Prof. Giorgio Chiosso,
Università di Torino
Nel quarto di secolo circa ricompreso tra gli ultimi anni di don Bosco e la fine del rettorato di don Rua la cultura educativa e pedagogica salesiana furono percorse da un duplice fenomeno, uno più manifesto e tutto interno alla Società salesiana e uno invece ancora soltanto incipiente, ma già meritevole di attenzione e destinato a essere più evidente a partire dagli anni ’20.
Per quanto riguarda il primo punto, si fece sempre più nitida la consapevolezza da parte degli eredi più vicini al fondatore di essere depositari e, al tempo stesso, testimoni di una grande esperienza educativa, interpretata e vissuta come la rinnovata espressione della tradizione pedagogica cristiana. Essa appariva dotata di tutti gli elementi necessari per sapersi confrontare con le aspettative e le esigenze dei “tempi moderni”.
Nel prolungare senza tentennamenti le indicazioni del fondatore, si trattava di integrarla con nuovi strumenti operativi e di perfezionarla sul piano culturale. La riproposta della pratica preventiva s’intrecciava con notevoli cambiamenti sul piano del costume e degli stili di vita, con l’imponente crescita della Società salesiana e il concomitante timore di smarrire, accanto alla dimensione di “famiglia” degli anni di con Bosco, anche la peculiarità dell’impianto educativo.
Il secondo evento riguarda la lettura dell’esperienza educativa dei Salesiani all’esterno della Congregazione con un crescente apprezzamento non solo degli aspetti caritativo-assistenziali, ma anche di quelli più specificamente pedagogici. Negli anni ’20 si compì il definitivo sdoganamento di don Bosco: il modello educativo salesiano fu letto come in grado di fornire risposte educative generali e non solo ristrette nei confini della congregazione e della Chiesa.
Se si scorrono i testi di pedagogia di fine secolo i Salesiani e le Figlie di Maria Ausiliatrice sono ancora visti come congregazioni dedite soprattutto all’assistenza dei giovani. Non a caso il fondatore viene per lo più accostato ad altri benefettatori dei giovani come il veronese don Nicola Mazza, il milanese Paolo Marchiondi, il napoletano padre Ludovico da Casoria, in qualche caso addirittura al Cottolengo.
Poco più tardi le scenario cambia. Studiosi come il pedagogista tedesco Wilhem Förster, il gesuita spagnolo Ramon Ruiz Amado e il sociologo viennese Heinrich Swoboda e ottimi divulgatori come gli scrittori Joannes Jörgensen, danese, Joris-Karl Huysmans, francese, e il giornalista italiano Filippo Crispolti, già prima della Grande guerra apprezzano la pedagogia salesiana in quanto dispositivo educativo in grado di rispondere in particolare alle necessità dei ceti popolari, improntato alla dolcezza e al convincimento piuttosto che dell’autorità impositiva e di formare una volontà salda e coerente.
L’attenzione prestata da questi studiosi documenta un’attenzione che ormai oltrepassa l’orizzonte nazionale; questo fatto è certamente da porre in relazione con la crescente internazionalizzazione della congregazione salesiana.
Naturalmente l’Italia resta il luogo di maggiore presenza pedagogica e ove sono più numerosi i riconoscimenti. Subito dopo la guerra i pedagogisti italiani Giuseppe Lombardo Radice e Giovanni Vidari attribuiscono al sistema preventivo un esplicito valore pedagogico capace di opporsi alle teorie educative illuministico-positivistiche. Salito alla direzione della scuola elementare nel 1922 Lombardo Radice non esitò ad additarlo, nei Programmi per la scuola elementare dell’anno successivo, come “mirabile modello da imitare”. Nel 1925 don Bosco viene incluso nell’elenco degli autori indicati dai Programmi ministeriali per gli istituti magistrali a fianco dei maggiori pedagogisti italiani e stranieri.
A questi attestati che legittimano il sistema preventivo sul versante della cultura laica corrisponde una più puntuale attenzione all’interno della Congregazione dell’esigenza di dotarsi di una pedagogia non solo basata sull’esperienza. Già lo stesso don Bosco, del resto, aveva in parte avvertito questa necessità con la stesura dell’opuscolo del 1877.
