Don Bosco

Linee pedagogiche della Congregazione Salesiana

Linee pedagogiche
della Congregazione Salesiana

Michal Vojtáš, sdb

La presente relazione si concentrerà sui sviluppi delle linee pedagogiche della Congregazione Salesiana presenti soprattutto nei documenti ufficiali come le decisioni dei Capitoli Generali, le lettere dei Rettor Maggiori e dei consiglieri scolastici, gli Atti del Capitolo Superiore, i programmi d’insegnamento per i studentati e per le scuole salesiane. Il periodo storico analizzato si estende dal rettorato di don Rua fino alla metà del Ventesimo secolo. La divisione in tre parti segue la diversità degli accenti, punti di lettura e strategie di attuazione delle indicazioni dei Rettor Maggiori e dei consiglieri scolastici nei tre periodi studiati.

1. Il periodo dei primi due successori di don Bosco (1888 – 1921)

La fusione tra aspetti pedagogici, educativi e spirituali è presente fortemente nelle prime generazioni dei salesiani in quanto fu trasmessa e formata dall’esperienza e dal contatto diretto con don Bosco in una formazione di tipo “osmotico”, senza differenziazione in varie dimensioni. In questo senso si menzioneranno anche alcuni aspetti dello “spirito salesiano” per illuminare l’integralità della proposta educativa salesiana.

1.1. Le linee tracciate da don Rua nella logica della fedeltà a don Bosco

La lunga collaborazione di Michele Rua con don Bosco, il fascino e lo sviluppo degli primi anni della Congregazione e la vivacità dei ricordi del Fondatore ha predisposto la linea principale del governo della Congregazione e della pedagogia salesiana durante il rettorato di don Rua - la fedeltà a don Bosco. Nella prima lettera da Rettor Maggiore don Rua esplicita il suo programma:
«Noi dobbiamo stimarci ben fortunati di essere figli di un tal Padre. Perciò nostra sollecitudine dev’essere di sostenere e a suo tempo sviluppare ognora più le opere da lui iniziate, seguire fedelmente i metodi da lui praticati ed insegnati, e nel nostro modo di parlare e di operare cercare di imitare il modello che il Signore nella sua bontà ci ha in lui somministrato».

La fedeltà a don Bosco, si esprimeva con diverse applicazioni, ma era soprattutto legata al metodo dell’amorevolezza nell’educazione. Don Rua commenta gli esiti del Capitolo Generale VIII con il promemoria dello «Stretto dovere di possedere lo spirito e di vivere di vita Salesiana. E ciò consiste nel lavorare, specie a pro della gioventù, collo spirito e col sistema di Don Bosco, tutto improntato di dolcezza e di bontà». Non mancano soventi richiami all’applicazione del sistema preventivo nel contesto dei castighi e della disciplina all’interno dei collegi salesiani.

L’applicazione del sistema preventivo non è espressa solo nel contesto “anti-repressivo” della disciplina, ma si accentua anche parlando dei due principi educativi propositivi: lo zelo che anima l’attività educativa e l’educazione del cuore. Si evoca lo zelo del da mihi animas caetera tolle di don Bosco che «non diede un passo, non pronunziò parola, non mise mano ad impresa che non avesse di mira la salvezza della gioventù». Il contesto del sviluppo numerico e geografico della Congregazione è la cornice, dentro la quale bisogna interpretare le indicazioni sullo zelo, che non costituisce un assoluto principio ma viene specificato il modo d’intenderlo: «Ma voi, o figli carissimi, dal canto vostro vegliate perché questo buon volere sia sempre congiunto ad una grande purità d’intenzione, sia inaccessibile ad ogni scoraggiamento, e sia mai sempre guidato dall’ubbidienza».

Il secondo tema integrativo, legato al tema del zelo e della carità, è l’educazione del cuore. Per essa non si intende né un sentimentalismo né educazione delle emozioni. Piuttosto il cuore si intende come centro delle convinzioni profondi, dell’agire morale e delle motivazioni. In questo senso l’educazione dei cuori caratterizza sia il metodo educativo – educare con amorevolezza e pazienza ma senza sdolcinature, che il nucleo teleologico della proposta salesiana – di farli buoni cristiani e onesti cittadini:
«Ricordiamoci poi che noi mancheremmo alla parte più essenziale del nostro compito, se ci riducessimo solo ad impartire l’istruzione letteraria, senza unirvi l’educazione del cuore. A questo sovratutto dobbiam mirare, a formare dei nostri allievi dei buoni cristiani, degli onesti cittadini, coltivando pure le vocazioni che fra loro s’incontrano».

