino Auffray. Vi era l’essenziale: la durata e la prova; ma niente di più».[125] Forse. Ma non sarà dello stesso avviso mons. Gastaldi, quando verrà eletto arcivescovo di Torino nel 1871. Nelle sue lettere ufficiali alla Congregazione dei Vescovi e dei Regolari, insisterà perché il noviziato di don Bosco prendesse a modello quello della Compagnia di Gesù. Non era neppure l’opinione dei revisori delle Costituzioni salesiane che, nel 1873-1874, obbligarono don Bosco a formulare un capitolo definitivo: ‹‹Il maestro dei novizi e la loro direzione», testo che il fondatore, particolarmente restio, si affrettò a modificare nella versione italiana del 1875, la sola allora consegnata a ciascun confratello, ridotta di dieci articoli sul funzionamento del noviziato rispetto all’edizione latina ufficiale. Questo tempo di prova per don Bosco, era analogo a quello anteriore dell'‹‹aspirantato», un tempo di azione e di apostolato. Le Costituzioni avrebbero dovuto dichiararlo apertamente o, perlomeno, non occultarlo.
Tutto sommato i risultati di questo tipo di formazione furono buoni. Don Bosco si credette in dovere di assicurarlo nel 1874. ‹‹I risultati morali finora furono assai soddisfacenti. Quelli che riescono a queste prove divengono buoni soci, prendono affezione al lavoro, avversione all’ozio, e le occupazioni diventano per loro come necessarie, si prestano volentieri ad ogni momento in quello che può tornare alla maggior gloria di Dio. Quelli poi che non hanno attitudine a questo genere di vita, si lasciano liberi di secondare altrimenti la loro vocazione».[126]
Nonostante la mancanza di un noviziato ascetico tradizionale, la formazione dei giovani Salesiani sotto la guida di don Rua, maestro dei novizi senza titolo, venne ampiamente garantita. Il seguito della storia salesiana lo dimostrerà. Più tardi, tuttavia, gravi disordini morali tra i membri delle prime spedizioni missionarie in America soprattutto tra i coadiutori porteranno a riflettere su un metodo incentrato più sull’attività che sull’ascetismo.[127]
8 DON RUA COLONNA DELL'ORATORIO E REGOLA VIVENTE
Una Società in continua crescita
Don Rua, formatore dei Salesiani delle origini era, come sappiamo, prefetto generale della Società. Rappresentava don Bosco, venerato da tutti, e si sforzava di mantenere l’unità di una Congregazione che cresceva nel numero e negli insediamenti. Tra 1870 e 1873, alle tre opere piemontesi aperte negli anni Sessanta, si aggiunsero in Liguria le case di Alassio, Varazze e Sampierdarena. Nel 1871 don Bosco incaricò don Angelo Savio di costruire in Torino la Chiesa di san Giovanni Evangelista. Nel 1872 la fondazione dell’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice a Mornese, considerato da don Bosco come parte integrante della Congregazione Salesiana, e l’accettazione del collegio aristocratico di Valsalice, accrebbero ulteriormente la consistenza dell’opera.[128]
Mentre a Roma, tra gennaio e febbraio 1869, don Bosco superava passo dopo passo gli ostacoli dovuti al suo modo di concepire i processi formativi dei giovani candidati ed otteneva finalmente l’approvazione della Società Salesiana, don Rua a Torino faceva pregare intensamente gli allievi per lui. I giovani, stimolati dalle sue esortazioni, si suddivisero spontaneamente in gruppi impegnandosi a scegliere ciascuno un giorno della settimana per comunicarsi, di modo che ogni mattina un buon numero si accostava alla sacra mensa secondo le intenzioni di don Bosco. Esprimevano così riconoscenza nei riguardi del loro padre, come dice la cronaca di don Rua.[129] Queste preghiere furono esaudite. Il 26 febbraio, don Bosco informò il suo prefetto del risultato positivo, chiedendogli di non diffondere la notizia per timore del clamore che avrebbe potuto suscitare la fondazione di una nuova Congregazione religiosa. Don Rua non lo confidò che a un piccolo gruppo, col quale preparò preparò con cura il ritorno di don Bosco la sera del 5 marzo.
La banda musicale salutò don Bosco all’ingresso dell’Istituto. Per accoglierlo, di là fino ai portici, attraverso il cortile dell’Oratorio erano state erette due file di pertiche, alle quali erano appesi in modo alternato globi di cristallo illuminati e torce a base di grasso. I giovani formavano due ali, gli artigiani da una parte e gli studenti dall’altra. Don Bosco, preceduto dalla banda, avanzò in mezzo alle acclamazioni di tutti i suoi giovani. Salì al primo piano della casa e si mostrò illuminato dalle luci del cortile. Il concerto continuò in mezzo allo straordinario entusiasmo generale. Don Rua era soddisfatto. La sua cronaca descrive nel dettaglio la manifestazione e la conclude così: ‹‹Fu un interminabile susseguirsi di grida di gioia».[130]
L’approvazione della Società imponeva che si rispettassero le Costituzioni, quelle che don Bosco si affannava a far riconoscere dalle autorità ecclesiastiche. Spiegò allora in una conferenza: ‹‹Tutto il mondo ci osserva e la Chiesa ha diritto all’opera nostra. Bisogna dunque che d’ora innanzi ogni parte del nostro regolamento sia eseguita alla lettera». Qualche giorno più tardi insisteva: ‹‹Guardiamoci di farci proprio degni fondatori della Società di san Francesco di Sales, affinché coloro che leggeranno la nostra storia possano trovare in noi tanti modelli e che non abbiano invece ad esclamare: Che razza di fondatori eran quelli!» Una delle sue lettere da Roma a don Rua ricordava la necessità dell’obbedienza.[131] Bisognava fare in modo di radicare le usanze religiose. Il fatto che fossero in pochi facilitava le cose.