Come si può spiegare l’aumento della stima pubblica e il riconoscimento anche pedagogica dell’esperienza salesiana scientifico? La risposta tocca sia questioni di carattere generale sia più interne alla vita salesiana.
Con il trascorrere degli anni e il moltiplicarsi delle esperienze i Salesiani e le Figlie di Maria Ausiliatrice furono sempre più percepiti come educatore particolarmente idonei ed esperti, capaci di occuparsi dei giovani percepiti come “diversi” da quelli del passato per varie ragioni: una scolarità più distesa, il lavoro industriale, la diffusione di nuovi divertimenti e dello sport come pratica e come consumo.
La svolta anti positivista della cultura primo novecentesca agevolò la disposizione ad apprezzare l’impegno educativo dei cattolici. In modo tutto speciale la concezione attiva del tempo libero propria dei Salesiani/e quale spazio privilegiato per l’educazione sembrava costituire una risposta particolarmente coerente e adatta a incanalare in modo positivo le energie giovanili. Non è un caso che gli ambienti educativi laici a loro volta tentassero, senza invero grande fortuna, di aprire i “ricreatori” in forma esplicitamente concorrenziale con il modello oratoriano dei cattolici.
Si può dire che con l’avvento del nuovo secolo i Salesiani/e sono visti sempre più come “la” congregazione dei giovani. Questo spiega l’ininterrotto flusso di benefattori che, ben oltre la morte del fondatore, continuarono a sostenerne le opere.
Nel clima poi accesamente nazionalistico d’inizio Novecento ai figli di don Bosco come educatori dei giovani viene associata con una punta d’orgoglio patriottico l’efficacia di un’educazione germogliata nel grembo di una italianità fatta di valori semplici e radicati nella sensibilità popolare.
Queste ragioni di carattere esterne si congiungono agli sforzi per approfondire la pratica preventiva nella indiscussa fedeltà all’impostazione originaria.
Per averne piena ragione occorre orientare l’indagine sia verso alcune personalità salesiane particolarmente coinvolte nella riflessione e nell’azione educativa: Francesco Cerruti, Giulio Barberis, Giuseppe Bertello, Albino Carmagnola, Eugenio Ceria, Carlo Maria Baratta, Stefano Trione e, un filo più tardi, Vincenzo Cimatti e Antonio Cojazzi.
Francesco Cerruti fu il grande organizzatore delle scuole salesiane nelle vesti di “consigliere scolastico” per oltre un trentennio e a lui, uomo di vasta cultura, classicista convinto, si devono inoltre i primi tentativi di elaborazione sistematica della pedagogia salesiana. Giulio Barberis si occupò a lungo della formazione dei giovani chierici per i quali compilò una dispensa che, accanto agli scritti del Cerruti, è considerata come uno dei primi frutti della riflessione pedagogica post boschiana, anche se si tratta di un lavoro non particolarmente originale. Don Giuseppe Bertello operò nel campo dell’istruzione professionale ove profuse un grande sforzo modernizzatore. Questi tre Salesiani ricoprirono a lungo importanti incarichi ai vertici della congregazione.
Don Carmagnola fu autore di scritti educativi di buona divulgazione destinati alle famiglie, agli educatori, ai sacerdoti. Eugenio Ceria unì gli sforzi, a fianco di don Cerruti, in difesa della scuola classica; Carlo Maria Baratta fu personaggio di primo piano nel campo dell’impegno sociale e della divulgazione e dell’istruzione agraria. Il nome di don Stefano Trione è associato a una intensa attività nel campo oratoriano e don Cimatti alternò interessi musicali e studi pedagogici. Del Cojazzi si farà cenno più avanti.
Le loro biografie sono accomunate da più motivi: innanzi tutto dal fatto di essere stati diretti testimoni – o testimoni indiretti, ma comunque a stretto contatto con la fonte originaria – di eventi degni di essere tramandati nella loro integrità e purezza. Il sistema preventivo prima di essere uno scritto consegnato alle stampe è un’esperienza vissuta direttamente e della cui efficacia e validità si è stati diretti testimoni.
