Don Bosco

Memorie dell'Oratorio di San Francesco di Sales (Saggio introduttivo e note storiche a cura di Aldo Giraudo)

GIOVANNI BOSCO

MEMORIE DELL'ORATORIO DI S. FRANCESCO DI SALES DAL 1815 AL 1855

Saggio introduttivo e note storiche a cura di ALDO GIRAUDO

LAS - ROMA

L'IMPORTANZA STORICA E PEDAGOGICO-SPIRITUALE DELLE MEMORIE DELL'ORATORIO'

Aldo Giraudo

Le Memorie dell'Oratorio hanno avuto grande importanza nella storia salesiana. Non solo perché alcuni fatti in esse contenuti, come il sogno dei nove anni e la descrizione dell'incontro con Bartolomeo Garelli, sono divenuti'eventi simbolo della vita del santo e della missione salesiana, oggetto di riflessioni spirituali e pedagogiche. Questo docufnento ha indotto ad una lettura insieme epica e provvidenzialistica delle vicende personali di don Bosco e della sua istituzione prediletta, l'Oratorio. Ha sostanziato il nostro immaginario sul ruolo determinante di mamma Margherita e di don Calosso, sulla figura del teologo Borel, della marchesa di Barolo e del vicario di Città Michele Cavour. Ha introdotto un tocco d'avventura nel vissuto di don Bosco col racconto della gara col saltimbanco, l'evocazione di oscuri attentati e la messa in scena del misterioso cane "Grigio".

Soprattutto le Memorie dell'Oratorio hanno contribuito in modo determinante a costruire ed affermare l'immagine di don Bosco che continua a circolare. Le stilizzazioni diffuse nell'ultimo ventennio dell'Ottocento e nella prima parte del Novecento (fondatore di istituti benefici e di società cattoliche, padre degli orfani, grande educatore del secolo XIX, taumaturgo e visionario, geniale organizzatore di iniziative pastorali e educative secondo i bisogni dei tempi...)2 oggi hanno perso in parte o del tutto il loro fascino. Anche la ricostruzione più avvertita e aderente alla realtà storica sulla quale, da cinquant'anni, lavorano studiosi seri e documentati, stenta a trovare accoglienza nell'opinione comune.

1 Questa introduzione riprende (§ 1-5) e amplia (§ 6) il saggio premesso a Juan Bosco (san), Memorias del Oratorio de san Francisco de Sales de 1815 a 1855. Traducción y notas históricobibliograficas de José Manuel Prellezo García. Estudio introductorio de Aldo Giraudo, Madrid, Editorial CCS, 2003.

2 Cf. Pietro STELLA, Don Bosco nella storia della religiosità cattolica. III: La canonizzazione (1888-1934), Roma, LAS, 1988, 13-59.

Permane invece la rappresentazione simpatica del saltimbanco, del vivace animatore di contadinelli e studenti, del sognatore, dell'amico vicino agli aneliti giovanili, del padre affettuoso che dischiude ai giovani orizzonti significativi e apre cammini di formazione valorizzando le istanze a loro più congeniali.

Questi, appunto, sono i tratti dominanti della sua identità, che emergono nel racconto suggestivo delle Memorie dell'Oratorio, e che più tenacemente si sono radicati nell'immaginario collettivo, dentro e fuori i confini della famiglia salesiana. Una rappresentazione elaborata e promossa da don Bosco stesso, prima nell'ambito ristretto della comunità di Valdocco, attraverso narrazioni e rievocazioni pittoresche, poi nella cerchia più vasta degli amici e dei cooperatori.

1. Storia e fortuna del testo

Il testo delle Memorie è stato composto da don Bosco tra 1873 e 1875. Riprodotto in bella copia dal segretario Gioachino Berto, venne rivisto, corretto e integrato dall'Autore a più riprese, fino al 1879.3 Inizialmente riservato ai suoi «carissimi figli Salesiani con proibizione di dare pubblicità a queste cose sia prima sia dopo la mia morte», il documento fu parzialmente divulgato, per decisione del Santo stesso, in una Storia dell'Oratorio di S. Francesco di Sales, compilata da Giovanni Bonetti, pubblicata a puntate sul «Bollettino Salesiano» tra 1879 e 1886.4 Giovanni Battista Lemoyne lo riprese integralmente nei primi volumi delle sue Memorie biografiche, come traccia di base della storia di don Bosco, e lo arricchì con una farcitura di notizie tratte da documenti, testimonianze e rievocazioni colte dalla bocca del protagonista o di testimoni diretti e indiretti.

L'operazione finalizzata ad esaltare l'aspetto prodigioso e soprannaturale dell'esperienza del Santo, condotta con preoccupazioni di precisione cronistica e cura stilistica, ma senza un'adeguata strumentazione storico-critica, avrà un duplice risultato. Da una parte il ricordo di fatti del passato — che nelle Memorie dell'Oratorio erano selezionati secondo un'evidente interpretazione a tesi —, assunto come se fosse un resoconto coevo e puntuale degli eventi, integrato con altri aneddoti e materiali, produce un effetto di amplificazione narrativa e costruisce un personaggio la cui identità si colloca ai confini tra storia e letteratura edificante.

3 Sulla data di composizione del manoscritto originale, della copia del segretario don Gioacchino Berto e degli interventi correttivi di don Bosco, cf. l'Introduzione di Eugenio Celia alla prima edizione a stampa del documento: Giovanni Bosco (san), Memorie dell'Oratorio di S. Francesco di Sales dal 1815 al 1855, Torino, SEI, 1946, 6; Francis DESRAMAUT, Les Memorie I de Giovanni Battista Lemoyne. Étude d'un ouvrage fondamental sur la jeunesse de saint Jean Bosco, Lyon, Maison d'Études saint-Jean-Bosco, 1962, 116-119; l'introduzione dell'edizione critica: Giovanni Bosco, Memorie dell'Oratorio di S. Francesco di Sales dal 1815 al 1855. Introduzione, note e testo critico a cura di Antonio da Silva Ferreira, Roma, LAS, 1991 (d'ora in poi: Memorie), 18-19.

4 La Storia dell'Oratorio di Giovanni Bonetti, rivista e completata, venne successivamente pubblicata in un volume destinato al pubblico dal titolo Cinque lustri di storia dell'Oratorio Salesiano fondato dal Sac. D. Giovanni Bosco, Torino, Tipografia Salesiana, 1892.

Dall'altra, seppure involontariamente, si attua una sorta di snaturamento dell'originalità dello scritto di don Bosco, facendone perdere l'efficacia e la significatività previste dalla strategia compositiva dell'Autore. La lettura degli eventi operata dal Lemoyne, attraverso tale rimaneggiamento delle Memorie dell'Oratorio, venne offerta al gran pubblico soprattutto nella sua Vita del venerabile servo di Dio Giovanni Bosco, pubblicata tra 1911 e 1913,5 più volte ristampata e tradotta.'

L'interpretazione e, si potrebbe dire, l'uso delle Memorie dell'Oratorio fatto dal Lemoyne influenzerà tutti i profili biografici ed agiografici successivi, fino alla comparsa, nella seconda metà del Novecento, dei primi studi storico-critici e pedagogici.' Tuttavia, nonostante questi ultimi, la suggestione dell'immagine consolidata dalla tradizione agiografica continuerà ad affascinare, come si può costatare nelle ricostruzioni biografiche di indole giornalistica, nei testi musicali e nelle rappresentazioni cinematografiche e teatrali.'

La prima edizione integrale delle Memorie dell 'Oratorio apparve nel 1946.9 La decisione di rendere di pubblico dotninio il documento nella sua interezza, nonostante il veto dell'Autore, era stata presa per la dimensione universale assunta dalla figura del santo, come scrisse Eugenio Celia nella presentazione del volume.10 Tale pubblicazione tuttavia va collocata nel particolare contesto storico in cui vide la luce. I vertici della Congregazione, sotto la spinta delle urgenze educative e delle sfide rappresentate dai nuovi scenari europei e mondiali, da tempo si sentivano stimolati a propugnare un ritorno alle intuizioni e alle esperienze originali di don Bosco.

Pietro Ricaldone, Rettor maggiore tra 1932 e 1951, già negli anni immediatamente precedenti allo scoppio del conflitto mondiale, aveva colto l'importanza di tale recupero come strumento per rigenerare l'identità salesiana e l'efficacia delle opere di fronte alle nuove istanze sociali e pastorali.

5 Giovanni Battista LEMOYNE, Vita del venerabile servo di Dio Giovanni Bosco fondatore della Pia Società Salesiana, dell'Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice e dei Cooperatori Salesiani, Torino, Libreria Editrice Internazionale "Buona Stampa", 2 voll., 1911-1913.

6 A partire da un'edizione ritoccata ed ampliata da Angelo Amadei (Torino, SEI, 1920), che ebbe in Italia numerose ristampe (1935, 1941, 1953, 1975, 1977...), cf. Bibliografia generale di don Bosco. Bibliografia italiana (1844-1992), a cura di Saverio Gianotti, Roma, LAS, 1995, n. 653.

7 Pietro STELLA, Bilancio delle forme di conoscenza e degli studi su don Bosco, in Mario MIDALI (Ed.), Don Bosco nella storia. Atti del 1° Congresso Internazionale di Studi su Don Bosco (Università Pontificia Salesiana - Roma, 16-20 gennaio 1989), Roma, LAS, 1990, 21-36.

8 Cf. quanto dice STELLA, Bilancio delle forme di conoscenza, 32.

9 Fu curata da Eugenio Celia: Giovanni Bosco (san), Memorie dell'Oratorio di S. Francesco di Sales dal 1815 al 1855, Torino, SEI, 1946.

10 «Oggi Don Bosco è passato alla storia, alla grande storia, ed è pure entrato nel novero dei Santi» (ibid., 4).

Esauritasi la generazione formata da don Bosco, in un contesto culturale profondamente mutato, si percepiva l'urgenza di focalizzare il nocciolo della missione religiosa e educativa dell'Oratorio festivo, la sua caratteristica identità e la tipicità dei suoi elementi metodologici. Ne era scaturita una serie di iniziative finalizzate a coinvolgere l'intera compagine salesiana e mirate soprattutto ad avviare uno sforzo di riflessione e di organizzazione nell'ambito della catechesi, della pastorale e della pedagogia. Nel 1936 don Ricaldone divulgava una lettera programmatica intitolata Fedeltà a Don Bosco santo; nel 1938 lanciava una "crociata catechistica"; l'anno successivo scriveva una corposa circolare su Oratorio festivo, catechismo, formazione religiosa," per promuovere le celebrazioni del centenario dell'Oratorio salesiano (1841-1941); negli ultimi mesi di vita pubblicherà un volume su Don Bosco educatore,12

Nel frattempo il Rettor maggiore promuoveva istituzioni, incoraggiava studi e pubblicazioni. Non soltanto aveva sostenuto Alberto Caviglia nel suo lavoro di edizione degli scritti di don Bosco, ma si era impegnato a partire dal 1939 a fondare l'Ufficio Catechistico Centrale Salesiano, a riorganizzare i centri di studio della Congregazione e a costituire, con l'aiuto di don Carlos Leóncio da Silva, una cattedra di Pedagogia come base di una nuova Facoltà universitaria." Pensava anche di dar vita ad una «Rivista di Pedagogia», ma ne fu impedito a causa della guerra. L'edizione del testo integrale delle Memorie dell'Oratorio, affidata a Eugenio Ceria, era un atto concreto di tale sforzo di ritorno alle origini carismatiche e di rivitalizzazione dell'opera salesiana.

Lo scritto in un primo momento non pare aver attirato sufficientemente l'attenzione dei Salesiani. Dopo quattro anni si ritenne necessario segnalarne l'importanza e raccomandarne la lettura riproducendo sulla rivista dell'Ateneo Salesiano l'introduzione dell'editore, con leggere varianti." Ci si andava persuadendo della «preziosa documentazione biografica e psicologica» offerta nel documento «intorno ad una personalità di prim'ordine» come quella di don Bosco e ci si rendeva conto che il libro, nella sua freschezza, «contiene un [...] insegnamento da potersi considerare come il sugo di tutta la storia» del santo.15

11 Pietro RICALDONE, Oratorio festivo, Catechismo, Formazione Religiosa. Strenna del Rettor Maggiore 1940. Torino, SEI, 1940 (19472).

12 Pietro RICALDONE, Don Bosco educatore, 2 voli,, Colle Don Bosco (Asti), LDC, 1951-1952.

13 José Manuel PRELLEZO, Don Pietro Ricaldone e la formazione dei Salesiani: alle origini dell'Università Pontificia Salesiana, in Sabino FIUGATO (ed.), Don Pietro Ricaldone quarto successore di don Bosco, 1932-1951. A cinquant'anni dalla morte, 25 novembre 1951, Torino, SGS, 2001, 31-73.

14 Eugenio CERTA, Una pubblicazione postuma di S. Giovanni Bosco, in «Salesianum» 12 (1950) 432-440.

15 CERIA, Una pubblicazione postuma, 439-440.

Così nel 1951 apparve una prima traduzione francese di Augustin Auffray," seguita nel 1955 da quella in spagnolo di Basilio Bustillo.'7 Tuttavia, nella pubblicistica salesiana, si continuava a far riferimento alla ricostruzione del Lemoyne. Anche i due volumi del Don Bosco educatore di don Ricaldone citano i testi dalle Memorie biografiche e ne riprendono le chiavi interpretative, facendo soltanto tre rimandi al testo originale di don Bosco.

Le cose andarono diversamente in ambito accademico. In un primo momento ci si interessò delle Memorie dell'Oratorio per alcune incongruenze nella datazione e si procedette ad un lavoro di ricerca al fine di rettificarne la cronologia?' Più tardi il documento destò interesse soprattutto per l'originalità e significatività dei suoi contenuti e la sua stessa natura. All'inizio degli anni Sessanta del Novecento Francis Desramaut, pur accostando le Memorie dell'Oratorio marginalmente, in quanto fonte utilizzata da G.B. Lemoyne, sottolineava come dominante la portata pedagogica del racconto, definendolo «un piccolo trattato di pedagogia in atto»?9 Proprio da questo punto di vista della "esemplarità" lo scritto sarà oggetto di sempre maggiore attenzione.

Le prime osservazioni critiche sulla natura delle Memorie dell'Oratorio e la loro vera importanza, furono espressé da Pietro Braido nel 1965: «La data di composizione [...] e le finalità dell'Autore obbligano a considerarle e a leggerle non come puro documento storico. Esse vogliono essere anzitutto e soprattutto una storia edificante lasciata da un fondatore ai membri della Società di apostoli e di educatori, che dovevano perpetuarne l'opera e lo stile, seguendone le direttive, gli orientamenti e le lezioni. [...] Gli avvenimenti descritti e le cose narrate sono realtà vissute; ma, con tutta probabilità, non con quella pienezza di significati e quella visione organica, che conferisce loro l'attuale consapevolezza dell'Autore, giunto alla maturità dei progetti e delle realizzazioni».20

Pietro Stella, nel suo studio, Don Bosco nella storia della religiosità cattolica, utilizza i dati biografici offerti dalle Memorie dell'Oratorio, ma li considera soprattutto come un documento di storia delle mentalità.21

16 Jean (Saint) Bosco, Quarante années d'épreuves (1815-1855), Lyon, Vitte, 1951.

17 Inclusa in un'opera di carattere antologico: Biografia y escritos de San Juan Bosco. Edición preparada por el padre Rodolfo Fierro, Madrid, BAC, 1955.

18 Jan KLEIN - Eugenio VALENTINI, Una rettificazione cronologica delle "Memorie di San Giovanni Bosco", in «Salesianum» 17 (1955) 581-610. Le conclusioni di questo saggio verranno riprese, discusse e completate nell'ambito di un lavoro di dottorato sulla composizione del primo volume delle Memorie biografiche: DESRAMAUT, Les Memorie I, 124-134.

19 DESRAMAUT, Les Memorie I, 121.

20 Giovanni Bosco (San), Scritti sul sistema preventivo nell'educazione della gioventù. Introduzione. Presentazione e indici alfabetico e sistematico a cura di Pietro Braido, Brescia, La Scuola, 1965, 3-4.

21 Pietro STELLA, Don Bosco nella storia della religiosità cattolica. I: Vita e opere, Roma, LAS, 1968.

Intanto, tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta, un po' ovunque nel mondo salesiano, emergeva una crescente considerazione nei confronti del testo, documentata da una serie di traduzioni.22 Si prendeva sempre più coscienza della necessità di studiare l'esperienza del Fondatore, recuperandone le fonti, in vista di una riflessione più avvertita sulla propria identità di educatori e pastori. In quegli anni si moltiplicavano corsi, più o meno sviluppati, di storia, pedagogia e spiritualità salesiana e si stampavano antologie degli scritti di don Bosco.

Nel biennio 1976-1977 si erano pubblicate, in edizione anastatica, le Opere edite di don Bosco." Fu un'iniziativa di grande rilievo, come quella, avvenuta nello stesso periodo, della microfilmatura dei fondi più antichi dell'Archivio Centrale Salesiano. Si metteva così a disposizione degli studiosi, ma anche dei salesiani in formazione, un materiale vasto e importantissimo, che favorì una fioritura di ricerche, di studi e di tesi. La fondazione, nel 1981, dell'Istituto Storico Salesiano, con la rivista «Ricerche Storiche Salesiane», dava un ulteriore importante contributo a questo interesse, sostanziandolo con un lavoro paziente di edizioni critiche e di saggi. Così, in un breve torno di anni si andava affinando la sensibilità storica nella compagine salesiana e l'attenzione alla figura storica di don Bosco diveniva più avvertita.

Quando nel 1991, da tempo desiderata, fu disponibile l'edizione critica delle Memorie dell'Oratorio, curata da Antonio da Silva Ferreira,24 lo scritto di don Bosco ottenne un'accoglienza generalizzata.25

22 Jean Bosco (saint), Souvenirs autobiographiques, Paris, Apostolat des Éditions, 1978; Joào Bosco (sào), Memórias del Oratório de Sào Francisco de Sales, Sào Paulo, Editora Salesiana Dom Bosco, 1982; Juan Bosco (san), Memorias del Oratorio de San Francisco de Sales. Traducción en espariol de Basilio Bustillo, Madrid, Editorial CCS, 1987; Memoirs of the Oratory of Saint Francis de Sales from 1815 to 1855. The autobiography of Saint John Bosco. Translated by Daniel Lyons, with notes and commentary by Eugenio Ceria, Lawrence Castelvecchi, and Michael Mendl, New Rochelle, Don Bosco Publications, 1989. In Italia si stampò anche una trascrizione in "lingua corrente", operazione criticata, ma indicativa del diffuso interesse per il documento: Giovanni Bosco (san), Memorie. Trascrizione in lingua corrente, Leumann (Torino), Elle Di Ci, 1985.

23 Giovanni Bosco, Opere edite. Prima serie: Libri e opuscoli, 37 vol., Roma, LAS, 1976-1977 (-0E).

24 Giovanni Bosco, Memorie dell'Oratorio di S. Francesco di Sales dal Ì815 al 1855. Introduzione, note e testo critico a cura di Antonio da Silva Ferreira, Roma, LAS, 1991. Del testo si è fatta anche un'edizione più maneggevole, priva dell'apparato critico: Giovanni Bosco, Memorie dell'Oratorio di S. Francesco di Sales dal 1815 al 1855. Introduzione e note a cura di A. da Silva Ferreira, Roma, LAS, 1992.

25 Da questo momento le traduzioni si moltiplicano. Tra tutte, citiamo una fortunata nuova traduzione spagnola dell'ediz. critica, confrontata coi ms originali: Juan Bosco (san), Memorias del Oratorio de san Francisco de Sales de 1815 a 1855. Traducción y notas histórico-bibliogrnficas de José Manuel Prellezo Garcia. Estudio introductorio de Aldo Giraudo, Madrid, Editorial CCS, 2003 (giunta alla settima edizione nel 2010).

2. «Un manuale di pedagogia e di spiritualità raccontata»

Nei suoi saggi sulla portata pedagogica dell'esperienza di don Bosco, Pietro Braido identificò da subito la rilevanza delle Memorie dell'Oratorio per il loro essere ispirate «dalla primaria preoccupazione di definire il senso di un'esperienza educativa globale [...] e la formulazione di un "programma di azione" [...]. Prima di essere libro di storia del passato (arricchito di tutta l'esperienza accumulata in quasi trentacinque anni di impegno educativo sacerdotale) le Memorie sono il risultato di una coerente riflessione, che approda a una spiritualità e a una pedagogia: il "sistema preventivo" vi è espresso nella forma più diffusa e completa»." Cosicché esse risultano «una storia dell'oratorio più "teologica" e pedagogica che reale, forse il documento "teorico" di animazione più lungamente meditato e voluto da don Bosco»;27 un «eccezionale documento di pedagogia esperienziale».28

Anche Pietro Stella faceva notare, da un punto di vista di critica storiografica, la peculiare lettura degli eventi rappresentata nelle Memorie dell'Oratorio: «Comunque siano avvenuti i fatti, don Bosoo nella sua esposizione tende a porre in luce quelle ch'egli considera le finalità intese da Dio».29 Alcuni silenzi riscontrabili nel testo, le varianti di scrittura nelle diverse fasi redazionali, l'uso elastico del linguaggio e anche una serie di errori e di anomalie, contribuiscono a mettere in luce una caratteristica intenzione dello scritto: «la narrazione "amena", cioè piacevole, attraente e coinvolgente nella sua semplicità, idonea a inoculare messaggi più o meno espliciti di natura religiosa e pedagogica». Se «la Vita di Domenico Savio, quella di Magone e di Besucco possono considerarsi come la costruzione di modelli di santità giovanile sulla base di dati biografici», le Memorie dell'Oratorio dovrebbero essere ritenute «come una sorta di poema religioso e pedagogico costruito sull'intelaiatura e l'idealizzazione di aneddoti autobiografici»." Don Bosco, insomma, attraverso questo scritto, pare aver voluto trasfondere nei lettori la convinzione che tutta la sua vita sia stata «un tessuto di eventi predisposti, prefigurati, fatti diventare realtà dalla sapienza divina». Egli dunque metteva in atto una rilettura e una riconfigurazione del passato più in chiave teologica e pedagogica che in prospettiva «storico-erudita»."

26 Pietro BRAIDO, recensione a Giovanni Bosco (san), Memorie. Trascrizione in lingua corrente, Leumann (Torino), Elle Di Ci 1985, in «Ricerche Storiche Salesiane» 5 (1986) 169.

27 Pietro BRAIDO, L'esperienza pedagogica di don Bosco nel suo «divenire», in «Orientamenti Pedagogici» 36 (1989) 27.

28 Pietro BRAIDO, Prevenire non reprimere. Il sistema educativo di don Bosco, Roma, LAS, 1999, 135.

29 Pietro STELLA, Apologia della storia. Piccola guida critica alle "Memorie biografiche" di don Bosco (dispense), UPS, Roma, 1989-1990; revisione aggiornata, 1997-1998, 18.

30 STELLA, Apologia della storia,22.

31 Sono pareri espressi nel contesto di una riflessione su Don Bosco e l'organizzazione della propria immagine (STELLA, Don Bosco nella storia della religiosità cattolica. III: La canonizzazione, 16).

Recensendo l'edizione critica delle Memorie dell'Oratorio Pietro Braido colse l'occasione per riprendere e sviluppare osservazioni già precedentemente formulate." In molti risvolti il documento appare come un bonario ed «ameno trattenimento» di un padre con i figli, che, nel taglio dato alla rievocazione, rivela l'interpretazione provvidenzialistica del proprio vissuto nel senso generale e nei singoli eventi. Per altri versi vi troviamo «la preoccupazione di descrivere, sia pure "poeticamente", l'origine, il divenire e il costituirsi di un'esperienza spirituale e pedagogica tipica, che sotto la formula "oratoriana" è presentata come l'approccio più funzionale e produttivo ai giovani dei tempi nuovi».

Le pagine di don Bosco sono prevalentemente "Memorie" del futuro: espressione paradossale, coniata da Pietro Braido per esprimere la sostanza della sua tesi.

Di fatto, questo appare «il punto di vista adottato in forma assolutamente preminente da don Bosco, intenzionato a trasmettere tale esperienza vissuta come programma di vita e di azione ai continuatori. Con questa operazione egli anticiperebbe in modo più flessibile e variopinto, vivacemente "narrativo", le scarne formulazioni delle pagine del Sistema preventivo nella educazione della gioventù del 1877»." Dunque, nelle Memorie dell'Oratorio, «la parabola e il messaggio» vengono prima e «al di sopra della storia», per illustrare l'azione di Dio nella vicende umane, e così, rallegrando e ricreando, «confortare e confermare» i discepoli. Nello stesso tempo si presentano come un efficace «preludio narrativo al sistema preventivo», «forse il libro più ricco di contenuti e di orientamenti "preventivi"» che don Bosco abbia scritto: «un manuale di pedagogia e di spiritualità "raccontata", in chiara prospettiva "oratoriana"».34

3. Rievocazione narrativa di un'identità oratoriana

Per comprendere l'indole e la portata originale delle Memorie dell'Oratorio, per inoltrarsi in un'interpretazione rispettosa delle intenzioni dell'Autore, conviene tenere presente quanto è stato detto, più in generale, sulle preoccupazioni che muovevano don Bosco a farsi scrittore.35

32 Pietro BRAIDO, "Memorie" del futuro, in «Ricerche Storiche Salesiane» 11 (1992) 97-127.

33 BRAIDO, "Memorie" del futuro, 97.

34 Cf. BRAIDO, "Memorie" del futuro, 113-114.

35 Sulle movenze di don Bosco scrittore e editore e i suoi meccanismi mentali, cf. Pietro STELLA, Don Bosco nella storia della religiosità cattolica, I: Vita e opere, Roma, LAS, 1979, 229-248; ID., Don Bosco nella storia economica e sociale, Roma, LAS, 1980, 327-368: ID., Don Bosco, Bologna, Il Mulino, 2001, 23-37, 71-90.

3.1. Le preoccupazioni di don Bosco scrittore e la peculiarità delle Memorie dell' Oratorio

Si sa che egli non si prefiggeva obiettivi scientifici o storiografici, ma prevalentemente educativi e formativi, funzionali alle esigenze immediate dei suoi destinatari e della sua opera. Nelle sue compilazioni di indole "storico-divulgativa", come la Storia ecclesiastica ad uso delle scuole (1845), la Storia sacra (1847) e la Storia d'Italia raccontata alla gioventù (1855), si scorge la chiara tendenza a narrare per istruire e moralizzare, rimarcando il senso religioso di una storia vista come lo scenario nel quale si dispiega l'azione provvidenziale e salvifica di Dio. In prospettiva analoga si inquadrano i profili biografici di Luigi Comollo, Domenico Savio, Michele Magone e Francesco Besucco, che possono essere definiti stilizzazioni edificanti di modelli di comportamento virtuoso accessibili a adolescenti e giovani di ambiente popolare ottocentesco: «sono in realtà primariamente messaggi selettivi con precise ed evidenti finalità educative»."

In queste Vite possiamo leggere espressioni care a don Bosco, più volte ripetute: che bisogna darsi a Dio per tempo; che la santità consiste nello stare allegri, evitando il peccato, che toglie la pace del cuore, e compiendo esattamente i doveri del proprio stato; che la confidenza col confessore o con un fedele amico dell'anima è uno dei segreti della riuscita morale e spirituale dei giovani; che si debbono fuggire come la peste i cattivi compagni; che i sacramenti della Penitenza e dell'Eucaristia sono i pilastri della vita spirituale; che lo spirito di preghiera rassoda e trasfigura la vita interiore di un giovane. Oltre ad una serie ricorrente di convinzioni di carattere educativo e pastorale, espresse in incisi didascalici o incarnate in personaggi e in atteggiamenti narrati: amare i giovani, usare loro amorevolezza e dolcezza, avvicinarli, assisterli per prevenire il male o correggerli, aiutarli a consolidarsi sul retto sentiero...

Tutto questo lo si rintraccia anche nelle Memorie dell'Oratorio, anzi in una prospettiva più ampia. In tale opera don Bosco mostra maggiore confidenza e scioltezza che in altre, ma anche più profondità e complessità. Infatti, mentre attua una rilettura dell'itinerario formativo personale centrato sulla realizzazione della vocazione-missione oratoriana, fa emergere la varietà delle sfaccettature che connotano i suoi quadri mentali, i tratti spirituali più consoni al suo mondo interiore, gli atteggiamenti educativi e pastorali che meglio qualificano il suo modello di educatore religioso, lo stile e le attività più originali e qualificanti del suo Oratorio. Possiamo dire di trovarci di fronte ad uno dei suoi scritti più personali, vivaci e intensi.

36 STELLA, Don Bosco, 113.

3.2. I tempi e le sollecitazioni che occasionano la composizione delle Memorie dell'Oratorio

Perché don Bosco si è tuffato in questa impresa in un periodo così intenso di lavoro e tanto travagliato della propria esistenza, tra 1873 e 1875?

La motivazione espressa nell'introduzione delle Memorie dell'Oratorio, quella del «comando di persona di somma autorità, cui non è permesso di porre indugio di sorta», va certamente presa in considerazione, ma affiancata da almeno altri due principali moventi. Il primo è la convinzione, consolidata col passare degli anni, che l'Oratorio fosse un'istituzione voluta da Dio come strumento per la salvezza della gioventù nei tempi nuovi, e che fosse venuto il momento di metterne in luce la genesi, le finalità e il metodo. Una persuasione che don Bosco condivideva con i collaboratori, ma anche con cerchie sempre più vaste di ammiratori e sostenitori e di quanti si riconoscevano nelle istanze del cattolicesimo d'azione. Il secondo stimolo derivava dal contesto in cui veniva a trovarsi in quegli anni l'opera salesiana: una contingenza "critica" per ragioni esterne e interne. Infatti, mentre si profilava la conclusione dell'iter di riconoscimento giuridico della Società salesiana con l'approvazione delle Costituzioni, don Bosco faticava ad ottenere piena libertà di azione nei confronti dei vescovi per la mancata concessione di quelle facoltà e privilegi, usualmente concessi ad altre famiglie religiose. Ad aggravare la situazione si aggiungevano incomprensioni reciproche con mons. Lorenzo Gastaldi arcivescovo di Torino.

Tutto questo poneva certamente a don Bosco problemi di discernimento, di fondazione "storica" col ritorno alle origini del suo impegno tra i ragazzi, di giustificazione e di informazione sulle sue scelte, che già nel 1854 lo avevano spinto a stilare un Cenno storico, e nel 1862 dei Cenni storici intorno all'Oratorio di S. Francesco di Sales," due documenti di grande rilevanza «storica e concettuale» .3 8

Era un atteggiamento abituale in lui, narratore per vocazione, il richiamo alla genesi e ai successivi sviluppi dell'Oratorio, ogni volta che si prefiggeva di stimolare l'appoggio delle autorità, la simpatia dell'opinione pubblica e la cooperazione economica.39

37 I due documenti, mai stampati da don Bosco, sono stati pubblicati in edizione critica da Pietro Braido, in In. (ed.), Don Bosco nella Chiesa a servizio dell'umanità. Studi e testimonianze, Roma, LAS, 1987, 34-59; 60-81.

38 Pietro BRAIDO, Don Bosco per la gioventù povera e abbandonata in due inediti del 1854 e del 1862, in ID. (ed.), Don Bosco nella Chiesa, 26-31.

39 Ricordiamo ad esempio la lettera al Vicario di Città (13 marzo 1846), quella agli amministratori della "Opera della mendicità istruita" (20 febbraio 1850), la circolare per una lotteria a favore della erigenda chiesa di S. Francesco di Sales (20 dicembre 1851), in Giovanni Bosco, Epistolario. Introduzione, testi critici e note a cura di Francesco Motto. I: 0835-1863), Roma, LAS, 1991, 66-67, 96-97, 139-141.

Tuttavia era un metodo usato preferibilmente e quasi istintivamente in ambito formativo, con i ragazzi, nelle conversazioni serali — le buone notti — o nelle prediche, e nell'intimità degli incontri con i suoi Salesiani.

È significativo rilevare come questa tendenza al racconto "storico", don Bosco la instillasse anche ai suoi collaboratori. Nel 1870, ad esempio, veniva pubblicata la Biografia del giovane Mazzarello Giuseppe, primo libro di Giovanni Battista Lemoyne, nel quale si legge un capitolo rievocativo delle vicende oratoriane dal 1841 al 1868, che pare attinto dalla viva voce di don Bosco più che da documenti scritti." Le Cronache stilate negli anni Sessanta da Giovanni Bonetti e Domenico Ruffino, e la Cronichetta del primo maestro dei novizi, Giulio Barberis, degli anni 1875-1879, documentano questo utilizzo della narrazione evocativa in funzione della formazione dell'identità dei discepoli, e insieme per soddisfare il loro desiderio di conoscere le «antichità dell'Oratorio», che li spingeva a stimolare i ricordi di don Bosco.'"