L’educazione del cuore, nella concezione di don Rua, ha anche un aspetto di profondità e di durabilità. Raccomanda di educare le convinzioni radicate nel cuore radicate che produrranno frutti anche quando gli allievi non saranno più presenti nelle case salesiane. Attraverso l’amorevolezza «le verità seminate ne’ loro cuori erano profondamente radicate e non erano rimaste senza frutto». Collegata con il tema è la devozione al Sacro Cuore di Gesù, tanto cara a don Rua, esplicata nell’emblematica lettera del 21 Novembre 1900 che parla della consacrazione dei tutti 600.000 allievi e cooperatori al Sacro Cuore.

1.2. Le applicazioni di don Cerruti e don Bertello nelle scuole salesiane

Implementazione dei suddetti principi della fedeltà a don Bosco, dello zelo e dell’educazione del cuore per formare buoni cristiani e onesti cittadini si è concretizzata nella collaborazione con il consigliere scolastico don Francesco Cerruti e con il consigliere professionale don Giuseppe Bertello che hanno lasciato una forte impronta nell’impostazione delle scuole salesiane. Il programma di don Cerruti di «fare della scuola una missione» si prese per scopo della scuola non solo preparare il giovane all’esame, ma di prepararlo «pure e anche di più alla vita, e vita davvero cristiano-cattolica, formando ad un tempo di lui l’uomo e il cittadino o meglio tutto l’uomo». In questo senso don Cerruti reagisce alla tensione con lo Stato laico e con le teorie del libero pensiero, del verismo, del socialismo, del comunismo. Nella sua circolare più lunga, che diventò la base per il suo Ricordino educativo-didattico, specifica che «istruzione non è educazione […] è adunque istruzione un’ausiliaria dell’educazione».

Per riuscire a congiungere l’ideale di una formazione integrale il consigliere scolastico raccomanda i principi educativi dell’esemplarità, di carità, di assistenza, di disciplina, di gradazione e di convenienza nell’insegnamento; l’uso della letteratura classica ricordando lo zelo di don Bosco per il «culto della letteratura e dell’arte cristiana»; la formazione dei maestri e delle maestre cristiane nelle scuole pubbliche e soprattutto l’uso del Sistema Preventivo. Don Cerruti afferma che il nostro buon Padre fece suo «il sistema, intuito e insegnato da’ più grandi pedagogisti» e in ultima analisi dal Vangelo. Si mette un accento sull’assistenza che è il contatto continuo, che non fa perdere l’autorità, la carità paziente e benigna e infine la frequente confessione, la frequente comunione e la messa quotidiana.

Un simile impegno di coordinamento in un tempo di forte crescita era svolto dal 1898 al 1910 da don Giuseppe Bertello nel settore delle scuole professionali. Si deve a lui l’attuazione progressiva delle linee di don Rua «Vi rammento che, sia per evitare gravi disturbi, sia per dar loro il vero nome, i nostri laboratori devono denominarsi Scuole professionali». La stessa sensibilità di don Cerruti di non dare solo istruzione ma educare integralmente viene perseguita da don Bertello seguendo le indicazioni del CG8 (1898) sulle scuole professionali: «non siano solo per avere lavoro, ma per educare e formare buoni e valenti operai». Nelle indicazioni per i maestri d’arte si concretizza, infatti, non solo il metodo d’insegnamento pratico, ma si danno anche indicazioni finalizzate alla crescita degli artigiani nella fede e nell’onestà usando il sistema preventivo nelle sue componenti dell’amorevolezza, ragione e religione. Le specificazioni progettuali di questo impegno vengono proposte nei Programmi scolastici e professionali, a partire dal 1903, nei quali si specificano i contenuti delle lezioni in religione, lingua nazionale, geografia, aritmetica, geometria, galateo, igiene, disegno, storia, scienze naturali, francese, computisteria e sociologia.

1.3. Le linee orientative per gli Oratori e per gli Antichi allievi

Una delle maggiori aree del rettorato di don Rua, nell’insegna della fedeltà a don Bosco, è stata l’educazione oratoriana. Il CG3 (1883) ricorda la tradizione oratoriana dicendo che «il primo esercizio di carità della Pia Società di S. Francesco di Sales è di raccogliere giovanetti poveri ed abbandonati, per istruirli nella santa cattolica religione, particolarmente nei giorni festivi». Nel periodo dei congressi sugli oratori, don Rua si dimostra assoluto protagonista dello sviluppo degli oratori, di cui ha amato e caldeggiato la fondazione e l’accrescimento, l’oculata e creativa gestione, l’instancabile miglioramento degli oratori festivi e la loro apertura ai giovani più avanti in età mediante i Circoli e le Scuole di Religione. Durante il suo rettorato, il CG7 (1895) ha maturato alcune decisioni e proposte di non poco conto:

  1. La scelta di un membro del capitolo superiore in particolar modo incaricato degli oratori festivi;
  2. L’apertura di Oratori separati dalle Case Salesiane, con Scuole diurne e serali;
  3. L’organizzazione in essi di una scuola di religione;
  4. L’auspicabile apertura degli Oratori per tutta la giornata;
  5. La cura della dovuta assistenza.