Un secondo fattore accomunante è il concorde giudizio critico espresso nei confronti della società del tempo, giudizio associato alla certezza di disporre di una bussola infallibile contro il male prodotto dalla irreligiosità. In coerenza con questa lettura tutta centrata sull’antinomia, senza sfumature, “bene/male”, la cultura pedagogica dei discepoli di don Bosco è generalmente argomentata in funzione di una tesi prestabilita e semplicemente da confermare.
Un terzo elemento trasversale è la comune formazione culturale a base umanistica. Pressati dall’esigenza di possedere i titoli legali per insegnare e dirigere le scuole essi si orientarono verso corsi di studi di tipo letterario-filosofico o teologico.
Non sorprende perciò che i loro riferimenti privilegiati vadano agli autori della classicità antica, ai Padri della Chiesa e agli educatori cristiani anziché ai protagonisti del dibattito pedagogico coevo. Gli autori profani sono ricordati soltanto quando sono utili a confermare e rafforzare un principio, una evidenza, un insegnamento.
Sfidati dalla modernità pedagogica i discepoli di don Bosco, da una parte si affidarono alla sapienza millenaria della Chiesa, alla riflessione cristiana e alle esperienze condotte dai grandi educatori cristiani, dall’altra avvertirono tuttavia l’esigenza di irrobustire una ormai consolidata “esperienza educativa”, anche in prospettiva teorica. La fedeltà al sistema preventivo di don Bosco si congiunge insomma allo sforzo di assicurargli una fisionomia pedagogica più esplicita, quasi a volerne rafforzare la credibilità e affermarne la permanente validità. Esso ambiva a rivolgersi a tutti, credenti e non, nella certezza di disporre di un metodo collaudato perché capace di parlare prima di tutto all’uomo.
In questa lettura s’incrociavano un motivo apologetico (la validità di un metodo misurata sulla sua corrispondenza ad una tradizione) e uno promozionale (un’educazione che nella rigorosa fedeltà al fundamentum cristiano è tuttavia utile all’intera società). È anche in questa capacità di inserirsi negli interstizi aperti da pratiche educative pregiudizialmente areligiose o irreligiose – che suscitano diffidenze anche negli ambienti laici – che i Salesiani riescono a guadagnarsi la fiducia delle famiglie e di molti amministratori pubblici.
In coerenza con questa strategia, i Superiori avvertirono l’esigenza di definire in modo più puntuale il significato del sistema preventivo, non tanto sul piano delle enunciazioni di principio in quanto già chiaramente esposte nell’opuscolo del 1877, bensì nelle loro implicazioni pratiche.
La questione della retta interpretazione e attuazione del sistema preventivo assorbì molte energie e si dilungò per molti anni. Si trattava, d’un lato, di correggere le prassi concrete là dove se ne prescindeva per ignoranza o le si applicava in modo improprio per una conoscenza distorta e, dall’altro, si avvertiva l’esigenza di valorizzarlo come un tesoro prezioso. Non è questa la sede per una puntuale ricostruzione – in parte peraltro già effettuata – delle molteplici iniziative e delle numerose raccomandazioni con cui i Superiori procedettero, tra difficoltà notevoli (tenuto conto della rapida e notevole espansione delle iniziative al di là dei confini nazionali e della scarsità di personale), a perseguire l’obiettivo della pratica educativa preventiva. Mi limito ad accennare il problema.
Tra l’inizio degli anni ’20 e la fine della seconda guerra mondiale (nella storia salesiana corrispondenti ai rettorati di don Rinaldi e di don Ricaldone) si sviluppa un periodo storico denso di complesse e, sotto molti aspetti, drammatiche scelte per la congregazione salesiana. In primo luogo vanno ovviamente richiamate le conseguenze politiche ed educativa dell’affermazione dei totalitarismi in Italia e in Germania e alle politiche intraprese da questi due regimi in campo scolastico e giovanile.
Come è noto tanto il fascismo quanto il nazismo ambiscono a creare l’“uomo nuovo” – presupposto di un “ordine nuovo” sociale e politico – poggiandolo su un vitalismo naturalistico da cui è sostanzialmente esclusa la dimensione religiosa. Tra gli obiettivi primari dei due regimi risalta l’interesse per l’educazione di una “gioventù nuova” da plasmare non solo dalla scuola i cui programmi sono orientati in funzione dello Stato totalitario, ma da irreggimentare entro organizzazioni giovanili alternative a quelle della Chiesa.