A partire dal 1863, ai fini di ottenere l'approvazione della Società Salesiana e delle sue Costituzioni, e più tardi anche con l'intento di ottenere i privilegi necessari alla piena indipendenza giuridica, don Bosco si impegnava a produrre documenti informativi sulla storia e l'identità della sua istituzione. Il più denso e significativo è un Cenno istorico,42 redatto nell'agosto 1873 e stampato nel febbraio 1874, nel quale si vede chiara l'intenzione di mettere in risalto il vincolo indissolubile esistente tra l'opera degli Oratori e la Società Salesiana. È evidente «il carattere non cronachistico, ma ideale e apologetico» di tali documenti "storici"»43

40 Giovanni Battista LEMOYNE, Biografia del giovane Mazzarello Giuseppe..., Torino, Tip. dell'Oratorio di S. Francesco di Sales, 1870, 78-91 (pubblicato nella collana «Letture Cattoliche» anno XVIII [1870] fase. n. 7). Il capitolo fu rettificato e ricomposto da don Bosco stesso per la seconda edizione del 1872. Interessanti sono le osservazioni metodologiche inviate da don Bosco al Lemoyne nella fase di composizione di questo libretto, il 3 novembre 1869, cf. Bosco, Epistolario..., III: (1869-1872), Roma, LAS, 1999, 150-151.

41 I quaderni della Cronichetta di G. Barberis sono conservati nell'Archivio Salesiano Centrale (ASC) A002 (qui si cita il quaderno 3, p. 46, 1° gennaio 1876); le Cronache di G. Bonetti e di D. Ruffino sono conservate in ASC A004 e A008.

42 Cenno istorico sulla Congregazione di S. Francesco di Sales e relativi schiarimenti, Roma, Tipografia Poliglotta, 1874 (OE XXV 231-250).

43 Cf. Pietro BRAIDO, L'idea della Società Salesiana nel "Cenno istorico" di don Bosco del 1873/74. Introduzione e testo critico, in «Ricerche Storiche Salesiane» 6 (1987) 245-331. Braido ci offre anche l'elenco completo dei documenti informativi prodotti da don Bosco tra 1863 e 1874 (ibid., 255-256).

Gli anni della composizione e della messa a punto delle Memorie dell'Oratorio sono dunque quelli che vedono il maggior impegno "storico-informativo" di don Bosco, sia per le ragioni esterne indicate — che lo spingeranno ancora nel 1879 a produrre una Esposizione alla S. Sede, documento sintomatico del suo modo di rielaborare la "storia" —,44 sia, e soprattutto, per motivi interni alla sue istituzioni. Molteplici ragioni lo spingevano a rivisitare la sua esperienza in considerazione della formazione dei discepoli e della focalizzazione dell'identità specifica della sua opera. In quel preciso lasso di tempo (tra 1873 e 1875) egli si vedeva costretto a ripensare l'idea dei "Salesiani esterni", rifiutata dalla Santa Sede, e a trasformarla nel nuovo progetto di Associazione o Unione di Cooperatori Salesiani. D'altra parte l'espansione della sua Congregazione fuori dei confini del Piemonte, sull'onda della fortuna dei collegi-convitti, gli richiedeva una messa a fuoco degli aspetti di identità e di metodo che dovevano caratterizzarla nei confronti di istituzioni analoghe, ripercorrendo la genesi e gli eventi che avevano dato vita all'Oratorio, considerato e proclamato come la matrice di ogni altra realizzazione. Così si inaugura quella stagione feconda di riflessioni e puntualizzazioni che, oltre alle Memorie dell'Oratorio, produrrà documenti di grande importanza per l'identità salesiana, come Il sistema preventivo nella educazione della gioventù.'"

4. "Storia" dell'Oratorio e indole "autobiografica" delle Memorie dell'Oratorio

Il titolo del documento ci ricorda, inequivocabilmente, l'intenzione di don Bosco di narrare le Memorie della sua prima istituzione assistenziale-educativa in favore della gioventù.

4.1. L'Oratorio come punto focale

Egli non è mosso dall'idea di consegnare ai posteri la storia delle propria vita,46 bensì principalmente dalla preoccupazione di delineare la vicenda e l'identità dell'Oratorio nella sua ispirazione, nei suoi destinatari, nelle condizioniche favorirono o ritardarono la sua progressiva realizzazione e negli elementi che ne distinguono la missione, il metodo e le connotazioni caratteristiche: «Mi fo qui ad esporre le cose minute confidenziali che possono servire di lume o tornare di utilità a quella istituzione che la divina provvidenza si degnò di affidare alla Società di S. Francesco di Sales».47

44 Esposizione alla S. Sede dello stato morale e materiale della Pia Società di S. Francesco di Sales nel marzo 1879, Sampierdarena, Tipografia Salesiana, 1879 (OE XXXI, 237-254). P. Stella scrive a proposito di questo singolare documento: «Le due pagine preambolari poste sotto il titolo di Brevi notizie sulla Congregazione di S. Francesco di Sales dall'anno 1841 al 1879 (p. 5s) si è tentati di dire che sono un meraviglioso aggregato di traslati, di notizie approssimative, dati inesatti: in parte forse per errore involontario, in parte per scelta consapevole di parole e di concetti» (STELLA, Apologia della storia, 9).

45 Edizione critica in Giovanni Bosco (san), Il sistema preventivo nella educazione della gioventù. Introduzione e testi critici a cura di Pietro Braido, Roma LAS, 1985.

46 Insiste molto su questa distinzione P. Braido, per reagire contro la tendenza prevalsa in passato ad assumere le Memorie dell'Oratorio come documento "storico", o cronaca d'eventi della vita di don Bosco in quanto tale (cf. BRAIDO, "Memorie" del futuro, 102).

47 Memorie, 57 (Introduzione).

I biografi del passato hanno sottovalutato questo obiettivo centrale e si sono concentrati prevalentemente sulla suggestiva narrazione del percorso formativo e dei primi anni di ministero del Santo, operando una lettura delle vicende svincolata dal disegno globale che aveva spinto l'Autore a selezionarle e ordinarle nella sua trama narrativa.

L'impegno di don Bosco di raccontare in funzione dell'Oratorio, come si è accennato, ha una lunga storia. Tuttavia le sintesi rievocative precedenti si differenziano in modo determinante dalle Memorie dell'Oratorio. Non solo la lettera al Vicario di Città del 1846 ed altre comunicazioni analoghe, ma anche il Cenno e i Cenni storici del 1854 e del 1862 si concentrano sulle motivazioni e le vicende immediatamente collegate al «Catechismo» iniziato presso la chiesa di S. Francesco d'Assisi, trasferito poi al Rifugio della marchesa di Barolo e all'Ospedaletto di Santa Filomena, migrato nella cappella di S. Martino presso i mulini della città, in quella del cenotafio di S. Pietro in Vincoli, nel prato dei fratelli Filippi, e finalmente, dopo l'approdo a casa Pinardi, diventato "Oratorio" a pieno titolo, con locali e cortile proprio, che può svilupparsi e prosperare. In quei documenti, fondamentalmente, don Bosco sintetizzava alcuni eventi in un racconto sommario, e ragguagliava sulle finalità, l'articolazione, le attività, gli operatori e i risultati di un'opera educativa e religiosa.

I destinatari, infatti, sono autorità e pubblico da informare e sensibilizzare, sostenitori e benefattori da mobilitare. Il "narratore" si esprime in quanto iniziatore e principale responsabile di un'attività educativa e pastorale a vantaggio di giovanetti poveri e abbandonati, che fa riferimento a moventi religiosi e civili, ma evita qualsiasi collegamento con la propria storia interiore.

4.2. Destinatari e finalità

Nelle Memorie dell'Oratorio invece, a livello narrativo, la storia dell'Oratorio si allaccia con la storia interiore del narratore e con quella dei discepoli-continuatori e si protende dal passato verso il futuro, in funzione normativa. Tali aspetti differenziano sostanzialmente questo dagli altri scritti di don Bosco, sia quelli semplicemente informativi sia quelli più propriamente "storico-concettuali".

In primo luogo gli interlocutori del discorso, esplicitamente indicati, sono — come si è detto — i suoi «carissimi figli Salesiani con proibizione di dare pubblicità a queste cose sia prima sia dopo la mia morte». Questa scelta rivela, innanzitutto, che l'obiettivo preponderante è quello pratico (e "ideologico") della trasmissione di un patrimonio familiare e intimo condiviso da Autore e lettori, accomunati spiritualmente nell'adesione totale della vita ad un ideale vocazionale. Dunque l'impresa del narrare è mirata alla formazione e all'animazione, in funzione di una missione, di un'identità e di un metodo. L'esclusione di lettori estranei libera l'Autore da ogni preoccupazione formale e stilistica, da cautele e riserve opportune a chi si rivolgesse ad un pubblico eterogeneo. La richiesta di riservatezza — tradizionale nei libri di famiglia — mira a difendere da sguardi critici i valori percepiti come fondanti, i sentimenti più intimi e familiari: «È un padre che gode parlare delle cose sue a' suoi amati figli, i quali godono pure nel sapere le piccole avventure di chi li ha cotanto amati, e che nelle cose piccole e grandi si è sempre adoperato a loro vantaggio spirituale e temporale».48

L'Autore, dunque, trascina il destinatario, gli «amati figli», nell'avventura di queste Memorie e li fa diventare, da un lato, parte attiva, in quanto discepoli interessati e complici, che condividono la prospettiva di valori e di realtà in cui si colloca l'operazione narrativa di conquista di un'identità; e d'altro lato interlocutori ai quali chiede di accettare la propria visione dei fatti, che è insieme storica e personale, di entrare in un mondo nello stesso tempo reale e poetico. Egli si dimostra consapevole della difficoltà che può sorgere in chi legge e cerca di prevederne le reazioni allo scopo di poterlo orientare. Qua e là si vede molto chiaramente come la presenza dei lettori condizioni la strategia narrativa di don Bosco. Emerge talvolta in modo diretto come una sorta di dialogo: «Voi mi avete più volte dimandato a quale età abbia cominciato ad occuparmi dei fanciulli [...]. Ascoltate»;49 «Da quello che si faceva un giorno festivo comprenderete quanto io faceva negli altri»;" «In quel momento voi avreste veduto, come vi dissi, l'oratore divenire un ciarlatano di professione»."

Il dialogo si riscontra anche nella forma indiretta, quando il racconto rimanda ad un possibile approfondimento da parte del pubblico: «La vita di questo prezioso compagno fu scritta a parte ed ognuno può leggerla a piacimento»;" «Per prima cosa ho compilato un regolamento [...]. Questo essendo stampato a parte ognuno può leggerlo a piacimento [...].

48 Memorie, 57-58 (Introduzione).

49 Memorie, 65 (I decade, capitolo 1; d'ora in poi: I, 1).

50 Memorie, 66 (I,1).

51 Memorie, 67 (I,1).

52 Memorie, 85 (I,8).

Compiute le Regole [della Compagnia di S. Luigi] nel limite che mi sembravano più adatte per la gioventù, le presentai all'arcivescovo [...]. Queste Regole si possono leggere a parte»;" «Molti giornali parlarono di quella solennità: vedansi L'Armonia e la Patria di que' giorni».54

A più riprese, l'Autore sembra voler prevedere le obiezioni e gli interrogativi dei lettori, preparando il terreno ad una giusta interpretazione e operando in forma metanarrativa: «Qui voi mi farete una dimanda: per andare alle fiere, ai mercati, ad assistere i ciarlatani, provvedere quanto occorreva per quei divertimenti, erano necessarii danari, e questi dove si prendevano? [...]. Voi qui mi dimanderete: e la madre mia era contenta che tenessi una vita cotanto dissipata e spendessi il tempo a fare il ciarlatano?».55 «Ma come studiare le lezioni? Come fare le traduzioni? Ascoltate [...]».56 «Qui è bene che vi ricordi come di que' tempi la religione faceva parte fondamentale dell'educazione»." «Nel vedermi passare il tempo in tante dissipazioni, voi direte che doveva per necessità trascurare lo studio»." «Voi forse direte: occupandomi in tante letture, non poteva attendere ai trattati».59

Il vertice di questa strategia di trascinamento dei lettori nelle vicende narrate si raggiunge col sogno della pastorellà, collocato nel passaggio dal Convitto a Valdocco, cioè dalla fase delle esperienze iniziali, di indole prevalentemente personale, a quella della realizzazione definitiva dell'Oratorio di carattere comunitario (colla partecipazione dei confratelli Borel, Pacchiotti e di altri). La metafora della mutazione di animali schiamazzanti in mansueti agnelli durante il percorso guidato dalla misteriosa «Signora», ora viene ripresa e arricchita. Negli agnelli trasformati in pastorelli, che crescendo «in gran numero, si divisero e andavano altrove per raccogliere altri strani animali e guidarli in altri ovili»,60 i figli di don Bosco erano e sono invitati a riconoscere se stessi come continuatori della provvidenziale missione, preconizzati fin dal principio, nell'esperienza profetica del sogno, quali parte viva della storia. Questo particolare introdotto dal racconto del sogno, interpella il lettore, lo invita non solo a leggere come spettatore, ma a prolungare quest'atto di lettura fino a sentirsi coinvolto nella storia stessa, appropriandosi dei suoi significati, adeguando la propria vita al messaggio e alla missione, operando un passaggio al soggettivo.

Dopo aver selezionato gli interlocutori, don Bosco specifica le finalità del lavoro di scrittura: «A che dunque potrà servire questo lavoro?

53 Memorie, 170 (I11,6).

54 Memorie, 193 (III,17).

55 Memorie, 67 (I,1).

56 Memorie, 72 (I,3).

57 Memorie, 83 (I,7).

58 Memorie, 96 (I,13).

59 Memorie, 118 (II,8).

60 Memorie, 134 (II,15).

Servirà di norma a superare le difficoltà future, prendendo lezione dal passato; servirà a far conoscere come Dio abbia egli stesso guidato ogni cosa in ogni tempo; servirà ai miei figli di ameno trattenimento, quando potranno leggere le cose cui prese parte il loro padre e le leggeranno assai più volentieri quando, chiamato da Dio a rendere conto delle mie azioni, non sarò più tra di loro»."

Prima di focalizzare la portata e l'influsso di questi obiettivi sulla scrittura di don Bosco, conviene far notare che la definizione delle motivazioni è una funzione primaria tipica di ogni scritto appartenente al genere autobiografico, inteso come scrittura di sé, e non semplicemente come documentazione storica o cronaca di fatti. Gli studiosi del genere rilevano che «la motivazione alla scrittura è tanto più necessaria e, per così dire, interna al testo, alla sua dinamica e struttura, quanto meno il testo è o si vuole, "letterario"». Nel passato e nel presente ogni Autore che si accinge a parlare di sé tende a rivolgersi ad un pubblico selezionato e a chiarire i suoi intenti con «premesse, prefazioni, avvertenze, ricreando, per un vezzo o per una segreta attrazione, quello spazio del "fuori testo" su cui si è sempre fondato il genere»."

In questa prospettiva vengono identificate cinque categorie motivazionali delle scritture autobiografiche: 1) la richiesta di un'autorità o di un amico, di figli o discepoli (è il caso di Teresa d'Avila e di Ignazio di Loyola); 2) la reazione difensiva o apologetica (J.J. Rousseau con le Confessions reagisce all'attacco di Voltaire; J.H. Newman nell'Apologia pro vita sua risponde a Kingsley;); 3) l'affermazione della propria identità in contrapposizione ad altri o per superare una crisi o come processo di maturazione che induce ad uno sguardo retrospettivo (è il caso di F.-R. de Chateaubriand); 4) la trasmissione di una testimonianza, di un insegnamento, di un bagaglio di valori e di esperienze, che promana dalla percezione dell'esemplarità della propria esperienza (tutta la letteratura autobiografica religiosa è permeata di spirito didattico, ma anche gran parte dell'autobiografia italiana risorgimentale); 5) il tempo perduto e ritrovato, l'approssimarsi della vecchiaia e della morte, che induce ad un recupero sintetico della propria esperienza, delle azioni e delle persone passate tramandandole ai posteri (è il caso delle Memorie di famiglia di F. Guicciardini, delle Memorie del card. Guido Bentivoglio e de I miei ricordi di M. d'Azeglio).63

Le pagine introduttive delle Memorie dell'Oratorio e lo sviluppo del testo ci mostrano come in esse siano presenti, con diversa rilevanza e accentuazione, queste cinque motivazioni o spinte alla scrittura autobiografica, in particolare la testimonianza-insegnamento e la ricerca-costruzione dell'identità oratoriana (quest'ultima non esplicitamente dichiarata, anche se perseguita lungo tutto il corso dello scritto).

61 Memorie, 57 (Introduzione).

62 Franco D'INTINO, L'autobiografia moderna. Storia forme problemi, Roma, Bulzoni Editore, 1998, 70-71.

63 Cf. D'INTINO, L'autobiografia moderna, 71-85.

Le finalità indicate da don Bosco lo spingono ad orientare la scrittura delle Memorie secondo una costruzione rievocativa molto complessa e articolata, che va ben oltre la descrizione dell'Oratorio in quanto opera con sue proprie finalità e metodo. Queste premesse vogliono avvertire come egli si accinga, con uno sguardo prospettico di tipo teologico-ideologico, a fare una ricognizione interpretativa del passato — un passato ben definito nella delimitazione cronologica espressa nel titolo — che intende ricollegare la genesi dell'istituzione oratoriana e la sua specificità a una traiettoria spirituale di tonalità vocazionale e missionaria aperta sul futuro, a un complesso di atteggiamenti, disposizioni interiori e scelte che si pongono come norma carismatica per i discepoli e a un'esperienza di fede e di docilità alle mozioni dello Spirito che postula continuo discernimento.

4.3. L'inizio e la mancata conclusione nell'architettura narrativa

Per questo motivo le Memorie non esordiscono, come il Cenno storico, con il resoconto di quelle situazioni puntuali che hanno determinato don Bosco ad avviare il Catechismo-Oratorio a partire dal 1841, ma principiano con l'inizio stesso della vita dell'Autore. L'incipit della narrazione, che anticipa di un giorno la data di nascita per farla coincidere con una festa mariana" — indicatore a prima vista secondario, tuttavia illuminante della prospettiva scelta, rafforzato da un'infinità di altri molto più espliciti, a cominciare da quello enunciato nell'esordio («far conoscere come Dio abbia egli stesso guidato ogni cosa in ogni tempo») —, coadiuva a proiettare da subito le Memorie in un orizzonte di storia provvidenziale e a caricare la vicenda personale di un significato e di una portata che ne trascende la singolarità, come patrimonio da condividere e tramandare.

L'inizio vero e proprio, verrebbe da dire, è "fuori-testo", a sottolineare che al di là dello scritto c'è un Soggetto divino, il «Dio misericordioso» padrone degli eventi e dei cuori, che continua a governare la storia singolare e sociale in prospettiva salvifica e redentiva, suscitando vocazioni e ispirando cammini; ma c'è anche un Soggetto umano, narrante, che è all'origine del testo stesso, presentato come versione autentica di una vicenda che è insieme personale ed "oratoriana".

Il documento però, dopo poche pagine, ci riserva una sorpresa che mette ulteriormente in luce la complessità e la problematicità dell'intreccio istituito tra storia personale e storia dell'Oratorio.

64 «Il giorno consacrato a Maria Assunta in cielo fu quello della mia nascita», Memorie, 58 (I, Dieci anni d'infanzia).

Si tratta del racconto dettagliato e drammatizzato, di un sogno fatto «al nono anno di età», esposto quale evento significativo che proietta la sua luce su tutto il resto delle Memorie dell'Oratorio: «Le cose che esporrò io appresso daranno a ciò qualche significato». Questo evento viene a inserirsi nella strategia del testo come il vero inizio della "memoria" oratoriana, determinandone la suddivisione in tre decadi. I Dieci anni d'infanzia (1815-1824) infatti sono rappresentati come un preludio significativo, ma non propriamente "oratoriano". Mentre il decennio 1825-1835, la Prima decade, principia appunto con la descrizione del narratore che si raffigura all'età di dieci anni, intento ad occuparsi dei fanciulli facendo «quello che era compatibile alla mia età e che era una specie di Oratorio festivo»."

In tal modo il sogno-inizio, rievocato con artifici letterari mutuati dalla forma romanzesca, assume un valore speciale: diventa prefigurazione di un testo storico-letterario, di cui anticipa consapevolmente i significati, le strategie, le strutture; diventa insomma il filo conduttore di una orchestrazione retorica finalizzata agli intenti dell'Autore. È significativo il fatto che proprio in senso profetico-prefigurativo esso sia stato interpretato nella tradizione salesiana, insieme con l'altro evento-simbolo, l'incontro con Bartolomeo Garelli, situato al centro cronologico e simbolico della Seconda decade (dunque di tutte le Memorie) e col sogno della "pastorella". A questi episodi, collocati rispettivamente all'inizio e a metà del cammino di realizzazione della vocazione-missione oratoriana, potremmo ricollegarne un quarto, narrato nel capitolo 7° della Terza decade: il dialogo con l'orfanello della Valle Sesia, «il primo giovane del nostro Ospizio», che completa idealmente l'architettura del racconto-memoriale oratoriano.

Pare quasi che qui, in qualche modo, don Bosco senta concluso il grande arco narrativo prefigurato nei simboli del sogno dei nove anni, come suggerisce il titolo generale premesso al capitolo successivo: Memorie storiche sull'Oratorio di S. Francesco di Sales, dal 1846 al 1855. Esso sembrerebbe una semplice ripetizione di quelli messi all'inizio dei tre quaderni del manoscritto, ma l'inserimento dell'aggettivo "storiche", assente nei precedenti, richiama quei Cenni storici del 1854 e del 1862, nei quali era evidente lo sganciamento tra la storia dell'istituzione e la vita interiore dell'Autore.

Le pagine che seguono, di fatto, denotano una frattura narrativa, una variazione della scrittura, una coloritura diversa rispetto all'unità compositiva fino a quel momento intessuta (anche l'analisi materiale e formale del manoscritto lo potrebbe confermare)." prevalentemente informa

65 Memorie, 65 (1,1).

66 il terzo quaderno del manoscritto di don Bosco (ASC, A222, cartella Oratorio 3, 141-180) è costituito di tre parti legate insieme: un quinterno di 20 fogli formanti un fascicolo di 40 pagine (numerate da 99 a 138; un foglio scritto sul retto e sul verso (numerati 139-140); un secondo quinterno di 20 fogli formanti un fascicolo di 40 pagine (numerate da 141 a 180). Quest'ultimo, che inizia appunto con il titolo Memorie storiche sull'Oratorio di S. E d. S. dal 1846 al 1855 e contiene la restante parte della terza decade, dal cap. 8° in poi, appare molto tormentato nella grafia e nella revisione, zeppo di cancellature e d'integrazioni; farebbe pensare ad una redazione avvenuta a distanza di tempo rispetto alle parti precedenti (di questo parere è DESRAMAUT, Les Memorie 1, 119, che colloca la redazione di questa parte tra 1878-1881).

La redazione ora diventativa, il racconto si trasforma in una cronaca dalla quale scompaiono trama e intrigo. Si succedono avvenimenti, cronologicamente ordinati e faticosamente amalgamati, che sfuggono al solido intreccio narrativo che aveva retto, più o meno coerentemente, le parti precedenti. Dopo il capitolo 18, la numerazione si arresta, per cedere il passo a semplici diciture. Il disegno narrativo pare essersi del tutto disciolto. Don Bosco si limita a raccontare dei fatti, uno dopo l'altro, in modo molto simile a quanto era solito fare negli altri memoriali informativi. Non si coglie più il precedente coinvolgimento personale e intimo. Si descrivono ingredienti e attività che caratterizzano la prassi oratoriana, se ne documentano i progressi, si rimanda a eventi politici e a divergenze tra i preti degli oratori, all'acquisto di terreni e stabili, alle costruzioni e alle iniziative editoriali. Soprattutto si citano documenti da consultare e ricopiare. Anche i rari quadretti narrativi poco hanno ormai di simbolico e di interiore ai fini della vocazione oratoriana. Si scivola infine nella descrizione di attentati e di aggressioni, frutto di un'ipotetica «trama personale segreta [...] ordita dai protestanti o dalla massoneria»," e si termina con la nota di colore del cane Grigio: un finale scialbo e tutto sommato strano per uno scritto tanto significativo e importante (anche se rimane un documento utile ad inquadrare il mondo mentale e culturale di don Bosco, la sua lettura provvidenziale degli eventi, il gusto per il meraviglioso e il soprannaturale, così arcaico e vicino ai gusti popolari del tempo).

In questa variazione della scrittura nella fase terminale, in questo arenarsi di giustapposizione aneddotica e in questa mancata conclusione, troviamo un'ulteriore caratteristica che apparenta le Memorie dell'Oratorio a tutta la letteratura di impronta autobiografica," dove il non-finito è piuttosto comune e dove la scrittura viene ripresa, integrata o modificata, l'elaborazione spesso è sofferta e tende ad introdurre materiali eterogenei (rimandando o copiando documenti, appunti, testi redatti in altre occasioni o già pubblicati); la redazione è quasi sempre «incerta, precaria, imperfetta, stratificata, doppia; è legata al periodo in cui matura, e non è mai isolabile dalla serie di appunti, schizzi, note e postille che la precedono, accompagnano e seguono: fa parte insomma di un contesto dal quale non si può prescindere».69

67 Memorie, 201 (111,22).

68 «Quanto più l'autobiografia è esteticamente strutturata, tanto più esordio e finale divengono elementi portanti del disegno narrativo e tendono, riallacciandosi a distanza, a formare un quadro le cui coordinate orientano tutto il testo. [...] Quanto meno, invece, l'autobiografia è esteticamente strutturata, tanto più rischia di interrompersi — casualmente — in un punto non stabilito precedentemente e con un finale poco 'significativo' dal punto di vista del disegno generale» (D 'INTINO, L'autobiografia moderna, 229).

69 D'INTINO, L'autobiografia moderna, 87.

4.4. Procedimenti messi in atto dall'Autore

I problemi derivanti dalla particolare ottica in cui si colloca il don Bosco delle Memorie dell'Oratorio nel suo sguardo verso il passato, vanno proiettati nell'orizzonte più vasto dei problemi interpretativi posti dalle storie di vita e dalle scritture di indole autobiografica." Le questioni dal punto di vista epistemologico sono vaste e complesse. Ci limitiamo ad accennare ad alcuni aspetti utili per introdurre ad una lettura avvertita del documento.

La mole di scritti autobiografici che attraverso i secoli è giunta fino a noi è sterminata. Questi autori hanno cercato la radice della propria identità o delle proprie realizzazioni nella loro stessa esistenza. I loro libri testimoniano percorsi spirituali e psicologici, quadri mentali e motivazionali, un loro modo di accostare gli eventi e interpretarli, ma prima ancora lo sforzo di dare unità e senso, storicità, al proprio vissuto.

Anche il procedimento ricostruttivo messo in atto nelle Memorie dell'Oratorio appartiene a questo tipo di operazioni. Don Bosco, a partire dalle prospettive che lo guidano nel presente, attua una ricostruzione dei fatti del passato attribuendo loro un senso. Inoltre, ripercorrendo la propria formazione, rivela a se stesso e a noi quanto sia stato aiutato o ostacolato nella costruzione della propria vocazione oratoriana da famiglia, persone incontrate, istituzioni, società e vicende storiche, e quanto queste relazioni ed esperienze siano entrate a far parte della sua coscienza e del suo "metodo". Infine, attuando questa riflessione "memorialistica" trasforma l'esperienza rivisitata (di sé, degli altri e delle cose) in una risorsa che gli permette di costruire un "sapere" spirituale e pedagogico per i propri interlocutori. Il suo è un procedimento ermeneutico orientato da una pre-comprensione derivante dal personale contesto ambientale e mentale, dai valori di riferimento, oltre che dalla vita raccontata.

70 Cf. Gaston PINEnu - Jean-Louis LE GRAND, Les histoires de vie, Paris, Presses Universitaires de France, 1993. La saggistica sull'autobiografia è vastissima; a titolo d'esempio indichiamo alcuni contributi di carattere generale: L'autobiografia: il vissuto e il narrato, «Quaderni di retorica e poetica» II (1986); Philippe LEJEUNE (ed.), Les récits de vie et l'institutions, «Cahiers de sémiotique textuelle» 8-9 (1986); Roy PORTER (ed.), Rewriting the self. Histories from the Renaissance to the present, London, Routledge, 1997. Si veda l'ampia bibliografia e la rassegna d'orizzonti teorici e storici fatta da D'INTrNo, L'autobiografia moderna, 15-66, 291 e 358,

Nelle Memorie dell'Oratorio don Bosco mette in atto complesse dinamiche di memoria, di selezione e interpretazione dei fatti e di organizzazione di essi in una trama, secondo un significato superiore unitario. È evidente che egli filtra le vicende, mentre ricostruisce l'insieme di un tratto di vita attorno al nucleo unificante della prospettiva-vocazione oratoriana. Alla coscienza che egli poteva avere nel momento in cui viveva gli eventi raccontati, subentra una coscienza "di secondo livello" costituita dal ritorno sui propri passi per riconoscere i legami di significato e di sbocco armonico dei vari elementi. È movimento retrospettivo e prospettico insieme. È lavoro di autoformazione, in cui, percependo in modo diverso gli eventi del passato e agendo su di essi, ricollegandoli cioè alla "storia" dell'Oratorio, intorno alla quale costruisce il suo discorso, organizzandoli su questo significato unitario, egli di fatto dà un contenuto nuovo a fatti vissuti senza tale percezione globale.71 Di questa operazione don Bosco dimostra in parte d'essere cosciente, come rivelano due espressioni conclusive della narrazione del sogno dei nove anni: «A suo tempo tutto comprenderai» e: «Le cose che esporrò io appresso daranno a ciò qualche significato».

Il processo di selezione operato nelle Memorie dell'Oratorio, si attua sia sui fatti — scegliendo quelli più significativi per il senso globale del racconto e scartandone molti altri —, sia sul loro significato, interpretandoli in prospettiva religiosa e secondo le preoccupazioni che lo muovono nel presente. Poi egli organizza gli avvenimenti in base al peso dato a ciascuno nella ricostruzione del disegno unitario che tutti li supera. Da questa progettazione nasce la trama e l'intreccio che reggono la strategia narrativa del suo racconto.

Don Bosco interpreta l'arco esistenziale che va dalla nascita alla realizzazione compiuta dell'Oratorio, giudicando il valore "storico" di fatti lontani e la significatività delle relazioni umane con uno sguardo retrospettivo. Stabilisce il loro rilievo in base agli eventi successivi e li riunisce in un unico disegno interpretativo di tipo provvidenziale. Questo è il filo conduttore scelto per rivelare l'intima connessione tra vicende vissute in diversi piani temporali: infanzia, giovinezza, maturità e presente del narratore. È un tipo di racconto che privilegia il punto di arrivo della storia; che dà senso a tutti gli episodi organizzandoli in una totalità intelligibile."

Alla conclusione del percorso narrativo delle Memorie, avvertiamo che il testo si configura come una continua ricerca dei tratti caratteristici dell'Oratorio nel tessuto di una esistenza che l'Autore sente segnata da una vocazione divina.

71 Su questi procedimenti tipici di ogni ricognizione autobiografica cf. la prefazione di Laura Formenti all'edizione italiana di Malcom S. KNowtEs, La formazione degli adulti come autobiografia, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1996, x-xvi.

72 Su questa "configurazione" dell'esperienza vissuta che si opera attraverso la narrazione, si vedano le interessanti riflessioni di Paul RICCEUR, Tempo e racconto, I, Milano, Jaca Book, 1996, 108-117.

Lo vediamo nelle narrazioni di situazioni che, nella sua ottica, preludono e anticipano l'Oratorio, come i Primi trattenimenti con i fanciulli all'età di dieci anni («Era una specie di Oratorio festivo»)," la cura dei giovanetti nelle vacanze precedenti la vestizione («Era quella una specie di Oratorio, cui intervenivano circa cinquanta fanciulli, che mi amavano e mi ubbidivano, come se fossi stato loro padre»)74 e le norme che regolavano le riunioni della Società dell'Allegria nel periodo della frequenza al Collegio di Chieri75. Ma anche nella descrizione dei catechismi nell'inverno 1841-1842, precocemente definiti "Oratorio": «Nel corso pertanto di quell'inverno mi sono adoperato di consolidare il piccolo Oratorio [...]. Qui l'Oratorio si faceva così: ogni giorno festivo si dava comodità di accostarsi ai santi sacramenti della confessione e comunione; ma un sabato ed una domenica al mese era stabilita per compiere questo religioso dovere. La sera ad un'ora determinata si cantava una lode, si faceva il catechismo, poi un esempio colla distribuzione di qualche cosa ora a tutti ora tirata a sorte»."

