LA LETTURA DELLA VITA DEI SANTI COME FORMAZIONE
Enrico dal Covolo, S.D.B.
Il titolo di questo contributo può prestarsi a varie interpretazioni e a diversi svolgimenti. Questo dipende dal significato che si vuole dare ai due “termini-chiave” del nostro titolo: “lettura” e “formazione”.
Da parte mia, li assumo nel senso più ampio, e tratterò del confronto con la santità come via indispensabile e privilegiata di formazione teologica e spirituale.
L’esposizione si articola in tre parti.
La prima parte è una sorta di introduzione generale al tema. E’ un’introduzione in qualche modo “obbligatoria”, che cerca di rintracciare nel magistero dei Padri – e dunque nelle “profonde radici” della storia della Chiesa – la lezione autentica sulla santità, a cui tutti sono chiamati (si veda il capitolo quinto della Costituzione dogmatica Lumen Gentium: ne risulta che l’itinerario di formazione alla santità è un impegno ineludibile per tutti i credenti).
La seconda parte entra nel cuore del nostro tema percorrendo un cammino originale, stimolato dalla recente pubblicazione della editio typica altera del Martyrologium Romanum (29 giugno 2004). Autorevolmente guidati dai Praenotanda del Martirologio, vedremo come la lettura della vita dei santi è luogo privilegiato di formazione, non soltanto in rapporto alla “scienza teologica” accademicamente intesa, ma anche e soprattutto in rapporto alla “scienza dell’amore”. E’ anzitutto con questa seconda “scienza”, assai più complessiva della prima, che formatori e formandi devono misurarsi: è in essa che devono raggiungere la lode!
La terza parte è un tentativo. Ho provato a rileggere la vita di una santa (o meglio di una beata), cercando di coglierne la “scienza dell’amore”: in effetti Alessandrina Maria da Costa, grande mistica del ventesimo secolo, rappresenta bene l’immagine del discepolo, che nella Passione, dopo aver poggiato il suo capo sul cuore di Gesù (ecco il “luogo” della scientia amoris!), accompagna il Maestro fino alla croce. [1]
1. Santità e Padri della Chiesa [2]
Nell’età patristica vere e proprie Vite di santi cominciano ad essere scritte solo nel terzo-quarto secolo. Prima c’erano gli Atti e le Passioni dei martiri. Quando al martirio cruento successe la testimonianza della vita consacrata, allora si scrissero Vite di santi monaci (la più antica è la Vita Antonii di Atanasio) e di santi vescovi (dopo la Vita di Cipriano, scritta dal diacono Ponzio, le più famose sono le Vite di Ambrogio e di Agostino).
Un “anello di passaggio” tra le une e le altre può essere considerata la Vita di san Martino, monaco e vescovo, scritta da Sulpicio Severo alla fine del quarto secolo.
Ma a noi qui interessa soprattutto cercare di capire quale “teologia della santità” è sottesa alla redazione e alla lettura delle Vite dei santi nell’età patristica.
Dobbiamo limitarci di necessità a qualche cenno. Partiamo da un’affermazione risaputa. Nell’orizzonte biblico e patristico la santità è l’attributo proprio, e di per sé esclusivo, di Dio. In verità, solo Dio è santo. «Tu solo il Santo», proclamiamo nel Gloria della Messa, e ripetiamo ancora nel Sanctus e nelle varie preghiere eucaristiche. Ma la santità di Dio – anziché ripiegarsi su se stessa – si diffonde su tutti quelli che credono in lui. Come recita l'inno della Lettera agli Efesini, Egli ci ha scelti «per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità» (Efesini 1,4). Così la santità di Dio è l'origine, la mèta e il sostegno perennemente efficace e vittorioso di ogni cammino individuale di santità. Umanamente parlando, nessuno di noi potrebbe sperare di attingere alla vita di Dio. C'è una chiara sproporzione “ontologica” – direbbero i filosofi – tra la creatura e il Creatore. Ma l'incarnazione del Verbo, la sua morte e resurrezione hanno creato un ponte sicuro tra il figlio dell'uomo e il Figlio di Dio, e hanno colmato, in qualche modo, la sproporzione. «Per ogni uomo», recita un'anonima Omelia pasquale del IV secolo, «per ciascuno di noi, il principio della vita è questo: il fatto che Cristo è stato immolato per noi. Ma Cristo», aggiunge subito l’anonimo omileta, «è immolato per noi nel momento in cui noi stessi ci rendiamo coscienti della vita procurataci da quell'immolazione». Se la libertà dell’uomo non decide di corrispondere ai doni della grazia, l’immolazione del Verbo resta inoperante per noi.