Un prefetto esigente
Don Rua, in questa impresa delicata, fu il braccio destro di don Bosco. Umile e generoso, non si tirava mai indietro davanti alla fatica e alle difficoltà quando si trattava di rispondere alle intenzioni del maestro. Sentinella vigile, faceva attenzione a tutte le irregolarità. Calmo e paziente, non temeva di insistere quando scopriva qualche infrazione ai regolamenti stabiliti.
Spesso non veniva rispettato il silenzio sacro dopo le preghiere della sera. Si obbligò some sappiamo a fare, a tarda ora, il giro della casa per porvi rimedio con la sua semplice presenza. Un’altra questione che gli stava a cuore era la pratica della povertà religiosa. Don Rua si ingegnava per farla osservare scrupolosamente da ciascuno. Quando dava una somma qualsiasi a un confratello, pretendeva che quest’ultimo ne rendesse conto fino all’ultimo centesimo. C’erano casi isolati che non sfuggivano al suo controllo. L’intervento poteva essere difficile. Si può immaginare come potesse e dovesse reagire alla lettera di don Bosco del 21 aprile 1869 che gli ingiungeva: ‹‹Di’ a D. Chiapale che domenica passata l’ho fatto cercare e non mi fu possibile di poterlo ritrovare : gli dirai se le regole permettono di andare dove si vuole senza licenza, e che parmi tempo di finirla». Don Bosco gli aveva insegnato che l’osservanza delle regole era la condizione sine qua non perché la Società avesse un avvenire. Che cosa non avrebbe fatto per scongiurare il pericolo opposto!
Contrariamente a quanto potremmo immaginare, i suoi richiami all’ordine non lo rendevano odioso. Era esigente sì, ma non pedante né importuno. Dimostrava una rara abilità nella correzione. Sapeva aspettare il momento giusto e quando due parole erano sufficienti, non ne diceva tre. Adattava i suoi interventi ai diversi temperamenti. Non perdeva mai la calma, non per calcolo, ma per semplice bontà, quella bontà che gli impediva di umiliare il colpevole.
La sua forza nella correzione consisteva nell’essere per primo l’esempio dell’osservanza. Tutti potevano testimoniarlo, sebbene avessero finito per battezzarlo la ‹‹Regola vivente». Don Bosco stesso lo chiamava così quando, in sua assenza e nelle conversazioni private, lo indicava come modello di osservanza su questo o quest’altro punto particolare.
Tra il 1867 e il 1872, don Rua non dimenticò che, in qualità di prefetto generale, era anche prefetto dell’Oratorio. Gli spettava l'organizzazione e la valutazione delle grandi manifestazioni religiose (novena del Natale, settimana santa, mese di Maria, quarantore, esercizi spirituali, festa di don Bosco il 24 giugno, feste di santa Cecilia, dell’Immacolata Concezione di Maria, di san Francesco di Sales, di san Luigi Gonzaga e di Maria Ausiliatrice). Le sue istruzioni a questo proposito si trovano nei verbali delle sedute del Capitolo tenute sotto la sua presidenza.[132] I giovani erano allora quasi novecento. Egli stabilì che i giovani studenti rientrassero in ordine nelle loro classi, accompagnati dagli assistenti e che gli studenti di filosofia avessero un assistente particolare durante il tempo di studio libero (riunione dell’8 novembre 1867). Esortò a mantenere i dormitori in ordine e impedirvi l’accesso nel corso della giornata; i dormitori dovevano essere chiusi alle 8 e mezzo (riunione del 16 novembre 1871).