Lo scopriamo soprattutto quando vengono messi in scena personaggi rappresentativi, in negativo o in positivo, di stile e metodo oratoriano, come — per citarne solo un paio — il prevosto di Castelnuovo col suo viceparroco nel loro atteggiamento distaccato verso il protagonista ragazzo («Se io fossi prete vorrei fare diversamente; vorrei avvicinarmi ai fanciulli, vorrei dire loro delle buone parole, dare dei buoni consigli»)" e il professore di umanità don Banaudi («Era un vero modello degli insegnanti. Senza mai infliggere alcun castigo era riuscito a farsi amare da tutti i suoi allievi. Egli li amava tutti quai figli, ed essi l'amavano qual tenero padre»)."

La lettura accurata del documento mostra, pressoché ad ogni capitolo, che il punto finale — l'articolata e vivace realtà dell'Oratorio di S. Francesco di Sales nei primi anni Cinquanta, con i suoi fini, il suo metodo educativo, le sue proposte formative, i suoi ritmi di vita e il suo tipico modello di pastore-educatore —, è stato di fatto il filtro con il quale don Bosco ha operato la sua rivisitazione autobiografica a vantaggio dei discepoli.

5. Le Memorie dell'Oratorio come testo narrativo

Il don Bosco scrittore delle Memorie dell'Oratorio è sobrio, essenziale, chiaro. Ma anche efficace nel ricreare l'ambiente, caratterizzare i personaggi e le relazioni, variare gli scenari, restituire i momenti di gioia, di preoccupazione o di tensione e in alcuni casi anche i sentimenti.

73 Memorie, 65 (I,1).

74 Memorie, 100 (I,14).

75 Memorie, 81-82 (1,7).

76 Memorie, 130 (11,13).

77 Memorie, 75 (I,4).

78 Memorie, 88 (I,9).

5.1. La scrittura di don Bosco

In trent'anni di esercizio come pubblicista preoccupato di farsi comprendere dai ceti giovanili e popolari, il suo stile narrativo si è perfezionato; egli dimostra un buon mestiere di narratore. Gli interventi correttivi sulla prima stesura delle Memorie dell'Oratorio non paiono mirati all'affinamento dello stile, ma prevalentemente alla semplificazione del testo, a renderlo scorrevole e chiaro.

La scrittura di don Bosco è più immediata e nitida quando egli si impegna in racconti e descrizioni di fatti più volte narrati a voce o nell'esposizione di alcuni "sogni" ricostruiti con abbondanza di particolari. Il sogno dei nove anni è presentato come un copione cinematografico, con indicazioni essenziali sull'aspetto dei personaggi, i dialoghi serrati e sintetici, i sentimenti del protagonista appena accennati, mentre ragazzi rissosi, dnimali feroci e miti agnelli variano il fondale della scena.

Particolarmente scorrevole è la stesura dei dialoghi; fluidissima anche a livello di grafia. Sulle pagine del manoscritto originale si vede che don Bosco non ha incertezze, scrive velocemente e non torna indietro a correggere: si direbbe che il dialogo è nella sua mente, nitido nelle battute. Si direbbe che la modalità dialogica riveli una forma espressiva a lui congegnale, preferita nella comunicazione familiare, espressione di una struttura mentale. Ed è così, infatti: don Bosco amava descrivere incontri e situazioni costruendo in forma drammatica dialoghi diretti e scambi di battute tra i personaggi, con vivacità. Le Memorie dell'Oratorio contengono una documentazione abbondante.

A volte il dialogo mira a restituire gli atteggiamenti educativi e pastorali a lui più cari, come nell'incontro tra Giovanni ragazzo e il vecchio don Calosso, nella scena altamente simbolica del colloquio con Bartolomeo Garelli o nel dialogo esemplificativo del suo modo di indurre i ragazzi più reticenti alla confessione." Altre volte i valori messi in campo sono quelli apologetici e la conversazione prende il tono della dimostrazione o della disputa, come nel caso della crisi di Giona, del confronto con la madre di lui o nella discussione con gli anonimi personaggi che tentano di dissuaderlo dall'impresa delle Letture Cattoliche." È un genere caro a don Bosco, più volte utilizzato nei libretti composti a partire dal 1853.81

79 Memorie, 69-71 (1,2); 127-129 (II,12); 157-158 (III,1).

80 Memorie, 89-91 (I,10); 200-201 (III,[21]).

81 Don Bosco si dimostra particolarmente adatto nella scrittura di dialoghi con finalità catechistica e apologetica, come ad esempio, Il cattolico istruito nella sua Religione. Trattenimenti di un padre di famiglia co 'suoi figliuoli, 1853 (OE IV, 195-646); Una disputa tra un avvocato e un ministro protestante, 1853 (OE V, 101-168); Conversazioni tra un avvocato ed un curato di campagna sul sacramento della confessione, 1855 (OE VI, 145-272); Due conferenze tra due ministri protestanti ed un prete cattolico sopra il purgatorio e intorno ai suffragi dei defunti, 1857 (OE IX, 19-164).

Quando invece si tratta di ricordare momenti critici, in cui le obiezioni nei confronti della sua azione rischiano di compromettere la realizzazione o l'identità dell'Oratorio, il dialogo si fa appassionato e concreto, tematizzando i valori che lo ispirano. Così il narratore, rispondendo alle difficoltà sollevate da due parroci, illustra la propria ottica pastorale; resistendo alle ingiunzioni del Vicario di Città dimostra le sue convinzioni sull'efficacia sociale dell'educazione oratoriana; nel confronto con la marchesa di Barolo mette in risalto la certezza di una missione divina che lo spinge all'abbandono in Dio nonostante le preoccupazioni di salute o l'incertezza delle risorse umane.82

Che si tratti di momenti di grande valore spirituale, come il colloquio con don Cafasso per la scelta di un'occupazione dopo il periodo passato al Convitto, o di scene di vita quotidiana, in cui traspare la cultura e lo stile tipico del mondo popolare torinese, come l'intesa per l'acquisto della casa Pinardi, emerge sempre un'evidente abilità compositiva lungamente affinata."

Non mancano quadretti di caratterizzazione tipologica con venature caricaturali, dove la scrittura risulta efficacissima. In pochi tratti don Bosco abbozza la figura fisica della madre di Giona e della serva del cappellano di S. Pietro in Vincoli." Illustra vivacemente scene buffe come quelle che lo vedono coinvolto col severo professor Cima o nella difesa del timido Comollo; alle prese coll'ingenuo sarto Cumino o col prudente canonico Burzio; nella gestione di un gruppo di contadini brilli durante un festino di campagna o del tentativo del suo internamento in manicomio; di fronte al divertente equivoco tra "oratorio" e "laboratorio" del balbuziente Pancrazio Soave o alla scena dell'arcivescovo che urta la mitra nel soffitto della cappella Pinardi; o, infine, nel suo confronto colle agguerrite lavandaie di Porta Nuova."

Egli sa anche costruire piccoli ma compiuti racconti d'avventura, come la gara col saltimbanco, la caduta da cavallo sulla strada tra Cinzano e Bersano, il tentativo di avvelenamento nella taverna del Cuor d'Oro e la pioggia di bastonate ricevute nella stanza di una falsa ammalata."

Nella strategia delle Memorie dell'Oratorio, questa capacità di caratterizzazione, unita alla varietà di toni e sfumature della scrittura di don Bosco, è messa a servizio di un programma narrativo di grande intensità simbolica e operativa, che fa del testo un documento significativo di un tipico modo di scrittura ottocentesca, minore rispetto alla grande narrativa, ma non per questo scadente o secondaria.

82 Memorie, 143-144 (II, 19); 148-149 (II,21); 150-151 (11,22).

83 Memorie, 132-133 (I1,14); 187-188 (III,15).

84 Memorie, 90-91 (I,10); 141 (11,18).

85 Memorie, 79-80 (I,5); 86 (I,8); 93-94 (I,11); 110-111 (II,5); 151-152 (11,22); 152-153 (11,23); 171 (III,6); 174 (III,8).

86 Memorie, 95-96 (I,12); 122-124 (11,10); 201-204 (111,[22]-[23]).

5.2. Struttura del testo

Per quel che riguarda l'ordine della narrazione, le Memorie dell'Oratorio presentano gli stessi problemi che si pongono negli scritti di indole narrativa, con qualche complicazione in più." Infatti, qui gli avvenimenti non sono immaginati, come nelle opere di finzione nate dalla fantasia, ma sono stati realmente vissuti dall'Autore, il quale scrivendo deve lavorare su una varietà di ricordi, vicende, emozioni e sensazioni sperimentate in periodi diversi. Nel racconto li deve riorganizzare in un ordine lineare, che non può essere quello dei fatti così come sono accaduti, né quello casuale delle associazioni e dei pensieri che si presentano alla sua mente mentre lavora. Scegliendo l'Oratorio di san Francesco di Sales come argomento centrale del racconto autobiografico, don Bosco traccia mentalmente le connessioni tra eventi di una vicenda che si è sviluppata nel tempo.

Questo schema determina l'intessitura delle Memorie dell'Oratorio: dal titolo alle ultime pagine si tratta sempre di una "memoria" dell'Oratorio presentata in ordine cronologico-generativo. Ma chi analizza attentamente il testo, si accorge che al di sotto della suddivisione in decadi e in capitoli (che chiamiamo "struttura di superficie"), si delinea anche una "struttura profonda", costituita dai sistemi di valore di don Bosco, dalle sue convinzioni e dai suoi quadri mentali, che sottostà come in filigrana a tutto il testo ed emerge libera al di là della ripartizione formale.

Nell'introduzione don Bosco dichiara i criteri scelti per l'organizzazione del lavoro: «Io espongo queste memorie ripartite in decadi ossia in periodi di dieci anni, perché in ogni tale spazio succedette un notabile sviluppo della nostra istituzione». Questa è la macro struttura che scandisce il testo. All'interno di ogni decade i singoli capitoli evidenziano ora l'itinerario formativo del personaggio, ora la progressiva comparsa e configurazione degli elementi che caratterizzeranno l'Oratorio.

Ma la narrazione fa emergere anche una struttura spaziale. Infatti don Bosco attribuisce un valore particolare alle località e agli ambienti in cui si è sviluppata la sua vocazione oratoriana.

87 Sulle strutture, gli intrecci e i modelli comunemente utilizzati nei testi narrativi di indole autobiografica, cf. D'INTINO, L'autobiografia moderna, 159-206.

Essi si presentano quasi punti di una mappa simbolica: il rurale borgo nativo, la casa con l'aia e il prato, la cappella di Morialdo, il paese di Castelnuovo, la città di Chieri con le case, le scuole, il caffè Pianta, il viale di Porta Torinese e il Duomo, il seminario con i suoi ambienti, la città di Torino, le sue strade, le piazze, le chiese, le carceri, le istituzioni caritative, i sobborghi e i prati di periferia, i santuari dei dintorni, e infine l'Oratorio di Valdocco con la sua tettoia-cappella, le stanzette per le scuole e il cortile per la ricreazione. Tutta questa varietà e successione di luoghi diventa a sua volta importante principio organizzativo del racconto, accanto a quello cronologico e tematico.

Agli spazi si collegano valori, esperienze educative e spirituali. Il cambiamento di luogo assume il significato di un pellegrinaggio verso la terra promessa dell'Oratorio, la sua missione e identità. L'Oratorio viene "ispirato" nell'intimità misteriosa del sogno; vede una lunga fase di preparazione negli anni della fanciullezza, dell'adolescenza e della giovinezza del narratore; principia il suo cammino nell'ambiente fecondo del Convitto ecclesiastico; peregrina di tappa in tappa nella geografia della Torino giovanile e popolare, crescendo e acquistando tutti i sui tratti qualificanti, fino alla «dimora stabile» a Valdocco, nel «sito dove aveva sognato scritto: Haec est domus mea, inde gloria mea»."

Così, la «struttura di superficie» del racconto si presenta disegnata nell'intersezione delle tre coordinate di tempo, di spazio e di nucleo tematico portante.

La ripartizione del testo delle Memorie dell'Oratorio è sostanziata di eventi, di personaggi, di osservazioni, commenti e annotazioni che sono frutto di una struttura più profonda, quella derivante dalla mentalità di don Bosco, dalla sua cultura .e visione del mondo, dalle convinzioni civili e religiose, educative e morali, dalla sua spiritualità e dal suo "progetto formativo". Gli studiosi di semiotica dei testi narrativi parlerebbero di una intentio operis (intenzione dell'opera) che si rivela più ampia della intentio auctoris (intenzione dell'Autore) esplicitamente dichiarata nel programma iniziale."

In sintesi. Alla base dell'opera c'è "l'uomo don Bosco", con tutto il suo universo che ad ogni pagina tende continuamente ad emergere. Ci è possibile così tentare una lettura delle Memorie dell'Oratorio che permette di penetrare un messaggio articolato, costituito non solo da quanto l'Autore intendeva dire, ma anche da quanto il testo di fatto dice in riferimento alla propria coerenza contestuale e alla situazione dei sistemi di significazione a cui si rifà.

Questo elemento profondo, vivacissimo nelle Memorie, conferisce al documento la sua alta valenza polisemica e la sua preziosità, sia per lo storico attento all'antropologia culturale che per il discepolo preoccupato di cogliere la portata pedagogico-spirituale del messaggio e di comprendere le dinamiche interiori del modello oratoriano, al di là delle semplici connotazioni operative.

88 Memorie, 155 (111,1).

89 Cf. Umberto Eco, I limiti dell 'interpretazione, Milano, Bompiani, 1990, 11.

Struttura di superficie e struttura profonda arricchiscono lo scenario di scorci e piani prospettici plurimi, con sfumature e tonalità tali da interessare un grande ventaglio di lettori dai diversi interessi. Le fortune antiche e recenti delle Memorie ci hanno dimostrato quanto questa "storia" abbia saputo affascinare Salesiani e giovani, lettori sprovveduti e studiosi avvertiti.

6. Percorsi di lettura e livelli di interpretazione

Per una lettura feconda del testo, che riesca ad evidenziarne le ricchezze e gli insegnamenti carismatici si devono tenere presenti alcune avvertenze.

Innanzitutto, don Bosco scrive per comunicare un messaggio a destinatari ben definiti. I «carissimi figli Salesiani» ai quali si rivolge sono persone a lui legate che condividono vitalmente i suoi valori e con lui hanno in comune linguaggio, mentalità, cultura e stile di vita. Essi sono parte di quell'istituzione di cui sta raccontando la genesi, in essa sono stati plasmati e di essa sono protagonisti attivi. È evidente che l'Autore non intende rivolgersi soltanto ai Salesiani del suo tempo, ma anche a quelli che verranno.

Tuttavia — e bisogna esserne consapevoli — i "lettori ideali" che egli ha in mente nell'atto di scrivere sono connotati da tratti mentali e sensibilità che erano quelle dei destinatari degli anni Settanta dell'Ottocento. Quando ci imbattiamo in termini quali «obbedienza», «confidenza in Dio», «ritiratezza», «volontà di Dio», oppure in espressioni come «darsi tutto al Signore», «esatto adempimento dei doveri», «a maggior gloria di Dio e a vantaggio delle anime», dobbiamo renderci conto che esse vanno interpretate in riferimento ai quadri teologico-antropologici, alle sensibilità spirituali, e alle pratiche di vita tipiche di un mondo altro dal nostro. Simili riflessioni si possono fare per il lessico pedagogico: i verbi «educare», «curare», «istruire», «assistere» e i termini «amorevolezza», «affezione», «confidenza», «obbedienza», con i mutamenti storico-sociali e l'evoluzione delle scienze umane e delle pratiche educative, hanno subìto, talvolta anche in ambiente salesiano, slittamenti semantici non irrilevanti. La stessa percezione della situazione dei destinatari dell'opera oratoriana è mutata. I «giovanetti abbandonati», i «fanciulli percolanti», quelli «usciti dal carcere», quelli visitati lungo la settimana «in mezzo ai loro lavori nelle officine, nelle fabbriche», «la gioventù più abbandonata e pericolante», i «poveri figli del popolo» che si affollavano nel cortile di casa Pinardi «a giuocare alle bocce, alle piastrelle, alle stampelle», che assiepavano la cappelletta dell'Oratorio per le devozioni e le confessioni e che si entusiasmavano per quella «mescolanza di divozione, di trastulli, di passeggiate», quelli che dopo una faticosissima giornata di lavoro si radunavano nelle stanze attigue per la scuola serale, appartengono ad una realtà sociale e culturale del tutto tramontata.

Dunque, la lettura di un testo come questo, che, per essere narrativo, pare di facile interpretazione, richiede una certa avvertenza, un inquadramento storico di base e l'acquisizione di un lessico e di un'enciclopedia adatti ad una piena comprensione delle intenzioni dell'Autore (intentio auctoris) e delle ricchezze insite nella trama narrativa delle Memorie (intentio operis).

Inoltre, bisogna partire sempre dalla consapevolezza che è il testo stesso a fornire le indicazioni per comprendere le linee generali dei messaggi che vuole trasmettere. Fin dalle prime righe la strategia narrativa di don Bosco cerca di accompagnare il lettore su sentieri ben definiti. Egli suggerisce sia la chiave interpretativa generale — che è quella di una storia provvidenziale condotta direttamente da Dio per la "salvezza" dei giovani — sia una serie di altri indicatori più particolari, che stimolano la formulazione di congetture interpretative aderenti alle domande emergenti dalla situazione in cui oggi ci troviamo ad operare." Una volta individuate, queste ipotesi interpretative possono aprire piste di lettura per accedere, al di là degli eventi narrati, a livelli più profondi, nei quali siamo messi a contatto con la mentalità, le visioni e le convinzioni più care a don Bosco, colla percezione che egli ha della missione propria e dei discepoli.

Per evitare forzature nell'individuazione delle chiavi interpretative, si deve partire dal senso letterale del testo, che fornisce la base sulla quale è possibile articolare altre eventuali letture interpretative. Inoltre va rispettato il criterio di coerenza testuale, col quale vanno confrontate le congetture interpretative.91

Segnaliamo due possibili percorsi di lettura: quello delle dinamiche della vita spirituale e quello del modello di educatore-pastore emergente dal racconto."

90 Negli studi dei semiologi si usa il concetto di topic interpretativo: è una ipotesi interpretativa, stabilita dal lettore stesso, che la deduce dalla coerenza generale del testo oppure da parole-chiave o da espressioni-guida esplicitamente contenute in esso (cf. Umberto Eco, Lector in fabula. La cooperazione interpretativa nei testi narrativi, Milano, Bompiani, 1998, 87-92).

91 Eco, I limiti dell'interpretazione, 34.

92 I nuclei principali del sistema educativo emergenti dalle Memorie vengono illustrati in BRAIDO, "Memorie" del futuro, 114-167: 1. La vocazione educativa; 2. L'Oratorio, istituzione giovanile onnicomprensiva, come esperienza fondante; 3. La nascita della casa annessa e il suo scopo; 4. L'assistenza come azione benefica globale; 5. Rispondere a tutti i bisogni dei giovani "abbandonati" in prospettiva umanizzante («buoni cristiani e onesti cittadini»); 6. La religione come fondamento; 7. La carità educativa come amore effettivo e affettivo; 8. Il valore della gioia e della festa; 9. L'educatore e il rapporto educativo.

6.1. Un itinerario spirituale

Le chiavi interpretative presentate nell'introduzione delle Memorie invitano innanzitutto ad una lettura spirituale del testo. In questa prospettiva gli stimoli offerti dal racconto sono molti e suggeriscono diverse «passeggiate» nel bosco narrativo delle Memorie," delineano diversi percorsi intratestuali. Ci limitiamo a indicare due temi che continuamente si intrecciano e si attraversano in momenti salienti della narrazione: la confidenza in Dio e la ritiratezza — termine desueto che non ha un corrispettivo nel linguaggio contemporaneo, ma che, nell'uso di don Bosco, include il raccoglimento interiore, la difesa di pensieri e sentimenti da ogni forma di dispersione o dissipazione, insieme ad una vita ritirata e laboriosa.

6.1.1. Confidenza in Dio, fiducia nei formatori e consegna di sé

Prendiamo le mosse dalla morte di Francesco Bosco, evento di cui il racconto restituisce il drammatico impatto sulla coscienza del figlio bambino." Il padre morente, unico sostegno della famiglia, affida la moglie e i figli alla provvidenza del Padre celeste, raccomandando la «confidenza in Dio». L'importanza di questo atteggiamento, come elemento fondante della prospettiva in cui l'Autore proietta la ricostruzione di tutta la storia personale ed oratoriana, è segnalata dalla ripresa dell'espressione nelle pagine seguenti. Sono situazioni nelle quali il senso della "confidenza" viene tradotto in un comportamento di abbandono fiducioso, ma anche di coraggiosa intraprendenza.

Innanzitutto ci imbattiamo nell'episodio della madre che deve affrontare un momento critico per sé e per i figli; lo fa senza perdere la calma, richiamandosi alla raccomandazione del marito e traducendola in scelte operative." Gli eventi successivi servono a delineare ulteriormente il complesso di atteggiamenti che nella mente dell'Autore attua la "confidenza", a partire dalla rappresentazione esemplare di Margherita, sintesi di fiducia nella provvidenza, di operosità, di spirito di sacrificio, di frugalità e di dedizione educativa."

Anche la complessa costruzione narrativa del sogno dei nove anni implicitamente richiama la confidenza in quel Dio che indica al protagonista sia la missione sia i percorsi per rendersi idoneo a compierla.

93 Cf. le suggestioni di Umberto Eco, Sei passeggiate nei boschi narrativi, Harvard University, Norton Lectures 1992-1993, Milano, Bompiani, 1994.

94 Cf. Memorie, 59-60 (I, Dieci anni d'infanzia).

95 «Mio marito, prese a parlare, morendo dissemi di avere confidenza in Dio. Venite adunque, inginocchiamoci e preghiamo. Dopo breve preghiera si alzò e disse: — Nei casi estremi si devono usare mezzi estremi. Quindi...» Memorie, 60 (I, Dieci anni d'infanzia).

96 Cf. Memorie, 60-61 (I, Dieci anni d'infanzia).

Confidenza, affidamento e dono di sé sono sfaccettature di un unico movimento di fede pervaso dal senso di corrispondenza alla chiamata del Signore. Molti sono gli indicatori "fuori testo" dell'importanza attribuita da don Bosco a un tale movimento dello spirito. L'appello a «darsi per tempo» a una vita virtuosa, enunciato fin dal 1847 nel Giovane provveduto,97 ripreso in più circostanze negli scritti e nei discorsi rivolti ai giovani, trovò una formulazione compiuta nella descrizione del modo in cui i suoi giovani migliori avevano risposto alla chiamata divina e intrapreso il cammino di perfezione."

Ora le Memorie introducono esplicitamente lo stesso appello narrando il dialogo tra don Calosso e Giovanni Bosco ragazzo: «Ti ricordi di che cosa si trattò nella prima predica? — Nella prima predica si parlò della necessità di darsi a Dio per tempo e non differire la conversione»." È un indizio testuale significativo che getta luce sugli sviluppi del fortunato incontro: «Io mi sono tosto messo nelle mani di D. Calosso [...]. Gli feci conoscere tutto me stesso. Ogni parola, ogni pensiero, ogni azione eragli prontamente manifestata [...]. Conobbi allora che voglia dire avere una guida stabile, di un fedele amico dell'anima [...]. Da quell'epoca ho cominciato a gustare che cosa sia vita spirituale».100 L'affidamento amoroso e incondizionato del discepolo induce l'anziano sacerdote ad andare oltre il semplice insegnamento del latino, al quale si è prestato, e a farsi guida spirituale per aiutarlo a tradurre in atto il dono di sé a Dio.

97 Giovanni Bosco, Il giovane provveduto per la pratica de' suoi doveri..., Torino, Tipografia Paravia e Comp., 1847, 12-13.

98 Parlando dell'avventura spirituale di Michele Magone, don Bosco scrive: «noi abbiamo un giovanetto che abbandonato a se stesso era in pericolo di cominciar a battere il tristo sentiero del male; ma che il Signore invitò a seguirlo. Ascoltò egli l'amorosa chiamata e costantemente corrispondendo alla grazia divina giunse a trarre in ammirazione quanti lo conobbero, palesandosi così quanto siano maravigliosi gli effetti della grazia di Dio verso di coloro che si adoperano per corrispondervi». Riporta poi la testimonianza del professore che descrive «il suo totale cangiamento si nel fisico che nel morale» dopo la conversione: «Credo che questo cangiamento esterno derivasse dalla presa deliberazione di volersi dare tutto alla pietà» (Giovanni Bosco, Cenno biografico sul giovanetto Magone Michele allievo dell'Oratorio di S. Francesco di Sales, Torino, Tip. G.B. Paravia e Comp., 1861, 5 e 35, in OE XIII, 159, 189).

99 Memorie, 70 (I,2).

100 Memorie, 71 (I,2).

Ma a questo punto la strategia narrativa delinea una situazione che mostra come la confidenza in Dio — contrapposta alla fiducia nelle risorse umane — sia l'atteggiamento più adatto per chi vuole seguire una chiamata dall'alto. Il testo descrive il rapporto singolare del protagonista con don Calosso. Giovanni per la prima volta sperimenta la serenità e la sicurezza derivata da una provvida presenza paterna, alla quale si abbandona: «D. Calosso per me era divenuto un idolo. L'amava più che padre [...]; più volte ebbe a dirmi: —Non darti pena pel tuo avvenire; finché vivrò, non ti lascerò mancare niente; se muoio ti provvederò parimenti».101 La fortuna derivata dall'incontro e l'appagamento affettivo, tuttavia, inducono il ragazzo in errore. La sicurezza delle risorse umane soppianta l'affidamento alla Provvidenza. È un errore che il «disastro irreparabile» della morte di don Calosso fa emergere, troncando ogni speranza e aprendo una grave crisi affettiva e spirituale.102 Sarà necessaria una rivelazione per illuminare il difetto di prospettiva e far superare lo smarrimento: «A quel tempo feci un altro sogno secondo il quale io era acremente biasimato perché aveva risposta la mia speranza negli uomini e non nella bontà del Padre celeste».1"

Il filo del racconto delinea anche le tappe e il punto di arrivo del cammino interiore del protagonista per la realizzazione di una completa confidenza in Dio. Il colloquio con la marchesa di Barolo, che preoccupata della sua salute lo invita ad abbandonare il lavoro tra i giovani, è costruito in modo da motivare la rinuncia all'impiego e allo stipendio come atto di obbedienza alla chiamata divina e di pieno abbandono alla Provvidenza: «Ma come potrà vivere? — Dio mi ha sempre aiutato e mi aiuterà per l'avvenire [...]. La mia vita è consacrata al bene della gioventù. La ringrazio delle profferte che mi fa, ma non posso allontanarmi dalla via che la divina Provvidenza mi ha tracciato [...]. Accettai il diffidamento, abbandonandomi a quello che Dio avrebbe disposto di me».'°4 Il contesto narrativo del dialogo restituisce una situazione di sconfortante isolamento, causata dall'incomprensione dei parroci, dell'autorità civile e degli amici più intimi, unita all'esaurimento delle forze e alla totale incertezza sul futuro. Tutto ciò esalta la sua scelta e la sua fede coraggiosa per rispondere alla missione ricevuta. La tensione drammatica con la quale viene narrato lo smarrimento provato dal protagonista nel prato Filippi e la preghiera da lui innalzata, configura un atteggiamento spirituale di remissione assoluta:

In sulla sera di quel giorno rimirai la moltitudine di fanciulli, che si trastullavano; e considerava la copiosa messe, che si andava preparando pel sacro ministero, per cui era solo di operai, sfinito di forze, di sanità male andata senza sapere dove avrei in avvenire potuto radunare i miei ragazzi. Mi sentii vivamente commosso [...]. Passeggiando e alzando gli occhi al Cielo, mio Dio, esclamai, perché non mi fate palese il luogo in cui volete che io raccolga questi fanciulli? O fatemelo conoscere o ditemi quello che debbo fare?105

101 Memorie, 73 (I,3).

102 «Con lui moriva ogni mia speranza», Memorie, 73 (I,3).

103 Memorie, 75 (I,4).

104 Memorie, 151 (11,22).

103 Memorie, 152 (11,23).

Condotti dalle dinamiche del racconto, assistiamo all'epilogo del cammino interiore di un uomo che, dopo aver testardamente battagliato contro tutto per non arrendersi nel compimento della missione — seguita fin dall'adolescenza, sempre più chiaramente percepita come autentica, amata e strenuamente difesa — è giunto, come Abramo, al punto di sentirsi chiamato a sacrificare l'attaccamento alla propria vocazione per una confidenza-obbedienza ancor più radicale, in una resa senza condizioni a Dio. Ed è proprio in quel momento di assoluta disponibilità e distacco che l'intreccio narrativo inserisce a sorpresa la risposta risolutiva di ogni problema, rappresentata dall'intervento di Pancrazio Soave. L'equivoco tra «oratorio» e «laboratorio» e l'incertezza di don Bosco nell'accettare l'offerta della tettoia, superata solo per le pressioni di Francesco Pinardi,106 hanno l'effetto di esaltare l'intervento provvidente di Dio, al di là di ogni umana speranza, come risposta al gesto di affidamento incondizionato del protagonista.

Va notato poi che l'itinerario della confidenza in Dio si coniuga, nel racconto di don Bosco a livello lessicale e narrativo, con l'esperienza della confidenza verso i formatori. La relazione con mamma Margherita e con don Calosso, i rapporti con Lucia Matta, col teologo Maloria, con l'amico Luigi Comollo e col direttore spirituale don Cafasso,'" vengono rappresentati con le connotazioni dell'affidamento confidente «illimitato», della trasparente rivelazione del cuore e dei pensieri e dell'obbedienza docile e pronta.

È un movimento di docilità e fiducia che raggiunge il suo vertice nel dialogo con don Cafasso al termine del triennio trascorso al Convitto ecclesiastico: «La mia propensione è di occuparmi della gioventù. Ella poi faccia di me quel che vuole: io conosco la volontà del Signore nel suo consiglio [...]. Io voglio riconoscere la volontà di Dio nella sua deliberazione e voglio mettere niente del mio volere».'"

Il testo delle Memorie mostra come l'Oratorio trovi la sua forma definitiva solo quando don Bosco, presa dimora in casa Pinardi, privo di ogni provento certo, non ha altra risorsa che il nudo abbandono in Dio. La situazione di precarietà economica è affrontata insieme alla madre, che abbandona la tranquillità di Morialdo per fare «piacere al Signore»109 e collaborare alla missione del figlio. Si chiude così l'arco narrativo aperto con la raccomandazione del padre morente. Ora la confidenza in Dio trova compimento e diventa fecondo inizio di sviluppi insospettati.

106 Cf, Memorie, 152-154. (11,23).

107 «Se ho fatto qualche cosa di bene lo debbo a questo degno ecclesiastico nelle cui mani riposi ogni mia deliberazione, ogni studio, ogni azione della mia vita», Memorie, 126 (II,11).

108 Memorie, 133 (11,14).

109 Memorie, 168 (III,5).

6.1.2. Dalla dissipazione alla «ritiratezza»

La linea interpretativa della ritiratezza, intesa come cura dell'interiorità e fuga dalla dissipazione, prende le mosse dall'evento della prima comunione, al quale il racconto dà rilievo come inizio di un percorso la cui sostanza viene illustrata nel discorso di Margherita: «Sono persuasa che Dio abbia veramente preso possesso del tuo cuore. Ora promettigli di fare quanto puoi per conservarti buono sino alla fine della vita [...]. Ritenni e procurai di praticare gli avvisi della pia genitrice; e mi pare che da quel giorno vi sia stato qualche miglioramento nella mia vita»,''' Inizia così il racconto di un cammino spirituale configurato come progressiva presa di coscienza delle esigenze di una vocazione che richiede conversione e consegna di sé, purificazione e distacco del cuore, superamento di quadri mentali "mondani" per una vita di amorosa dedizione a Dio. L'impianto narrativo delle Memorie ci fa capire come l'intenzione dell'Autore non sia semplicemente quella di illustrare una storia personale, bensì di indicare i punti dinamici di un processo interiore vitale per chi è chiamato ad essere pastore-educatore secondo lo spirito dell'Oratorio.

Non mancano segnali chiari in questa direzione. Ad esempio, dopo il racconto della morte di don Calosso, viene messo in scena il chierico Giuseppe Cafasso. Nel fervore di un'allegra festa di villaggio, appoggiato alla porta della chiesa, pronuncia le «memorande parole, che furono come il programma delle azioni di tutta la sua vita: — Colui che abbraccia lo stato ecclesiastico si vende al Signore, e di quanto avvi nel mondo, nulla deve più stargli a cuore se non quello che può tornare a maggior gloria di Dio e a vantaggio delle anime»."'