Ecco il “segreto della santità”, secondo i nostri Padri. Si tratta di ri-«conoscere» l'amore di Cristo, e di vivere poi nella consapevolezza di «essere» figli di Dio. E' come se io dicessi: «Guardami, Padre! Io sono tuo figlio. Sono io il tuo Cristo: egli vive in me, io vivo in lui...». Sono figlio di Dio: la santità di Dio mi ha raggiunto, e continua a vivere in me. Allo stesso modo potremmo dire ad ogni cristiano: «In te abita il Figlio di Dio: vivi dunque da figlio di Dio! Libera il progetto di santità che Dio stesso ha inscritto nel tuo cuore!». Ecco la ragione profonda per cui nelle antiche comunità cristiane l'attributo di “santo” non era riservato a pochi eletti, ma era l'appellativo comune di tutti i battezzati. Chiaramente, l'indicativo della santità («Voi siete santi...») non esclude l'imperativo corrispondente («...dunque, camminate nella santità!»): al contrario, lo potenzia in massimo grado, mentre ne promette la vittoria. A questo riguardo si leggano per esempio l'indirizzo e il saluto di Paolo ai cristiani di Corinto: essi sono già stati «santificati in Cristo Gesù», eppure sono ancora «chiamati alla santità» (1Corinti 1,2).
Possiamo vedere tutto questo negli scritti di due Padri, che considero in qualche modo paradigmatici: mi riferirò brevemente a Origene in Oriente e a Bernardo di Chiaravalle in Occidente, il primo ancora agli inizi della storia della Chiesa, il secondo al termine ormai dell’età patristica.
Complessivamente la via che Origene prospetta per la santità dipende dal relativo “codice di accesso”, e dalla corrispondente raccomandazione a trascorrere dalla lettera allo spirito delle Scritture per progredire nella conoscenza di Dio: una conoscenza che porta all’unione e, anzi, è l’unione. Così l’Alessandrino propone un itinerario di santità in cui conoscenza delle Scritture, contemplazione ed esperienza mistica di Dio, lungi dal divaricarsi, si compenetrano tra loro e vengono proposte continuamente a ogni cristiano, perché cammini sulla via della perfezione.
Il più alto livello della conoscenza di Dio, secondo Origene, è l’amore. Per dimostrare questo egli si fonda su un significato ebraico del verbo conoscere, utilizzato per esprimere l’atto dell’amore umano: «Adamo conobbe Eva, sua sposa, la quale concepì». Tale è la definizione ultima del conoscere, confuso con l’amore nell’unione. Come l’uomo e la donna sono «due in una sola carne», così Dio e il credente diventano «due in uno stesso spirito».
Questa dottrina della conoscenza di Dio e della santità (poiché esse sono come le due facce di una stessa medaglia) è senz’altro di natura mistica.
Ebbene, quando si parla di Origene “mistico” è obbligatorio il riferimento alle sue Omelie sul Cantico dei Cantici. Al riguardo si cita in particolare un passaggio della prima Omelia, dove Origene confessa: «Spesso – Dio me ne è testimone – ho sentito che lo Sposo si accostava a me in massimo grado; dopo egli se ne andava all’improvviso, e io non potei trovare quello che cercavo. Nuovamente mi prende il desiderio della sua venuta, e talvolta egli torna, e quando mi è apparso, quando lo tengo tra le mani, ecco che ancora mi sfugge, e una volta che è svanito mi metto ancora a cercarlo...» (Omelia sul Cantico dei Cantici 1,7).