Il prefetto poteva dirsi quasi soddisfatto degli studenti, lo era un po’ meno degli artigiani. La loro partecipazione in chiesa lasciava a desiderare. ‹‹Che siano suddivisi per dormitori con i loro assistenti; che ciascuno abbia il proprio posto e un libro di devozione», prescriveva nella riunione dapitolare del 27 dicembre 1867. Questi allievi non avevano ancora acquisito una disciplina precisa. Per esempio gli artigiani uscivano di frequente in città per acquistare ciò di cui avevano bisogno nei laboratori: don Rua abolì tale abitudine, ma senza grande successo. L’orario era troppo elastico. Il 13 marzo 1870 il Capitolo decise che un tocco di campana avrebbe chiamato capi e artigiani. Gli artigiani facevano ricreazione nel cortile degli studenti: don Rua stabilì una rigida separazione tra studenti ed artigiani, non senza disagi, a giudicare dalle ripetute osservazioni del Capitolo. Fu decisa persino la costruzione di una recinzione per far rispettare questa separazione.[133] I momenti destinati al lavoro e all’insegnamento non erano definiti formalmente; don Rua si adoperò affinché la formazione professionale procedesse per gradi e decise che gli artigiani ricevessero tutti i giorni lavorativi un insegnamento teorico che li avrebbe perfezionati nel mestiere e nella cultura generale. Per esempio, il 9 novembre 1871, don Rua assegnò le aule per i corsi degli artigiani.[134] Di tanto in tanto si faceva vedere nell’uno o nell’altro laboratorio, osservava i giovani, si intratteneva con il capo-laboratorio, che talvolta era un individuo pieno di buona volontà ma scarso di abilità tecnica. Le riunioni capitolari, che si tenevano sotto la sua presidenza, tornavano regolarmente sul ‹‹problema degli artigiani» (come il 20 marzo 1873) e sul modo di ‹‹migliorare la condizione morale degli artigiani» (seduta del 27 luglio 1873). Grazie a lui, a poco a poco, i corsi professionali dell’Oratorio migliorarono sensibilmente e guadagnarono di prestigio.
Don Rua e il suo Capitolo si interessavano anche dell’abbigliamento da lavoro dei giovani, della loro pulizia, del lavaggio e della distribuzione della biancheria, dell’igiene dei dormitori. Avremo modo di notare come nel 1870, al momento del trasferimento del collegio di Mirabello a Borgo San Martino, Giovanna Maria Rua raggiungesse suo figlio a Valdocco e si occupasse di questo genere di problemi. Molti giovani si vestivano come potevano, un certo numero di loro, troppo poveri, erano totalmente a carico dell’istituto. Don Rua fece in modo che tutti potessero avere una tenuta decorosa la domenica e quando uscivano. Ci teneva che ogni settimana nei dormitori si procedesse all’ispezione dei corredi, per far riparare all’occorrenza abiti e scarpe.
Voleva che si osservasse accuratamente il regolamento della casa. Tale regolamento don Bosco, l’aveva scritto nel 1852, dopo un periodo di sperimentazione, l’aveva ripreso nel 1854 e fatto entrare in vigore durante l’anno scolastico 1854-1855. Non fu stampato prima del 1877 ma, a quanto pare, egli lo faceva leggere solennemente in pubblico all’inizio di ogni anno scolastico e ci teneva che tutte le domeniche ne fosse commentato un capitolo agli allievi. Era solo l’inizio. Ma quanto era veramente conosciuto il regolamento? Lo storico (qui penso a don Ceria) non si dovrebbe fare illusioni. In ogni caso, il verbale della riunione capitolare del 22 novembre 1867 stabiliva: ‹‹Perché il regolamento sia conosciuto da ciascuno [dei membri del Capitolo!], è deciso che se ne legga un passo ad ogni seduta». E la riunione capitolare dell’8 dicembre 1872 istituiva ‹‹una conferenza ai capi reparto e agli assistenti sul loro regolamento». Don Rua, che si era formato alla scuola dei Fratelli, vedeva nell’osservanza precisa delle regole la miglior garanzia del profitto morale e scolastico dei ragazzi. Del resto don Bosco ci teneva particolarmente e ogni manifestazione della volontà di don Bosco costituiva per don Rua un imperativo categorico.
Tutto ciò lo obbligava a far sentire spesso il peso della sua autorità, cosa che, malgrado la sua delicatezza, finiva per renderlo più temuto che amato. Le teste migliori e più autorevoli della casa, in particolare il futuro cardinale Cagliero, se ne preoccuparono seriamente, al punto di far parte delle loro preoccupazioni a don Bosco. Giovanni Cagliero gli avrebbe detto più o meno così: ‹‹Caro don Bosco, che Dio la conservi ancora a lungo, ma è certo che il giorno in cui andrà in paradiso la sua eredità passerà a don Rua. Tutti lo dicono e l’ha detto anche lei. Ma non tutti sono d’accordo nel pensare che godrà come lei della confidenza di tutti. La vita da censore che conduce qui all’Oratorio per mantenere la disciplina lo rende poco simpatico a molti». Don Bosco ammise che l’ossrvazione era giusta. Nel 1872, nominò un altro prefetto all’Oratorio nella persona di don Francesco Provera e conferì a don Rua il titolo di direttore, ma egli, per rispetto verso don Bosco, vero direttore dell’opera, modificò il suo titolo in quello di vice-direttore.
Questo vice-direttore aveva le spalle robuste. Non rifiutò due nuovi compiti. Dovette assumersi la predicazione della domenica mattina ai fedeli e agli allievi nella chiesa di Maria Ausiliatrice. Fino a quel momento tale compito era riservato a don Bosco. Prese a commentare la Storia Sacra, di cui teneva già pronti gli schemi nei suoi quaderni. Gli uditori non dimenticheranno le sue istruzioni, sempre chiare ed ordinate. Ai racconti aggiungeva una morale, riflessioni ascetiche e considerazioni religiose, come testimoniano i suoi appunti. Il secondo incarico consisteva nell'insegnamento della Sacra Scrittura ai chierici della casa, a partire dal giorno in cui fu istituito a Valdocco il corso teologico interno. Stando al manuale, la materia appare piuttosto arida, ma a quanto dicono alcuni ex-allievi, la sua scioltezza di linguaggio e la sua naturalezza rendevano tutto più chiaro e avvincente.