Viene così enunciata la chiave interpretativa delle sezioni narrative che seguiranno, a cominciare dalla descrizione del non facile discernimento vocazionale al termine degli studi umanistici in Chieri. L'ipotesi di entrare tra i Francescani, basata sulla considerazione della propria inadeguatezza e sul timore dei pericoli del mondo, si rivela impraticabile. Soltanto l'affidamento ai consigli di Luigi Comollo e dello zio sacerdote, in un clima di intensa preghiera, gli permetteranno di dissipare ogni dubbio con un atto di fiducia in Dio. Il giovane è avvertito: «Non abbia alcun timore di perdere la vocazione, perciocché colla ritiratezza e colle pratiche di pietà egli supererà tutti gli ostacoli». Il «savio suggerimento» del prevosto di Cinzano gli serve da guida. Decide di prepararsi al seminario mutando il proprio stile di vita: «Cessai di fare il ciarlatano e mi diedi alle buone letture che, debbo dirlo a mia vergogna, fino allora aveva trascurato».112

110 Memorie, 69 (I,2).

111 Memorie, 74 (1,4).

112 Memorie, 99-100 (I,14).

L'evento della vestizione, poi, «seriamente» preparato e desiderato, si configura come una svolta decisiva di conversione:

Oh quanta roba vecchia c'è da togliere. Mio Dio, distruggete in me tutte le mie cattive abitudini [...]. Sì, o mio Dio, fate che in questo momento io vesta un uomo nuovo, cioè che da questo momento io incominci una vita nuova, tutta secondo i divini voleri, e che la giustizia e la santità siano l'oggetto costante de' miei pensieri, delle mie parole e delle mie opere. Così sia».'"

La rilevanza di quelle scelte per l'orientamento di vita del protagonista (ma anche dei lettori) viene rimarcata dal narratore con la digressione sulla partecipazione alla festa patronale di Bardella in compagnia del parroco. Quel mondo ormai non gli appartiene più: «Dopo più settimane di preparazione a quella sospirata giornata, trovarmi di poi ad un pranzo in mezzo a gente di ogni condizione, di ogni sesso, colà radunata per ridere, chiacchierare, mangiare, bere e divertirsi; gente che per lo più andava in cerca di giuochi, balli e di partite di tutti i generi; quella gente quale società poteva mai formare con uno, che al mattino dello stesso giorno aveva vestito l'abito di santità per darsi tutto al Signore?».14

Ora è necessario un serio lavoro interiore mirato ad una «radicale riforma» morale: «La vita fino allora tenuta doveva essere radicalmente riformata. Negli anni addietro non era stato uno scellerato, ma dissipato, vanaglorioso, occupato in partite, giuochi, salti, trastulli ed altre cose simili che rallegravano momentaneamente, ma che non appagavano il cuore». È indispensabile formulare una serie di risoluzioni operative e che permettano di dare «stabilità» al nuovo «tenore di vita»: «Non prenderò mai più parte a pubblici spettacoli [...]. Non farò mai più i giuochi de' bussolotti, di prestigiatore, di saltimbanco [...]. Amerò e praticherò la ritiratezza, la temperanza [...]. Procurerò di servire a Dio dandomi alle letture di cose religiose [...]. Combatterò con tutte le mie forze ogni cosa, ogni lettura, pensiero, discorsi, parole ed opere contrarie alla virtù della castità. All'opposto praticherò tutte quelle cose anche piccolissime che possano contribuire a conservare questa virtù [...] Non ometterò mai di fare ogni giorno un poco di meditazione ed un po' di lettura spirituale».115

113 Memorie, 101 (II,1).

114 Memorie, 102 (II,1).

115 Memorie, 102-103 (IL!).

Il cammino formativo del seminario è ricondotto essenzialmente a questa linea di condotta. Il racconto delle Memorie mette in evidenzia l'impegno per l'adempimento «esatto» e «con tutto l'animo» dei doveri quotidiani, l'esercizio ascetico di distacco da sé (rinuncia al gioco di bara rotta e dei tarocchi), la vigilanza sulla tendenza alla vanagloria nel ministero pastorale e la cura delle amicizie spirituali.116 Ma anche la necessaria riconferma dei proponimenti. Dopo le piccole disavventure estive Giovanni Bosco si scuote: «Mi sono dato con miglior proposito alla ritiratezza, e fui davvero persuaso che chi vuole darsi schiettamente al servizio del Signore bisogna che lasci affatto i divertimenti mondani». 117

L'ambiente formativo del Convitto ecclesiastico viene caratterizzato dall'accento posto sul raccoglimento operoso e sulla cura della vita interiore: «Meditazione, lettura, due conferenze al giorno, lezioni di predicazione, vita ritirata, ogni comodità di studiare, leggere buoni autori, erano le cose intorno a cui ognuno deve applicare la sua sollecitudine».13

Insomma, il tema della ritiratezza rimanda a percorsi di interiorizzazione e di ricentramento in Dio, ad un lavorio di purificazione dei pensieri e degli atteggiamenti, ad un processo di consolidamento spirituale e morale, all'acquisizione di competenze e all'esercizio virtuoso in funzione del futuro ministero. È il compito proprio degli anni di formazione che il racconto delle Memorie suggerisce con chiarezza ai lettori, i giovani Salesiani ai quali don Bosco si rivolge preoccupato di mostrare come la missione e il metodo dell'Oratorio non si esauriscono in una serie di attività e in uno stile relazionale, ma postulano personalità raccolte su Dio e accuratamente formate.

6.2. Un modello di educatore pastore

L'intera dinamica delle Memorie è protesa soprattutto a definire una missione e un modello pastorale. L'Oratorio, così come viene delineato e progressivamente attuato nell'intreccio narrativo, è un'opera pastorale globale. Missione e destinatari, metodo e contenuti formativi, "operatori" e attività, spirito animatore e clima relazionale, tutto viene illustrato e connotato. La preoccupazione di consegnare ai «carissimi figli Salesiani» un patrimonio di famiglia che si configura non solo come bagaglio di esperienze, ma come identità, sfocia in uno stile didattico-rappresentativo. Le idee dell'Autore sono rappresentate dai personaggi che egli mette in scena e dai ruoli loro affidati, al fine di abbozzare i tratti caratterizzanti di un unico personaggio, il pastore di Oratorio secondo la prospettiva e il metodo educativo di don Bosco.

Elenchiamo alcuni rimandi testuali che permettono di far emergere le componenti caratteristiche di tale modello pastorale.

116 Memorie, 103-115 (11,2-6).

117 Memorie, 112 (II,5).

118 Memorie, 125 (II,11).

6.2.1. Una vocazione che viene da Dio e si sviluppa progressivamente

Si potrebbe intravedere fin dalla prima pagina delle Memorie, nell'esperienza traumatica della perdita del padre, l'inizio di un percorso che predispone il protagonista ad una sensibilità speciale nei confronti di quanti hanno la disgrazia di essere privi di padre («In quella età non poteva certamente comprendere quanto grande infortunio fosse la perdita del padre»).119 Da qui, in un certo senso, inizia il cammino verso quel tipo di paternità che renderà inconfondibile il metodo pastorale ed educativo di don Bosco.

Tuttavia è con il racconto del sogno dei nove anni che vengono puntualizzati i cardini del modello di pastore e della sua missione specifica. Si presenta simbolicamente un cortile, come ambiente privilegiato dell'incontro con i destinatari, la «moltitudine di fanciulli» che ivi «si trastullavano»; si descrive la chiamata-missione — «Mi chiamò per nome e mi ordinò di pormi alla testa di que' fanciulli» — si delinea il metodo e la chiave del successo — «Non colle percosse ma colla mansuetudine e colla carità dovrai guadagnare questi tuoi amici» — si evidenzia il contenuto essenziale del messaggio — «Mettiti adunque immediatamente a fare loro un'istruzione sulla bruttezza del peccato e sulla preziosità della virtù» — infine si tratteggia l'itinerario formativo e ascetico — «Appunto perché tali cose ti sembrano impossibili, devi renderle possibili coll>ubbidienza e coll>acquisto della scienza [...]. Io ti darò la maestra [...]. Renditi umile, forte, robusto; e ciò che in questo momento vedi succedere di questi animali, tu dovrai farlo pei figli miei».'"

Nonostante ciò, la realizzazione della missione prefigurata nel sogno non resta affatto facilitata. Il testo delle Memorie mostra come essa richieda in primo luogo la fatica e la pazienza del discernimento di fronte a situazioni e interrogativi posti da un preciso contesto storico, da un ambiente familiare, sociale e religioso ben connotato, in presenza di ostacoli e difficoltà concrete e dei limiti psicologici, morali e spirituali di una personalità in formazione. È un cammino non facile, che parte dalle prime reazioni dei familiari al racconto del sogno,121 trova il suo punto di svolta alla fine dell'anno di retorica («epoca in cui gli studenti sogliono deliberare intorno alla loro vocazione»)122 e si protende fino al già ricordato momento critico del marzo 1846, nel prato dei fratelli Filippi.123

119 Memorie, 60 (Introduzione).

120 Memorie, 62-63 (I, Un sogno).

121 Memorie, 63 (I, Un sogno).

122 Memorie, 98 (I,14).

123 Memorie, 152 (11,23).

6.2.2. Le diverse componenti del modello

Il modello di pastore che man mano va emergendo lungo tutto il racconto presenta sfaccettature e articolazioni interessanti che è possibile cogliere anche nei particolari.

1. Ci sono innanzitutto elementi che vengono attinti dalla pastorale tradizionale. Giovannino ripete «gli esempi uditi nelle prediche o nei catechismi» e si comporta come un buon parroco di campagna: «Finito questo [il rosario] montava sopra una sedia, faceva la predica, o meglio ripeteva quanto mi ricordava della spiegazione del vangelo udita al mattino in chiesa; oppure raccontava fatti od esempi uditi o letti».124

2. C'è anche — molto enfatizzato e non secondario per la metodologia educativa di don Bosco e il suo modello oratoriano — un approccio pastorale di tipo familiare. Personaggio emblematico è la madre, alla quale viene affidato un ruolo di grande rilievo per la formazione della sensibilità religiosa e dell'interiorità del figlio, in un intenso rapportò di intimità dialogica e affettuosa: «Studiò di assistermi più giorni; mi aveva condotto tre volte a confessarmi lungo la quaresima. Giovanni mio, disse ripetutamente, Dio ti prepara un gran dono; ma procura prepararti bene, di confessarti, di non tacer alcuna cosa in confessione. Confessa tutto, sii pentito di tutto, e prometti a Dio di farti più buono in avvenire. [...] A casa mi faceva pregare, leggere un buon libro, dandomi que' consigli che una madre industriosa sa trovare opportuni pe' suoi figliuoli. Quel mattino non mi lasciò parlare con nessuno, mi accompagnò alla sacra mensa e fece meco la preparazione ed il ringraziamento».1"

3. Non è secondario il fatto che le figure di sacerdoti che, anche solo fugacemente, compaiono nel racconto siano sempre connotate da atteggiamenti virtuosi in relazione alla loro missione pastorale. Così, ad esempio, il maestro di Capriglio don Lacqua è descritto come «sacerdote di molta pietà [...], il quale mi usò molti riguardi, occupandosi volentieri della mia istruzione e più ancora della mia educazione cristiana»;1" il parroco di Castelnuovo è raffigurato nell'atto di guidare «con molto zelo» la preparazione e il ringraziamento alla comunione; don Calosso è definito, fin dal suo apparire, come un «uomo assai pio», oltre che attento ad avvicinare il giovane Bosco per entrare in dialogo amorevole con lui;1" il teologo Borel è lodato come «un santo sacerdote, un modello degno di ammirazione e di essere imitato», ardentissimo apostolo che «non di rado rubava le ore del sonno per recarsi a confessare i giovani; negava il ristoro allo stanco corpo per venire a predicare»;128 l'amico don Pietro Merla è introdotto come sacerdote impegnato «con zelo nel sacro ministero».129

124 Memorie, 66-67 (I,1).

125 Memorie, 68-69 (I,2).

126 Memorie, 61 (I, Dieci anni d'infanzia)

127 Memorie, 69 (1,2).

128 Memorie, 133 (11,14), 185 (III,14).

129 Memorie, 153 (11,23).

4. Soprattutto, nella narrazione dell'incontro provvidenziale e dell'intensa relazione spirituale ed affettiva con il cappellano di Morialdo, vengono dettagliati ed enfatizzati gli elementi più marcatamente salesiani del modello di educatore-pastore promosso nelle Memorie, quelli che stanno più a cuore a don Bosco. La scena è molto eloquente: il vecchio sacerdote individua il ragazzo in mezzo alla folla, gli si avvicina e gli parla con amore, intuisce il suo problema e dichiara subito la sua disponibilità concreta ed operativa. Il testo ricostruisce la relazione di matura e affettuosa paternità dalla quale Giovanni si sente avvolto e che lo spinge alla corrispondenza generosa e docile. Si vengono così a creare condizioni ideali per un'azione formativa di più vasta portata. Le pagine dedicate all'evento sono efficacissime per illustrare i tratti inconfondibili del pastore-educatore voluto da don Bosco e la potenza dell'approccio affettivo nell'educazione dei giovani.'"

L'accoglienza affettuosa messa in atto dal cappellano ha i tratti dell' oblatività incondizionata e si configura nei termini di un'adozione paterna: «Lascia dunque un fratello crudele e vieni con me ed avrai un padre amoroso». È un atteggiamento che provoca risonanze feconde nell'animo del giovane orfano, rendendolo capace di corrispondenza gioiosa: «Niuno può immaginare la mia contentezza. D. Calosso per me era divenuto un idolo. L'amava più che padre, pregava per lui, lo serviva volentieri in tutte le cose. Era poi sommo piacere faticare per lui, e direi dare la vita in cosa di suo gradimento. Io faceva tanto progresso in un giorno col cappellano, quanto non avrei fatto a casa in una settimana».131

La tecnica narrativa di don Bosco rafforza poi le note dominanti del modello di educatore-pastore vicino, affettuosamente accogliente e dedicato, rappresentato negli atteggiamenti di don Calosso, con una tecnica di contrasto, quando mette in scena come semplici comparse il parroco e il viceparroco, personaggi cortesi ma distaccati e lontani: «Se io fossi prete, vorrei fare diversamente; vorrei avvicinarmi ai fanciulli, vorrei dire loro delle buone parole, dare dei buoni consigli».132

130 Cf. Memorie, 69-73 (I,2).

131 Memorie, 73 (I,3).

132 Memorie, 75 (I,4).

5. Per quanto riguarda i tratti interiori e spirituali, che saranno sviluppati in seguito, particolarmente nel racconto del periodo trascorso al Convitto ecclesiastico, abbiamo notato come l'Autore abbia sentito il bisogno di anticiparne la sostanza con la descrizione dell'incontro tra Giovanni e il chierico Giuseppe Cafasso, che gli ha permesso di mostrare il legame tra atteggiamenti pastorali e interiorità e di evocare alcune qualità che rendono fascinoso il modello: il suo spirito raccolto e ritirato, la finezza del suo tratto, la sua amorevole capacità di relazione.'" Le «memorande parole», con le quali si conclude l'incontro, manifestano la radicata convinzione del narratore che la risorsa più feconda per l'educatore-pastore consiste in una consegna amorosa ed esclusiva al servizio di Dio e dei fratelli.134

6. Ulteriori tratti che completano il profilo ideale dell'educatore-pastore proposto e ne esemplificano lo stile e il metodo, prendono forma con l'evocazione delle esperienze e degli incontri avvenuti nella scuola superiore di Chieri. I suoi professori, tutti ecclesiastici, sono connotati positivamente. Attraverso di essi risaltano caratteristiche diverse e complementari dell'ideale proposto. In particolare, don Valimberti, rappresenta l'accoglienza cordiale, la vicinanza e l'arte di facilitare l'inserimento del giovane nel nuovo ambiente; il teologo Valeriano Pugnetti incarna la cura personalizzata e affettuosa; il professor Cima è l'icona dell'insegnante burbero ed esigente, ma competente e capace di stimolare l'impegno e la responsabilità degli allievi, di far scaturire energie e buona volontà, di facilitare l'apprendimento;1" don Pietro Banaudi raffigura più compiutamente la paternità e l'amorevolezza salesiana, la capacità di conquistare i giovani alunni percorrendo le vie del cuore e l'arte di farsi amare;1" infine don Giuseppe Maloria, il confessore, è descritto come l'amico dell'anima, accogliente, incoraggiante e preveniente, un sicuro punto di riferimento per il giovane che deve imparare a non lasciarsi trascinare dai compagni e dall'ambiente.'" Accanto a loro è ben dettagliata la figura dell'arciprete del duomo, il canonico Massimo Burzio, l'autorità religiosa più importante di Chieri, descritto nell'atto di un intervento "disciplinare" come esempio di prudenza e di tatto umano, capace di sdrammatizzare la situazione e di mettere il giovane Bosco a proprio agio creando le condizioni per un colloquio serio e confidenziale.'"

133 Cf. Memorie, 74 (I,4).

134 Cf. Memorie, 74 (I,4).

135 Cf. Memorie, 78-79 (I,5).

136 «Era un vero modello degli insegnanti. Senza mai infliggere alcun castigo era riuscito a farsi temere ed amare da tutti i suoi allievi. Egli li amava tutti guai figli, ed essi l'amavano qual tenero padre [...]. Tra professore ed allievi eravi un cuor solo», Memorie, 88 (I,9).

137 «Egli mi accolse sempre con grande bontà ogni volta che andava da lui. Anzi mi incoraggiava a confessarmi e comunicarmi colla maggior frequenza [...]. Io mi credo debitore a questo mio confessore se non fui dai compagni strascinato a certi disordini che gli inesperti giovanetti hanno purtroppo a lamentare nei grandi collegi», Memorie, 83-84 (I,7)

138 Cf. Memorie, 93-94 (I,11).

6.2.3. Le tentazioni che insidiano il modello

Le intenzioni che stanno alla base del racconto e i suoi destinatari privilegiati (i giovani Salesiani) spiegano gli indugi narrativi dell'Autore mirati a mettere in risalto i pericoli che insidiano il suo modello di pastore. Ne elenchiamo alcuni:

1. La raffigurazione dell'incontro del giovane protagonista col parroco e il viceparroco di Castelnuovo, molto cortesi, ma insensibili alle reali attese e alle sensibilità del ragazzo, preoccupati di continuare nel «loro cammino», nei loro progetti, mette in luce un pericolo che continuamente insidia il mondo degli educatori e dei pastori di professione."'

2. Con il racconto della festa di Bardella si stigmatizza la mondanità, la superficialità e l'intemperanza, evocando preti che fanno i "buffoni" nel banchetto e smascherando le ragioni illusorie addotte dallo stesso prevosto per giustificare tali comportamenti.'"

3. Nelle parole che Margherita rivolge al figlio prima dell'entrata in seminario, si evidenzia il pericolo della trascuratezza nei propri doveri («Non è l'abito che onora il tuo stato, è la pratica della virtù [...] Amo meglio di avere un povero contadino, che un figlio prete trascurato ne' suoi doveri»).141

4. Con l'evocazione del disagio provato da Giovanni in seminario per l'atteggiamento distaccato dei superiori, si deplora un modello di formatore fondato sul timore, che crea diffidenza e lontananza.142

5. Nella descrizione delle vicende legate alla predicazione svolta a Capriglio e ad Alfiano si sottolinea l'importanza di vigilare sulla tendenza alla vanagloria e all'inutile ricercatezza stilistica.143

6. Con il gustoso racconto delle avventure estive, si mostra come, nonostante gli impegni assunti, sia facile cedere alla dissipazione senza una continua vigilanza: «Fui davvero persuaso che chi vuole darsi schiettamente al servizio del Signore bisogna che lasci affatto i divertimenti mondani. È vero che spesso questi non sono peccaminosi, ma è certo che pei discorsi che si fanno, per la foggia di vestire, di parlare e di operare contengono sempre qualche rischio di rovina per la virtù, specialmente per la delicatissima virtù della castità».144

139 Memorie, 75 (1,4).

140 Memorie, 102 (II,1).

141 Memorie, 103 (11,2).

142 Memorie, 105 (II,3).

143 Memorie, 109-110 (11,4); cf. 124 (11,10).

144 Memorie, 112 (II,5),

7. C'è anche il pericolo che l'ardore operativo sia spinto dall'entusiasmo ma disgiunto da una seria preparazione professionale e dallo studio. La lodevole propensione di Giovanni all'azione si esprime, dopo l'ordinazione sacerdotale, nell'attiva collaborazione col prevosto di Castelnuovo e gli fa provare «il più grande piacere» nel lavoro pastorale, nel fare catechismo, nel trattenersi e discorrere con i fanciulli, nell'essere «sempre attorniato» dai suoi piccoli amici?" Ma egli capisce l'importanza del consiglio di don Cafasso: «Voi avete bisogno di studiare la morale e la predicazione. Rinunciate per ora ad ogni proposta e venite al Convitto».1"

8. Quando si mettono in campo le obiezioni dei parroci di Torino contro l'Oratorio, che allontanerebbe «i giovanetti dalle parrocchie», si stigmatizza una visione rigidamente giurisdizionale e burocratica della responsabilità educativa e pastorale, più centrata sul criterio territoriale che sui bisogni e la condizione delle persone reali.147

9. Infine, narrando gli eventi che agitavano gli animi tra 1848 e 1849, l'Autore mette in luce le confusioni e gli squilibri di idee e comportamenti indotti dalle passioni e dai fanatismi politici a danno dell'impegno educativo e pastorale.148

6.2.4. Esempi di zelo pastorale

Ai limiti, alle tentazioni e ai pericoli, sopra evidenziati, viene contrapposto l'esempio stimolante di alcuni instancabili ed esemplari pastori, che don Bosco presenta come i suoi modelli più immediati. Sono il teologo Giovanni Borel e i tre superiori del Convitto ecclesiastico.

1. Il Teologo Giovanni Borel, «uno de' più zelanti ministri del santuario», viene messo in scena già nella sezione narrativa dedicata agli anni di seminario. L'Autore lo caratterizza innanzitutto nell'aspetto esterno e nella simpatia: «Egli apparve in sacristia con aria ilare, con parole celianti, ma sempre condite di pensieri morali». Poi ne raffigura la devozione: «Quando ne osservai la preparazione e il ringraziamento della messa, il contegno, il fervore nella celebrazione di essa, mi accorsi subito, che quegli era un degno sacerdote». Infine ne delinea lo stile pastorale e l'animo ardente: «Quando poi cominciò la sua predicazione e se ne ammirò la popolarità, la vivacità, la chiarezza, e il fuoco di carità che appariva in tutte le parole, ognuno andava ripetendo che egli era un santo». È significativo notare come proprio lui sveli al giovane chierico in formazione il «mezzo certo per conservare lo spirito di vocazione»

145 Memorie, 122 (II,10).

146 Memorie, 124 (II,11).

147 Memorie, 143-144 (11,19).

148 Memorie, 184-185 (111,13)

— «Colla ritiratezza, e colla frequente comunione si perfeziona e si conserva la vocazione e si forma un vero ecclesiastico»149 — quasi a significare il legame di reciproca fecondazione tra lo zelo pastorale e la vita spirituale.

2. L'esperienza del Convitto ci viene descritta come determinante per il discernimento degli orizzonti pastorali e spirituali del novello sacerdote e della sua futura missione. Egli si incontra con luminosi esempi, il teologo Luigi Guala, don Giuseppe Cafasso e il teologo Felice Golzio: «Questi erano i tre modelli che la Divina Provvidenza mi porgeva, e dipendeva solo da me seguirne le tracce, la dottrina, le virtù». Ciascuno è connotato da qualità morali specifiche. Il Guala è contraddistinto per l'attività pastorale disinteressata, per la scienza, la prudenza, il coraggio e l'arte di «farsi tutto a tutti» nei momenti critici; don Cafasso si impone «colla sua virtù che resiste a tutte le prove, colla sua calma prodigiosa, colla sua accortezza e prudenza»; il teologo Golzio è ricordato per la sua «vita modesta», il «lavoro indefesso», l'umiltà e la scienza. Tutti e tre sono animati da una ardore pastorale instancabile: «Le carceri, gli ospedali, i pulpiti, gli istituti di beneficenza, gli ammalati a domicilio; le città, i paesi e possiamo dire i palazzi dei grandi e i tuguri dei poveri provarono i salutari effetti dello zelo di questi tre luminari del clero torinese».'"

6.2.5. Caratteristiche particolari del modello educativo e pastorale donboschiano

Nel prosieguo delle Memorie emergono poi con abbondanza le caratteristiche specifiche e carismatiche dello stile educativo e pastorale di don Bosco stesso.

1. Innanzitutto, l'impatto con i giovani in carcere lo commuove e lo turba, ma suscita immediatamente una riflessione operativa sui problemi e un discernimento educativo e pastorale delle possibili soluzioni:

«Mi accorsi come parecchi erano ricondotti in quel sito perché abbandonati a se stessi. Chi sa, diceva tra me, se questi giovanetti avessero fuori un amico, che si prendesse cura di loro, li assistesse e li istruisse nella religione nei giorni festivi, chi sa che non possano tenersi lontani dalla rovina o almeno diminuire il numero di coloro che ritornano in carcere? Comunicai questo pensiero a D. Cafasso, e col suo consiglio e co' suoi lumi mi sono messo a studiar modo di effettuarlo abbandonandone il frutto alla grazia del Signore senza cui sono vani tutti gli sforzi degli uomini»."'

149 Memorie, 116 (II,7).

150 Memorie, 125-126 (II,11).

151 Memorie, 127 (II,11).

2. La rievocazione dell'incontro con Bartolomeo Garelli nella sacrestia della chiesa di san Francesco gli offre l'opportunità di illustrare il suo stile relazionale improntato all'amorevolezza preveniente, in evidente contrasto con l'atteggiamento repressivo del sacrestano, e mostra la sua tendenza a dare risposte immediate e commisurate alla situazione e ai bisogni delle persone concrete.152

3. Dedizione, cura affettuosa, assistenza e vicinanza amichevole, sono note che caratterizzano fin dall'inizio il suo interesse per i giovani poveri e abbandonati: «La festa era tutta consacrata ad assistere i miei giovanetti; lungo la settimana andava a visitarli in mezzo ai loro lavori nelle officine, nelle fabbriche. Tal cosa produceva grande consolazione ai giovanetti, che vedevano un amico prendersi cura di loro [...]. Ogni sabato mi recava nelle carceri colle saccocce piene ora di tabacco, ora di frutti, ora di pagnottelle sempre all'oggetto di coltivare i giovanetti che avessero la disgrazia di essere colà condotti, assisterli, rendermeli amici».1"

4. Il modo in cui don Bosco descrive il proprio ruolo di direttore dell'Oratorio mostra come strettamente connesse due funzioni essenziali per il modello oratoriano: quella di pastore sollecito per la formazione cristiana e l'accompagnamento spirituale dei giovani e quella di padre provvido, amico confidente, maestro zelante e benefattore attento alle esigenze vitali dei singoli e della comunità. Per lui l'Oratorio ha una missione salvifica plenaria, che riguarda il tempo e l'eternità, il corpo e lo spirito, la mente e il cuore ed è realizzata da educatori-pastori che con «mano benevola» soccorrono, accolgono, si prendono cura, assistono, accompagnano, istruiscono i ragazzi più abbandonati affinché questi possano vivere «una vita onorata» diventando «buoni cristiani ed onesti cittadini».'" Già nelle prefigurazioni dell'Oratorio durante la fanciullezza e l'adolescenza del protagonista, e poi, in modo sempre più chiaro ed articolato, nelle fasi successive, fino al raggiungimento della formula oratoriana definitiva, questi due elementi, sempre presenti e inscindibili, sono riconducibili alla singolare figura di un pastore che è anche educatore, al suo inconfondibile modo di relazionarsi e di vivere tra i giovani e alla sua visione dell'Oratorio come famiglia e casa.155

152 Memorie, 128-129 (II,12); cf. 137 (I1,16).

153 Memorie, 131 (11,13).

154 Cf. Memorie, 129 (11,12). È anche la dichiarazione di intenti fatta a Roberto d'Azeglio: «Fare quel po' di bene che posso ai giovanetti abbandonati adoperandomi con tutte le forze affinché diventino buoni cristiani in faccia alla religione ed onesti cittadini in mezzo alla civile società», Memorie, 183 (I1I,12).

155 Si veda, in particolare, la descrizione di un giorno festivo nell'Oratorio di Valdocco in Memorie, 156-159 (III,1).

5. La freschezza e la creatività operativa, unite alla sensibilità per i gusti dei giovani e per i loro interessi, appaiono, lungo il corso delle Memorie, essere le caratteristiche peculiari del suo modello, dalle prime esperienze giovanili a Morialdo e a Chieri, fino alla realizzazione definitiva del sogno oratoriano in Casa Pinardi. Tutte le sezioni narrative dell'attività educativa e pastorale di Giovanni Bosco rintracciabili nel testo delle Memorie vanno tenute presenti per capire il modello: lo svolgimento dei primi trattenimenti con i fanciulli;1" le riunioni dei membri della Società dell'Allegria;1" la vivacità dei giochi e degli spettacoli a Chieri;1" l'esperienza di ministero a Castelnuovo nell'estate 1841;1" la cura pastorale dei giovani poveri e abbandonati di Torino tra 1841 e 1844, durante la permanenza al Convitto;'" le iniziative messe in atto col trasferimento prima all'Ospedaletto poi alla cappella dei Molassi;1" l'adattamento e la creatività di fronte alla difficoltà di trovare un luogo adatto tra l'estate 1845 e la primavera 1846;1" la forma compiuta raggiunta con l'arrivo in Casa Pinardi, nella moltiplicazione di iniziative e nella codificazione regolamentata.163

6. La coscienza acuta dell'urgenza educativa e pastorale che ispira ogni iniziativa, si lega con la convinzione che i giovani poveri e abbandonati si devono considerare come particolarmente affidati da Dio alle cure dell'educatore cristiano e del pastore d'anime. Queste due sensibilità, da una parte lo conducono al superamento di una concezione pastorale puramente giuridica e territoriale,'" dall'altra lo rendono tenace, irremovibile e persino temerario di fronte ad ogni tipo di disapprovazione, di incomprensione, di abbandono e di rifiuto, confidando nella missione ricevuta e nella grazia che l'accompagna. Egli non cede né alle ragioni del Vicario di Città né alle insistenze della marchesa di Barolo. Non si scoraggia se lo cacciano dalla chiesa dei Molassi e da San Pietro in Vincoli. Resiste con forza a fatiche estenuanti e a disagi di salute, anche quando il teologo Borel gli suggerisce una scelta prudenziale.'" Non solo è pronto ad affrontare affanni e privazioni per la cura pastorale dei suoi giovani, fino al rischio della vita,'" ma è disposto a sostenere attacchi e anche minacce fisiche pur di rimanere fedele alla propria vocazione e a quello che egli ritiene essere il suo dovere di pastore:

156 Memorie, 65-67 (I,1).

157 Memorie, 80-84 (1,6-7). 1" Memorie, 92-93 (I,11). 159 Memorie, 122 (II,10). 16° Memorie, 130-131 (II,13).

161 Memorie, 138-140 (11,17).

162 Memorie, 142-147 (11,19-20).

165 Memorie, 155-159 (III,1), 161-165 (III,3) e 169-171 (III,6).

164 Memorie, 143-144 (11,19); 145-147 (II,20).

165 Memorie, 147-152 (II, cc. 21-22).

166 Memorie, 165-167 (III,4).

«Voi, Signori, non conoscete i preti cattolici, finché vivono, essi lavorano per compiere il loro dovere; che se in mezzo a questo lavoro e per questo motivo dovessero morire, per loro sarebbe la più grande fortuna, la massima gloria».1" Le sue scelte sono dettate essenzialmente da fede incrollabile e dalla forza interiore di chi si radica unicamente su Dio.

* * *

In conclusione, il racconto delle Memorie dell'Oratorio traccia la storia degli sviluppi e delle note caratterizzanti di un'istituzione educativa e pastorale strettamente legata alla vita del Fondatore. Nello stesso tempo istruisce, a modo suo, i lettori sull'articolato carisma che anima tale istituzione, mentre svela la sensibilità interiore, la coscienza di sé, le visioni e gli aneliti profondi dell'autore, insieme ai suoi quadri mentali e ai tratti caratterizzanti della sua umanità.

L'interpretazione provvidenziale fatta da don Bosco di una vocazione divina realizzata in una realtà storica ben definita, suggerisce al lettore l'individuazione di due nuclei dinamici della vocazione e della metodologia dell'Oratorio: il dono incondizionato di sé a Dio in risposta ad una missione ricevuta, innestato su un nativo atteggiamento positivo, cordiale e affettuoso verso il mondo giovanile. Le due dinamiche, fecondandosi reciprocamente, danno vita ad una spiritualità, ad un'operosità intelligente e feconda, a un modo d'essere e operare in funzione promozionale e salvifica. Così i lettori di oggi possono trovare in queste Memorie elementi stimolanti per un'interpretazione attualizzante, ma anche spunti critici di verifica a livello personale e istituzionale.