Un altro illustre commentatore del Cantico dei Cantici, Bernardo di Chiaravalle, invita a varcare i secoli, e a considerare la conclusione dell’età patristica in Occidente. Nel suo commento al Cantico dei Cantici l'abate di Chiaravalle non si stanca di ripetere che uno solo è il nome che conta, quello di Gesù Nazareno. «Arido è ogni cibo dell'anima, se non è condito con questo olio; insipido, se non è condito con questo sale. Quello che scrivi non ha sapore per me, se non vi avrò letto Gesù. Quando discuti o parli, nulla ha sapore per me, se non vi avrò sentito risuonare il nome di Gesù: miele nella bocca, canto nell'orecchio, giubilo nel cuore (mel in ore, in aure melos, in corde iubilus)» (Sermone sul Cantico dei Cantici 15,6).
Come si giustifica questo inno appassionato del santo abate? La verità è che Bernardo resta affascinato da una profonda certezza di fede. Grazie al sacrificio di Cristo, egli si sente raggiunto dalla santità di Dio: «Quello che io non posso ottenere da me stesso», cioè la santità, scrive in un altro Sermone sul Cantico dei Cantici, «io me lo approprio (usurpo!) con fiducia dal costato trafitto del Signore» (Sermone sul Cantico dei Cantici 61,4-5). Ecco il «colpo di mano» della santità! Secondo i nostri Padri, Maria e i santi sono quelli che hanno fatto in modo esemplare questo «colpo di mano», rendendosi «coscienti della vita procurataci da quell'immolazione» (Omelia pasquale del IV secolo, sopra citata).
In questa stessa prospettiva possiamo leggere un celebre passo di Nicola Cabasilas, il grande mistico del XIV secolo: rispetto a Bernardo, egli ci fa respirare con «l'altro polmone», quello orientale, della Chiesa cattolica. Ma la sua dottrina sulla santità coincide in modo sorprendente con quella di Bernardo. «Dal momento in cui Gesù salì sulla croce, morì e risorse», si legge infatti nel secondo libro della sua Vita in Cristo, «la libertà degli uomini fu reintegrata, fu ricomposta la forma e la bellezza, furono formate le nuove membra. Ora si deve solo venire avanti e accedere ai doni... Il prezzo del riscatto è già stato pagato, ora si tratta soltanto di essere liberati; il profumo è già stato versato, e la sua fragranza ha riempito l'universo: non ci resta che respirarlo; anzi, nemmeno questo, poiché anche il potere di respirare ci è stato dato dal Salvatore, come quello di essere liberati e illuminati... Dopo aver compiuto lui tutto ciò per cui sono liberato, ha lasciato che anche noi portassimo qualche contributo alla nostra liberazione: quello di credere che nel battesimo è la santità, e di volervi accedere» (Vita in Cristo 2,4).
Davvero, osserva con arguzia quel grande studioso dei Padri che è Raniero Cantalamessa, «non si pensa mai alla cosa più semplice»! Ebbene, «la cosa più semplice» che i nostri Padri continuano a ripetere lungo i secoli è questa: per ogni battezzato, per ciascuno di noi, la santità è «a portata di mano». Ma perché essa ci raggiunga davvero, deve maturare in noi una profonda persuasione di fede: la santità è la vita stessa di Dio, e in Gesù Cristo la vita di Dio, cioè la sua santità, arriva a ciascuno di noi. Occorre rendersi consapevoli di questo, e corrispondere con la vita ai doni della grazia.
Pertanto, scrive il Papa nella Novo Millennio Ineunte, il programma della santità è quello di sempre, «raccolto dal Vangelo e dalla viva Tradizione»: è «Cristo stesso, da conoscere, amare, imitare» (n. 29).
Gesù Cristo è andato a morire sulla croce perché noi diventassimo santi: «Onoriamo dunque», esclama il Crisostomo nella sua Omelia sul cimitero e sulla croce, «il suo trofeo, che è la croce... Facciamo nostre quelle ferite e quella morte!».