Gli toccava anche l’organizzazione generale dei corsi di teologia. Il verbale della riunione capitolare del 10 novembre 1872 ci informa sull’orario settimanale. Al mattino si tenevano i corsi di teologia dogmatica il lunedì e venerdì (professore: il teologo Molinari); di teologia morale il martedì, mercoledì e sabato (professore: don Cagliero). Al pomeriggio c’erano le lezioni di Sacra Scrittura il lunedì e il venerdì (professore: don Rua); di Storia della Chiesa il martedì e il sabato (professore: don Barberis); mentre il mercoledì si studiava il Nuovo Testamento (con don Rua). Il giovedì, giorno di vacanza, si teneva una sola lezione di liturgia, o sacre cerimonie, alle ore 10 per filosofi e teologi (professore: don Cibrario). Doveva occuparsi poi delle ordinazioni dei chierici, come testimoniano le sue corrispondenze del periodo da Torino.
Oltre a tutto questo, chi potrebbe credere si domanda don Ceria che don Rua si fosse ancora imposto di perpreparare esami pubblici? Eppure fu così. Nel 1872 egli figura tra i candidati all’abilitazione per l’insegnamento nel ginnasio superiore. Con il moltiplicarsi dei collegi, bisognava avere titoli riconosciuti. Don Rua cercò di conseguirne uno. Aveva già tentato nel 1866, quando era riuscito a passare lo scritto, ma venne respinto all’orale da professori universitari mal disposti nei riguardi di studenti che non avevano seguito i loro corsi. Questa volta, il 1° ottobre 1872 si meritò con onore il diploma.[135]In più (non si sa chi l’abbia introdotto), un documento originale informa che, il 19 ottobre 1873, Michele Rua entrò a far parte dell’accademia letteraria dell’Arcadia con lo pseudonimo di Tindaro Stinfatico.[136] Secondo don Lemoyne, l’abate Peyron, famoso cattedratico torinese, avrebbe affermato che con sei uomini del calibro di Rua si sarebbe potuto aprire un’università.[137]
Unsacerdote devoto
Liberato dalla carica di prefetto della casa dell’Oratorio, don Rua poté dedicarsi maggiormente al suo incarico di prefetto generale. Era già stato coinvolto nell’organizzazione dei collegi che si andavano aprendo, di cui, su richiesta di don Bosco, aveva fatto stampare e distribuire i programmi. Nell’ottobre 1872, don Bosco gli affidò anche il compito di assegnare il personale ai vari collegi. Era un impegno delicato. ‹‹Fa’ tutto quello che puoi affinché le cose si facciano sponte non coacte [spontaneamente e non per forza]», gli raccomandava in una lettera.[138] Bisognava dunque conoscere bene gli uomini, trattarli il meno bruscamente possibile, misurare correttamente le loro capacità ...
Una pietà molto viva alimentava il suo spirito, lo rendeva forte e perseverante nel sacrificio. Un aneddoto del 1873 ce lo rivela chiaramente. Don Rua non si lasciava distrarre nella preghiera. Un monaco di Lerins, che quell’anno fece il sacrestano nella chiesa di Maria Ausiliatrice, ce ne ha lasciato una testimonianza dettagliata. Un giorno arrivò all’Oratorio un principe con il suo seguito. In assenza di don Bosco, toccava a don Rua riceverlo. Egli in quel momento stava celebrando la messa. Il visitatore, che era stato informato, e un suo accompagnatore, attesero in in sacrestia. Nel giro di venti minuti don Rua tornò dall’altare. Corsero da lui per dirgli di sbrigarsi. Ma egli, come se non avesse sentito, depose adagio adagio i paramenti sacerdotali. Quando si voltò, il principe fece per avvicinarsi. Ma don Rua accennò di attendere e andò all’inginocchiatoio. Nascose il volto tra le mani e rimase così per venti minuti assorto in preghiera. Alla fine si alzò e, con un sorriso angelico, le braccia spalancate, andò verso quei signori, scusandosi di non aver potuto mettersi subito a loro disposizione. Essi compresero, si mostrarono molto cortesi e in seguito ebbero modo di dire quanto fossero rimasti edificati dal suo lungo ringraziamento.[139]
Nessuno più di don Bosco poteva dire quanto don Rua progredisse sul cammino della perfezione evangelica. Lo stesso monaco di Lerins nel settembre del 1874 si trovava a Lanzo, in occasione degli esercizi spirituali dei Salesiani, quando sentì don Bosco affermare: ‹‹Se io volessi mettere un dito sopra don Rua, in un punto, dove non vedessi in lui la virtù in grado perfetto, non potrei farlo, perché non troverei quel punto».[140]
Era l’anno in cui Roma, dopo lunga e dura battaglia, aveva finalmente emanato (13 aprile) il decreto di approvazione delle Costituzioni. Quante preghiere aveva elevato don Rua a Torino per ottenere questo risultato! Don Bosco lo sapeva. Il 14 aprile gli inviò un biglietto perché lo leggesse pubblicamente durante la buonanotte. Iniziava così: ‹‹Il vostro padre, il vostro fratello, l’amico dell’anima vostra, dopo tre mesi e mezzo di assenza parte oggi da Roma, passa la notte col mercoledì a Firenze e spera di essere con voi giovedì alle 8 del mattino. Non occorrono né feste, né musica, né accoglienza». Infatti l’Oratorio era in lutto per la recente scomparsa di don Francesco Provera, sucessore di don Rua nella prefettura della casa.[141]
9 DON RUA VISITATORE DELLE CASE AFFILIATE
Don Rua ‹‹visitatore» delle case salesiane
Siamo negli anni 1870-1875. Il prefetto generale si sente responsabile dell’osservanza religiosa, non soltanto nell’Oratorio, ove risiede, ma anche negli altri centri della Congregazione nascente, le case di Borgo San Martino, Lanzo, Sampierdarena, Varazze, Alassio e Torino-Valsalice. Vuole essere continuamente informato sull’andamento di questi istituti per svolgere correttamente un compito che egli giudica indispensabile al buon funzionamento dell’insieme. Per questo sono necessarie delle ispezioni sistematiche. Le eseguirà accompagnandole con consigli e decisioni disciplinari.