L’insistenza sul tema e, in particolare, i richiami e le precisazioni circa taluni aspetti, muove a pensare che l’accoglienza degli orientamenti segnalati non è sempre stata unanime. Il successo quantitativo del maggior numero di oratori aperti e il caldeggiare ulteriori aperture promosso da Torino erano spesso accompagnati da una scarsità dei locali, dei mezzi e del personale. In questo contesto il Rettor Maggiore segnala la priorità dell’amore e dello zelo: «Altrove noi troveremmo vaste sale, ampi cortili, bei giardini, giochi d’ogni fatta: ma noi amiamo meglio venir qui ove non c’è niente, ma sappiamo che ci si vuol bene» e prosegue: «Lo zelo dei confratelli ha supplito la mancanza di questi mezzi».

A questo punto l’oratorio salesiano è visto come un centro d’irradiazione e viene esplicitamente legato all’Associazione degli Antichi Allievi: «dagli Oratori Festivi all’Associazione degli Antichi Allievi è breve il passo». Vengono segnalate le seguenti finalità educative dell’Associazione: il sostegno vicendevole nel mondo, mantenimento dello zelo della vita cristiana e sacramentale, profitto per le famiglie dei membri. Come rafforzante, si percepisce anche la rete di sostegno nell’aiuto materiale, nella ricerca del lavoro e del soccorso in infermità.

1.4. Don Albera e la linea della pietà nell’educazione

Il secondo successore di don Bosco non si scosta dalla fondamentale linea della fedeltà a don Bosco e a don Rua mettendo qualche accentuazione propria alla sua sensibilità ed esperienza del catechista generale. Nella sua prima lettera cita le parole dette da Pio X all’udienza: «Voi non avete a far altro che seguire le tracce di D. Rua. Egli era un santo. In ogni cosa fate come avrebbe fatto egli stesso. Non vi scostate dagli usi e dalle tradizioni introdotte da D. Bosco e da D. Rua».

Lo zelo e le tante attività dei salesiani creano il punto di partenza argomentativo della seconda lettera programmatica sullo spirito di pietà: «A chi di noi non è avvenuto le mille volte di udire a parlare dello spirito d’iniziativa e dell’attività dei Salesiani?» L’operosità, energia, zelo e le sante industrie di don Bosco, Rua, e Cagliero hanno come effetto una crescita grandiosa della Congregazione. Ecco l’esposizione delle linea fondamentale del Rettorato di Paolo Albera: «Tuttavia parlandovi con il cuore alla mano, vi confesso che non posso difendermi dal doloroso pensiero e dal timore che questa vantata attività dei Salesiani, questo zelo che sembrò finora inaccessibile ad ogni scoraggiamento, questo caldo entusiasmo che fu fin qui sostenuto da continui felici successi, abbiano a venir meno un giorno ove non siano fecondati, purificati e santificati da una vera e soda pietà». Pietà si distingue però dai soli doveri religiosi e quelli del culto:

«Si è in forza della pietà che noi non ci teniamo più paghi di quel culto, direi quasi ufficiale, che la religione c’impone, ma sentiamo il dovere di servire Iddio con quel tenerissimo affetto, con quella premurosa delicatezza, con quella profonda devozione, che è l ’essenza della religione». 

La pietà, come l’anima del vero zelo ha implicazioni anche nell’area educativa. Non si tratta solamente della cura delle pratiche di pietà, ma si esige anche un radicamento profondo degli educatori e la loro esemplarità:

«Tutto il sistema d’educazione insegnato da D. Bosco si poggia sulla pietà. Ove questa non fosse debitamente praticata, verrebbe a mancare ogni ornamento, ogni prestigio ai nostri istituti che diverrebbero inferiori di molto agli stessi istituti laici. Orbene, noi non potremmo inculcare ai nostri alunni la pietà, se noi stessi non ne fossimo abbondantemente provvisti […] Ma il miglior metodo per insegnare la pietà è quello di darne l’esempio».

La prospettiva della pietà guiderà il Rettor Maggiore, verso la fine del suo rettorato, ad affermare che «il sistema educativo di Don Bosco, per noi che siamo persuasi del divino intervento nella creazione e nello sviluppo della sua opera, è pedagogia celeste».