Sarà bene tenere presente che le coordinate dell’“uomo nuovo” fascista e nazista – soltanto nel dopoguerra sarà duramente sperimentata dai salesiani nei Paesi dell’est Europa anche l’ideologia dell’“uomo nuovo” del comunismo – sono connotate secondo prospettive educative non solo diverse, ma antagoniste con i princìpi dell’educazione cristiana. L’ideologia dell’“uomo nuovo” è tutta terrena, esclude un orizzonte “altro”, è centrata su una giovinezza nella quale si fondono l’ideale di una vita ardimentosa e le aspettative di un futuro radioso. Le sue caratteristiche portanti sono rappresentate dalla passione per l’azione, il senso mistico del dovere, la dedizione alla causa fino al supremo sacrificio, il culto della potenza fisica e sessuale, l’illimitata fiducia nella possibilità dell’uomo di imprimere una traccia indelebile nella storia.
Va inoltre ancora precisato che mentre nel fascismo si registra almeno un rispetto formale per la religione e le sue manifestazioni, nel nazismo l’impianto è riconducibile a forme di vita esplicitamente neopagane. Questi princìpi si accompagnano alla convinzione – propria delle teorie cosiddette del darwinismo sociale – che esistano razze superiori destinate a primeggiare e a dominare quelle presuntivamente inferiori.
Questi eventi storici si accompagnano alla diffusione di una cultura pedagogica prevalente in Europa elaborata in centri di studio principalmente dislocati in Svizzera e Belgio – poco si sente ancora l’influenza statunitense – connotata da un marcato naturalismo antropologico contro cui si esprime in modo netto la lettera enciclica Divini illius magistri. Il documento, oltre a denunciare la tendenza a uno statalismo scolastico che riduce gli spazi dell’educazione familiare e della Chiesa, condanna il tentativo di creare “un codice morale universale dell’educazione” prescindendo dal Vangelo e dalla “stessa legge naturale della coscienza”, la pretesa di ridurre a leggi psicologiche naturali “i fatti d’ordine soprannaturale concernenti l’educazione” e invita i maestri a non abbandonare ciò che la tradizione cristiana ha prodotto nei secoli “comprovato buono ed efficace dall’esperienza di più secoli”.
E’ precisamente entro questi due grandi scenari – l’affermarsi del totalitarismi e la diffusione di princìpi pedagogici naturalistici con la relativa reazione della cultura pedagogica cattolica – che va indagata l’azione educativa e la riflessione pedagogica dei Salesiani e delle Figlie di Maria Ausiliatrice. Questo complesso scenario richiede di essere indagato da differenti punti di osservazione che presentiamo distintamente nei paragrafi sottostanti ma da leggere in forma ipertestuale.
5. La realtà italiana. Gli anni ’20 sono particolarmente favorevoli per l’ulteriore riconoscimento del ruolo educativo esercitato dai Salesiani, nonostante l’incipiente iniziativa del fascismo che, specialmente a partire dal 1925, intraprende una vigorosa politica di intervento in campo giovanile, maschile e femminile, in specie con l’Opera Nazionale Balilla che il mondo cattolico sconta con lo scioglimento dei gruppi scoutistici e il tentativo di “rinchiudere in parrocchia” l’Azione Cattolica.
Nei primi anni del regime, almeno fino al 1929, il comportamento della congregazione fu segnato da riserbo e prudenza sulla linea da seguire, ma anche senza cedimenti all’insegna dell’espressione piuttosto esplicita dei superiori “non lasciare che altri vengano a comandare o dirigere in casa nostra”. Dopo il 1929, anno segnato da due passaggi storici di fondamentale importanza (l’11 febbraio la Conciliazione tra Stato e Chiesa e il 2 giugno la beatificazione di Don Bosco), si assiste al tentativo del fascismo di fare di don Bosco il “più Santo dei Santi italiani”, alla partecipazione dei giovani degli oratori e dei collegi alle ricorrenze più significative della Patria e del Fascismo e a cedimenti veri e propri su alcuni aspetti della politica scolastica che tornavano utili per il riconoscimento degli istituti salesiani.