Don Bosco visitava spesso le case, ma sempre con atteggiamento paterno e necessariamente benevolo. Don Rua, dal canto suo, le visitava come saggio amministratore di opere educative, preoccupato sia delle condizioni materiali che delle condizioni morali di ciascuna di esse. Ispezionava istituzioni che per vocazione dovevano attenersi alle indicazioni date da don Bosco nelle Costituzioni, nel Regolamento dell’Oratorio e negli orientamenti lasciatigli quando era stato inviato direttore a Mirabello. In sostanza doveva verificare la fedeltà allo spirito che don Bosco infondeva nella Congregazione nascente.
Si dispose ad assolvere questo incarico di ispettore a partire dal 1874, quando don Bosco ottenne l’approvazione definitiva del testo costituzionale.[142] Tra il 1874 e il 1876, registrò sistematicamente le sue osservazioni su un taccuino, che è stato conservato.[143] Don Rua in qualità di ispettore non sembra essersi molto preoccupato della suscettibilità dei direttori, primi interessati alle sue osservazioni. Non andava per il sottile se era necessario esprimere biasimo o denunciare negligenze e abusi.
Il programma di don Rua ‹‹visitatore»
In qualità di prefetto egli doveva verificare se nelle opere venivano applicate le decisioni prese nelle riunioni annuali dei direttori, che si tenevano a Valdocco in prossimità della festa di san Francesco di Sales. Le sue osservazioni erano indirizzate in un primo tempo ai direttori e, in un secondo tempo, attraverso la loro mediazione, al personale salesiano.
Si era costruito un programma di visita scritto a più riprese su uno dei suoi taccuini. L’ispezione riguardava prima di tutto i locali, poi le persone, Salesiani e allievi, infine l’ambiente in generale. Controllava accuratamente i registri dell’amministrazione.[144] Ispezionava gli ambienti a cominciare dalla chiesa e dalla sacrestia, con verifica degli altari, dei paramenti sacri, delle celebrazioni settimanali, delle domeniche e delle festività religiose. Poi passava alle stanze dei superiori e ai dormitori dei giovani: c’era qualcosa di troppo elegante nelle camere dei confratelli ? I dormitori erano puliti e sufficientemente aerati ? I crocifissi, le immagini o le statue di Maria occupavano un posto dignitoso? Le celle degli assistenti nei dormitori erano abbastanza piccole da togliere la tentazione di trasformarle in uffici? Poi don Rua scendeva al piano terra, nei corridoi, sulle scale e nei cortili, e ne verificava sistematicamente la pulizia. Se aveva occasione di entrare nelle classi, interrogava gli allievi e controllava i loro quaderni.
I confratelli erano l’oggetto principale di tutte le sue attenzioni. Verificava che fossero assicurate le conferenze spirituali ai Salesiani e agli aspiranti della casa. In effetti don Bosco aveva sancito nella circolare del 15 agosto 1869: ‹‹Ogni mese saranno tenute due Conferenze di cui una intorno alla lettura e spiegazione semplice delle regole della Congregazione. L’altra conferenza intorno a materia morale, ma in modo pratico e adatto alle persone a cui si parla». Nella stessa circolare si diceva: ‹‹Ogni socio una volta al mese si presenterà dal direttore di quella casa cui appartiene e gli esporrà quanto giudicherà vantaggioso al bene dell’anima sua, e se ha qualche dubbio intorno all’osservanza delle regole lo esporrà chiedendo quei consigli che gli sembrano più opportuni pel suo profitto spirituale e temporale». L’ispettore doveva dunque verificare la regolarità dei rendiconti mensili. Poi valutava la vita religiosa dei confratelli, in materia di modestia, di povertà e di obbedienza. Era necessario molto rigore in tema di castità. ‹‹La cosa più importante nelle nostre case si è di promuovere, ottenere ed assicurare la moralità, sia nei soci, sia nei giovani. Assicurato questo, è assicurato tutto, mancando questo, manca tutto», si leggeva in una deliberazione del Capitolo dei direttori del 1875-1876.