2. Il periodo di Rinaldi e Fascie (1922-1931)

Il tempo posteriore alla prima guerra mondiale, nella quale è stato coinvolto un buon gruppo di giovani confratelli, è caratterizzato da alcune tendenze che hanno influito sulle linee della pedagogia salesiana, come l’ascesa di ideologie totalitarie e il crescente militarismo, dallo sviluppo delle missioni in un contesto dell’epoca d’oro delle colonie e dalla propagazione dell’Azione Cattolica intesa come partecipazione del laicato all’apostolato gerarchico.

2.1. Il magistero di don Rinaldi sulla scia della paternità vissuta

Come don Rua fu un uomo che visse attorno alla fedeltà a don Bosco, don Albera incarnò l’ideale dello spirito di pietà, don Filippo Rinaldi visse e insegnò l’arte della paternità, del cuore e dell’essenza del sistema preventivo. La sua prospettiva di fedeltà alle origini si sposta dall’accentuato tene quod habes e dice: «Non dobbiamo tanto domandarci che cosa ha fatto Don Bosco, quanto piuttosto che cosa farebbe oggi Don Bosco».

Riferendosi a don Bosco, don Rinaldi dichiara un equilibrio tra conservazione rigida dello spirito e la flessibilità negli aspetti secondari: «Egli vi ha immesso una geniale modernità che, conservando rigidamente lo spirito sostanziale nel suo metodo educativo, le impedisse in Pari tempo di fossilizzarsi nelle cose accessorie e soggette a mutare col tempo». In questo senso si può affermare un principio della sana modernità: «La nostra Società doveva sapere adattarsi, nello svolgimento della propria azione benefica, alle necessità dei tempi, alle consuetudini dei luoghi: doveva essere progressivamente sempre nuova e moderna, pur conservando la sua particolare fisonomia di educatrice della gioventù mediante il sistema preventivo basato sulla dolcezza e sulla bontà paterna».

La sana modernità non esclude la cura delle tradizioni che occupa uno spazio consistente nel magistero di don Rinaldi. Le tradizioni qui non sono intese solo come dei principi generali, ma anche le piccole tradizioni, orari, pratiche etc. Come nel Convegno dei Direttori degli Oratori festivi d’Europa si è parlato dell’uso sapiente delle società calcistiche, degli scout, del gioco come mezzo educativo, della partecipazione dei superiori al gioco per vivacizzarlo, dei teatrini, del cinema e delle attività prosociali, così non mancano esortazioni di cautela tracciando una linea pedagogica sul dialogo con la cultura:

«La nostra missione, non dimentichiamolo, non è d’essere trascinati, ma di trascinare gli altri, non di ricevere le impressioni del luogo e delle persone dove andiamo, ma di imprimere noi il nostro spirito salesiano nella formazione dei giovani e nell’ambiente che ci attornia. Il nostro sistema d’educazione che porta il segreto della modernità, accetta tutto ciò che è veramente cristiano, ma esclude con energia quanto lo devia e lo corrompe. Il resto, lo battezziamo, cioè lo facciamo nostro, o lo abbandoniamo agli altri: caetera tolle!»

La chiave di lettura per un equilibrato rapporto con la tradizione viene enunciato già nella prima lettera di don Rinaldi. All’esposizione delle caratteristiche dello spirito, che don Bosco ha infuso nella Congregazione, segue la sintetica affermazione: «In una parola, tutti si voleva rivivere della sua attraente paternità, che non trattava mai nessuno bruscamente, ma sapeva aiutare con modi soavi ognuno a rendersi migliore e ad avviarsi alla perfezione». Per lui la paternità è una parola di sintesi dell’agire di don Bosco che viene collegata più con le “tradizioni paterne” vissute e tramandate alle generazioni future attraverso una formazione più pratico-osmotica che intellettuale. In questo senso la prima lettera prosegue:

«Ora è per me di grande conforto l’aver udito la voce dei nostri Padri per bocca dei Capitolari, qui convenuti da tutte le nazioni: ciò mi dimostra che lo spirito di essi è passato nei figli, i quali per mezzo dei loro Ispettori e Delegati hanno in certo modo voluto che si riscontrasse se nelle Case si praticano esattamente tutte le tradizioni paterne, riguardo allo studio, alla chiesa, al refettorio, al cortile, al passeggio, ecc.; e se soprattutto si vive sempre in mezzo ai giovani familiarmente, perché in tal modo si correggono i difetti, si pone rimedio ai disordini e si formano i caratteri cristiani».