Questo controverso atteggiamento – sul quale sarebbe ingiusto esprimere giudizi manichei e che esige prudenza interpretativa pur senza negare gli aspetti ambigui per lo più di carattere esteriore – si accompagna al notevole aumento di studi da parte studiosi non salesiani in seguito alla decisione nel 1925 di inserire, nonostante la esplicita riserva critica di Giovanni Gentile, don Bosco tra gli autori previsti dai programmi d’insegnamento degli Istituti magistrali. I salesiani sono spinti, a loro volta, a una riflessione più approfondita sulla origine e la natura del metodo preventivo.
Tuttavia i superiori, a partire dal rettor maggiore Filippo Rinaldi, preferirono continuare a tramandarlo più sulla base dell’esperienza maturata attraverso i decenni che sostenerlo anche attraverso una riflessione teorica. I maggiori critici di don Bosco (Gentile e i suoi allievi) e i superiori salesiani finiscono così per trovarsi esattamente su posizioni opposte: i primi, pur apprezzando la capacità educativa dei salesiani lamentano tuttavia la povertà pedagogica del sistema preventivo; i secondi si sforzano di conservarlo nella sua originaria empiria nel timore di un suo snaturamento “intellettualistico” paghi della sua sperimentata efficacia pratica.
Pressanti inviti giungono dalla “Civiltà Cattolica” e dal maggiore pedagogista cattolico di quegli anni, Mario Casotti perché i Salesiani non si affidino soltanto ad una pedagogia esperienziale, ma ne approfondiscano anche i presupposti culturali. Il primo e importante contributo in tal senso è un’antologia curata da don Fascie apparsa nel 1927, testo di sicuro interesse ma ancora abbastanza occasionale.
Lo scopo del docente dell’Università Cattolica è quello di recuperare la preziosa esperienza dei salesiani anche in funzione del rafforzamento della pedagogia cattolica in funzione anti naturalista i cui primi nuclei si vanno costituendo a Milano intorno allo stesso Casotti e a Padova con Luigi Stefanini, quest’ultimo storico collaboratore della casa editrice salesiana Sei. In alcuni saggi del 1933 Casotti presentava – non senza qualche cedimento apologetico – il sistema preventivo come in grado di competere con i metodi pedagogici più avanzati e teorizzati dai sostenitori della “scuola attiva”.
Occorrerà tuttavia attendere gli anni ’40 perché gli studi pedagogici trovino più positiva e ampia accoglienza nella congregazione salesiana grazie all’impulso di don Pietro Ricaldone.
Proprio a quest’ultimo spetta il merito di aver avviato la creazione dell’Ateneo Salesiano e aver previsto, a partire dal 1941, l’apertura dell’Istituto di Pedagogia, primo tassello della futura Facoltà di Scienze dell’Educazione dell’Università Salesiana. Nel 1954, in linea con quanto già auspicato dallo stesso don Ricaldone nel 1947, verrà inaugurato per la formazione delle Figlie di Maria Ausiliatrice l’Istituto Internazionale Pedagogico a Torino. E allo stesso Ricaldone va riconosciuto il grande sforzo per il rilancio di una catechesi adeguata ai tempi (la cosiddetta “Crociata catechistica”).
La Divini Illius Magistri e l’educazione cristiana. Abbiamo già indicato i tratti principali dell’enciclica pubblicata alla fine del 1929 (difesa dei diritti della famiglia e della Chiesa nell’educazione dei giovani contro le tendenze stataliste e forte denuncia del naturalismo pedagogico) rispetto a cui il mondo cattolico reagisce sia sul piano teorico sia sul piano delle esperienze educative. Nel primo ambito basta qui ricordare i fondamentali scritti di Jacques Maritain (Francia), Frans De Hovre (Belgio) ed Eugène Devaud (Svizzera) e le tesi “umanistiche” degli autori che, contro il rischio di una deriva psico-sociologica della pedagogia, rivendicano l’importanza degli studia humanitatis e, attraverso questi, l’insostituibile importanza dell’insegnamento del Cristianesimo (ved. il cenacolo dell’Università di Chicago, in Italia Giovanni Calò).