Inoltre bisognava verificare se gli incarichi di prefetto e di catechista fossero svolti correttamente come li descriveva la regola. Va ricordato che, secondo il regolamento dell’Oratorio di Valdocco, il cateschista provvedeva al bene spirituale dei giovani della casa, si occupava dei malati, formava e promuoveva le compagnie (di san Luigi Gonzaga, dell’Immacolata Concezione e del Santissimo Sacramento).
Don Rua sapeva che i giovani confratelli costituivano una parte importante del personale delle case visitate. Erano in numero sufficiente? Avevano regolari lezioni di filosofia e di teologia? Ricevevano una buona formazione per il servizio liturgico, con apposite lezioni? Che cosa dire della loro condotta quando esercitavano le funzioni di assistente o di insegnante? Partecipavano alle meditazioni e alle letture spirituali comunitarie?
L’indagine doveva riguardare anche gli allievi. Qual’era il loro stato di salute? Com’era tenuta l’infermeria? Per quanto riguardava la loro vita religiosa, ci si preoccupava di insegnare le preghiere e di iniziarli al servizio dell’altare? Com’erano assistiti in chiesa, nello studio, in classe, durante la ricreazione, nei dormitori e nelle passeggiate? Che dire della loro pulizia corporale e della loro salute spirituale? Veniva invitato regolarmente un confessore estraneo alla casa? Esistevano le compagnie religiose? Si era istituito il piccolo clero? I giovani studiavano con impegno? Com’erano le loro relazioni con maestri e assistenti? C’erano allievi esterni? La casa aveva un ‹‹Oratorio festivo»? Don Rua si interessava anche all’avvenire dei giovani. Vi erano allievi che pensavano di entrare nel clero? I chierici si preparavano a sostenere gli esami da maestro?
Come gli aveva suggerito don Bosco quando lo mandò direttore a Mirabello, don Rua siinteressava anche delle relazioni tra il collegio e l’ambiente circostante, il parroco, l’amministrazione comunale, ecc.
Veniva infine l’ambito economico. Com’erano trattati i superiori e gli allievi a tavola? La direzione si era avventurata in imprese onerose di costruzione e di manutenzione? Quanto si spendeva in libri e in viaggi? L’anno antecedente si era chiuso in guadagno o in perdita?
L’ispezione veniva fatta sulla base dei registri che la direzione dell’opera era invitata a presentare. La loro lista testimonia lo spirito metodico e meticoloso dell’ispettore don Rua: il registro delle messe, quello della condotta dei chierici e dei coadiutori; il registro dei postulanti alla vita salesiana, quello degli allievi e dei convittori; i registri dei depositi in denaro dei giovani, delle offerte, dell’amministrazione; gli elenchi del guardaroba consegnato al loro ingresso dai coadiutori; le liste dei diversi fornitori: calzolaio, sarto, lattaio, panettiere, macellaio, salumiere, farmacista, ecc.; infine il registro dei conti correnti. Il taccuino mostra come don Rua si preoccupasse di moltiplicare i consigli sulla tenuta dei vari registri.
Le ispezioni di don Rua nel 1874 e 1875
Le case visitate da don Rua nel 1874 e nel 1875 furono Borgo San Martino, Lanzo, Sampierdarena, Varazze, Alassio e Torino-Valsalice. Qui lo vediamo applicare il suo dettagliato programma di visita.
Don Rua visitatore a Borgo San Martino e Lanzo Torinese
Il 1° marzo 1874, mentre a Roma don Bosco si stava ancora dando da fare per ottenere la piena approvazione del testo costituzionale, don Rua ispezionò rapidamente la casa di Borgo San Martino. Il piccolo Seminario o Collegio san Carlo di Mirabello, che l’aveva avuto come primo direttore, era stato trasferito in questa località ben servita dalla ferrovia, in una splendida villa immersa in una tenuta di sei ettari, che don Bosco aveva acquistato dal marchese Scarampi di Pruney. All’inizio vi alloggiavano cento interni, numero che aumentò tra il 1874 e il 1877, passando a 160, poi a 200 unità. Don Giovanni Bonetti, salesiano della prima ora, molto stimato da don Bosco, dirigeva l’opera. Dopo la visita, don Rua si dichiarò discretamente soddisfatto del suo andamento. ‹‹Le cose sono condotte abbastanza bene», scrisse in un taccuino. Tuttavia, ritenne opportuno lasciare al direttore una dozzina di raccomandazioni, debitamente numerate, che meritano di essere citate alla lettera per familiarizzarci con il suo stile di ispettore. Eccole: 1) evitare le macchie di cera sull’altare quando si accendono le candele con la benzina; 2) mettere un crocifisso e un’immagine della Madonna nelle classi e nei dormitori, dove mancano; 3) adeguare le celle degli assistenti nei dormitori sul modello dell’Oratorio; 4) eliminare dai corridoi i cattivi odori provenienti dai servizi igienici che stanno presso la classe di retorica; 5) assicurare regolarmente le conferenze mensili a confratelli e aspiranti e fare in modo che si presentino al rendiconto ogni mese; 6) incoraggiare di più lo studio della teologia; 7) assicurare la regolarità del corso di liturgia ai chierici e ai giovani; 8) istituire la Compagnia dell’Immacolata; 9) dare i voti mensili a chierici e coadiutori; 10) tenere aggiornato il registro dei postulanti e quello delle spese; 11) affidare al chierico Ghione l’incarico di catechista, esonerandolo se possibile dall’insegnamento, affinché possa occuparsi della Compagnia di san Luigi, di quella del Santissimo Sacramento e del piccolo clero; 12) alcuni confratelli sono stati esortati a preparare gli esami civili.