Era quanto si prefiggeva l'Autore: «A che dunque potrà servire questo lavoro? Servirà di norma a superare le difficoltà future prendendo lezione dal passato; servirà a far conoscere come Dio abbia egli stesso guidato ogni cosa in ogni tempo; servirà ai miei figli di ameno trattenimento, quando potranno leggere le cose cui prese parte il loro padre».1"

167 Memorie, 200 (111,21; cf. 111,22.23).

168 Memorie, 57 (Introduzione).

NOTA INTRODUTTIVA AL TESTO

1. Questa nuova edizione delle Memorie dell'Oratorio si attiene al testo critico pubblicato dall'Istituto Storico Salesiano (Giovanni Bosco, Memorie dell'Oratorio di S. Francesco di Sales dal 1815 al 1855. Introduzione, note e testo critico a cura di Antonio da Silva Ferreira, Roma, LAS, 1991; uso l'edizione emendata del 1992), ulteriormente confrontato con i manoscritti originali custoditi nell'Archivio Salesiano Centrale (A222) — i tre quaderni del ms Bosco e i sei quaderni del ms Berto (che sono copia del ms Bosco in gran parte rivista dal Santo). In questo confrtinto abbiamo notato qua e là piccole divergenze interpretative del tutto comprensibili per chi abbia esperienza di trascrizione ed edizione critica di scritti di don Bosco più volte corretti e integrati dall'autore. Quando si è preferita una lezione diversa da quella adottata nell'edizione critica la si è puntualmente segnalata in nota.

2. Considerando le finalità e i destinatari di questa pubblicazione (che non è una nuova edizione critica) abbiamo adottato i seguenti criteri:

a) adattamento della punteggiatura secondo l'uso attuale;

b) uso uniforme delle iniziali minuscole nei nomi comuni (città, dottore, fisica, gennaio, madre, maestro, ministro, municipio, nunzio, sacerdote, vescovo, vicecurato ...);

c) uso uniforme del trattino (—) per introdurre le battute dei vari interlocutori quando queste sono mandate a capo;

d) trascrizione corretta di nomi propri' o di parole scritte in modo errato da don Bosco o dal copista;2

e) abbiamo introdotto tra parentesi quadra [ le integrazioni ritenute necessarie o alcune date omesse nel testo;

f) abbiamo lasciato invariati i termini ottocenteschi che caratterizzano la scrittura di don Bosco; come pure la finale in —a della prima persona dell'imperfetto indicativo, secondo l'uso antico (andava: andavo; danzava: danzavo; doveva: dovevo; piangeva: piangevo; toccava: toccavo; voleva: volevo...) e le parole, uscenti al singolare con il dittongo discendente 'io', che al plurale hanno finale in doppia —ii secondo l'uso antico (desiderii; dormitorii; elogii; encomii; immaginarii; missionaria; necessarii; ordinarii; pecuniarii; principii; seminarli ...);

g) nella numerazione dei capitoli abbiamo seguito l'uso più comune: 2. in vece di 2°.

3. Al termine del volume abbiamo introdotto:

a) un'Appendice con documenti di difficile reperimento ritenuti di un certo interesse, relativi al periodo coperto dal testo delle Memorie (1815-1855);

b) una tavola cronologica;

c) l'indice dei nomi di persona, di luogo e di istituzione.

1 Azzeglio: Azeglio; Bersano: Berzano; Borelli/Borrelli: Borel; Caffasso: Cafasso; Cattino: Gattino; Chiatellino: Chiattellino; Cocchis: Cocchi; Cornelio Nipote: Cornelio Nepote; Delacqua: Lacqua; Fascio: Fassio; Frassinous: Frayssinous; Gabbetti: Gabetti; Gioanni: Giovanni; Giusiana: Giussiana; Guarino: Guerino; Murialdo: Morialdo; Pelato: Pellato; Ponzati: Ponzati; Sacco: Sacchi; Salustio: Sallustio; Scannagatti: Scanagatti; Sismondi: Sismondo.

2 Abborrite: aborrite; abbraccierò: abbraccerò; accacie: acacie; accelleravano: acceleravano; alla bella meglio: alla bell'e meglio; allacremente: alacremente; alloraché: allorché; apoplettico: apoplettico; areostatici: aerostatici; borrascoso: burrascoso; bossolotto: bussolotto; bricciolo: briciolo; candellieri: candelieri; cent.: cm; cherica: chierica; cherico/chericale: chierico/chiericale; chiaccherare: chiacchierare; chiaccherando: chiacchierando; colezione: colazione; comincierei: comincerei; compatriotta: compatriota; contrabasso: contrabbasso; culte: colte; d'onde: donde; dialogi: dialoghi; famigliarizzare: familiarizzare; farzetti: farsetti; giuocatone: giocatore; gramatica: gammatica; incumbenze: incombenze; istintamente: istintivamente; istretta: stretta; istrutto/i: istruito/i; lascierà/à: lascerò/à; m'incoraggi: m'incoraggiò; mancie: mance; minaccio: minacce; non Signore: no signore; parocchia: parrocchia; parochiale/i: parrocchiale/i; paroco: parroco; patriotti: patrioti; proferta: profferta; rinuncierò: rinuncerò; saccoccie: saccocce; stanai: scansai; spolverio: spolverino; subbissare: subissare; torno: turno; traccie: tracce; viceparoco: viceparroco.

ABBREVIAZIONI
A.S.F.            Antonio da Silva Ferreira
AAT              Archivio Arcivescovile, Torino
ab.                 abate
APC              Archivio della Parrocchia di Capriglio
APOFM        Archivio Provinciale Ordine Frati Minori del Piemonte, Torino
APSAC         Archivio della Parrocchia S. Andrea, Castelnuovo Don Bosco
APSGC         Archivio della Parrocchia di S. Giorgio, Chieri
arcip.            arciprete
arciv.            arcivescovo
ASC              Archivio Salesiano Centrale, Roma
ASCC           Archivio Storico del Comune, Chieri
ASCT           Archivio Storico del Comune, Torino
ASMT          Archivio del Seminario Metropolitano, Torino
AST              Archivio di Stato, Torino (Sezioni riunite)
avv.              avvocato
 B.V.             Beata Vergine
C./can.         canonico
card.             cardinale
cav.               cavaliere
cent.              centesimi
ch.                 chierico
comm.          commendatore
D.                  don
fr.                  franchi
L.                   lire
M.V.             Maria Vergine
ms.                manoscritto
N. S. G. C. Nostro Signore Gesù Cristo
OE                 Giovanni Bosco, Opere edite. Prima serie: Libri e opuscoli, 37 vol., Roma,LAS, 1976-1977

P.                   padre
S                santo/santa
sac.               sacerdote
sig.                 signor
SS./ SS.mo Santissimo/a
T                teologo
vic. gen.        vicario generale

 


MEMORIE DELL'ORATORIO DAL 1815 AL 1835 1

1 Questo è il titolo del primo dei tre quaderni sui quali don Bosco scrisse le Memorie. Il quaderno comprende la narrazione degli eventi che vanno dalla nascita alla vestizione dell'abito ecclesiastico nel 1835, anno in cui egli concluse le scuole superiori con la classe di retorica.

MEMORIE DELL'ORATORIO DAL 1815 AL 1835 ESCLUSIVAMENTE PEI SOCI SALESIANI

Più volte fui esortato di mandare agli scritti le memorie concernenti l'Oratorio di S. Francesco di Sales, e sebbene non potessi rifiutarmi all'autorità di chi mi consigliava, tuttavia non ho mai potuto risolvermi ad occuparmene specialmente perché doveva troppo sovente parlare di me stesso? Ora si aggiunse il comando di persona di somma autorità, cui non è permesso di porre indugio di sorta,' perciò mi fo qui ad esporre le cóse minute confidenziali che possono servire di lume o tornar di utilità a quella istituzione che la divina Provvidenza si degnò affidare alla Società di S. Francesco di Sales. Debbo anzi tutto premettere che io scrivo pe' miei carissimi figli Salesiani con proibizione di dare pubblicità a queste cose sia prima sia dopo la mia morte.3

A che dunque potrà servire questo lavoro? Servirà di norma a superare le difficoltà future prendendo lezione dal passato; servirà a far conoscere come Dio abbia egli stesso guidato ogni cosa in ogni tempo; servirà ai miei figli di ameno trattenimento, quando potranno leggere le cose cui prese parte il loro padre, e le leggeranno assai più volentieri quando, chiamato da Dio a rendere conto delle mie azioni, non sarò più tra loro.

1 La reticenza a parlare di sé è manifestata altre volte dal santo, per esempio nell'introduzione di Giovanni Bosco, Vita del giovanetto Savio Domenico allievo dell'Oratorio di S. Francesco di Sales, Torino, Tip. G. B. Paravia e Comp., 1859, 8 (OE XI, 158). La difficoltà qui è comprensibile, trattandosi di raccontare la storia di un'istituzione inscindibilmente collegata con la propria vita interiore. Questo fatto spiega la proibizione espressa poco oltre.

2 Persona di somma autorità: pare riferirsi al papa Pio IX.

3 Per rispettare la volontà di don Bosco, le Memorie dell'Oratorio rimasero inedite. Ad esse tuttavia attinse Giovanni Bonetti (ma senza riferimento a vicende interiori o di carattere "soprannaturale"), per la Storia dell'Oratorio di S. Francesco di Sales, apparsa sul «Bollettino Salesiano» tra 1879 e 1886, pubblicata poi a parte col titolo Cinque lustri di storia dell'Oratorio Salesiano fondato dal sacerdote D. Giovanni Bosco, Torino, Tipografia Salesiana, 1892. Don Giovanni Battista Lemoyne riversò il manoscritto delle Memorie dell'Oratorio nei primi tre volumi delle Memorie Biografiche di don Giovanni Bosco (S. Benigno Canavese, Scuola Tipografica e Libraria Salesiana, 1898-1903), poiché l'opera non era destinata al pubblico, ma solo ai membri della Società Salesiana.

Avvenendo d'incontrare fatti esposti forse con troppa compiacenza e forse con apparenza di vanagloria, datemene compatimento. È un padre che gode di parlare delle cose sue a' suoi amati figli, i quali godono pure nel sapere le piccole avventure di chi li ha cotanto amati, e che nelle cose piccole e grandi si è sempre adoperato di operare a loro vantaggio spirituale e temporale.

Io espongo queste memorie ripartite in decadi ossia in periodi di dieci anni, perché in ogni tale spazio succedette un notabile e sensibile sviluppo della nostra istituzione.

Quando poi, o figli miei, leggerete queste memorie dopo la mia morte, ricordatevi che avete avuto un padre affezionato, il quale prima di abbandonare il mondo ha lasciate queste memorie come pegno della paterna affezione, e ricordandovene pregate Dio pel riposo eterno dell'anima mia.

Dieci anni d'infanzia - Morte del genitore - Strettezze di famiglia - La madre vedova

Il giorno consacrato a Maria Assunta in cielo fu quello della mia nascita l'anno 18154 in Morialdo, borgata di Castelnuovo d'Asti.' Il nome di mia madre era Margherita Occhiena di Capriglio,6

4 Sui registri parrocchiali e sui documenti civili la data di nascita è il 16 agosto: «Diei decimaseptima augusti 1815 — Bosco Joannes Melchior, filius Francisci Aloysii, ac Margarita Ochiena jugalibus Bosco heri vespere natus, et hoc vespere solemniter baptizatus ab ad.m R. D. Joseph() Festa Vic.; patrini fuere Melchior Ochiena loti Caprilii ac Magdalena Bosco vidua quondam Secundi Ochiena hujus loti» (APSAC 11: Baptisatorum liber huius Praepositura SS. Petri et Andrea incipiens diei 26 septembris 1803 animarum curam gerente praeposito et vicario foraneo Joseph Boscasso, 145). Il secondo nome, Mekhiorre, gli fu imposto in onore del nonno materno, suo padrino.

5 Don Bosco scrive sempre Murialdo, italianizzando la pronuncia dialettale. Castelnuovo d'Asti (oggi Castelnuovo Don Bosco): comune della provincia di Asti, a 25 km da Torino. In quel tempo contava 3.000 abitanti, distribuiti tra il capoluogo e quattro borgate decentrate, Morialdo, Bardella, Nevissano e Ranello. Ognuna di esse aveva una cappella (cf. Relazione dello stato della Parrocchia di S. Andrea Apostolo del luogo di Castelnuovo d'Asti [1825], in AAT 8.2.12: Relazione sullo stato delle chiese, vol. Il, ff. 436v-437v). La casa in cui nacque Giovanni si trovava presso la frazione Becchi, a circa 2 km dalla cappella di Morialdo. Goffredo Casalis scrive del territorio di Castelnuovo: «In generale è molto fertile, produce formento a sufficienza per la popolazione, ed abbonda soprattutto di vini eccellenti e sani. Assai piacevole è il clima di questo capoluogo di mandamento: vi si respira un'aria saluberrima; l'estivo calore è quasi di continuo temperato da un soavissimo zefiro [...]. Gli abitanti sotto la fisica influenza di un sì aggradevole clima, sono anch'essi costantemente di umore giocondo, di buona indole ed assai cortesi massimamente coi forestieri, i quali, oltre ai favori della natura, vi rinvengono quella sincera ospitalità, che generalmente ammirasi fra i popoli dell'Astigiana» (G. CASALIS, Dizionario geografico storico-statistico-commerciale degli Stati di S. M il Re di Sardegna, vol. IV, Torino, Cassone, Marzorati, Vercellotti tipografi,1837, 193).

6 Margherita Occhiena (1788-1856) venne battezzata il giorno stesso della nascita: «Die 1 aprilis per me baptizata fuit Margarita hodie nata ex Melchiore filio Michaelis huius loti et Dominica quond[am] Francisci Bossone loti Pleiae, coniugibus Occhiena. Suscepit Margarita uxor Johannis Occhiena huius luci. Johannes Secondus Zuccaro Rector» (APC: Liber baptizatorum 1774-1806,34). Capriglio è un comune della provincia e della diocesi di Asti, a circa 9 km da Castelnuovo; negli anni dell'infanzia di Giovanni Bosco contava circa 460 abitanti, cf. CASALIS, Dizionario, vol. III (1836), 463-464; Giovanni RAPELLI, "Celeste pabulum". Per una storia della parrocchia di Capriglio, in «Quaderni di Muscandia» 6 (2006) 145-174; ID., Capriglio alla fine del Settecento. La vita di una piccola comunità contadina fra Ancien Régime e Rivoluzione, in «Quaderni di Muscandia» 8 (2009) 91-126.

Francesco quello di mio padre.7 Erano contadini, che col lavoro e colla parsimonia si guadagnavano onestamente il pane della vita. Il mio buon padre quasi unicamente col suo sudore procacciava sostentamento alla nonna settuagenaria,8 travagliata da vari acciacchi, a tre fanciulli, di cui maggiore era Antonio, figlio del primo letto,' il secondo Giuseppe,1° il più giovane Giovanni, che sono io, più a due servitori di campagna.

Io non toccava ancora i due anni, quando Dio misericordioso ci colpì con grave sciagura." L'amato genitore, pieno di robustezza, sul fiore della età, animatissimo per dare educazione cristiana alla figliuolanza, un giorno, venuto dal lavoro a casa tutto molle di sudore incautamente andò nella sotterranea e fredda cantina. Per la traspirazione soppressa in sulla sera si manifestò una violenta febbre foriera di non leggera costipazione. Tornò inutile ogni cura e fra pochi giorni si trovò all'estremo di vita. Munito di tutti i conforti della religione raccomandando a mia madre la confidenza in Dio, cessava di vivere nella buona età di anni 34, il 12 maggio 1817.12

Non so che ne sia stato di me in quella luttuosa occorrenza; soltanto mi ricordo ed e il primo fatto della vita di cui tengo memoria, che tutti uscivano dalla camera del defunto, ed io ci voleva assolutamente rimanere.

7 Francesco Luigi Bosco (1784-1817), rimasto vedovo, sposò Margherita Occhiena il 6 giugno 1812 a Capriglio: «Tribus premissis denuntiationibus infra missarum solemnmia super matrimonium contrahendum inter Franciscum Bosco quondam Antonii viduum per obitum Margaritae Callieri ejusdem dum viventis uxoris e loco Castrinovi et Margaritam Ochiena filiam viventis Melchioris loti Caprilii nullove delato impedimento nullaque inveniente oppositione coram testibus ad id adhibitis Vigna Hyacinto huius loti et Bosco Paulo e Castronovo fratre sponsi explorato et habito eorundem mutuo consensu per verba de praesenti ego infrascriptus supradictos Bosco Franciscum et Ochiena Margaritam matrimonio iunxi hac mane die sexti Junii anno millesimo octingentesimo duodecimo de ritu S. Matris Ecclesiae. Maggiora Joseph Rector P[arochia]lis» (APC: Liber matrimoniorum 1808-1837, alla data).

8 Margherita Zucca, madre di Francesco (1752-1826).

9 Antonio Giuseppe Bosco (1808-1849), era figlio del primo matrimonio di Francesco Bosco con Margherita Cagliero (1784-1811) avvenuto il 4 febbraio 1805.

10 Giuseppe Luigi Bosco (1813-1862).

11 La sensibilità attuale si trova disagio di fronte a questa espressione che attribuisce la sciagura a «Dio misericordioso». Le parole usate da Don Bosco rivelano la visione di fede di chi legge ogni evento nell'ottica della misericordia divina, capace di trarre dal male il bene e di trasformare la croce in benedizione.

12 Mori 1'11 maggio 1817: «Die duodecima maji 1817 — Bosco Franciscus Aloysius quondam Antonii, et vir dum viveret [sic] Margaritae, annos triginta quatuor natus, omnibus Sacramentis munitus obiit heri, hodieque sepultus est in ecclesia S. Petri» (APSAC 76: Census mortuorum huius Praepositurae SS. Petri et Andrea incipiens die 18 maji 1806, 114).

«Vieni, Giovanni, vieni meco», ripeteva l'addolorata genitrice. «Se non viene papà, non ci voglio andare», risposi. «Povero figlio, ripigliò mia madre, vieni meco, tu non hai più padre».

Ciò detto ruppe in forte pianto, mi prese per mano e mi trasse altrove, mentre io piangeva perché ella piangeva, giacché in quella età non poteva certamente comprendere quanto grande infortunio fosse la perdita del padre.

Questo fatto mise tutta la famiglia nella costernazione. Erano cinque persone da mantenere; i raccolti dell'annata, unica nostra risorsa, andarono falliti per una terribile siccità; i commestibili giunsero a prezzi favolosi. Il frumento si pagò fino a fr. 25 l'emina;'' il gran turco o la meliga fr. 16. Parecchi testimoni contemporanei mi assicurano, che i mendicanti chiedevano con premura un po' di crusca da mettere nella bollitura dei ceci o dei fagiuoli per farsene nutrimento. Si trovarono persone morte ne' prati colla bocca piena d'erba, con cui avevano tentato di acquetare la rabbiosa fame.

Mia madre mi contò più volte, che diede alimento alla famiglia, finché ne ebbe; di poi porse una somma di danaro ad un vicino, di nome Bernardo Cavallo, affinché andasse in cerca di che nutrirsi. Quell'amico andò in vari mercati e non poté nulla provvedere anche a prezzi esorbitanti. Giunse quegli dopo due giorni e giunse aspettatissimo in sulla sera; ma all'annunzio che nulla aveva seco, se non danaro, il terrore invase la mente di tutti; giacché in quel giorno avendo ognuno ricevuto scarsissimo nutrimento, temevansi funeste conseguenze della fame in quella notte. Mia madre senza sgomentarsi andò dai vicini per farsi imprestare qualche commestibile e non trovò chi fosse in grado di venirle in aiuto. «Mio marito, prese a parlare, morendo dissemi di avere confidenza in Dio. Venite adunque, inginocchiamoci e preghiamo». Dopo breve preghiera si alzò e disse: «Nei casi estremi si devono usare mezzi estremi». Quindi coll'aiuto del nominato Cavallo andò alla stalla, uccise un vitello e facendone cuocere una parte con tutta fretta poté con quella sfamare la sfinita famiglia. Pei giorni seguenti si poté poi provvedere con cereali, che, a carissimo prezzo, poterono farsi venire di lontani paesi.

13 Emina: antica misura piemontese per cereali, equivalente a 23 litri circa (cf. Giovanni Bosco, Il sistema metrico decimale ridotto a semplicità preceduto dalle quattro prime operazioni dell'aritmetica ed uso degli artigiani e della gente di campagna, Torino, Gio. Battista Paravia e Comp., 1849, 39, in OE IV, 39). Nel dicembre 1817 il costo ufficiale di un'emina di frumento era di 6,64 lire piemontesi (o franchi, come popolarmente si continuava a dire), ma a causa della carestia i prezzi reali sul mercato si erano triplicati. Per avere un'idea approssimativa dell'enorme rincaro dei generi alimentari in quel momento di crisi, basta dire che un artigiano specializzato veniva pagato circa 1 lira al giorno e che, nell'inventario fatto alla morte di Francesco Bosco, una vacca di 8 anni fu valutata 30 lire e una cavalla 35 lire (cf. Pietro STELLA, Don Bosco nella storia economica e sociale, 1815-1870, Roma, LAS, 1980, 18-19).

Ognuno può immaginare quanto abbia dovuto soffrire e faticare mia madre in quella calamitosa annata. Ma con un lavoro indefesso, con una economia costante, con una speculazione nelle cose più minute, e con qualche aiuto veramente provvidenziale si poté passare quella crisi annonaria. Questi fatti mi furono più volte raccontati da mia madre e confermati dai vicini parenti ed amici.

Passata quella terribile penuria, e ritornate le cose domestiche in migliore stato, venne fatta proposta di un convenientissimo collocamento a mia madre; ma ella rispose costantemente": «Dio mi ha dato un marito e me lo ha tolto; morendo egli mi affido tre figli, ed io sarei madre crudele, se li abbandonassi nel momento in cui hanno maggior bisogno di me». Le fu replicato che i suoi figli sarebbero stati affidati ad un buon tutore, che ne avrebbe avuto grande cura. «Il tutore, rispose la generosa donna, è un amico, io sono la madre de' miei figli; non li abbandonerò giammai, quando anche mi si volesse dare tutto l'oro del mondo».

Sua massima cura fu di istruire i suoi figli nella religione, avviarli all'ubbidienza ed occuparli in cose compatibili a quella età. Finché era piccolino mi insegnò ella stessa le preghiere; appena divenuto capace di associarmi co' miei fratelli, mi faceva mettere con loro ginocchioni mattino e sera e tutti insieme recitavamo le preghiere in comune colla terza parte del Rosario. Mi ricordo che ella stessa mi preparò alla prima confessione, mi accompagnò in chiesa; cominciò a confessarsi ella stessa, mi raccomandò, al confessore, dopo mi aiutò a fare il ringraziamento. Ella continuò a prestarmi tale assistenza fino a tanto che mi giudicò capace di fare degnamente da solo la confessione.

Intanto io era giunto al nono anno di età; mia madre desiderava di mandarmi a scuola, ma era assai impacciato, per la distanza, giacché dal paese di Castelnuovo eravi la distanza di cinque chilometri. Recarmi in collegio si opponeva il fratello Antonio.15 Si prese un temperamento. In" tempo d'inverno frequentava la scuola del vicino paesello di Capriglio, dove potei imparare gli elementi di lettura e scrittura. Il mio maestro era un sacerdote di molta pietà a nome Giuseppe Lacqua» il quale mi usò molti riguardi, occupandosi assai volentieri della mia istruzione e più ancora della mia educazione cristiana. Nell'estate poi appagava mio fratello lavorando la campagna.

14 A.S.F. legge tostamente.

15 Collegio: termine usato per indicare la scuola statale.

16 A.S.F. legge Il tempo.

17 Giuseppe Lacqua (1764-1847). Don Bosco scrive "Delacqua". Domestica di don Lacqua era la zia Marianna Occhiena (1785-1857). Giovanni Bosco manterrà ottime relazioni con don Lacqua, come documenta la corrispondenza epistolare superstite (cf. Giovanni Bosco, Epistolario. Volume I: (1835-1863). Introduzione, testi critici e note a cura di Francesco Motto, Roma, LAS, 1991, 48, 73). La maggior parte dei maestri elementari e dei professori di scuola superiore nello Stato sabaudo, fino alla metà del secolo, era costituita da sacerdoti che accanto all'insegnamento assumevano anche la carica di viceparroco o di cappellano nelle chiese dei villaggi.

Un sogno

A quell'età ho fatto un sogno, che mi rimase profondamente impresso nella mente per tutta la vita. Nel sonno mi parve di essere vicino a casa in un cortile assai spazioso, dove stava raccolta una moltitudine di fanciulli, che si trastullavano. Alcuni ridevano, altri giuocavano, non pochi bestemmiavano. All'udire quelle bestemmie mi sono subito lanciato in mezzo di loro adoperando pugni e parole per farli tacere. In quel momento apparve un uomo venerando in virile età nobilmente vestito. Un manto bianco gli copriva tutta la persona; ma la sua faccia era così luminosa, che io non poteva rimirarlo. Egli mi chiamò per nome e mi ordinò di pormi alla testa di que' fanciulli aggiugnendo queste parole: «Non colle percosse ma colla mansuetudine e colla carità dovrai guadagnare questi tuoi amici. Mettiti adunque immediatamente a fare loro un'istruzione sulla bruttezza del peccato e sulla preziosità della virtù».

Confuso e spaventato soggiunsi che io era un povero ed ignorante fanciullo incapace di parlare di religione a que' giovanetti. In quel momento que' ragazzi cessando dalle risse, dagli schiamazzi e dalle bestemmie, si raccolsero tutti intorno a Colui, che parlava.

Quasi senza sapere che mi dicessi, «Chi siete voi, soggiunsi, che mi comandate cosa impossibile?». «Appunto perché tali cose ti sembrano impossibili, devi renderle possibili coll'ubbidienza e coll'acquisto della scienza». «Dove, con quali mezzi potrò acquistare la scienza?». «Io ti darò la maestra sotto alla cui disciplina puoi diventare sapiente, e senza cui ogni sapienza diviene stoltezza».

— Ma chi siete voi, che parlate in questo modo?

— Io sono il figlio di Colei, che tua madre ti ammaestrò di salutar tre volte al giorno.

— Mia madre mi dice di non associarmi con quelli che non conosco, senza suo permesso; perciò ditemi il vostro nome.

— Il mio nome dimandalo a mia madre. In quel momento vidi accanto di lui una donna di maestoso aspetto, vestita di un manto, che risplendeva da tutte parti, come se ogni punto di quello fosse una fulgidissima stella. Scorgendomi ognor più confuso nelle mie dimande e risposte, mi accennò di avvicinarmi a lei, che presemi" con bontà per mano, e «guarda», mi disse. Guardando mi accorsi che quei fanciulli erano tutti fuggiti, ed in loro vece vidi una moltitudine di capretti, di cani, di gatti, orsi e di parecchi altri animali. «Ecco il tuo campo, ecco dove devi lavorare. Renditi umile, forte, robusto; e ciò che in questo momento vedi succedere di questi animali, tu dovrai farlo pei figli miei».

Volsi allora lo sguardo ed ecco invece di animali feroci apparvero altrettanti mansueti agnelli, che tutti saltellando correvano attorno belando come per fare festa a quell'uomo e a quella signora.

18 A.S.F. legge presomi.

A quel punto, sempre nel sonno, mi misi a piangere, e pregai quello a voler parlare in modo da capire, perciocché io non sapeva quale cosa si volesse significare. Allora ella mi pose la mano sul capo dicendomi: «A suo tempo tutto comprenderai».

Ciò detto un rumore mi svegliò, ed ogni cosa disparve19.

Io rimasi sbalordito. Sembravami di avere le mani che facessero male pei pugni che aveva dato, che la faccia mi duolesse per gli schiaffi ricevuti; di poi quel personaggio, quella donna, le cose dette e le cose udite mi occuparono talmente la mente, che per quella notte non mi fu possibile prendere sonno. Al mattino ho tosto con premura raccontato quel sogno prima a' miei fratelli, che si misero a ridere, poi a mia madre ed alla nonna. Ognuno dava al medesimo la sua interpretazione. Il fratello Giuseppe diceva: «Tu diventerai guardiano di capre, di pecore o di altri animali». Mia madre: «Chi sa che non abbi a diventar prete». Antonio con secco accento: «Forse sarai capo di briganti». Ma la nonna, che sapeva assai di teologia, era del tutto 4nalfabeta, diede sentenza definitiva dicendo: «Non bisogna badare ai sogni».

Io era del parere di mia nonna, tuttavia non mi fu mai possibile di togliermi quel sogno dalla mente. Le cose che esporrò in appresso daranno a ciò qualche significato. Io ho sempre taciuto ogni cosa; i miei parenti non ne fecero caso. Ma quando, nel 1858, andai a Roma per trattar col Papa della congregazione salesiana, egli si fece minutamente raccontare tutte le cose che avessero anche solo apparenza di soprannaturali. Raccontai allora per la prima volta il sogno fatto in età di nove in dieci anni. Il Papa mi comandò di scriverlo nel suo senso letterale, minuto e lasciarlo per incoraggiamento ai figli della congregazione, che formava lo scopo di quella gita a Roma."

19 A.S.F. omette ed ogni cosa disparve.

20 Don Bosco visitò Roma la prima volta tra 21 febbraio e 14 aprile 1858. Venne ricevuto in udienza dal papa a più riprese: 9, 21 (o 23) marzo e 6 aprile. Secondo la ricostruzione di don Lemoyne, nell'incontro del 21 marzo, il papa si fece narrare «le cose che avessero anche solo apparenza di soprannaturale» e raccomandò a don Bosco: «Ritornato a Torino, scrivete questi sogni ed ogni altra cosa che mi avete ora esposta, minutamente e nel loro senso naturale; conservatele qual patrimonio per la vostra Congregazione; lasciatele per incoraggiamento e norma ai vostri figli» (MB V, 882). Nella stessa occasione don Bosco presentò il progetto di fondazione della Società Salesiana e fu incoraggiato dal pontefice (sul questo viaggio cf. Pietro BRAIDO, Don Bosco prete dei giovani nel secolo delle libertà, Roma, LAS, 2003, I, 378-390). Nel corso del suo lungo pontificato (1846-1878) Pio IX favori le nuove fondazioni religiose per il rilancio missionario della Chiesa e per la promozione dell'azione caritativa; diede impulso alla pietà eucaristica e mariana; valorizzò il sentimento religioso, con particolare interesse per le manifestazioni straordinarie, le apparizioni e i segni dell'azione di Dio nella storia (cf. Giacomo MARTINA, Pio IX Chiesa e mondo moderno, Roma, Studium, 1976; Roger AUBERT, La chiesa cattolica dalla crisi del 1848 alla prima guerra mondiale, in Nuova storia della Chiesa, vol. V/1, Torino, Marietti, 1977, 21-44, 57-100).

PRIMA DECADE  1825-1835

1. Primi trattenimenti coi fanciulli — Le prediche — Il saltimbanco — Le nidiate

Voi mi avete più volte dimandato a quale età abbia cominciato ad occuparmi dei fanciulli. All'età di 10 anni io faceva quello che era compatibile alla mia età e che era una specie di Oratorio festivo. Ascoltate. Era ancora piccolino assai e studiava già il carattere dei compagni miei. E fissando taluno in faccia per lo più ne scorgeva i progetti che quello aveva in cuore. Per questo in mezzo a' miei coetanei era molto amato e molto temuto.' Ognuno mi voleva per giudice o per amico. Dal mio canto faceva del bene a chi poteva, ma del male a nissuno. I compagni poi mi amavano assai, affinché in caso di rissa prendessi di loro difesa. Perciocché sebbene fossi più piccolo di statura aveva forza e coraggio da incutere timore ai compagni di assai maggiore età, a segno che nascendo brighe, quistioni, risse di qualunque genere, io diveniva arbitro dei litiganti ed ognuno accettava di buon grado la sentenza che fossi per proferire.

Ma ciò che li raccoglieva intorno a me, e li allettava fino alla follia, erano i racconti che loro faceva. Gli esempi uditi nelle prediche o nei catechismi; la lettura dei Reali di Francia, del Guerino Meschino,2 di Bertoldo, Bertoldino, mi somministravano molta materia.' Appena i miei compagni mi vedevano, correvano affollati per farsi esporre qualche cosa da colui che a stento cominciava capire quello che leggeva.

1 Don Bosco usava il verbo temere nel senso di "portar rispetto e venerazione". Nell'edizione italiana del trattato sul sistema preventivo leggiamo: «L' e duc at ore tra gli allievi cerchi di farsi amare, se vuol farsi temere»; mentre nel testo francese a fronte è scritto: «Le maitre doit tàcher de se faire aimer par les élevès, s'il veut qu'on le respecte» (Giovanni Bosco, Il sistema preventivo nella educazione della gioventù. Introduzione e testi critici a cura di Pietro Braido, Roma, LAS, 1989, 91 e 126).

2 Don Bosco scrive: Guarino.

3 Reali di Francia e Guerino Meschino: romanzi cavallereschi medievali francesi, volgarizzati in italiano da Andrea Mangiabotti da Barberino (1370-1431); in Italia furono apprezzati e letti ancora per tutto l'Ottocento (cf. Dizionario critico della letteratura italiana, diretto da Vittore Branca, Torino, UTET, 1986, I, 65-67). Bertoldo e Bertoldino: novelle di Giulio Cesare Croce (1550-1609). La prima (Le sottilissime astuzie di Bertoldo) raffigura un contadino deforme e astuto, apprezzato dal re Alboino per la sua intelligenza, nonostante la libertà con la quale si prendeva gioco del potere. La seconda novella (Le piacevoli e ridicolose semplicità di Bertoldino), mette in scena il figlio Bertoldino; qui la situazione è rovesciata: non si ride più dell'astuzia del plebeo, ma della sua sciocchezza (cf. Dizionario critico della letteratura italiana, Il, 78-81).