Il mondo salesiano interpreta l’enciclica educativa di Papa Pio XI in quanto depositario di un modello educativo originale cui restare fedeli e da replicare nei vari contesti nei quali esso viene attivato: innanzi tutto l’oratorio e poi, la scuola, i convitti, i laboratori artigianali, istituti assistenziali, asili per l’infanzia, scuole femminili, ecc. Tale modello è quello tracciato da don Bosco, finalizzato alla formazione di “buoni cristiani” e “onesti cittadini”, la cui trama sia per la sua giustificazione sovrannaturale e sia per i contenuti propri della formazione umana è irriducibilmente alternativo tanto alle pedagogie naturalistiche quanto alle forme educative perseguite dai modelli totalitari.
Si può cogliere una certa prudenza a scostarsi dalla tradizione ormai consolidata anche se, per esempio, le opere salesiane non sono più solo centrate sull’oratorio e sulla formazione professionale, ma coinvolgono un largo spettro di realtà educative. Si constata un certo ripiegarsi sulla dimensione religiosa in linea con l’atteggiamento complessivo del mondo cattolico: le pagine del “Bollettino Salesiano” sono a tal riguardo assai significative. I grandi temi che si rincorrono sono la celebrazione della santità di don Bosco, la vicinanza ai ceti popolari e all’aspirazione al miglioramento delle condizioni dei figli, lo sforzo di rafforzamento organizzativo (in specie con una forte valorizzazione dei cooperatori) e le imprese missionarie. Scompare qualsiasi riferimento non solo politico, ma anche sociale.
I princìpi educativi tracciati da don Bosco restano intatti e i compromessi esteriori non inquinano la sostanza della pedagogia salesiana. A tal fine può essere considerata indicativa di un sentire comune la linea espressa da don Antonio Cojazzi sulla “Rivista dei giovani” tutta incentrata sulla formazione della fortezza cristiana, alternativa alla celebrazione eroica e militaresca del fascismo e del nazismo. I punti essenziali della fortezza cristiana, da esercitare attraverso l’educazione della volontà, sono la consuetudine sacramentale, l’apostolato, la purezza, la sensibilità verso le missioni. Siamo dunque abissalmente lontani dalla celebrazione del’eroismo bellico, dal culto della “bella morte”, dall’esaltazione della forza fisica.
L’“onesto cittadino” è individuato nella persona capace di inserirsi in modo ordinato e operoso nella società, mediante il lavoro in modo da non essere nella vita adulta un fannullone. L’attenzione severa all’impegno del ragazzo costituisce uno dei motivi, insieme con quello disciplinare e morale, che possono comportare anche l’allontanamento dal collegio. Anche a questo livello, se scompare ogni traccia di educazione prepolitica (come accadeva invece fino all’avvento del fascismo), non si coglie nessuna tentazione di allineamento con l’ideologia imperialistica e guerresca. Anzi sarà proprio il crinale della guerra d’Etiopia a rappresentare, insieme alle odiose leggi razziali e all’alleanza con la Germania, il passaggio verso una maggiore distanza verso il fascismo.
L’educazione femminile. Un ulteriore interessante osservatorio per cogliere la traiettoria dell’educazione salesiana tra le due guerre è costituito dagli orientamenti delle Figlie di Maria Ausiliatrice.
Nei primi decenni del secolo la condizione della donna nel mondo occidentale muta sensibilmente per ragioni ampiamente note: maggiore istruzione, diffusione del lavoro femminile, circolazione di stampa e spettacoli specificamente destinati alle donne, accesso alle attività sportive, tutti fattori che producono una certa aria emancipativa negli stili di vita veicolata specialmente attraverso i modelli cinematografici e la cosiddetta “stampa rosa”. In Italia questi mutamenti sono più evidenti nelle regioni settentrionali nelle quali è più diffuso il lavoro femminile.
La pedagogia salesiana femminile oscilla tra persistenze tradizionali e caute aperture alle novità indotte tuttavia più dalle circostanze che intenzionalmente ricercate. L’impressione è che nella messa a punto delle pratiche educative pesi in modo determinante una lettura negativa dei cambiamenti in corso. Ne consegue l’opzione per un modello educativo centrato su regole di vita collaudate e molto formalizzate che prevedevano specifici comportamenti come le tipologie di vestiti più convenienti, la rinuncia ai “moderni divertimenti” (ballo, cinema, vacanze), la riserbatezza affettiva, ecc.