Il contenuto della paternità che si dona totalmente è vicino al concetto di “zelo” di don Rua, ma la forma mentis pratica di don Rinaldi prosegue verso le applicazioni concrete. Il ragionamento pratico avanza nella successione connessa di considerazioni: «L’esercizio esteriore di questa paternità viene nominativamente trasmesso al direttore della Casa, non solo perché la conservi, ma perché l’eserciti secondo gli ammaestramenti e gli esempi del Beato. Ora questa tradizione della paternità direttoriale il Beato l’ha trasmessa ai suoi direttori quasi unita all’atto e alla realtà più sublimi della rigenerazione spirituale nell’esercizio del potere divino di rimettere i peccati». Il legame quasi diretto tra la paternità salesiana del direttore e il suo servizio di confessare viene ambientata anche nel contesto del divieto di “confessare i propri sudditi”. Don Rinaldi afferma che «con il pretesto di evitare qualunque inconveniente, in un primo tempo si passò oltre il dispositivo del Decreto: i Direttori si ritirarono addirittura dal confessare i giovani, cosa che non è affatto proibita a nessun sacerdote approvato, qualunque sia la carica che occupi nell’Istituto».

Un’altra linea di don Rinaldi che concerne l’educazione salesiana è il rafforzare del principio già presente nella Congregazione, cioè della scienza che è un pericolo se è distaccata dalla virtù e dalla prassi. Nel convegno dei direttori dell’estate del 1926 si riassume la linea dicendo:

«Il Salesiano non è un teorico della pedagogia ma un educatore. Dopo gli elementi indispensabili della teoria, che possono esser dati nella filosofia, bisogna imparare l’arte di educare con la pratica […] Nella vita di Don Bosco vi sono capitoli che ci danno norme di pedagogia pratica. La nostra pedagogia però sta scritta nella vita salesiana […] Ciascuno sia sollecito di studiare di più Don Bosco, di praticare la vita propriamente nostra, le nostre tradizioni. Se noi seguiamo il programma della giornata salesiana, vi troveremo tutto il programma nostro […] La nostra pedagogia quindi si studia nella vita con 1’umiltà, la rassegnazione e l’obbedienza, un po’ a spese nostre e un po’ a spese altrui; non s’impara da una cattedra, che ci esponga teoricamente, in termini scientifici, i varii sistemi. Il vero trattato è la vita pratica, e le sue pagine sono il cortile, lo studio, il refettorio, la chiesa, il dormitorio, il passeggio».

L’unione tra lo studio e la pratica educativa viene concepita come un insieme quasi indivisibile e legato alla virtù, esemplarità e santità dell’educatore. Come esempio illustre dell’educatore salesiano viene proposto san Francesco di Sales e il suo nome viene richiamato sia da don Rinaldi che dal consigliere scolastico Bartolomeo Fascie. Le implicazioni di governo del principio dell’unità tra lo studio e la prassi si delineano nel maggiore importanza del tirocinio pratico nella formazione dei salesiani e nell’attenzione cresciuta ai ruoli educativi all’interno della casa salesiana. Il tirocinio, istituito da don Rua nel 1901, viene valorizzato fino al punto che il CG13 indica di non ammettere i chierici allo studio di teologia se non hanno adempiuto le disposizioni della formazione in questa fase.

Con l’ottica dell’importanza della vita concreta, don Rinaldi rivolge un’attenzione particolare verso i ruoli all’interno della casa salesiana che equilibrano i vari aspetti dell’educazione. Dalle conferenze che insegnò ai chierici di Foglizzo, dal 1913 al 1916, si può ricavare un background concettuale che permette di interpretare le linee del suo governo. Oltre le caratteristiche già menzionate del Direttore inteso come padre e confessore ci è la parte del governo e della rappresentanza davanti ai superiori e alla società civile. Anche se don Rinaldi parla della sana modernità a livello della Congregazione, a livello locale «il Direttore è esecutore della Regola, non trasformatore; lui deve presiedere e dirigere quello che trova, non cambiare […] Se no la casa cambierebbe secondo i gusti dei direttori, con grave scapito della casa e della Congregazione».

Il Prefetto, nelle responsabilità di gestione della disciplina, delle cose materiali, dei coadiutori e dei famigli; il Catechista che cura l’educazione religiosa-morale dei giovani, le funzioni della Chiesa, le compagnie e le accademie; il Consigliere scolastico e Professionale che curano rispettivamente i licei e le scuole professionali – tutti collaborano alla riuscita di una educazione integrale. Don Rinaldi vede nel principio lavorare e dialogare insieme, avendo ognuno il proprio ruolo, un esigenza fondamentale della riuscita dell’educazione. Risponde così ad una domanda nel Convegno dei direttori: «Qualcuno ha chiesto una parola sulle relazioni tra il Direttore e il Prefetto. Anche qui – sia detto per incidenza – c’è un tratto della nostra pedagogia. Direttore e Prefetto si completano a vicenda. Vadano d’accordo, si parlino sovente: senza quest’armonia molte cose vanno male».