A costoro si aggiunsero parecchi adulti, e talvolta nell'andare o venire da Castelnuovo, talora in un campo, in un prato io era circondato da centinaia di persone accorse per ascoltare un povero fanciullo, che fuori di un po' di memoria, era digiuno nella scienza, ma che tra loro compariva un gran dottore: Monoculus rex in regno caecorum.4

Nelle stagioni invernali poi tutti mi volevano nella stalla per farsi raccontare qualche storiella.5 Colà raccoglievasi gente di ogni età e condizione, e tutti godevano di poter passare la serata di cinque ed anche sei ore ascoltando immobili il lettore dei Reali di Francia, che il povero oratore esponeva ritto sopra una panca, affinché fosse da tutti udito e veduto. Siccome però dicevasi che venivano ad ascoltare la predica, così prima e dopo i miei racconti facevamo tutti il segno della santa croce colla recita dell'Ave Maria. 1826.

Nella bella stagione, specialmente ne' giorni festivi si radunavano quelli del vicinato e non pochi forestieri. Qui la cosa prendeva aspetto assai più serio. Io dava a tutti un trattenimento con alcuni giuocarelli che io stesso aveva da altri imparato. Spesso sui mercati e sulle fiere vi erano ciarlatani e saltimbanchi, che io andava a vedere, osservando attentamente ogni più piccola loro prodezza; me ne andava di poi a casa e mi esercitava fino a tanto che avessi imparato a fare altrettanto. Immaginatevi le scosse, gli urti, gli stramazzoni, i capitomboli cui ad ogni momento andava soggetto. Pure, lo credereste? ad undici anni io faceva i giuochi dei bussolotti, il salto mortale, la rondinella, camminava sulle mani, camminava, saltava e danzava sulla corda, come un saltimbanco di professione.

Da quello che si faceva un giorno festivo comprenderete quanto io faceva negli altri.

Ai Becchi avvi un prato, dove allora esistevano diverse piante, di cui tuttora sussiste un pero martinello,6 che in quel tempo mi era di molto aiuto. A questo albero attaccava una fune, che andava a rannodarsi ad un altro a qualche distanza; di poi un tavolino colla bisaccia; indi un tappeto a terra per farvi sopra i salti.

4 In un regno di ciechi, chi ha un solo occhio diventa re.

5 Durante le lunghe sere d'inverno i contadini si radunavano nelle stalle e al lume di lucerna trascorrevano il tempo recitando il rosario, facendo lavori manuali, scambiandosi le notizie della giornata, raccontando favole e leggende tradizionali. In queste occasioni si usava anche leggere ad alta voce vite dei santi o romanzi popolari. Per favorire un uso edificante di tali raduni, Felice Cecca, parroco di Villafranca Piemonte (Torino) aveva composto un prontuario che ebbe molta fortuna editoriale: Le veglie de' contadini cristiani. Dialoghi famigliari instruttivi sopra la fede e suo simbolo, ad uso delle persone di campagna, Carmagnola, Pietro Barbiè, 1799 (che ebbe riedizioni per tutto l'Ottocento, fino all'undicesima nel 1902).

6 Pero martinello: nome dialettale di una varietà di pero (Martin sec) tipico del Piemonte e della Francia, i cui piccoli frutti, raccolti in novembre, si cuocevano nel vino con zucchero o miele.

Quando ogni cosa era preparata ed ognuno stava ansioso di ammirare novità, allora li invitava tutti a recitare la terza parte del Rosario, dopo cui si cantava una lode sacra. Finito questo montava sopra una sedia, faceva la predica, o meglio ripeteva quanto mi ricordava della spiegazione del vangelo udita al mattino in chiesa; oppure raccontava fatti od esempi uditi o letti in qualche libro. Terminata la predica si faceva breve preghiera, e tosto si dava principio ai trattenimenti. In quel momento voi avreste veduto, come vi dissi, l'oratore divenire un ciarlatano di professione. Fare la rondinella, il salto mortale, camminare sulle mani col corpo in alto; poi cingermi la bisaccia, mangiare gli scudi per andarli a ripigliare sulla punta del naso dell'uno o dell'altro; poi moltiplicare le palle, le uova, cangiare l'acqua in vino, uccidere e fare in pezzi un pollo e poi farlo risuscitare e cantare meglio di prima, erano gli ordinarii trattenimenti. Sulla corda poi camminava come per un sentiero; saltava, danzava, mi appendeva ora per un piede, ora per due; talora con ambe le mani, talora con una sola. Dopo alcune ore di questa ricreazione quando io era ben stanco, cessava ogni trastullo, facevasi breve preghiera ed ognuno se ne andava pe' fatti suoi.

Da queste radunanze erano esclusi tutti quelli che avessero bestemmiato, fatto cattivi discorsi, o avessero rifiutato di prendere parte alle pratiche religiose

Qui voi mi farete una dimanda: per andare alle fiere, ai mercati, ad assistere i ciarlatani, provvedere quanto occorreva per quei divertimenti, erano necessalii danari, e questi dove si prendevano? A questo io poteva provvedere in più modi. Tutti i soldi che mia madre od altri mi davano per minuti piaceri o per ghiottoneria; le piccole mance, i regali, tutto era posto in serbo per questo bisogno. Di più io era peritissimo ad uccellare colla trappola, colla gabbia, col vischio, coi lacci; pratichissimo delle nidiate. Fatta raccolta sufficiente di questi oggetti io sapeva venderli assai bene. I funghi, l'erba tintoria,' il treppio8 erano eziandio per me sorgente di danaro.

Voi qui mi dimanderete: e la madre mia era contenta che tenessi una vita cotanto dissipata e spendessi il tempo a fare il ciarlatano? Vi dirò che mia madre mi voleva molto bene; ed io le aveva confidenza illimitata, e senza il suo consenso non avrei mosso un piede. Ella sapeva tutto, osservava tutto e mi lasciava fare. Anzi, occorrendomi qualche cosa me la somministrava assai volentieri. Gli stessi miei compagni e in generale tutti gli spettatori mi davano con piacere quanto mi fosse stato necessario per procacciare loro quegli ambiti passatempi.

7 Erba tintoria o guado (isatis tinctoria), piccolo arbusto le cui foglie venivano usate per la tintura dei tessuti, industria molto sviluppata nella città di Chieri.

8 Treppio o trebbio: parola dialettale per indicare una varietà di erica (erica scoparla) che serviva per fare piccole scope o spazzole per strigliare i cavalli.

2. Prima comunione — Predica della Missione — D. Calosso — Scuola di Morialdo

Una cosa che mi dava grave pensiero era il difetto di una chiesa o cappella dove andare a cantare, a pregare co' miei compagni. Per ascoltare una predica oppure un catechismo, bisognava fare la via di circa dieci chilometri, tra andata e ritorno, o a Castelnuovo o nel paese vicino di Buttigliera.9 Questo era il motivo per cui si veniva volentieri ad ascoltare le prediche del saltimbanco.1°

Io era all'età di anni undici quando fui ammesso alla prima comunione." Sapeva tutto il piccolo catechismo, ma per lo più niuno era ammesso alla comunione se non ai dodici anni. Io poi per la lontananza dalla chiesa, era sconosciuto al parroco, e doveva quasi esclusivamente limitarmi alla istruzione religiosa della buona genitrice. Desiderando però di non lasciarmi andare più avanti nell'età senza farmi praticare quel grande atto di nostra santa religione, si adoperò ella stessa a prepararmi come meglio poteva e sapeva. Lungo la quaresima mi inviò ogni giorno al catechismo. Di poi fui esaminato, promosso e si era fissato il giorno in cui tutti i fanciulli dovevano fare Pasqua.

In mezzo alla moltitudine era impossibile di evitare la dissipazione. Mia madre studiò di assistermi più giorni; mi aveva condotto tre volte a confessarmi lungo la quaresima. «Giovanni mio, disse ripetutamente, Dio ti prepara un gran dono; ma procura prepararti bene, di confessarti, di non tacere alcuna cosa in confessione. Confessa tutto, sii pentito di tutto, e prometti a Dio di farti più buono in avvenire». Tutto promisi; se poi sia stato fedele, Dio lo sa. A casa mi faceva pregare, leggere un buon libro, dandomi que' consigli che una madre industriosa sa trovare opportuni pe' suoi figliuoli.

Quel mattino non mi lasciò parlare con nissuno, mi accompagnò alla sacra mensa e fece meco la preparazione ed il ringraziamento, che il vicario foraneo, di nome Sismondo» con molto zelo faceva a tutti con voce alta ed alternata. In quella giornata non volle che mi occupassi in alcun lavoro materiale, ma tutta l'adoperassi a leggere e a pregare.

9 Buttigliera d'Asti: centro agricolo a 2,5 km da Castelnuovo e 25 da Torino; nel 1834 contava 2170 abitanti (cf. CASALIS, Dizionario, Il, 776-778).

10 Una cosa...saltimbanco: A.S.F. colloca questo paragrafo dopo il racconto della prima comunione.

11 Nel 1825 il parroco di Castelnuovo scriveva all'arcivescovo: «Il catechismo ai ragazzi si fa non solamente nei giorni festivi, ma anche in tutti i dì della Quaresima, principiando dalla prima settimana sino a quella di Passione, per così prepararli alla confessione e comunione pasquale, alla quale comunione comunemente si principia ad ammettere i figli e le figlie all'età di 12 anni, scorgendosi però in essi una tal quale capacità e sodezza» (Relazione dello stato della Parrocchia di S. Andrea, f. 471). La funzione si celebrava nel periodo pasquale. Giovanni compì 11 anni il 16 agosto 1826, dunque, presumibilmente, venne ammesso alla comunione nella Pasqua 1827.

12 Giuseppe Sismondo (1771-1827) fu parroco di Castelnuovo dal 1812 alla morte. Vicario foraneo, era il titolo dato al parroco che coordinava le parrocchie di una zona (vicariato). La diocesi di Torino in quel tempo contava 463.400 abitanti; le parrocchie erano 242 suddivise in 27 vicariati (cf. Aldo GIRAUDO, Clero, seminario e società. Aspetti della Restaurazione religiosa a Torino, Roma,LAS, 1993, 62-69).

Fra le molte cose mia madre mi ripeté più volte queste parole: «O caro figlio, fu questo per te un gran giorno. Sono persuasa che Dio abbia veramente preso possesso del tuo cuore. Ora promettigli di fare quanto puoi per conservarti buono sino alla fine della vita. Per l'avvenire va sovente a comunicarti, ma guardati bene dal fare dei sacrilegi. Di' sempre tutto in confessione, sii sempre ubbidiente, va volentieri al catechismo ed alle prediche, ma per amor del Signore fuggi come la peste coloro che fanno i cattivi discorsi».

Ritenni e procurai di praticare gli avvisi della pia genitrice; e mi pare che da quel giorno vi sia stato qualche miglioramento nella mia vita, specialmente nella ubbidienza e nella sottomissione agli altri, al che provava prima grande ripugnanza, volendo sempre fare i miei fanciulleschi riflessi a chi mi comandava o mi dava buoni consigli.

In quell'anno ( l 826)13 una solenne missione che ebbe luogo nel paese di Buttigliera, mi porse opportunità di ascoltare parecchie prediche. La rinomanza dei predicatori traeva gente da tutte parti. Io pure ci andava con molti altri. Fatta una istruzione ed una meditazione in sulla sera, lasciavansi liberi gli uditori di recarsi alle case loro.

Una di quelle sere di aprile, mi recava a casa in mezzo alla moltitudine, e tra noi eravi un certo D. Calosso di Chieri," uomo assai pio, il quale sebbene curvo dagli anni faceva quel lungo tratto di via per recarsi ad ascoltare i missionari. Desso era cappellano di Morialdo. Il vedere un fanciullo di piccola statura, col capo scoperto, capelli irti ed inanellati camminare in gran silenzio in mezzo agli altri trasse sopra di me il suo sguardo e prese a parlarmi così:

— Figlio mio, donde vieni? Sei forse andato anche tu alla missione?

— Sì, signore, sono andato alla predica dei missionarii.

— Che cosa avrai tu mai potuto capire! Forse tua mamma ti avrebbe fatta qualche predica più opportuna, non è vero?

13 Dovrebbe dire 1829, infatti don Calosso, di cui parlerà fra poco, si stabilì come cappellano di Morialdo solo nei primi mesi del 1829. Due furono i giubilei celebrati in quegli anni: uno indetto da Leone XII per l'anno santo 1826, l'altro concesso eccezionalmente da Pio VIII il 12 giugno 1829, in occasione della sua elezione. L'arcivescovo di Torino, Colombano Chiaveroti, stabili la celebrazione del giubileo per la sua diocesi tra 8 e 22 novembre, «quando terminate le villeggiature, e li più pressanti lavori di campagna ogni sorta e condizione di persone potrà più agevolmente profittarne» (Lettera pastorale del 30 agosto 1829, Torino, Eredi Botta stampatori arcivescovili, 1829, 2-3). Qui don Bosco confonde un giubileo con l'altro.

14 Giovanni Melchiorre Felice Calosso (1760-1830), nato a Chieri, laureato in Teologia all'Università di Torino. Era stato parroco a Bruino (paese a 25 lcm da Torino) tra 1791 e 1813; fu costretto a dimettersi a causa di una campagna denigratoria orchestrata da alcuni notabili giacobini della parrocchia. Dopo aver svolto per vari anni la funzione di collaboratore parrocchiale a Carignano, si trasferì a Morialdo nella primavera 1829 (cf. GIRAUDO, Clero, seminario e società, 42-44).

— È vero, mia madre mi fa sovente delle buone prediche; ma vado anche assai volentieri ad ascoltare quelle dei missionari e mi sembra di averle capite.

— Se tu sai dirmi quattro parole delle prediche di quest'oggi io ti do quattro soldi.

— Mi dica soltanto se desidera che io le dica della prima o della seconda predica.

— Come più ti piace, purché tu mi dica quattro parole. Ti ricordi di che cosa si trattò nella prima predica?

— Nella prima predica si parlò della necessità di darsi a Dio per tempo e non differire la conversione.

— E che cosa fu detto in quella predica? — soggiunse il venerando vecchio alquanto maravigliato.

— Me ne ricordo assai bene e se vuole gliela recito tutta.

E senza altro attendere cominciai ad esporre l'esordio, poi i tre punti, cioè che colui il quale differisce la sua conversione corre gran pericolo che gli manchi il tempo, la grazia o la volontà. Egli mi lasciò continuare per oltre mezz'ora in mezzo alla moltitudine; di poi si fece ad interrogarmi così: «Come è tuo nome, i tuoi parenti, hai fatto molte scuole?».

— Il mio nome è Giovanni, mio padre morì quando io era ancor bambino. Mia madre è vedova con cinque creature da mantenere. Ho imparato a leggere e un poco a scrivere.

— Non hai studiato il Donato o la grammatica?"

— Non so che cosa siano. — Ameresti di studiare? —Assai, assai.

— Che cosa t'impedisce? — Mio fratello Antonio.

— Perché Antonio non vuole lasciarti studiare?

— Perché non avendo egli voluto andare a scuola, dice che non vuole che altri perda tempo a studiare come egli l'ha perduto, ma se io ci potessi andare, sì che studierei e non perderei tempo.

— Per qual motivo desidereresti studiare?

15 Donato: termine usato per indicare la grammatica latina. Derivava dal nome di un grammatico romano del IV sec. d.C., Elio Donato (maestro di san Girolamo e di Rufino d'Aquileia), autore di due trattati di grammatica, usati per secoli nelle scuole di latino: l'Ars minor, testo elementare sulle otto parti del discorso, e l'Ars maior, sulla stilistica e la metrica. In Piemonte il termine Donato indicava la grammatica per le classi di Latinità inferiore: Donato ossia rudimenti di lingua latina ed italiana. Torino, Stamperia Reale, 1815. Giovanni Bosco probabilmente usò questa edizione, oppure quella più recente: Donato accresciuto di nuove aggiunte e diviso in due parti. Torino, Stamperia Reale, 1824. Il termine Grammatica, invece, indicava il testo usato nelle classi superiori: Nuovo metodo per apprendere agevolmente la lingua latina tratto dal francese ... a uso delle scuole regie. Torino, Stamperia Reale, 1817, 2 voli. (nuova edizione nel 1828).

— Per abbracciare lo stato ecclesiastico.

— E per qual motivo vorresti abbracciare questo stato?

— Per avvicinarmi, parlare, istruire nella religione tanti miei compagni, che non sono cattivi, ma diventano tali, perché niuno di loro ha cura.

Questo mio schietto e direi audace parlare fece grande impressione sopra quel santo sacerdote, che mentre io parlava non mi tolse mai di dosso lo sguardo. Venuti intanto ad un punto di strada, dove era mestieri separarci, mi lasciò con queste parole: «Sta di buon animo; io penserò a te e al tuo studio. Domenica vieni con tua madre a vedermi e conchiuderemo tutto».

La seguente domenica ci andai di fatto con mia madre e si convenne che egli stesso mi avrebbe fatto scuola, una volta al giorno, impiegando il rimanente della giornata a lavorare in campagna per appagare il fratello Antonio. Questi si contentò facilmente, perché ciò dovevasi cominciare dopo l'estate, quando i lavori campestri non danno più gran pensiero.

Io mi sono tosto messo nelle mani di D. Calosso, che soltanto da alcuni mesi era venuto a quella cappellania. Gli feci conoscere tutto me stesso. Ogni parola, ogni pensiero, ogni azione eragli prontamente manifestata. Ciò gli piacque assai, perché in simile guisa con fondamento potevami regolare nello spirituale e nel temporale.

Conobbi allora che voglia dire avere una guida stabile, di un fedele amico dell'anima, di cui fino a quel tempo era stato privo. Fra le altre cose mi proibì tosto una penitenza, che io era solito di fare, non adattata alla mia età e condizione. Mi incoraggiò a frequentar la confessione e la comunione, e mi ammaestrò intorno al modo di fare ogni giorno una breve meditazione o meglio un po' di lettura spirituale. Tutto il tempo che poteva nei giorni festivi lo passava presso di lui. Ne' giorni feriali, per quanto poteva, andava servirgli la santa messa.

Da quell'epoca ho cominciato a gustare che cosa sia vita spirituale, giacché prima agiva piuttosto materialmente e come macchina che fa una cosa, senza saperne la ragione.

Alla metà di settembre ho cominciato regolarmente lo studio della grammatica italiana, che in breve ho potuto compiere e praticare con opportune composizioni. A Natale ho dato mano al Donato, a Pasqua diedi principio alle traduzioni dal latino in italiano e vicendevolmente. In tutto quel tempo non ho mai cessato dai soliti trattenimenti festivi nel prato, o nella stalla d'inverno. Ogni fatto, ogni detto e posso dire ogni parola del maestro serviva a trattenere i miei uditori.

Io mi reputava felice di essere giunto al compimento de' miei desiderii, quando nuova tribolazione, anzi un grave infortunio troncò il filo delle mie speranze.

3. Lo studio e la zappa — Una cattiva ed una buona nuova — Morte di D. Calosso

Fino a tanto che durò l'inverno e che i lavori contadineschi non richiedevano alcuna premura il fratello Antonio mi dava tempo di applicarmi alle cose di scuola. Ma venuta la primavera cominciò a lagnarsi dicendo che esso doveva logorarsi la vita in pesanti fatiche mentre io perdeva il tempo facendo il signorino. Dopo vive discussioni con me e con mia madre, per conservare la pace in famiglia si conchiuse che io sarei andato al mattino per tempo a scuola e il rimanente del giorno avrei impiegato in lavori materiali. Ma come studiare le lezioni? Come fare le traduzioni?

Ascoltate. L'andata ed il ritorno di scuola porgevami un po' di tempo a studiare. Giunto poi a casa, prendeva la zappa da una mano, dall'altra la grammatica e durante la strada studiava Qui quae quod, qualora è messo etc.16 fino al luogo del lavoro; colà, dando un compassionevole sguardo alla grammatica, mettevala in un angolo e mi accingeva a zappare, a sarchiare o raccogliere erba cogli altri secondo il bisogno.

L'ora poi in cui gli altri solevano fare merenda io mi ritirava in disparte, e con una mano teneva la pagnottella mangiando, coll'altra teneva il libro studiando. La medesima operazione faceva ritornando a casa. L'ora del desinare, della cena, qualche furto al riposo era l'unico tempo che mi rimaneva pe' miei doveri in iscritto.

Malgrado tanto lavoro e tanta buona volontà il fratello Antonio non era soddisfatto. Un giorno con mia madre, di poi con mio fratello Giuseppe, in tono imperativo disse: «È abbastanza fatto. Voglio finirla con questa grammatica. Io sono venuto grande e grosso e non ho mai veduto questi libri». Dominato in quel momento dall'afflizione e dalla rabbia, risposi quello che non avrei dovuto: «Tu parli male, gli dissi. Non sai che il nostro asino e più grosso di te e non andò mai a scuola? Vuoi tu divenire simile a lui?». A quelle parole saltò sulle furie, e soltanto colle gambe, che mi servivano assai bene, potei fuggire e scampare da una pioggia di busse e di scappellotti.

Mia madre era afflittissima; io piangeva; il cappellano addolorato. Quel degno ministro di Dio informato dei guai avvenuti in mia famiglia, mi chiamò un giorno e mi disse: «Giovanni mio, tu hai messo in me la tua confidenza, e non voglio che ciò sia invano. Lascia adunque un fratello crudele e vieni con me ed avrai un padre amoroso».

16 Inizio di una regola grammaticale latina che nel Nuovo metodo era formulata in rima, per facilitarne l'apprendimento: «Qui, quae, quod qualora è messo I dopo il nome antecedente, i d'accopiarglisi consente sol nel numero, e nel sesso» (cf. Nuovo metodo per apprendere agevolmente la lingua latina, vol. I, 484).

Comunicai tosto a mia madre quella caritatevole profferta, e fu una festa in famiglia. Al mese di aprile cominciai a fare vita col cappellano, andando soltanto la sera a casa per dormire.

Niuno può immaginare la grande mia contentezza. D. Calosso per me era divenuto un idolo. L'amava più che padre, pregava per lui, lo serviva volentieri in tutte le cose. Era poi sommo piacere di faticare per lui, e direi dare la vita in cosa di suo gradimento. Io faceva tanto progresso in un giorno col cappellano, quanto non avrei fatto a casa in una settimana. Quell'uomo di Dio mi portava tanta affezione che più volte ebbe a dirmi: «Non darti pena pel tuo avvenire; finché vivrò, non ti lascerò mancare niente; se muoio ti provvederò parimenti.

Gli affari miei procedevano con indicibile prosperità. Io mi chiamava pienamente felice, né cosa alcuna rimanevami a desiderare, quando un disastro troncò il corso a tutte le mie speranze.

Un mattino di aprile 1828'7 D. Calosso mi inviò presso a' miei parenti per una commissione; era appena giunto a casa allorché una persona correndo ansante mi accenna di correre immediatamente da D. Calosso, colpito da grave malanno, e, dimandava di me. Non corsi, `ma volai accanto al mio benefattore, che fatalmente trovai a letto senza parola. Era stato assalito da un colpo apoplettico. Mi conobbe, voleva parlare, ma non poteva più articolare parola. Mi diede la chiave del danaro, facendo segno di non darla ad alcuno. Ma dopo due giorni di agonia il povero D. Calosso mandava l'anima in seno al Creatore, con lui moriva ogni mia speranza. Ho sempre pregato e finché avrò vita non mancherò di fare ogni mattina preghiere per questo mio insigne benefattore.

Vennero gli eredi di D. Calosso, e loro consegnai chiave ed ogni altra cosa.

4. D. Cafasso — Incertezze — Divisione fraterna — Scuola di Castelnuovo d'Asti — La musica — Il sarto

In quell'anno la divina provvidenza mi fece incontrare un novello benefattore: D. Cafasso Giuseppe di Castelnuovo d'Asti.18

17 Dovrebbe dire novembre 1830; don Calosso infatti mori il 21 novembre 1830, come risulta dai registri parrocchiali di Castelnuovo: «Calosso ad[modum]. Rev. Th. Joannes cappellanus Murialdi, cheriensis annum agens septuagesimum quintum, extrema unctione, non vero aliis sacramentis munitus quia repente usu sensuum fuit destitutus, obiit die vigesima prima novembris anno ut supra [1830], et postridie sepultus» (ASPC 77: Defunctorum liber Paroeciae Castrinovi sub titulo Sancti Andreae Apostuli incipiens anno 1823, 100).

18 Don Bosco scrive sempre Caffasso, italianizzando la pronuncia dialettale del cognome. Giuseppe Cafasso (n. 15 gennaio 1811 - m. 23 giugno 1860), conterraneo di don Bosco, sarà suo confessore e direttore spirituale. Ordinato sacerdote a 22 anni (1833), frequentò il Convitto Ecclesiastico di Torino per il perfezionamento pastorale, sotto la guida del teologo Luigi Guala, del quale divenne collaboratore. Fu uomo di preghiera, di vita estremamente mortificata, tutto dedito al ministero pastorale e all'insegnamento della teologia morale. Instancabile nella predicazione, nella confessione e nella direzione spirituale, ebbe particolare sensibilità verso i poveri e i carcerati, che visitava regolarmente e aiutava economicamente. Con tenera carità si prestava ad assistere e confortare i condannati a morte. Ebbe un grande influsso sulla fioritura di santità sacerdotale che caratterizzò la chiesa piemontese tra '800 e '900. Proclamato santo nel 1947, è il patrono dei carcerati. Pio XII, nell'esortazione Menti nostrae (1950), lo indicò come modello dei sacerdoti che «attendono alla santificazione dei confratelli, come consiglieri o come confessori o come direttori spirituali» (cf. Luigi Nicous DI ROBILANT, San Giuseppe Cafasso confondatore del Convitto ecclesiastico di Torino. II ed. riveduta e aggiornata da Jose Cottino, Torino, Edizioni Santuario della Consolata, 1960).

Era la seconda domenica di ottobre (1827) e dagli abitanti di Morialdo si festeggiava la maternità di Maria Santissima, che era la solennità principale fra quegli abitanti. Ognuno era in faccende per le cose di casa o di chiesa, mentre altri erano spettatori o prendevano parte a giuochi o a trastulli diversi.

Un solo io vidi lungi da ogni spettacolo, ed era un chierico, piccolo nella persona, occhi scintillanti, aria affabile, volto angelico.19 Egli era appoggiato alla porta della chiesa. Io ne fui come rapito dal suo sembiante e sebbene io toccassi soltanto l'età di dodici anni, tuttavia mosso dal desiderio di parlargli, mi avvicinai e gli indirizzai queste parole: «Signor abate, desiderate di vedere qualche spettacolo della nostra festa? Io vi condurrò di buon grado ove desiderate».

Egli mi fe' grazioso cenno di avvicinarmi e prese ad interrogarmi sulla mia età, sullo studio, se io era già stato promosso alla santa comunione, con che frequenza andava a confessarmi, ove andava al catechismo e simili. Io rimasi come incantato a quelle edificanti maniere di parlare; risposi volentieri ad ogni domanda; di poi quasi per ringraziarlo della sua affabilità, ripetei l'offerta di accompagnarlo a visitare qualche spettacolo o qualche novità.

— Mio caro amico, egli ripigliò, gli spettacoli dei preti sono le funzioni di chiesa; quanto più esse sono divotamente celebrate, tanto più grati ci riescono i nostri spettacoli. Le nostre novità sono le pratiche della religione che sono sempre nuove e perciò da frequentarsi con assiduità; io attendo solo che si apra la chiesa per poter entrare.

Mi feci animo a continuare il discorso, e soggiunsi: «È vero quanto mi dite, ma v'è tempo per tutto: tempo di andare in chiesa e tempo per ricrearci».

Egli si pose a ridere e conchiuse con queste memorande parole, che furono come il programma delle azioni di tutta la sua vita: «Colui che abbraccia lo stato ecclesiastico si vende al Signore, e di quanto avvi nel mondo, nulla deve più stargli a cuore se non quello che può tornare a maggior gloria di Dio e a vantaggio delle anime».

Allora tutto maravigliato, volli sapere il nome di quel chierico, le cui parole e il cui contegno cotanto manifestavano lo spirito del Signore.

19 Giuseppe Cafasso aveva vestito l'abito chiericale il 1° luglio 1827, all'età di 16 anni (cf. AAT 12.12.3: Registrum cleiicorum 1808-1847, rubr. C, 1827).

Seppi che egli era il chierico Giuseppe Cafasso, studente del 1° anno di teologia, di cui più volte aveva già udito parlare come di uno specchio di virtù.20

La morte di D. Calosso fu per me un disastro irreparabile. Io piangeva inconsolabile il benefattore defunto. Se era sveglio pensava a lui, se dormiva sognava di lui; le cose andarono tanto oltre che mia madre, temendo di mia sanità, mandommi alcun tempo con mio nonno in Capriglio.21

A quel tempo feci altro sogno secondo il quale io era acremente biasimato perché aveva riposta la mia speranza negli uomini e non nella bontà del Padre celeste. Intanto era sempre accompagnato dal pensiero di progredire negli studi. Io vedeva parecchi buoni preti che lavoravano nel sacro ministero, ma non poteva con loro contrarre alcuna famigliarità.

Mi avvenne spesso di incontrare per via il mio prevosto col suo viceparroco.22 Li salutava di lontano, più vicino faceva eziandio un inchino. Ma essi in modo grave e cortese restituivano il saluto continuando il loro cammino. Più volte piangendo diceva tra me ed anche con altri: «Se io fossi prete, vorrei fare diversamente; vorrei avvicinarmi ai fanciulli, vorrei dire loro delle buone parole, dare dei buoni consigli. Quanto sarei felice, se potessi discorrere un poco col mio prevosto. Questo conforto l'ebbi con D. Calosso, che nol possa più avere?».

Mia madre scorgendomi tuttora afflitto per le difficoltà che si frapponevano a' miei studi e disperando di ottenere il consenso di Antonio, che già oltrepassava i vent'anni, deliberò di venire alla divisione dei beni paterni.23 Eravi grave difficoltà perocché io e Giuseppe essendo minori di età, dovevansi compiere molte incombenze e sottostare a gravi spese. Nulla di meno si venne a quella deliberazione. Così la nostra famiglia fu ridotta a mia madre, a mio fratello Giuseppe, che volle vivere meco indiviso.24 Mia nonna era morta alcuni anni prima.25

20 Il racconto dell'incontro col chierico Cafasso è trascritto alla lettera da Giovanni Bosco, Biografia del sacerdote Giuseppe Caffasso esposta in due ragionamenti funebri, Torino, Tip. G. B. Paravia e Comp., 1860, 15-17 (OE XII, 365-367).

21 Era il nonno materno, Melchior Occhiena (1752-1844).

22Prevosto, titolo dato ai parroci. Nel 1829 era prevosto di Castelnuovo don Bartolomeo Dassano (1796-1854). I viceparroci in quell'anno erano due: don Emanuele Virano (1797-1834), che fungeva anche da maestro della scuola comunale, e don Nicolao Moglia (1755-1838).

23 La divisione del patrimonio familiare si fece nel 1830, quando Antonio divenne maggiorenne. Questi si sposò il 22 marzo 1831 con Anna Maria Rosso e rimase nella casetta dei Becchi, mentre Margherita coi suoi due figli si trasferì nella cascina del Sussambrino, dove Giuseppe lavorava come mezzadro. Torneranno ad abitare ai Becchi nell'autunno del 1839, nella nuova casa costruita da Giuseppe.

24 Giuseppe si sposerà il 9 marzo 1833, con Maria Calosso (1813-1874).

25 La nonna Margherita Zucca era morta 1'11 febbraio 1826.

È vero che con quella divisione mi si toglieva un macigno dallo stomaco e mi si dava piena libertà di proseguire gli studi, ma per ottemperare alle formalità delle leggi ci vollero più mesi ed io potei soltanto andare alle pubbliche scuole di Castelnuovo" circa al Natale di quell'anno 1828, quando correva l'anno decimoterzo di mia età."

Gli studi fatti in privato, l'entrare in una scuola pubblica con maestro nuovo, furono per me uno sconcerto ché dovetti quasi cominciare la grammatica italiana per farmi poi strada alla latina. Per qualche tempo andava da casa ogni giorno a scuola in paese, ma nel crudo inverno mi era quasi impossibile. Tra due andate e due ritorni formavansi venti chilometri di cammino al giorno. Fui pertanto messo in pensione con un onest'uomo di nome Roberto Giovanni di professione sarto e buon dilettante di canto gregoriano e di musica vocale. E poiché la voce mi favoriva alquanto mi diedi con tutto cuore all'arte musicale e in pochi mesi potei montare sull'orchestra e fare parti obbligate con buon successo. Di più desiderando di occupare la ricreazione in qualche cosa, mi posi a cucire da sarto. In brevissimo tempo divenni capace di fare i bottoni, gli orli, le cuciture semplici e doppie. Appresi pure a tagliare le mutande, i corpetti, i calzoni, i farsetti e mi pareva di essere divenuto un valente capo sarto.