Si manifesta la preoccupazione di salvaguardare i valori espressi dai ceti popolari che sembravano intaccati dalla modernizzazione degli stili di vita, specie urbani. Pur nella consapevolezza dei rischi che si potevano correre nei luoghi di lavoro, le religiose tuttavia non si opposero mai all’inserimento delle ragazze nel mondo femminile del lavoro e si sforzarono di accompagnarlo offrendo opportunità di qualificazione professionale, tentando un’ardua sintesi tra la dimensione domestica e quella sociale.
La condivisione della vita dei ceti popolari appare una caratteristica costante nelle scelte delle Figlie di Maria Ausiliatrice. Una scelta preferenziale, per quanto riguarda, infine, l’Italia – ove peraltro si concentra il maggior numero di religiose – oltre alle scuole professionali, è rivolta verso le scuole e gli istituti magistrali venendo incontro alle aspettative delle famiglie di ceto modesto, ma desiderose di far studiare le figlie. La formazione di educatrici dell’infanzia e di maestre elementari rientra in una strategia complessiva del mondo cattolico a presidio della scuola pubblica allo scopo di assicurare insegnanti religiosamente formate.
I salesiani e le situazioni “difficili”. Per quanto si debba tenere conto del forte peso esercitato dai superiori di Torino in ordine alle scelte educative sia di carattere generale sia sotto il profilo organizzativo – e in tal senso è possibile individuare le caratteristiche proprie di una pedagogia salesiana omogeneamente diffusa – la nostra analisi va completata anche in un’altra direzione. Mi riferisco alla possibilità che, in ragione delle diverse condizioni ambientali e le differenti congiunture storiche nelle quali operarono i Salesiani e le Figlie di Maria Ausiliatrice ormai presenti in varie nazioni europee, nella interpretazione del sistema preventivo si possano cogliere sfumature diverse.
Una suggestione in tal senso giunge da alcuni recenti contributi dedicati all’analisi di specifiche situazioni nazionali e, in specie – perché condotti entro un quadro organico – quelli elaborati nell’ambito delle ricerche sui cosiddetti “anni difficili” (tra gli anni ‘20/’30 egemonizzati dai totalitarismi di destra e gli anni ’50/’60 per quanto riguarda l’est europeo). Essi consentono di cogliere le differenti sensibilità con cui il modello di don Bosco fu acquisito, interpretato, difeso e qualche volta anche compromesso in condizioni di estrema difficoltà come furono quelle che si verificarono in occasione di situazioni politiche a forte connotazione anticlericale o di fronte a regimi e Stati totalitari.
Con la prudenza che è necessaria quando si tenta di generalizzare comportamenti diversi e talora provocati da situazioni estreme mi pare si possano indicare queste linee di tendenza che costituiscono un fil rouge che tiene insieme vicende storiche e protagonisti diversi degli “anni difficili”:
a) la strenua difesa dell’originalità dell’insegnamento educativo di don Bosco che non viene messo in discussione neppure in minima parte anche a fronte a pressioni talora fortissime; nelle situazioni più compromesse si registra una sorta di convivenza parallela che appare oggi contraddittoria ma che costituì presumibilmente il massimo “per non perdere tutto”; non possiamo dimenticare il grido di dolore registrato nella cronaca delle Figlie di Maria Ausiliatrice di Klagenfurt il venerdì santo del 1942: “Non abbiamo più gioventù!”.
b) la flessibilità, giuridica e sociale, con cui i Salesiani e le Figlie di Maria Ausiliatrice sanno cimentarsi per conservare non solo i loro beni materiali, ma per continuare a esercitare la loro missione educativa;
c) la persistente convinzione di conservare quale tratto caratteristico del loro carisma la categoria della popolarità nel duplice senso delle scelte educative privilegiate (la centralità, ad esempio, affidata alla formazione professionale o all’educazione della prima infanzia o all’oratorio nonostante le limitazioni imposte dai tentativi di sottoporre l’educazione giovanile all’influenza dello Stato) e della risposta alle aspettative dei ceti popolari.