Un’ultima linea pedagogica di don Rinaldi che riflette il contesto degli anni ’20 è l’accento alle Compagnie all’interno delle case salesiane in rapporto con l’Azione Cattolica e lo sviluppo delle missioni. Per quanto le compagnie nei collegi dovevano essere regolamentate per armonizzare con i gruppi dell’Azione Cattolica e «preparare e formare i futuri soggetti dell’Azione Cattolica», ma allo tempo stesso si deve rimanere fedeli alle Compagnie come le ha pensato don Bosco. Non si trattava solamente di conservare le tradizioni, ma anche di “rimettere in efficienza e far fiorire le nostre Compagnie” sotto la guida dei Direttori e degli Ispettori. In più si istituisce la giornata e congressi ispettoriali delle Compagnie. L’apostolato tra i compagni, come un mezzo dell’educazione, trova un estensione naturale nello slancio missionario nel contesto di uno sviluppo forte delle missioni ad gentes:

«Continuate a coltivare questo spirito missionario […] Coltivazione di questo spirito ridonda principalmente a benefizio degli alunni medesimi, essendo questo uno dei mezzi più efficaci per formare il loro cuore ad affetti elevati e santi, un mezzo che li distoglie dai sentimentalismi morbosi tanto comuni a quell’età, un mezzo che ricorda loro la realtà della vita e le miserie di questo mondo, fa loro apprezzare il bene d’essere nati in paese cattolico, nella luce e nella civiltà del Vangelo, e li anima così a corrispondere a questa segnalata grazia del Signore con una vita veramente cristiana».

2.2. Il pensiero pedagogico di Bartolomeo Fascie e l’importanza del triennio pratico

Il pensiero di don Rinaldi dell’unione tra lo studio e la prassi viene strettamente riflesso anche nelle direttive sullo studio ed il tirocinio del consigliere scolastico Bartolomeo Fascie dal 1920 al 1937 che nel suo libro del 1927 Del metodo educativo di Don Bosco espone una linea molto simile di formazione dei salesiani-educatori. Don Fascie reagì con il suo libro di fronte a certe presentazioni troppo celebrative di don Bosco frequenti non solo in ambienti salesiani. Scrive nel libro: «Quando si parla del sistema preventivo, se ne parla come se esso fosse una novità balzata di tutto punto dal suo cervello [...] una trovata, un’invenzione, una scoperta e quasi una creazione di D. Bosco». Il consigliere proponeva invece: «Non dobbiamo figurarci D. Bosco un teorico della pedagogia, o uno studioso di problemi didattici o scolastici». Don Bosco accolse il metodo preventivo così come gli veniva offerto dalla tradizione umana e cristiana. La vera grandezza e originalità del fondatore della Società Salesiana si trova «nel campo pratico dell’arte educativa e dell’opera dell’educatore». Il tirocinio viene visto come «il corso di studio della nostra pedagogia», che non può essere imparata dai libri, ma in vita pratica, «dal libro della vita e della tradizione salesiana».

3. Il periodo del governo e delle sintesi di don Ricaldone (1932-1951)

Don Pietro Ricaldone, dopo una lunga esperienza nel Consiglio Generale nella quale fu il consigliere professionale dal 1911 e poi vicario di don Rinaldi, lascia un’impronta forte in tanti campi della Congregazione. È un uomo di governo che doveva affrontare le situazioni concrete della crescita della Congregazione e dalle avversità causate dai regimi autoritari e dalla devastante guerra mondiale. Un forte senso della «unità delle menti e dei cuori», proclamata nella sua prima lettera, era da lui tradotto in indicazioni dettagliate che partivano dalle questioni concrete dell’educazione e formazione salesiana fino all’organizzazione degli archivi e delle biblioteche.

3.1. Formazione e lo studio della pedagogia

Nella sua prima lettera esorta i confratelli, in continuità con la linea dell’ultimo quinquennio del governo di don Rinaldi, di non espandere le opere, consolidare le esistenti e investire nella formazione: «l’avvenire della nostra Società è soprattutto nelle case dove si forma il personale». La formazione dei salesiani doveva mettere un accento maggiore allo studio della pedagogia. Al CG15 del 1938 il Rettor Maggiore si esprime così:

«Si è abusato della frase dello stesso Don Bosco: “Mi domandano il mio sistema! Ma se neppure io lo so!”. Un atto di umiltà non deve diventare un’arma contro di lui, e meno ancora una bandiera. È vero, Don Bosco fu anzitutto e soprattutto un educatore, un pedagogo, senza lasciare però di essere anche un grande pedagogista. Basterebbero per dichiararlo tale, le mirabili pagine del sistema preventivo! […] Raccomandai al Consigliere Scolastico Generale di mandare dei Salesiani a frequentare i corsi universitari delle più rinomate scuole pedagogiche».