Il mio padrone mirandomi così progredire nel suo mestiere mi fece delle proposte assai vantaggiose, affinché mi fermassi definitivamente con lui ad esercitarlo. Ma diverse erano le mie vedute: desiderava di avanzarmi negli studi. Perciò mentre per evitare l'ozio mi occupava di molte cose, faceva ogni sforzo per raggiungere lo scopo principale.

In quell'anno ho incorso qualche pericolo dalla parte di alcuni compagni. Volevano condurmi a giuocare in tempo di scuola e siccome io adduceva la ragione di non aver danaro, mi suggerirono il modo di farmene rubando al mio padrone oppure a mia madre. Un compagno per animarmi a ciò diceva: «Mio caro, è tempo di svegliarti, bisogna imparare a vivere nel mondo. Chi tiene gli occhi bendati non vede dove cammina. Orsù provvediti del danaro e godrai anche tu i piaceri de' tuoi compagni».

Mi ricordo che ho fatto questa risposta: «Io non posso comprendere ciò che volete dire, ma dalle vostre parole sembra che mi vogliate consigliare a giuocar e a rubare. Ma tu non dici ogni giorno nelle preghiere, settimo non rubare? E poi chi ruba è ladro e i ladri fanno trista fine. Altronde mia madre mi vuole molto bene e se le dimando danaro per cose lecite me lo dà senza; suo permesso non ho mai fatto niente, nemmeno voglio cominciare adesso a disubbidirla.

26 In quel tempo le scuole di Castelnuovo erano divise in due sezioni: la scuola primaria, detta Comunale (composta di due classi, settima maggiore e settima minore), con circa 70 allievi affidati ad un unico maestro, e la Latinità inferiore (comprendente le classi di sesta, quinta e quarta, frequentate da circa 50 allievi), anche questa affidata ad un unico professore. Giovanni Bosco viene iscritto alla classe sesta (sulle scuole di Castelnuovo cf. CASALIS, Dizionario, IV, 194).

27 Dovrebbe dire dicembre 1830 (un paio di settimane dopo la morte di don Calosso); Giovanni aveva 15 anni.

Se i tuoi compagni fanno questo mestiere sono perversi. Se poi nol fanno e lo consigliano ad altri, sono bricconi e scellerati.

Questo discorso andò dall'uno all'altro e niuno più osò farmi di quelle indegne proposte. Anzi questa risposta andò all'orecchio del professore che di poi mi divenne assai più affezionato; si seppe anche da molti parenti di giovanetti signori che perciò esortavano i loro figliuoli venissero meco. In questa guisa io potei con facilità farmi una scelta di amici che mi amavano e mi ubbidivano come quelli di Morialdo.

Le cose mie prendevano così ottima piega allorché novello incidente le venne a disturbare. Il Sig. D. Virano," mio professore, fu nominato parroco di Mondonio, diocesi d'Asti. Laonde all'aprile di quell'anno 183029 l'amato nostro maestro andava al possesso della sua parrocchia ed era supplito da uno che, incapace di tenere la disciplina, mandò quasi al vento quanto nei precedenti mesi aveva imparato.3°

5. Scuole di Chieri — Bontà dei professori — Le prime quattro classi di grammatica

Dopo la perdita di tanto tempo finalmente fu presa la risoluzione di recarmi a Chieri31 ove applicarmi seriamente allo studio. Era l'anno

28 Emanuele Virano (1789-1834) era viceparroco e professore.

29 Don Virano assunse la cura di Mondonio nell'aprile 1831.

30 Si trattava forse del secondo coadiutore parrocchiale, don Nicolao Moglia, che nel 1831 aveva 79 anni. Di lui scriveva il parroco nel 1825: «L'impiego di secondo vicecurato è ora tenuto dal sig. sacerdote Nicolao Moglia del luogo di Moncucco, confessore approvato, che dopo aver prestato a questa popolazione per 30 e più anni un utile spirituale servizio, in qualità di primo vicecurato, al mio ingresso alla parrocchia si elesse preferibilmente la carica di 2° vicecurato [...]. Sebbene però questo degno ecclesiastico siasi ridotto al solo esercizio di 2° vicecurato è da desiderarsi, che il Signore lo conservi per anni ed anni di vita, ed in sanità per tanti motivi, ma particolarmente perché, attendendo indefessamente nei giorni festivi a ricevere le confessioni, si è d'un grande sollievo al parroco e di comodo sommo alla popolazione» (Relazione dello stato della Parrocchia di S. Andrea, ff. 467-468).

31 Chieri, città a 16 km da Torino. Come scrive il Casalis nel 1837, era «capoluogo di mandamento [...]; sede di un comandante militare, del giudice di mandamento, di un delegato della riforma sopra gli studi, e di un rappresentante il protornedicato; ha un uffizio d'insinuazione; un uffizio della distribuzione delle lettere, due banchi del lotto, un magazzino de' sali e tabacchi, una stazione di reali carabinieri comandati da un maresciallo d'alloggio, e un drappello di guarnigione comandato da un uffiziale [...]. Gli abitanti della città, soggetti alle due parrocchie di s. Maria della Scala, e di s. Giorgio, sono in numero di 8500; altri 5000 in circa sono compresi nelle due parrocchie [dei sobborghi] di Santena e degli Ajrali [...]. Si contano in Chieri più di settanta sacerdoti, venti dei quali appartengono ad Ordini regolari [domenicani, minori osservanti e gesuiti]». V'erano le scuole comunali, il collegio delle scuole pubbliche, con classi di latinità inferiore e latinità superiore, e il biennio di filosofia. Nel 1828 si era aperto a Chieri il terzo seminario maggiore della diocesi. I terreni attorno alla città, lavorati prevalentemente ad orto, davano ottima produzione, ma l'economia cittadina si basava soprattutto sull'industria tessile: «Gli operai tra cardatori, filanti e tessitori sono in numero diquattromila circa [...]. Duecento telai si contano nella fabbrica Levi; cento trenta cinque macchine di diverse dimensioni vi sono destinate alla filatura del cotone [...]. Nelle diverse filature della seta, alla stagione della preziosa ricolta dei bozzoli, lavorano circa cinquecento persone» (cf. CASALIS, Dizionario, IV, 704-721).

1830.32 Per chi è allevato tra boschi e appena ha veduto qualche paesello di provincia prova grande impressione di ogni piccola novità. La mia pensione era in casa di una compatriota, Lucia Matta, vedova con un solo figlio, che si recava in quella città per assisterlo e vegiiarlo.33 La prima persona che conobbi fu il sacerdote D. Eustachio Valimberti di cara ed onorata memoria." Egli mi diede molti buoni avvisi sul modo di tenermi lontano dai pericoli, mi invitava a servirgli la messa e ciò gli porgeva occasione di darmi sempre qualche buon suggerimento. Egli stesso mi condusse dal prefetto delle scuole," mi pose in conoscenza cogli altri miei professori. Siccome gli studi fatti fino allora erano un po' di tutto che riuscivano quasi a niente, così fui consigliato a mettermi nella sesta classe", che oggidì corrisponderebbe alla classe preparatoria alla la ginnasiale.37

32 Dovrebbe dire 1831. L'anno scolastico iniziava il 1° novembre, con un triduo di esercizi spirituali, e si concludeva con la festa di san Luigi Gonzaga (21 giugno).

33 Lucia Pianta (1783-1851), vedova di Giuseppe Matta, originaria di Morialdo, conosceva bene mamma Margherita, poiché la casa del marito confinava con quella dei Bosco (cf. Secondo CASELLE, Giovanni Bosco a Chieri: 1831-1841. Dieci anni che valgono una vita, Torino, Edizioni Acclaim, 1988, 24). Si era trasferita a Chieri per seguire il figlio, Giovanni Battista Matta (1809-1878), studente presso il collegio della città; questi sarà sindaco di Castelnuovo dal 1863 al 1867.

34 In realtà si chiamava Placido Michele Filippo Valimberti (1803-1848), era cappellano della chiesa di san Guglielmo (a pochi metri dalla casa di Lucia Matta) e professore della classe quinta dal 1830 al 1839 (cf. ASCC Ordinati 1830, 207-208; ivi, 9.1,5.3, Insegnanti e atti relativi 1824-1874, lettera 5 ottobre 1839, n. 135).

35 Il Prefetto delle scuole (o degli studi), secondo il Regolamento scolastico, doveva essere un ecclesiastico; durava in carica un biennio ed era rieleggibile due volte. Aveva il compito di mantenere «l'osservanza del buon ordine nelle scuole, e nella congregazione, e l'esatto adempimento di quanto è prescritto tanto ai professori e maestri, quanto agli studenti tutti della città di loro residenza». Era tenuto a compilare il registro degli studenti, annotandovi il giorno d'ammissione, il luogo di residenza in città, la condotta tenuta in classe e fuori e il risultato degli esami. A lui competeva l'ammissione (admittatur) degli allievi alla classe superiore (cf. Regie patenti colle quali S. M approva l'annesso Regolamento per le scuole tanto comunali che pubbliche, e Regie, in data 23 luglio 1822, Torino, Stamperia Reale [1822], 32-34, artt. 97-107). Quando Giovanni Bosco giunse a Chieri la carica era ricoperta dal domenicano Pio Eusebio Sibilla (n. 1770), professore di filosofia, che si dimise al termine dell'anno scolastico 1832-33 perché nominato priore provinciale dei domenicani del Piemonte (cf. ASCC Ordinati 1831, 321-323; ivi, 9.1.3, Insegnanti e atti relativi 1824-1874, lettera del 21 settembre 1833). Al padre Sibilla successe don Vincenzo Raviola (1768-1838), professore nelle scuole di Chieri fin dal novembre 1800 (cf. ASCC 9.1.3, Insegnanti e atti relativi 1824-1874, lettera del sindaco, 8 novembre 1833, n. 348).

36 Sesta classe: la scuola sabauda in quel tempo comprendeva due classi di scuola primaria, detta scuola comunale (settima minore; settima maggiore), 3 classi di latinità inferiore (sesta; quinta; quarta), 3 classi di latinità superiore (terza o grammatica; umanità; retorica); seguiva un biennio di filosofia (con le classi di fisica e di logica).

37 Qui si fa riferimento all'ordinamento scolastico in vigore negli anni in cui don Bosco scrive le Memorie dell 'Oratorio. La scuola piemontese era stata riformata nel 1859 dal ministro Gabrio Casati (1798-1873). L'istruzione elementare fu divisa in due gradi, quello inferiore (2 anni) e quello superiore (2 anni); l'istruzione secondaria classica venne strutturata in due gradi: il ginnasio (5 anni) e il liceo (3 anni); anche l'istruzione secondaria tecnica venne divisa in due gradi: le scuole tecniche (3 anni) e gli istituti tecnici (3 anni), cf. Gazzetta Piemontese, n. 285, 18 novembre 1859 (legge n. 3725).

Il maestro di allora, T. Pugnetti," anch'esso di cara memoria, mi usò molta carità. Mi accudiva nella scuola, mi invitava a casa sua e mosso a compassione dalla mia età e dalla buona volontà nulla risparmiava di quanto poteva giovarmi.

Ma la mia età e la mia corporatura mi faceva comparire come un alto pilastro in mezzo ai piccoli compagni. Ansioso di togliermi da quella posizione, dopo due mesi di sesta classe, avendone raggiunto il primo posto, venni ammesso all'esame e promosso alla classe quinta. Entrai volentieri nella classe novella, perché i condiscepoli erano più grandicelli e poi aveva a professore la cara persona di D. Valimberti. Passati altri due mesi essendo eziandio più volte riuscito il primo della classe, fui per via eccezionale ammesso ad altro esame e quindi ammesso alla quarta, che corrisponde alla 2a ginnasiale.

In questa classe era professore Cima Giuseppe," uomo severo per la disciplina. Al vedersi un allievo alto e grosso al par di lui comparire in sua scuola a metà dell'anno, scherzando, disse in piena scuola: «Costui o che è una grossa talpa o che è un gran talento. Che ne dite?». Tutto sbalordito da quella severa presenza: «Qualche cosa di mezzo, risposi, è un povero giovane che ha buona volontà di fare il suo dovere e progredire negli studi».

Piacquero quelle parole e con insolita affabilità soggiunse: «Se avete buona volontà, voi siete in buone mani, io non vi lascerò inoperoso. Fatevi animo e se incontrerete difficoltà, ditemele tosto ed io ve le appianerò. Lo ringraziai di tutto cuore».

Era da due mesi in questa classe quando un piccolo incidente fece parlare alquanto di me. Un giorno il professore spiegava la vita di Agesilao scritta da Cornelio Nepote." In quel giorno non aveva meco il libro e per celare al maestro la mia dimenticanza tenevami davanti il Donato aperto. Se ne accorsero i compagni. Uno cominciò, l'altro continuò a ridere a segno che la scuola era in disordine.

38 Valeriano Giovanni Domenico Pugnetti (1807-1868), Il professore titolare della sesta classe era don Gioacchino Vogliasso (1803-1885), sostituito per motivi di salute dal T. Pugnetti (cf. ASCC Ordinati 1831, 253-254). La nomina del Pugnetti a professore di sesta verrà formalizzata nel febbraio 1833 (cf. ASCC Ordinati 1833, 32-33). Il titolo teologo in Piemonte era riservato ai laureati in teologia presso la Regia Università di Torino.

39 Vincenzo Giuseppe Cima (1810-1854), nativo di Cambiano, non era sacerdote, ma chierico tonsurato. La sua carriera di insegnante, che era iniziata quando aveva 18 anni in qualità di maestro di sesta (1828-1831), lo porterà a ricoprire successivamente il ruolo di professore di quarta (18311837), di grammatica (1837-1840), di umanità e retorica (1840-1848) (cf. ASCC Ordinati 1827, 168-169; Ordinati 1831, 253-254; Ordinati 1837, 194-195; ivi, 9.5.1, Liceo ginnasio-Atti 1821-1849, lettera del 25 luglio 1840, n. 656).

40 Cornelio Nepote, storico romano (n. intorno al 100 a.C.), autore di una monumentale opera, De viribus illustribus, la più antica raccolta di biografie di personaggi del passato, in gran parte perduta. Ci rimangono le vite di 22 condottieri greci, asiatici e cartaginesi (tra i quali Agesilao, Alcibiade, Annibale, Temistocle) e quelle degli scrittori latini Catone il Censore e Attico. Queste "vite" erano programma di studio per la Latinità inferiore.

«Che c'è, disse il precettore, che c'è? mi si dica sull'istante». E siccome l'occhio di tutti stava rivolto verso me, egli mi comandò di fare la costruzione e ripetere la stessa sua spiegazione. Mi alzai allora in piedi e tenendo tuttora il Donato tra mano ripetei a memoria il testo, la costruzione e la spiegazione.

I compagni quasi istintivamente mandando voci di ammirazione batterono le mani. Non è a dire a quale furia si lasciasse portare il professore; perché quella era la prima volta che, secondo lui, non poteva tener la disciplina. Mi diede uno scappellotto che scansai piegando il capo; poi tenendo la mano sul mio Donato si fece dai vicini esporre la cagione di quel disordine. Dissero questi: «Bosco ebbe sempre davanti a sé il Donato ed ha letto e spiegato come se tra mano avesse avuto il libro di Cornelio».

Il professore prese di fatto il Donato, mi fece ancora continuare due periodi e poi mi disse: «Per la vostra felice memoria vi perdono la dimenticanza che avete fatto. Siete fortunato, procurate soltanto di servirvene in bene».

Sul finire di quell'anno scolastico (1830-1831)e fui con buoni voti promosso alla terza grammatica ossia terza ginnasiale.

6. I compagni — Società dell'allegria — Doveri cristiani

In queste prime quattro classi ho dovuto imparare a mio conto a trattare coi compagni. Io aveva fatto tre categorie di compagni: buoni, indifferenti, cattivi. Questi ultimi evitarli assolutamente e sempre appena conosciuti; cogli indifferenti trattenermi per cortesia e per bisogno; coi buoni contrarre famigliarità, quando se ne incontrassero che fossero veramente tali. Siccome in questa città io non conosceva alcuno, così io mi sono fatto una legge di familiarizzare con nissuno. Tuttavia ho dovuto lottare non poco con quelli che io per bene non conosceva. Taluni volevano guidarmi ad un teatrino, altri a fare una partita al giuoco, quell'altro ad andare a nuoto." Taluno anche a rubacchiare frutta nei giardini o nella campagna.

41 Si dovrebbe dire 1831-1832.

42 I regolamenti scolastici in vigore proibivano agli studenti «il nuoto, l'ingresso ne' teatri pubblici, nei giuochi di trucco, il portare maschere, l'andare a balli d'invito, qualunque giuoco nelle contrade, botteghe da caffè, ed altri pubblici ridotti, l'andare a pranzo, il mangiare, e bere negli alberghi, o trattorie, il fermarsi, o far circoli, o conversazione ne' caffè, ed il recitare in teatri domestici senza licenza del Prefetto degli studi»; «Quelli che contravverranno a queste proibizioni saranno per la prima volta privati per due mesi d'ogni onore nella scuola; la seconda esclusi dalla promozione alla classe superiore in fine dell'anno, ed in caso d'ulterior mancanza esclusi dalla scuola» (Regie patenti, 20-21, artt. 42-43).

Un cotale fu così sfacciato che mi consigliò a rubare alla mia padrona di casa un oggetto di valore a fine di procacciarci dei confetti. Io mi sono liberato da questa caterva di tristi col fuggire rigorosamente la loro compagnia, di mano in mano mi veniva dato di poterli scoprire. Generalmente poi diceva a tutti per buona risposta che mia madre avevami affidato alla mia padrona di casa e che per l'amore che a quella io portava non voleva andare in nissun luogo, né fare cosa alcuna senza il consenso della medesima buona Lucia.

Questa mia ferma ubbidienza alla buona Lucia mi tornò anche utile temporalmente, perciocché con gran piacere mi affidò il suo unico figlio,'" di carattere molto vivace, amantissimo dei trastulli, pochissimo dello studio. Ella mi incaricò eziandio di fargli la ripetizione sebbene fosse di classe superiore alla mia.

Io me ne occupai come di un fratello. Colle buone, con piccoli regali, con trattenimenti domestici e più conducendolo alle pratiche religiose me lo resi assai docile, ubbidiente e studioso a segno che dopo sei mesi era divenuto abbastanza buono e diligente da contentare il suo professore ed ottenere posti d'onore nella sua classe. La madre ne fu lieta assai e come premio mi condonò intiera la mensile pensione.

Siccome poi i compagni, che volevano tirarmi ai disordini, erano i più trascurati nei doveri, così essi cominciarono a far ricorso a me, perché facessi la carità scolastica prestando o dettando loro il tema di scuola. Spiacque tal cosa al professore, perché quella falsa benevolenza fomentava la loro pigrizia e ne fui severamente proibito. Allora mi appigliai ad una via meno rovinosa, vale a dire a spiegare le difficoltà ed anche aiutare quelli cui fosse mestieri. Con questo mezzo faceva piacere a tutti e mi preparava la benevolenza e l'affezione dei compagni.

Cominciarono quelli a venire per ricreazione, poi per ascoltare racconti e per fare il tema scolastico e finalmente venivano senza nemmeno cercarne il motivo come già quei di Morialdo e di Castelnuovo. Per dare un nome a quelle riunioni solevamo chiamarle Società dell'Allegria; nome che assai bene si conveniva, perciocché era obbligo stretto a ciascuno di cercare que' libri, introdurre que' discorsi e trastulli che avessero potuto contribuire a stare allegri; pel contrario era proibita ogni cosa che cagionasse malinconia, specialmente le cose contrarie alla legge del Signore. Chi pertanto avesse bestemmiato o nominato il nome di Dio invano o fatto cattivi discorsi era immediatamente allontanato dalla società.

43 Nota marginale autografa di don Bosco: «Matta Gio[vanni] Batt[ist]a di Castelnuovo d'Asti, già molti anni sindaco di sua patria, ora neg[oziante] in drogheria nel medesimo paese».

44 A.S.F. legge per premio.

Trovatomi così alla testa di una moltitudine di compagni, di comune accordo fu posto per base: 1° Ogni membro della Società dell'Allegria deve evitare ogni discorso, ogni azione che disdica ad un buon cristiano; 2° Esattezza nell'adempimento dei doveri scolastici e dei doveri religiosi. Queste cose contribuirono a procacciarmi stima e nel 1832 io era venerato da' miei colleghi come capitano di un piccolo esercito. Da tutte parti io era cercato per dare trattenimenti, assistere allievi nelle case private ed anche per fare scuola o ripetizione a domicilio. Con questo mezzo la divina provvidenza mi metteva in grado di provvedermi quanto esami necessario per abiti, oggetti di scuola ed altro, senza cagionare alcun disturbo alla mia famiglia.

7. Buoni compagni e pratiche di pietà

Fra coloro che componevano la Società dell'Allegria ne ho potuto rinvenire alcuni veramente esemplari. Fra essi" meritano essere nominati Garigliano Guglielmo di Poirino" e Braje Paolo di Chieri.47 Essi partecipavano volentieri alla onesta ricreazione, ma in modo che la prima cosa a compiersi fossero sempre i doveri di scuola. Amavano ambidue la ritiratezza e la pietà e mi davano costantemente buoni consigli. Tutte le feste, dopo la congregazione del collegio," andavamo alla chiesa di S. Antonio dove i Gesuiti facevano uno stupendo catechismo," in cui raccontavansi parecchi esempi che tuttora ricordo.

Lungo la settimana poi la Società dell'Allegria si raccoglieva in casa di uno de' soci per parlare di religione. A questa radunanza interveniva liberamente chi voleva. Garigliano e Braje erano dei più puntuali. Ci trattenevamo alquanto in amena ricreazione, in pie conferenze, letture religiose, in preghiere, nel darci buoni consigli, e nel notarci quei difetti personali che taluno avesse osservato, o ne avesse da altri udito a parlare. Senza che per allora il sapessi mettevamo in pratica quel sublime avviso: Beato chi ha un monitore. E quello di Pitagora:

45 A.S.F. legge costoro.

46 Guglielmo Garigliano (1819-1902) entrerà con Giovanni Bosco nel seminario di Chieri; diventato sacerdote si dedicherà all'insegnamento elementare e al ministero pastorale in varie parrocchie, finendo i suoi anni in qualità di cappellano della Confraternita della Santa Croce di Poirino. Poirino: paese agricolo a 5 km da Chieri, sulla strada reale che collegava Torino ad Asti; in quel tempo aveva circa 6.500 abitanti (cf. CASALIS, Dizionario, XV, 463-464).

47 Paolo Vittorio Braje [o Braja] (1820-1832) muore quello stesso anno per infezione polmonare.

48 Il Regolamento delle scuole prevedeva che ogni scuola pubblica avesse un Direttore spirituale e una cappella, nella quale si radunavano gli studenti ogni giorno prima della scuola per assistere alla messa e anche alla domenica per le funzioni religiose della mattina e del pomeriggio (cf. Regie patenti, 20, artt. 37-40). Queste riunioni religiose venivano chiamate Congregazione degli studenti, nome derivato dalle antiche Congregazioni mariane dei collegi gesuitici.

49 L'incaricato dell'istruzione religiosa domenicale nella chiesa di sant'Antonio (praefectus catechismi) era il padre Isaia Carminati bergamasco (1798-1851), che nel 1849 verrà chiamato come professore di diritto ecclesiastico all'Università Gregoriana (cf. CASELLE, Giovanni Bosco a Chieri, 50-52).

Se non avete un amico che vi corregga i difetti, pagate un nemico che vi renda questo servizio.

Oltre a questi amichevoli trattenimenti andavamo ad ascoltare le prediche, spesso a confessarci e a fare la santa comunione. Qui è bene che vi ricordi come di que' tempi la religione faceva parte fondamentale dell'educazione. Un professore che eziandio celiando avesse pronunziato una parola lubrica o irreligiosa era immediatamente dismesso dalla carica. Se facevasi così dei professori immaginatevi quanta severità si usasse verso gli allievi indisciplinati o scandalosi! La mattina dei giorni feriali s'ascoltava la santa messa; al principio della scuola si recitava divotamente l' Actiones coll'Ave Maria." Dopo diceva-si l' Agimus coll'Ave Maria."

Ne' giorni festivi poi gli allievi erano tutti raccolti nella chiesa della congregazione. Mentre i giovani entravano si faceva lettura spirituale, cui seguiva il canto dell'uffizio della Madonna; di poi la messa, quindi la spiegazione del Vangelo. La sera catechismo, vespro, istruzione. Ciascuno doveva accostarsi ai santi sacramenti e per impedire trascuratezza di questi importanti doveri, erano obbligati a portare una volta al mese il biglietto di confessione. Chi non avesse adempito questo dovere non era più ammesso agli esami della fine dell'anno, sebbene fosse dei migliori nello studio. Questa severa disciplina produceva meravigliosi effetti. Si passavano anche più anni senza che fosse udita una bestemmia o cattivo discorso. Gli allievi erano docili e rispettosi tanto nel tempo di scuola, quanto nelle proprie famiglie. E spesso avveniva che in classi numerosissime alla fine dell'anno erano tutti promossi a classe superiore. Nella terza, umanità e retorica i miei condiscepoli furono sempre tutti promossi.

La più fortunata mia avventura fu la scelta di un confessore stabile nella persona del teologo Maloria canonico della collegiata di Chieri." Egli mi accolse sempre con grande bontà ogni volta che andava da lui. Anzi mi incoraggiava a confessarmi e comunicarmi colla maggior frequenza. Era cosa assai rara a trovare chi incoraggiasse alla frequenza dei sacramenti. Non mi ricordo che alcuno de' miei maestri mi abbia tal cosa consigliata. Chi andava a confessarsi e a comunicarsi più d'una volta al mese era giudicato dei più virtuosi; e molti confessori nol permettevano. Io però mi credo debitore a questo mio confessore se non fui dai compagni strascinato a certi disordini che gli inesperti giovanetti hanno purtroppo a lamentare nei grandi collegi.

50 Actiones: inizio di un'orazione tratta dal Sacramentarlo gregoriano: «Actiones nostras, quaesumus Domine, aspirando praeveni et adiuvando prosequere, ut cuncta nostra operatio a te semper incipiat et per te coepta finiatur» (Ispira le nostre azioni, Signore, e accompagnale con il tuo aiuto, perché ogni nostra attività abbia in te il suo inizio e in te il suo compimento).

51 Agimus: inizio di una preghiera recitata al termine del lavoro o dei pasti: «Agimus tibi gratias, omnipotens Deus, pro universis beneficiis tuis. Qui vivis et regnas in saecula saeculorum» (Ti rendiamo grazie, o Dio onnipotente, per tutti i tuoi benefici. Tu che vivi e regni nei secoli dei secoli. Amen).

52 Giuseppe Maloria (1802-1857), laureato in teologia, canonico della collegiata di Chieri. Sarà confessore di Giovanni Bosco anche durante gli anni del seminario (AAT 12.12.25: Registro delle confessioni dei chierici del seminario di Chieri 1829-1868).

In questi due anni non ho mai dimenticato i miei amici di Morialdo. Mi tenni sempre con loro in relazione e di quando in quando nel giovedì faceva loro qualche visita. Nelle ferie autunnali appena sapevano della mia venuta correvano ad incontrarmi a molta distanza e facevano sempre una festa speciale. Fu pure tra essi introdotta la Società dell'Allegria, in cui venivano aggregati coloro che lungo l'anno si erano segnalati nella morale condotta; e all'opposto si cancellavano dal catalogo quelli che si fossero regolati male, specialmente se avessero bestemmiato o fatto cattivi discorsi.

8. Umanità e retorica — Luigi Comollo

Compiuti i primi corsi di ginnasio, abbiamo avuto una visita del Magistrato della Riforma" nella persona dell'avvocato Prof. D. Giuseppe Gazzani, uomo di molto merito. Egli mi usò molta benevolenza ed io ho conservato gratitudine e buona memoria di lui, a segno che fummo di poi sempre in stretta ed amichevole relazione. Quell'onesto sacerdote vive tuttora in Moltedo Superiore presso di Oneglia sua patria e fra le molte opere di carità ha fondato un posto gratuito nel nostro collegio di Alassio per un giovanetto che desideri studiare per lo stato ecclesiastico.

Quegli esami si diedero con molto rigore, tuttavia i miei condiscepoli in numero di quarantacinque furono tutti promossi alla classe superiore, che corrisponde alla nostra quarta ginnasiale. Io ho corso un gran pericolo di essere rimandato per avere dato copia del lavoro ad altri. Se fui promosso ne sono debitore alla protezione del venerando mio professore P. Giussiana, domenicano,54 che mi ottenne un nuovo tema, il quale essendomi riuscito bene fui con pieni voti promosso.

53 Magistrato della Riforma, antica istituzione piemontese preposta all'istruzione superiore e universitaria (cf. Regolamenti del Magistrato della Riforma per l'Università di Torino, Torino, Stamperia Reale, 1772); «riorganizzata da Emanuele Filiberto in coincidenza con la riapertura a Torino dell'Università nel 1571, fu oggetto nel sec. XVIII, di nuovi provvedimenti che ne precisarono ulteriormente le competenze [...] in materia di "buon governo dell'Università" e "direzione del pubblico insegnamento in tutto lo Stato", anche tramite la creazione di Riformatori nelle province [...]. Tali competenze si estendevano all'esercizio di un diretto controllo sugli insegnanti, sulle loro nomine e promozioni, sui contenuti del loro insegnamento con relativi interventi di censura. Soppresso in periodo francese e ripristinato nel 1814, il Magistrato della Riforma venne definitivamente abolito nel 1847» (Piero D'ANGIOLINI - Claudio PAVONE, Guida generale degli Archivi di Stato italiani, Roma, Ministero per i beni culturali e ambientali, Ufficio centrale per i beni archivistici, 1994, IV, 426).

54 Giacinto Giussiana (1774-1844) del convento di San Domenico di Chieri, maestro di quinta dal 1814 al 1817, poi professore della classe terza (detta anche grammatica) per vent'anni, fino al 1837, quando consegnerà la cattedra al prof. Cima (cf. Stefano Maria VALLARO, Del ristabilimento della provincia domenicana di s. Pietro Martire nel Piemonte e Liguria dopo la soppressione francese. Fascicolo di memorie storiche e biografiche 1821-1850, Chieri, Tip. G. Astesano, 1929, 29; ASCC Ordinati 1814, 53; Ordinati 1817, 38; Ordinati 1837, 194-195).

Era allora lodevole consuetudine che in ogni corso almeno uno a titolo di premio venisse dal municipio dispensato dal minervale di franchi 12.5' Per ottenere questo favore era mestieri riportare i pieni voti negli esami e pieni voti nella morale condotta. Io sono sempre stato favorito dalla sorte ed in ogni corso fui sempre dispensato da quel pagamento.

In quell'anno ho perduto uno de' miei più cari compagni. Il giovane Braje Paolo, mio caro ed intimo amico, dopo lunga malattia, vero modello di pietà, di rassegnazione, di viva fede, moriva il giorno [10 luglio] anno [1832] andando così a raggiungere S. Luigi, di cui si mostrò seguace fedele in tutta la vita. Tutto il collegio ne provò rincrescimento; i suoi compagni intervennero in corpo alla sua sepoltura. E non pochi per molto tempo solevano andare in giorno di vacanza a fare la s. comunione, recitare l'uffizio della Madonna o la terza parte del Rosario per l'anima dell'amico defunto. Dio però si degnò di compensare questa perdita con un altro compagno egualmente virtuoso, ma assai più celebre per le opere sue. Fu questi Luigi Com'ollo,56 di cui fra breve dovrò parlare.

Terminava adunque l'anno di umanità e mi riuscì assai bene, a segno che i miei professori, specialmente il dottor Pietro Banaudi" mi consigliarono" di chiedere l'esame per la filosofia, cui di fatto sono stato promosso; ma siccome amava lo studio di lettere, ho giudicato bene di continuare regolarmente le classi e fare la retorica ossia quinta ginnasiale l'anno 1833-4." Appunto in quell'anno cominciarono le mie relazioni col Comollo. La vita di questo prezioso compagno fu scritta a parte ed ognuno può leggerla a piacimento;" qui noterò un fatto che me lo ha fatto conoscere in mezzo agli umanisti.