2. La vita dei santi come “luogo” di formazione: dalla “scienza teologica” alla “scienza della carità” [3]
Quando si pensa alla formazione, spesso la prima immagine che si affaccia alla nostra mente è quella dei libri di teologia. Si rischia così di dimenticare una nota di realismo, che invece è caratteristica della fede cristiana. «L’atto di fede», scriveva già san Tommaso, «non ha come punto di riferimento ciò che può essere enunciato, ma la res, la Cosa in se stessa». Proprio il realismo della fede deve guidare ogni itinerario di formazione, rendendo ben avvertiti formatori e formandi (che spesso sono anche teologi) che la Cosa a cui puntare è in definitiva la partecipazione di grazia alla conoscenza d’amore (nel senso inteso dai nostri Padri) che il Figlio incarnato, crocifisso e risorto, ha del Padre suo, nella comunione dello Spirito Santo. Ogni autentica formazione non può che essere una progressiva conformazione a Lui, il Figlio di Dio, l’unico che conosce il Padre. «Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra», prorompe Gesù stesso nel suo Magnificat, «perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te. Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio, e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare» (Matteo 11,25-27).
Nella Tradizione della Chiesa, la teologia, quale fides quaerens intellectum, pur nella pluralità delle sue espressioni storiche, si configura come quell’esercizio dell’intelligenza che nasce dall’esperienza della fede, di essa si nutre e all’accrescimento di essa è destinato. «Ho desiderato di vedere con l’intelligenza ciò che ho creduto per fede», afferma sant’Agostino a proposito del mistero centrale della Rivelazione, la santissima Trinità (La Trinità 15,28,51). La visione, cui anela il desiderio che mette in moto l’intelligenza del mistero rivelato, è una penetrazione sempre più piena e una partecipazione sempre più viva a quella verità/vita che è Cristo stesso, cui la fede intimamente aderisce, nella certa speranza del compimento eccedente e inesauribile di essa nel Regno dei cieli: «Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto» (1Corinti 13,12).
Da questa intima natura della teologia deriva la forma peculiare della sua scientificità. La teologia, infatti, è scientia precisamente nel senso che è misurata rigorosamente, nella sua intenzionalità e nel suo esercizio, dall’Oggetto che le è offerto dalla Rivelazione: Dio in Cristo. Con geniale intuizione, san Tommaso d’Aquino giunge perciò ad affermare che la teologia è scientia «in quanto procede da principi noti con il lume di una scienza superiore, che è la scienza di Dio e dei beati» (Summa Th. 1,1,2). In tal modo, egli collega organicamente il procedimento argomentativo della teologia scolastica, in quanto scientia, con la prospettiva neotestamentaria e patristica che vede nella fede e nella conoscenza, che da essa procede, la partecipazione di grazia alla conoscenza del Padre di cui gode, per natura, il Verbo incarnato, e che si compie per gli uomini nella visio beatifica dei santi.
Commenta il card. Joseph Ratzinger: «La teologia non vede né prova la sua ragione ultima. È come sospesa alla “scienza dei santi”, alla loro visione, che è il punto di riferimento del pensiero teologico e ne garantisce la legittimità (…). Senza il realismo dei santi, senza il loro contatto con la realtà in questione, la teologia diventa un gioco intellettuale vuoto e perde pure il suo carattere scientifico». [4]
Così la vita e la testimonianza dei santi illuminano non soltanto gli itinerari di formazione spirituale, ma anche ogni autentico cammino di ricerca teologica.
Lo conferma fin dai primi secoli cristiani la definizione stessa di “Padre della Chiesa”. “Padre” non può essere colui che si è distinto solo per l’eccellenza e l’ortodossia della dottrina. Il “Padre della Chiesa” deve anche brillare per la santità della vita. Se non è santo, non è Padre della Chiesa.
Lo conferma, ancora ai nostri giorni, il capitolo settimo della Lumen Gentium, intitolato De indole eschatologica Ecclesiae peregrinantis eiusque unione cum Ecclesia c