Don Rua tornò ad ispezionare il collegio di Borgo S. Martino nell’aprile 1875 e vi trascorse due intere giornate. Si disse soddisfatto dal punto di vista materiale e morale, con qualche riserva. Era opportuno che gli esterni potessero assistere quotidianamente alla messa. Bisognava collocare in tutte le classi e in tutti i dormitori i crocifissi ben visibili. La pulizia di alcune scale e ripostigli lasciava a desiderare. L’incarico di catechista doveva essere svolto un po’ meglio, per questo l’interessato era invitato a farsi aiutare dal consigliere don Chicco. Si doveva stabilire la Compagnia dell’Immacolata, almeno tra i chierici. Il prefetto era invitato a farsi aiutare da un chierico per la corrispondenza e la gestione del registro della contabilità. Il direttore poi doveva vegliare con più cura sulla regolarità dei rendiconti dei confratelli e assicurarsi che venissero dati i voti di condotta a chierici e coadiutori. L’ispettore richiese inoltre che i teologi imparassero a memoria alcuni testi della Bibbia e dei Padri e che li si coinvolgesse nella soluzione delle obiezioni alle tesi teologiche formulate durante i corsi.
Nel marzo 1874, dopo l’ispezione di Borgo San Martino, don Rua dedicò un giorno e mezzo a visitare la casa di Lanzo. Era una scuola elementare e ginnasiale situata su una collina, a trentacinque chilometri da Torino. Poiché era anche convitto, accoglieva un certo numero di giovani interni. Nel 1873 si era costruito un edificio di tre piani, così nell’anno scolastico 1874-1875 il numero degli interni aveva superato le centosettanta unità. Lo dirigeva don Giovanni Battista Lemoyne, salesiano genovese arrivato da don Bosco quando era già sacerdote.
La soddisfazione dell’ispettore non fu piena. La pulizia della chiesa lasciava a desiderare e la prima camerata era in disordine. Inoltre mancavano crocifissi e immagini della Vergine nelle aule, nei dormitori e in altri ambienti. Le celle degli assistenti erano troppo spaziose. Come regola generale, tutti i dormitori dovevano rimanere chiusi, quando non vi si trovavano i giovani, così le aule e le diverse stanze. Cortili, scale e corridoi erano poco puliti e bisognava evitare di gettare rifiuti nel cortile piccolo. Il direttore era invitato a curare con maggior regolarità le conferenze mensili e i rendiconti dei confratelli. I sacerdoti non si dovevano dispensare dalla scuola per accettare impegni di ministero altrove. Il prefetto doveva occuparsi di più del personale di servizio per aiutarlo a compiere i doveri del buon cristiano. I chierici restavano troppo tra di loro e poco in mezzo ai giovani, inoltre non prendevano sul serio lo studio della teologia. Ogni giorno si doveva fare una visita al Santissimo Sacramento, individuale o comunitaria, con po’ di lettura spirituale La condotta degli allievi di seconda ginnasiale lasciava a desiderare. Era auspicabile una maggior pulizia negli abiti dei ragazzi. Il prefetto, don Costamagna, che aveva il compito di vigilare sul loro comportamento, non si doveva assentare con troppa frequenza. Bisognava invitare i giovani migliori ad entrare nella Compagnia dell’Immacolata. Mancavano vari registri: quello dei voti di condotta, quello dei chierici e dei coadiutori, il libro delle spese, il libro dei diversi fornitori. Infine il visitatore ordinò che si demolisse la pergola in mezzo al giardino. Come si vede gli ordini erano minuziosi e il tono categorico.