Le linee dello studio pedagogico furono riconfermate nel dopoguerra investendo soprattutto nell’Istituto Superiore di Pedagogia del PAS a Torino. Gli ispettori erano chiesti al CG16 (1947) di provvedere a mandare almeno un chierico per studiare pedagogia al PAS. Il sistema preventivo è visto come scienza basata su «granitiche basi della filosofia perenne e della teologia cattolica, e insieme sui dati che ci offrono le altre scienze, quali la psicologia, la biologia, la sociologia, e via dicendo: ma insieme vogliamo che il tempio della scienza pedagogica, oltre che venusto e gagliardo, sia anche libero da superstrutture, erronee o estranee».

Il contesto dello studio della pedagogia si forma attorno all’insegnamento del catechismo e l’insegnamento classico. Sono valorizzati alcuni apporti didattici della corrente delle scuole attive come valorizzazione delle attività didattiche, metodo induttivo, partecipazione degli alunni, conoscenza psicologica degli alunni, scuola serena e gioiosa, esclusione dei castighi, libertà dell’alunno, lavoro personale dell’alunno, uso delle idee centrali di sintesi, uso dell’interesse degli alunni. Le correnti della pedagogia positivista e naturalista vengono viste come una “pedagogia atea” di cui Dewey è uno dei massimo esponenti. La funzione degli studi pedagogici del PAS è anche il combattimento della battaglia contro la pedagogia materialista ed atea. Anche gli studi statistici non godono una grande stima di don Ricaldone.

3.2. Amore e disciplina

Nella sua prima lettera sistematica, commentando la Strenna del 1933, don Ricaldone parla della carità come del primo principio della vita cristiana e anche dell’ambiente famigliare, plasmato dalla carità, che è lo contesto dell’educazione salesiana. Il modello di tale carità è san Francesco di Sales,

«il santo della carità, della dolcezza, dell’amore. Egli non si appaga di esteriorità, ma vuole la virtù che è forza, che è sforzo; vuole anzi la regina delle virtù, della quale è detto che è forte come la morte. Era convinto che tutto è possibile ad un’anima infiammata dagli ardori purissimi dell’amore. Questo appunto ci spiega l’operosità instancabile e l’efficacia prodigiosa del B. D. Bosco che volle la carità norma costante del proprio operare, base del suo sistema pedagogico, anima del suo apostolato».

L’amore educativo è il principio, ma la leva generale delle linee di don Ricaldone sta nelle applicazioni dei principi che sono focalizzate e dettagliate. Il suo stile di governo energico era plasmato soprattutto dalle centinaia di pagine delle applicazioni, talvolta minuziose, della tradizione salesiana. Alla fine della sua vita nel Don Bosco educatore, scritto nel 1951, propone la disciplina, legata all’autorità, come mezzo generale dell’educazione. Dice nel testo:

«Non basta però avere buoni princìpi, idee chiare, concetti ben elaborati delle cose da farsi: oltre alla possibilità di tradurre tutto ciò in pratica, ci vuole quella tecnica, o meglio quella tattica speciale, e quello spirito che dànno vita e valore al cosiddetto metodo […] Proprio in questa luce è bene […] interpretare anzitutto il principio di autorità, che nell’ambiente educativo mantiene in fiore la disciplina».

Chiaramente si parla di un’autorità e di una disciplina che è tutta al servizio dell’educando, che è vicina, illumina l’intelligenza e soprattutto muove la volontà attraverso i cuori aperti soltanto all’amore. La disciplina, come linea di governo e di educazione, viene collocata da don Ricaldone all’interno del contesto della canonizzazione di don Bosco e sviluppata soprattutto nelle 300 pagine della strenna del 1935 Fedeltà a Don Bosco Santo. La linea del pensiero spiega la fedeltà che presume un atto di fede verso Dio e quindi si traduce nella fiducia; conseguentemente si traduce nella promessa di seguire don Bosco, inviato da Dio, nell’osservanza delle Regole: «Le Regole, come sono state lo scopo supremo delle aspirazioni di Don Bosco Fondatore, così continuano ad essere ora il suo pensiero e tutto il suo cuore […] Amare Don Bosco è amare le Regole». Alla conclusione del CG15 il Rettor Maggiore raccomanda che i confratelli presenti ricordino tutti che tutta la forza del nostro sviluppo, che l’espansione e la perpetuità della Congregazione, è nella osservanza uniforme della nostra Regola».

3.3. Catechesi e formazione religiosa

Il “centenario dell’Opera Salesiana” che era celebrato nel 1941 ha dato ampie possibilità di specificare le linee per gli oratori, ma specialmente per l’insegnamento catechistico e la formazione religiosa. Riportando gli esempi dei grandi catechisti del ‘500, il Rettor Maggiore esorta i salesiani ad una crociata catechistica in quanto nell’istruzione religiosa vede il centro della risposta per la salvezza della gioventù dalla situazione sconfortante e dipinta in colori scuri: «È vero, siamo pochi e impari ai bisogni assillanti e immensi; inoltre il nostro apostolato è di ieri […] È dover nostro, in questa fausta ricorrenza delle feste centenarie, dare fiato alle trombe e far riecheggiare sotto tutti i cieli con fremito possente la voce di Dio e della Chiesa, che tutti invita alla santa crociata».

La comunicazione della «sapienza celeste, necessaria all’eterna salute, mediante l’insegnamento del Catechismo» si spiega attraverso il ricorso alla tradizione salesiana, nella definizione del fine e delle modalità dell’istruzione catechistica. L’argomentazione di don Ricaldone comincia tipicamente con la ripresa del Regolamento dell’Oratorio Festivo di don Bosco – un «libriccino, modesto di veste e di mole, [che] conteneva in germe tutta l’Opera Salesiana col suo spirito, col suo sistema, colle possibilità del suo multiforme sviluppo». I ruoli all’interno dell’oratorio si allargano e copiano gli incarichi della casa salesiana: il direttore, il prefetto, il catechista e il consigliere scolastico che formano il consiglio dell’oratorio. L’argomentazione per questo passo segue la linea della fedeltà alla storia dello sviluppo dell’opera di don Bosco; prima c’era l’Oratorio e i suoi ruoli e solo dopo la Congregazione. Una parte importante dell’insieme sull’istruzione catechetica è costituita dalla formazione iniziale e permanente dei catechisti. Interessanti spunti sono offerti anche circa il metodo d’insegnamento:

«E qui è bene mettere in particolare rilievo che, non solo le verità insegnate da Gesù Cristo, ma anche il metodo da lui seguito per farle penetrare nelle menti di coloro che accorrevano ad ascoltarlo, sono indicati, e talvolta coi più minuti particolari, nel santo Vangelo, ov’è descritto con quali mezzi e sussidi il Salvatore rendeva accessibile la sua dottrina».

Il cosiddetto “metodo del Vangelo” coincide poi, nell’argomentazione di don Ricaldone, con il metodo induttivo che usa l’immaginazione, le figure, gli immagini, gli esempi, gli oggetti reali “dall’ambiente fisico, sociale, religioso, storico in cui si vive». Si ricuperano in questa sede anche alcune istanze del movimento della scuola attiva che stimolano la partecipazione degli alunni e sviluppando “i centri dell’interesse” che stimolano i giovani ad arrivare ai livelli eroici di virtù.  

3.4. I divertimenti e la concezione della castità

In questa linea di pensiero si inserisce anche il discorso sui mezzi che attirano i giovani all’oratorio. Le attività sportive, ludiche e ricreazionali, soprattutto il calcio e il cinema, sono visti in una luce negativa fino ad arrivare a enunciazioni del Rettor Maggiore come p.e. al CG16: «In ogni dopoguerra noi assistiamo a una vera frenesia di divertimenti: si direbbe che quei poveri disgraziati, i quali durante lunghi anni vissero tra le privazioni e i pericoli dei campi di battaglia, sentano come un bisogno sfrenato di tuffarsi nei divertimenti. È una vera follìa! […] Siete al par di me persuasi dell’influenza satanicamente malefica del cinema: le rovine che va accumulando dappertutto, sono tali, da farci temere per la vita morale e cristiana delle generazioni futuri». Il Capitolo in una discussione piuttosto prolungata si è concordato però non solo nella limitazione del cinema con il criterio di non diminuire l’affluenza dei ragazzi, ma raccomandò anche la preparazione del personale per la valutazione salesiana dei film, per la redazione di trame cinematografiche salesiane, per il contatto con le case produttrici e per l’assistenza tecnica alle case. Le discussioni sul cinema e sui divertimenti in generale era una costante del governo nel periodo studiato.

Il tema collegato era l’educazione alla castità percepita piuttosto nell’ottica di una “santa intransigenza”. Con la citazione del detto di S. Tommaso di Villanova si afferma: Si non est castus nihil est e la concezione si applica soprattutto ai divertimenti: il cinema, il teatro, le divise dei calciatori (anche delle squadre ospiti), le letture, i giornali, etc. Sotto l’influsso dell’entusiasmo della canonizzazione di don Bosco, si prosegue nella linea di don Albera e Rinaldi ma con una tensione alla perfezione così alta, così controculturale e con indicazioni così dettagliate, di renderla probabilmente poco sostenibile a lunga durata nei decenni che seguirono e porteranno coordinate culturali diverse.