L’ispettore don Rua fece nuovamente la sua comparsa a Lanzo un anno più tardi, il 3 marzo 1875. Vi passò due giorni e constatò con soddisfazione che, in quanto a disciplina e pietà, il collegio funzionava meglio dell’anno precedente. Nonostante tutto elencò una lunga serie di osservazioni ad uso del direttore. Possiamo immaginare la sua mortificazione nel leggerle. Prima di tutto si interessò della chiesa e della formazione religiosa: le tovaglie dell’altare non erano pulite; bisognava assicurare la messa feriale agli esterni; si doveva organizzare un corso di liturgia per i chierici e pensare alla formazione del piccolo clero; andava data maggior importanza all’insegnamento del catechismo nel ginnasio; era indispensabile creare una classe di canto gregoriano e coinvolgervi il maggior numero di allievi, riservando a questo scopo una mezz’ora o tre quarti d’ora dopo la cena; si dovevano curare meglio le Compagnie di san Luigi e del Santissimo Sacramento, con piccole conferenze. Poi il prefetto era invitato ad avere maggior cura del personale, radunarlo regolarmente, spiegargli il regolamento della casa, ecc. Bisognava assicurare le lezioni di filosofia o di teologia ai chierici, tre o almeno due volte alla settimana. Si dovevano dare i voti di condotta ogni mese a chierici e coadiutori. I professori erano invitati a fare la lettura spirituale sotto la guida di don Scappini, mentre la meditazione mattutina degli assistenti era affidata alla responsabilità di don Scaravelli. Coloro che non potevanoo partecipare alle pratiche di pietà comunitarie, erano tenuti a farle in privato. Bisognava ridurre ulteriormente lo spazio delle celle per conformarle alle dimensioni regolamentari. La lettura a tavola non era facoltativa, dunque non la si poteva dispensare con troppa facilità.
Don Rua terminava il suo rapporto su Lanzo esponendo un certo numero di innovazioni disciplinari, che aveva potuto osservare, segno di una migliore organizzazione e di una più accurata assistenza degli allievi.
Don Rua visitatore a Sampierdarena, Varazze, Alassio e Valsalice
Dal Piemonte il visitatore si spostò sulla Riviera Ligure per l’ispezione di altre tre opere. Il 7 aprile 1875 avviò una visita di tre giorni alla casa di Sampierdarena. Come l’opera di Borgo San Martino, l'Ospizio di Sampierdarena, era frutto di un trasloco. Nel 1872 don Bosco aveva lasciato una villa troppo piccola, presa in affitto a Marassi, dove erano ospitati una quarantina di giovani artigiani, ed aveva spostato l’opera a Sampierdarena, nella periferia di Genova, in un antico convento accanto ad una chiesa abbandonata. Nell’ottobre del 1875 vi mandò cinquanta giovani adulti, vocazioni mature dell’Opera di Maria Ausiliatrice, appena fondata. L’ampliamento dell’edificio permetterà nel 1877 di ospitare circa duecento allievi, tra cui settanta vocazioni adulte. Quella casa, dalle caratteristiche simili al modello torinese, era affidata alla direzione di don Paolo Albera, discepolo prediletto di don Bosco.
Don Rua apprezzava molto l’opera. La trovò ben gestita e non si rammaricò del numero insufficiente del personale, preti, chierici e coadiutori. La pratica dei sacramenti era ottima; i giovani si comportavano molto bene in chiesa. Fece notare solo poche cose: era necesaria maggior pulizia nei dormitori; mancavano segni religiosi in alcuni ambienti comuni, classi e dormitori; le conferenze mensili e i resoconti dei confratelli avrebbero dovuto essere più frequenti; ogni settimana si doveva tenere un corso di sacre cerimonie per i chierici; alcuni allievi non avevano il vestito della festa e durante la settimana la pulizia dei loro abiti lasciava a desiderare; bisognava fondare la Compagnia di san Luigi Gonzaga; infine nell’ufficio del prefetto mancavano alcuni registri. Era tutto.
Il 22 luglio 1875, don Rua era a Varazze. Il Collegio di Varazze, fondato come ginnasio nel 1871, non poteva accogliere più di centoventi, centotrenta interni. Frequentavano i corsi anche alcuni esterni. Inoltre i confratelli avevano aperto in città due ‹‹Oratori festivi», dipendenti dal collegio, cosa che piacque molto a don Rua. Il direttore del collegio era don Giovanni Battista Francesia, uno dei primissimi discepoli di don Bosco.
L’ispezione si concluse con parecchie osservazioni, negative e positive. Le celle degli assistenti nei dormitori erano troppo grandi: non ci dovevano essere né tavoli, né scaffali, ma solo un attaccapanni, una sedia e un baule, se proprio non se ne poteva fare a meno; sarebbe stato meglio collocare le celle in mezzo ai letti dei ragazzi. Poi bisognava fare in modo che gli assistenti studiassero insieme, per esempio in biblioteca, così i dormitori avrebbero potuto rimanere chiusi durante la giornata, secondo la regola. Le lezioni di teologia erano troppo irregolari, così quelle di liturgia. Si doveva fondare la Compagnia dell’Immacolata. I coadiutori che con il consenso di don Bosco facevano degli studi particolari, dovevano avere più tempo a disposizione, con la garanzia di lezioni più regolari. Altre annotazioni riguardavano il cibo: in linea generale i menù della comunità andavano conformati alle usanze dell’Oratorio di Torino; si distribuiva troppo caffè e la caffettiera era lasciata a disposizione del personale, cosa da evitare. Don Rua si era inteso con il prefetto della casa, don Fagnano, affinché tutto il personale avesse la biancheria segnata col proprio nome, a esclusivo uso personale. Il registro delle entrate e delle uscite, era ben tenuto, e consentiva di conoscere la situazione di cassa.