55 Minervale: termine col quale si indicavano le tasse scolastiche. Il Regolamento per le scuole stabiliva che lo stipendio dei professori fosse a carico delle amministrazioni civiche e concedeva alle città con scarse risorse economiche di esigere una modica tassa annuale, «da pagarsi a titolo di minervale dagli accorrenti alle scuole pubbliche di latinità solamente, purché ne vadano esenti li poveri di distinto talento, e condotta esemplare» (Regie patenti,18, art. 30). La documentazione attesta che Giovanni Bosco venne dispensato dal pagamento del minervale soltanto nell'anno di Grammatica 1832-33; nell'anno 1831-32 pagò 9 lire e negli anni di umanità (1833-34) e di retorica (1834-35) pagò 12 lire (cf. ASCC Ordinati 1833, 100; ivi, Ordinati 1832, 105; ivi, Ordinati 1834, 108; Ordinati 1835, 125).

56 Luigi Pietro Comollo, nato a Cinzano il 4 aprile 1817 da Carlo, contadino mezzadro, e Giovanna Rosso; aveva 2 fratelli e 3 sorelle (cf. AAT 12.17.2: Elenco dei giovani aspiranti allo stato chiericale 1836-1842, anno 1836, n. 34).

57 Pietro Banaudi (1802-1885), dottore in teologia, professore di retorica a Chieri nell'anno scolastico 1833-1834 (cf. AS CC Ordinati 1833, 204).

58 Don Bosco scrive mi consigliava. A.S.F. corregge il verbo.

59 Si dovrebbe dire 1834-1835.

60 È il primo libro pubblicato da don Bosco: Cenni storici sulla vita del chierico Luigi Comollo morto nel seminario di Chieri ammirato da tutti per le sue singolari virtù, scritti da un suo collega, Torino, Tipografia Speirani e Ferrero, 1844 (OE 1,1-84). Dieci anni più tardi ne fece una riedizione per la collana Letture Cattoliche, adattata alle esigenze dei giovani: Giovanni Bosco, Cenni sulla vita del giovane Luigi Comollo morto nel seminario di Chieri ammirato da tutti per le sue rare virtù, Torino, Tipografia P. De-Agostini, 1854.

Si diceva adunque tra i retorici che in quell'anno ci doveva venire un allievo santo, e si accennava essere quello il nipote del prevosto di Cinzano," sacerdote attempato, ma assai rinomato per santità di vita. Io desiderava di conoscerlo, ma ignorava il nome. Ecco il fatto che" me lo fece conoscere. Da quel tempo era già in uso il pericoloso giuoco della cavallina in tempo d'ingresso nella scuola. I più dissipati e meno amanti dello studio ne sono avidissimi e ordinariamente i più celebri.

Si mirava da alcuni giorni un modesto giovanetto sui quindici anni che, giunto in collegio, prendeva posto e senza badare agli schiamazzi altrui, si metteva a leggere o a studiare. Un compagno insolente gli va vicino, lo prende per un braccio, pretende che egli pure vada a giuocare la cavallina."

— Non so, rispondeva l'altro tutto umile e mortificato. Non so, non ho mai fatto questi giuochi.

— Io voglio che tu venga assolutamente, altrimenti ti fo venire a forza di calci e schiaffi.

— Puoi battermi a tuo talento, ma io non so, non posso, non voglio...

Il maleducato e cattivo condiscepolo il prese per un braccio, lo urtò e poi gli diede due schiaffi che fecero eco in tutta la scuola. A quella vista io mi sentii bollire il sangue nelle vene e attendeva che l'offeso ne facesse la dovuta vendetta; tanto più che l'oltraggiato era di molto superiore all'altro in forze ed età. Ma quale non fu la maraviglia, quando il buon giovanetto colla sua faccia rossa e quasi livida, dando un compassionevole sguardo al maligno compagno dissegli soltanto: «Se questo basta per soddisfarti, vattene in pace, io ti ho già perdonato».

Quell'atto eroico ha destato in me il desiderio di saperne il nome che era appunto Luigi Comollo nipote del prevosto di Cinzano, di cui si erano uditi tanti encomii. Da quel tempo l'ebbi sempre per intimo amico e posso dire che da lui ho cominciato ad imparare a vivere da cristiano. Ho messa piena confidenza in lui, egli in me; l'uno aveva bisogno dell'altro.

61 Prevosto di Cinzano: don Giuseppe Comollo (1768-1843). Cinzano è un comune agricolo della provincia e diocesi di Torino, a 19 km da Chieri; nel 1839 contava 660 abitanti, residenti in parte nel centro, presso la chiesa parrocchiale (dedicata a sant'Antonio abate), e in parte nelle due borgate di Aprà e di Torrazza (cf. CASALIS, Dizionario, V, 227-230).

62 A.S.F. invece di Ecco il fatto che, semplifica: Un fatto...

63 Cavallina: nome popolare di un gioco, detto in italiano cavalluccio, consistente nel saltare, uno dopo l'altro, sulla schiena di una vittima prescelta, fino a che questa cada a terra sotto il peso dei compagni.

Io di aiuto spirituale, l'altro di aiuto corporale. Perciocché il Comollo per la sua grande timidità non osava nemmeno tentare la difesa contro agli insulti dei cattivi, mentre io da tutti i compagni, anche maggiori di età e di statura, era temuto pel mio coraggio e per la mia forza gagliarda. Ciò aveva un giorno fatto palese verso di taluni che volevano disprezzare e percuotere il medesimo Comollo ed un altro di nome Candelo Antonio modello di bonomia. Io volli intervenire in loro favore, ma non si voleva badare. Vedendo un giorno quegli innocenti maltrattati, «Guai a voi, dissi ad alta voce; guai a chi fa ancora oltraggio a costoro».

Un numero notabile dei più alti e dei più sfacciati si misero in atteggiamento di comune difesa e di minaccia contro di me stesso, mentre due sonore ceffate cadono sulla faccia del Comollo. In quel momento io dimenticai me stesso ed eccitando in me non la ragione, ma la mia forza brutale, non capitandomi tra mano né sedia né bastone strinsi colle mani un condiscepolo alle spalle e di lui mi valsi come di bastone a percuotere gli avversari. Quattro caddero stramazzoni a terra gli altri fuggirono gridando e dimandando pietà. Ma che? In quel momento entrò il professore nella scuola e mirando braccia e gambe sventolare in alto in mezzo ad uno schiamazzo dell'altro mondo, si pose a gridare dando spalmate a destra e a sinistra. Il temporale stava per cadere sopra di me, ma fattasi raccontare la cagione di quel disordine, volle fosse rinnovata quella scena o meglio sperimento di forza. Rise il professore, risero tutti gli allievi ed ognuno facendo maraviglia, non si badò più al castigo che mi era meritato.

Ben altre lezioni mi dava il Comollo. «Mio caro, dissemi appena potemmo parlare tra noi, la tua forza mi spaventa, ma credimi, Dio non te la diede per massacrare i compagni. Egli vuole che ci amiamo, ci perdoniamo e che facciamo del bene a quelli che ci fanno del male».

Io ammirai la carità del collega e mettendomi affatto nelle sue mani, mi lasciava guidare dove come egli voleva. D'accordo coll'amico Garigliano andavamo insieme a confessarci, comunicarci, fare la meditazione, la lettura spirituale, la visita al SS. Sacramento, a servire la S. Messa. Sapeva invitare con tanta bontà, dolcezza e cortesia, che era impossibile rifiutarsi a' suoi inviti.

Mi ricordo che un giorno chiacchierando con un compagno passai davanti ad una chiesa senza scoprirmi il capo. L'altro mi disse tosto in modo assai garbato: «Giovanni mio, tu sei così attento a discorrere cogli uomini, che dimentichi perfino la casa del Signore».

9. Caffettiere e liquorista — Giorno onomastico — Una disgrazia

Dato così un cenno sulle cose di scuola riferirò alcuni fatti particolari che possono servire di amena ricreazione.

L'anno di umanità ho cangiato pensione sia per essere più vicino al mio pro

fessore, D. Banaudi, sia anche per accondiscendere ad un amico di famiglia di nome Pianta Giovanni," il quale andava in quell'anno ad aprire un caffè nella città di Chieri. Quella pensione era certamente assai pericolosa, ma essendo con buoni cristiani e continuando le relazioni con esemplari compagni ho potuto andare avanti senza danno morale. Ma oltre ai doveri scolastici rimanendomi molto tempo libero, io soleva impiegarne una parte a leggere i classici italiani o latini, impiegava l'altra parte a fare liquori e confetture. Alla metà di quell'anno io era in grado di preparare caffè, cioccolatte; conoscere le regole e le proporzioni per fare ogni genere di confetti, di liquori, di gelati e rinfreschi. Il mio principale cominciò per darmi la pensione gratuita e considerando il vantaggio che avrei potuto recare al suo negozio, mi fece vantaggiose profferte purché lasciando le altre occupazioni mi fossi interamente dedicato a quel mestiere. Io però faceva quei lavori soltanto per divertimento e ricreazione, ma la mia intenzione era di continuare gli studi.

Il professore Banaudi era un vero modello degli insegnanti. Senza mai infliggere alcun castigo era riuscito a farsi temere ed amare da tutti i suoi allievi. Egli li amava tutti quai figli ed essi l'amavano qual tenero padre.

Per dargli un segno di affezione fu deliberato di fargli un regalo pel suo giorno onomastico. A tale effetto ci siamo accordati di preparare composizioni poetiche, in prosa e provvedere alcuni doni che noi giudicavamo tornargli di speciale gradimento.

Quella festa riuscì splendida, il maestro fu contento a più non dire e per darci un segno della sua soddisfazione ci condusse a fare un pranzo in campagna. La giornata riuscì amenissima. Tra professore ed allievi eravi un cuor solo ed ognuno studiava modi per esprimere la gioia dell'animo. Prima di rientrare nella città di Chieri il professore incontrò un forestiere con cui dovettesi accompagnare lasciandoci soli per un breve tratto di via. In quel momento si avvicinarono alcuni compagni di classi superiori che ci invitarono ad un bagno in sito detto la Fontana rossa, distante circa un miglio da Chieri." Io con alcuni miei compagni ci siamo opposti, ma inutilmente. Parecchi vennero meco a casa, altri vollero andare a nuotare. Trista deliberazione. Poche ore dopo il nostro arrivo a casa, giunge un compagno, poi un altro spaventati ed ansanti correndo per dirci: «Oh se sapeste mai, se sapeste mai! Filippo N.66 quello che insistette tanto perché andassimo a nuotare, è rimasto morto».

64 Giovanni Pianta era fratello di Lucia Matta; originario di Morialdo, si fermò in Chieri soltanto quell'anno (cf. CASELLE, Giovanni Bosco a Chieri, 84).

65 Miglio: antica misura piemontese, «vale 2 chilometri e 469 metri; ma si ritiene per 2 chilometri e mezzo» (Bosco, Il sistema metrico decimale, 68, in OE IV, 68). Fontana rossa: si trovava lungo la strada che collega Chieri con Pino Torinese, presso il torrente Tepice (cf. CASELLE, Giovanni Bosco a Chieri, 117).

66 Probabilmente era Filippo Maurizio Camandona, di 18 anni, morto il 18 maggio 1834 (cf. APSGC Registro dei decessi 1803-37, 200; CASELLE, Giovanni Bosco a Chieri, 117).

— Come, tutti dimandavano, egli era così famoso a nuotare!

— Che volete mai, continuò l'altro, per incoraggiarci a sommergerci nell'acqua, confidando nella sua perizia e non conoscendo i vortici della pericolosa Fontana rossa, si gettò pel primo. Noi aspettavamo che ritornasse a galla, ma fummo delusi. Ci siamo messi a gridare, venne gente, si usarono molti mezzi e non fu senza pericolo altrui che dopo un'ora e mezzo si riuscì a trarne fuori il cadavere.

Tale infortunio cagionò a tutti profonda tristezza; né per quell'anno né per l'anno seguente (1834)67 non si è mai più udito a dire che alcuno abbia anche solo espresso il pensiero di andare a nuoto. Qualche tempo fa accadde di trovarmi con alcuni di quegli antichi amici, con cui ricordammo con vero dolore la disgrazia toccata all'infelice compagno nel gorgo della Fontana rossa.

10. L'ebreo Giona

L'anno di umanità, dimorando nel caffè dell'amico Giovanni Pianta contrassi relazione con un giovanetto ebreo di nome Giona." Esso era sui diciotto anni, di bellissimo aspetto; cantava con una voce rara fra le più belle. Giuocava assai bene al bigliardo ed essendoci già conosciuti presso al libraio Elia, appena giungeva in bottega, dimandava tosto di me. Io gli portava grande affetto, egli poi era folle per amicizia verso di me. Ogni momento libero egli veniva a passarlo in mia camera; ci trattenevamo a cantare, a suonare il piano, a leggere, ascoltando volentieri mille storielle, che gli andava raccontando. Un giorno gli accadde un disordine con rissa che poteva avere tristi conseguenze, onde egli corse da me per avere consiglio. «Se tu, o caro Giona, fossi cristiano, gli dissi, vorrei tosto condurti a confessarti; ma ciò non ti è possibile».

— Ma anche noi, se vogliamo, andiamo a confessarci.

—Andate a confessarvi, ma il vostro confessore non è tenuto al segreto, non ha potere di rimettervi i peccati, né può amministrare alcun sacramento.

— Se mi vuoi condurre, io andrò a confessarmi da un prete.

— Io ti potrei condurre, ma ci vuole molta preparazione.

— Quale?

— Sappi che la confessione rimette i peccati commessi dopo il battesimo; perciò se tu vuoi ricevere qualche sacramento bisogna che prima di ogni altra cosa tu riceva il battesimo.

67 Dovrebbe dire 1835.

68 Giona: pseudonimo di Giacobbe Levi (1816-1870), figlio di Lazzaro e di Bella Pavia (cf. CASELLE, Giovanni Bosco a Chieri, 115). C'è chi lo dice fratello dell'industriale tessile David Levi, maire adjoint di Chieri in periodo napoleonico, ma non pare possibile per ragioni anagrafiche: «Levi Giacobbe fu Lazzaro (fratello del maire adjoint David) battezzato forzato nel 1834» (Sergio TREVES, Gli Ebrei a Chieri (1416-1848). Vicende storico-giuridiche della comunità israelitica sotto il dominio sabaudo, Chieri, Edizioni "Cronache Chieresi", 1974, 238).

— Che cosa dovrei fare per ricevere il battesimo?

— Istruirti nella cristiana religione, credere in Gesù Cristo vero Dio e vero uomo. Fatto questo tu puoi ricevere il battesimo.

— Quale vantaggio mi darà poi il battesimo?

— Il battesimo ti scancella il peccato originale ed anche i peccati attuali, ti apre la strada a ricevere tutti gli altri sacramenti, ti fa insomma figliuolo di Dio ed erede del paradiso.

— Noi ebrei non possiamo salvarci?

— No, mio caro Giona, dopo la venuta di Gesù Cristo gli ebrei non possono più salvarsi senza credere in Lui.

— Se mia madre viene a sapere che io voglio farmi cristiano, guai a me!

— Non temere, Dio e padrone dei cuori e se egli ti chiama a farti cristiano, farà in modo che tua madre si contenterà o provvederà in qualche modo per l'anima tua.

— Ma tu che mi vuoi tanto bene, se fossi al mio posto, che faresti?

— Comincerei ad istruirmi nella cristiana religione, intanto Dio aprirà la via a quanto si dovrà fare in avvenire. A questo scopo prendi il piccolo catechismo e comincia a studiarlo. Prega Dio che ti illumini e che ti faccia conoscere la verità.

Da quel giorno cominciò ad essere affezionato alla fede cristiana. Veniva al caffè e fatta appena una partita al bigliardo cercava tosto di me per discorrere di religione e del catechismo. Nello spazio di pochi mesi apprese a fare il segno della S. Croce, il Pater, Ave Maria, Credo ed altre verità principali della fede. Egli ne era contentissimo ed ogni giorno diventava migliore nel parlare e nell'operare.

Egli aveva perduto il padre da fanciullo, la madre di nome Rachele aveva già inteso qualche voce vaga, ma non sapeva ancora niente di positivo. La cosa si scoprì in questo modo: un giorno nel fargli il letto ella trovò il catechismo che suo figlio aveva inavvedutamente dimenticato tra il materasso ed il saccone. Si mise ella a gridare per casa, portò il catechismo al rabbino e sospettando di quello che era di fatto, corse frettolosa dallo studente Bosco, di cui aveva più volte udito a parlare da suo figlio medesimo. Immaginatevi il tipo della bruttezza ed avrete un'idea della madre di Giona. Era cieca da un occhio, sorda da ambe le orecchie; naso grosso; quasi senza denti, labbra esorbitanti, bocca torta, mento lungo ed acuto, voce simile al grugnito di un poledro. Gli ebrei solevano chiamarla col nome di maga Lili [Lilith], col quale nome sogliono esprimere la cosa più brutta di loro nazione. La sua comparsa mi ha spaventato e senza dar tempo a riavermi prese a parlare così: «Affé che giuro, voi avete torto; voi, sì voi avete rovinato il mio Giona; l'avete disonorato in faccia al pubblico io non so che sarà di lui. Temo che finisca col farsi cristiano e voi ne siete la cagione».

Compresi allora chi era e di chi parlava e con tutta calma risposi che ella doveva essere contenta e ringraziare chi faceva del bene a suo figlio.

— Che bene è mai questo? Sarà un bene a far rinnegare la propria religione?

— Calmatevi, buona signora, le dissi, ed ascoltate: io non ho cercato il vostro Giona, ma ci siamo incontrati nella bottega del libraio Elia. Siamo divenuti amici senza saperne la cagione. Egli porta molta affezione a me; io l'amo assai, e da vero amico desidero che egli si salvi l'anima e che possa conoscere quella religione fuori di cui niuno può salvarsi. Notate bene, o madre di Giona, che io ho dato un libro a vostro figlio dicendogli soltanto d'istruirsi nella religione e se egli si facesse cristiano non abbandona la religione ebraica, ma la perfeziona.

— Se per disgrazia egli si facesse cristiano egli dovrebbe abbandonare i nostri profeti, perché i cristiani non credono ad Abramo, Isacco, Giacobbe, a Mosè né ai profeti.

— Anzi noi crediamo a tutti i santi patriarchi e a tutti i profeti della Bibbia. I loro scritti, i loro detti, le loro profezie formano il fondamento della fede cristiana.

— Se mai fosse qui il nostro rabbino, egli saprebbe che rispondere. Io non so né il Misna né il Gemara (sono le due parti del Talmud)." Ma che ne sarà del mio povero Giona?

Ciò detto se ne partì. Qui sarebbe lungo riferire gli attacchi fattimi più volte dalla madre, dal suo rabbino, dai parenti di Giona. Non fu minaccia, violenza che non sfasi usata contro al coraggioso giovanetto. Egli tutto soffrì e continuò ad istruirsi nella fede. Siccome in famiglia non era più sicuro della vita, così dovettesi allontanare da casa e vivere quasi mendicando. Molti però gli vennero in aiuto e affinché ogni cosa procedesse colla dovuta prudenza, raccomandai il mio allievo ad un dotto sacerdote, che si prese di lui cura paterna.

69 Misna [Mishna]: una delle principali opere del giudaismo rabbinico; redazione scritta della tradizione orale giudaica, che riflette i dibattiti dei saggi e delle scuole rabbiniche tra il 70 e il 200 d.C. sull'applicazione della legge (Torah) alla vita quotidiana. La Gemara, invece, è la parte del Talmud che contiene i commenti e le interpretazioni della Mishna; venne redatta nei tre secoli successivi (cf. Encyclopaedia Judaica, Jerusalem, Keter Publishing House, 1971-1972, vol. XII, 93-109; vol. XV, 750-779). Tali pratiche interpretative si trovano storicamente al cuore dell'identità ebraica: «La Torah è il centro della tessitura intrecciata di riferimenti, spiegazioni e dibattiti ermeneutici che danno forza organica alla vita quotidiana e storica della comunità, che può essere definita come una tradizione concentrica di lettura. La Gemara, il commento sulla Mishna, la raccolta di leggi e prescrizioni orali che formano il Talmud e il Midrash, vale a dire la parte del commento che tratta più particolarmente dell'interpretazione del canone biblico, esprimono e animano la continuità dell'ebraismo» (George STEINER, Nessuna passione spenta. Saggi 1978-1996, Milano, Garzanti, 2001, 225).

Allora che fu a dovere istruito nella religione, mostrandosi impaziente di farsi cristiano, fu fatta una solennità" che tornò di buon esempio a tutti i chieresi e di eccitamento ad altri ebrei, di cui parecchi abbracciarono più tardi il cristianesimo.

Il padrino e la madrina furono Carlo ed Ottavia coniugi Bertinetti,"" i quali provvidero a quanto occorreva al neofito che, divenuto cristiano, poté col suo lavoro procacciarsi onestamente il pane della vita. Il nome del neofito fu Luigi.

11. Giuochi — Prestigi — Magia — Discolpa

In mezzo a' miei studi e trattenimenti diversi, come sono canto, suono, declamazione, teatrino, cui prendeva parte di tutto cuore, aveva eziandio imparati vari altri giuochi. Carte, tarocchi, pallottole, piastrelle, stampelle, salti, corse, erano tutti divertimenti di sommo gusto, in cui, se non era celebre, non era certamente mediocre. Molti li aveva imparati a Morialdo, altri a Chieri, e se nei prati di Morialdo era piccolo allievo, a quell'anno era divenuto un compatibile maestro. Ciò cagionava molta maraviglia perché a quell'epoca tali giuochi essendo poco conosciuti, parevano cose dell'altro mondo. Ma che diremo dei prestigi?

Soleva spesso dare pubblici e privati spettacoli. Siccome la memoria mi favoriva assai, così sapeva a mente una gran parte dei classici specialmente poeti. Dante, Petrarca, Tasso, Panini, Monti ed altri assai mi erano così famigliari da potermene valere a piacimento come di roba mia. Per la qual cosa mi riusciva molto facile a trattare all'improvviso qualunque argomento. In quei trattenimenti, in quegli spettacoli talvolta cantava, talora suonava o componeva versi, che giudicavansi capi d'opera, ma che in realtà non erano altro che brani di autori accomodati agli argomenti proposti. Per questo motivo non ho mai date le mie composizioni ad altri; e taluna che fu scritta ho procurato di consegnarla alle fiamme.

Cresceva poi la maraviglia ne' giuochi di prestigiatore. Il vedere uscire da un piccolo bussolotto mille palle tutte più grosse di lui; da un piccolo tacchetto tirar fuori mille uova, erano cose che facevano trasecolare.

70 Il battesimo fu celebrato nella parrocchia di Santa Maria della Scala il 10 agosto 1834. L'evento è ricordato nelle cronache della Confraternita dei Disciplinati dello Spirito Santo, che aveva il compito di assistere i catecumeni: «L'anno 1834 fu un anno memorabile per la Confraternita, pel battesimo solenne conferito nella Collegiata all'ebreo Giacobbe Levi fu Lazzaro» (CASELLE, Giovanni Bosco a Chieri, 113).

71 Dai registri di battesimo sappiamo che Ottavia Maria Bertinetti fu la madrina, mentre padrino fu Giacinto Bolmida. Il neofita, in onore dei padrini, assunse il nome di Luigi Giacinto Ottavio Maria e il cognome Bolmida, perché, non avendo ancora raggiunto la maggiore età (che in quel tempo era di 21 anni), fu adottato dal padrino (cf. CASELLE, Giovanni Bosco a Chieri, 110-115).

Quando poi vedevanmi raccogliere palloni dalla punta del naso degli astanti; indovinare i danari della saccoccia altrui; quando col semplice tatto delle dita si riducevano in polvere monete di qualsiasi metallo o si faceva comparire l'udienza intera di orribile aspetto ed anche senza teste, allora si cominciò da taluno a dubitare che io fossi un mago e che non potessi operare quelle cose senza l'intervento di qualche diavolo.

Accresceva credenza il mio padrone di casa di nome Tommaso Cumino.72 Era questi un fervoroso cristiano, che amava molto lo scherzo ed io sapeva approfittarmi del suo carattere e direi dabbenaggine per fargliene di tutti i colori. Un giorno con grande cura aveva preparata una gelatina con un pollo per regalare a' suoi pensionari nel giorno suo onomastico. Portò a tavola il piatto, ma scopertolo, ne saltò fuori un gallo che svolazzando cantarellava in mille guise. Altra volta apprestò una pentola di maccheroni, e dopo averli fatti cuocere assai lungo tempo, nell'atto di versarli nel piatto trovò altrettanta crusca asciuttissima. Più volte empieva la bottiglia di vino e volendolo versare nel bicchiere, trovava limpida acqua. Volendo poi bere acqua, trovavasi invece il bicchiere pieno di vino. Le confetture cangiate in fette di pane; il danaro della borsa trasmutato in inutili e rugginosi pezzetti di latta; il cappello cangiato in cuffia; noci e nocciuole cangiate in sacchetti di minuta ghiaia erano cose assai frequenti.

Il buon Tommaso non sapeva più che dire. Gli uomini, diceva tra sé, non possono fare queste cose; Dio non perde tempo in queste inutilità; dunque è il demonio che fa tutto questo. Non osando parlarne con quei di casa, si consigliò con un vicino sacerdote, D. Bertinetti.73 Scorgendo esso pure magia bianca in quelle opere, in que' trastulli, decise di riferire la cosa al delegato delle scuole che era in quel tempo un rispettabile ecclesiastico, il canonico Burzio,74 arciprete e curato del duomo. Era questi persona assai istruita, pia e prudente; e senza fare ad altri parola mi chiese ad audiendum verbum."

72 Tommaso Cumino (1765-1840), nativo di Andezeno, sarto, ospitava nella sua casa alcuni studenti; presso di lui abitò anche Giuseppe Cafasso nell'anno scolastico 1827-28 (cf. CASELLE, Giovanni Bosco a Chieri, 121). Giovanni Bosco alloggiò da Cumino nell'anno scolastico 1834-1835.

73 Luigi Bertinetti (1794-1848), sacerdote, fratello di Carlo.

74 Massimo Giuseppe Burzio (1777-1847), laureato in Teologia, fu canonico arciprete della Collegiata di S. Maria della Scala dal 1833 alla morte (cf. Bartolomeo VALIMBERTI, Spunti storico religiosi sopra la città di Chieri, I: Il duomo, Chieri, Tipografia M. Ghirardi, 1928, 326). Era la massima autorità ecclesiastica di Chieri e ricopriva anche la carica di Delegato della Riforma, cioè di rappresentante del Magistrato della Riforma per la vigilanza sulle scuole della città. Leggiamo nei regolamenti scolastici: «Sarà questo incaricato di vegliare, affinché in tutte le scuole elementari, o di latinità, e ne' pensionati, e convitti, ch'esistono nel distretto affidatogli, si osservino le regole infra per esso loro stabilite, e non s'introducano abusi» (Regie patenti, 9-10, art. 3).

75 Ad audiendum verbum: espressione usata per indicare un colloquio privato di chiarimento con un superiore.

Giunsi a casa sua in momento che recitava il breviario e guardandomi con un sorriso mi accennò di attendere alquanto. In fine mi disse di seguirlo in un gabinetto e là con parole cortesi, ma con severo aspetto cominciò ad interrogarmi così: «Mio caro, io sono molto contento del tuo studio e della condotta che hai tenuto finora; ma ora si raccontano tante cose di te... Mi dicono che tu conosci i pensieri degli altri, indovini il danaro che altri ha in saccoccia, fai vedere bianco quello che è nero. Conosci le cose da lontano e simili. Ciò fa parlare assai di te e taluno giunse a sospettare che tu ti servi della magia e che perciò in quelle opere vi sia lo spirito di Satana. Dimmi adunque: chi ti ammaestrò in questa scienza, dove l'hai imparata? Dimmi ogni cosa in modo confidenziale; ti assicuro che non me ne servirò, se non per farti del bene».

Senza scompormi di aspetto chiesigli cinque minuti di tempo a rispondere e l'invitai a dirmi l'ora precisa. Mette egli la mano in tasca e più non trovò il suo orologio. «Se non ha l'orologio, soggiunsi, mi dia una moneta da cinque soldi». Frugò egli in ogni saccoccia, ma non trovò più la sua borsa. «Briccone, prese a dirmi tutto incollerito; o che tu sei servo del demonio o che il demonio serve a te. Tu mi hai già involato borsa ed orologio. Io non posso più tacere, sono obbligato a denunziarti e non so come mi tenga dal non farti un fracco di bastonate». Ma nel rimirarmi calmo e sorridente parve acquetarsi alquanto e ripigliò: «Prendiamo le cose in modo pacifico. Spiegami questi misteri. Come fu possibile che la mia borsa e il mio orologio uscissero dalle mie saccocce senza che io me ne sia accorto? Dove sono andati questi oggetti?».

— Signor arciprete, presi a dirgli rispettosamente, io spiego tutto in poche parole. È tutto destrezza di mano, intelligenza presa o cosa preparata.

— Che intelligenza vi poté essere pel mio orologio e per la mia borsa?

— Spiego tutto in breve. Quando giunsi in casa sua ella dava limosina ad un bisognoso, di poi mise la borsa sopra uno inginocchiatoio. Andando poi di questa in altra camera lasciò l'orologio sopra questo tavolino. Io nascosi l'una e l'altro, ed ella pensava di avere quegli oggetti con sé, mentre erano invece sotto a questo paralume.

Ciò dicendo alzai il paralume e si trovarono ambidue gli oggetti creduti dal demonio portati altrove.

Rise non poco il buon canonico; mi fece dar saggio di alcuni atti di destrezza, e come poté conoscere il modo con cui le cose facevansi comparire e disparire, ne fu molto allegro, mi fece un piccolo regalo e in fine conchiuse: «Va' a dire a tutti i tuoi amici che ignorantia est magistra admirationis».76

76 Ignorantia est magistra admirationis: citazione a senso dalle Confessioni di sant'Agostino (lib. XIII, c. 21: «ignorantia mater admirationis»).

12. Corsa — Salto — Bacchetta magica — Punta dell'albero

Discolpatomi che ne' miei divertimenti non vi era la magia bianca mi sono di nuovo messo a radunare compagni e trattenerli e ricrearli come prima. In quel tempo avvenne che alcuni esaltavano a cielo un saltimbanco che aveva dato pubblico spettacolo con una corsa a piedi percorrendo la città di Chieri da una all'altra estremità in due minuti e mezzo, che è quasi il tempo della ferrovia a grande velocità.

Non badando alle conseguenze delle mie parole ho detto che io mi sarei volentieri misurato con quel ciarlatano. Un imprudente compagno riferì la cosa al saltimbanco ed eccomi impegnato in un sfida: uno studente sfida un corriere di professione! Il luogo scelto era il viale di Porta Torinese."

La scommessa era di 20 fr. Non possedendo io quel danaro, parecchi amici appartenenti alla Società dell'Allegria, mi vennero in soccorso. Una moltitudine di gente assisteva. Si cominciò" la corsa e il mio rivale mi guadagnò alcuni passi; ma tosto riacquistai terreno e lo lasciai talmente dietro di me che a metà corsa si fermò, dandomi partita guadagnata.

— Ti sfido a saltare, dissemi, ma voglio scommettere fr. 40 e di più se vuoi —. Accettammo la sfida e toccando a lui scegliere il luogo, egli fissò che il salto dovesse avere luogo contro il parapetto di un ponticello. Egli saltò il primo e pose il piede vicinissimo al muriccio, sicché più in là non si poteva saltare. In quel modo io avrei potuto perdere, ma non guadagnare. L'industria però mi venne in soccorso. Feci il medesimo salto, ma appoggiando le mani sul parapetto del ponte prolungai il salto al di là del medesimo muro e dello stesso fosso. Applausi generali.

— Voglio ancora farti una sfida. Scegli qualunque giuoco di destrezza —. Accettai e scelsi il giuoco della bacchetta magica colla scommessa di fr. 80. Presi pertanto una bacchetta, ad una estremità posi un cappello, poi appoggiai l'altra estremità sulla palma di una mano. Di poi senza toccarla coll'altra la feci saltare sulla punta del dito mignolo, dell'anulare, del medio, dell'indice, del pollice; quindi sulla nocetta della mano, sul gomito, sulla spalla, sul mento, sulle labbra, sul naso, sulla fronte. Indi rifacendo lo stesso cammino tornò sulla palma della mano.

— Non temo di perdere, disse il rivale, è questo il mio giuoco prediletto —.

Prese adunque la medesima bacchetta e con maravigliosa destrezza la fece camminare fin sulle labbra donde, avendo alquanto lungo il naso, urtò e perdendo l'equilibrio dovette prenderla colla mano per non lasciarla cadere a terra.

77 Porta Torinese (detta anche di Vajro) era il nome di un'antica porta delle mura di Chieri che si apriva su un ampio viale alberato verso Torino. La costruzione medievale venne abbattuta nel 1850 (cf. CASELLE, Giovanni Bosco a Chieri, 101).

78 A.S.F. legge si comincia.

Quel meschino vedendosi il patrimonio andare a fondo quasi furioso esclamò: «Piuttosto qualunque altra umiliazione, ma non quella di essere stato vinto da uno studente. Ho ancora cento franchi e questi li scommetto e li guadagnerà chi di noi metterà i piedi più vicino alla punta di quest'albero», accennava ad un olmo che era accanto al viale. Accettammo anche questa volta, anzi in certo modo eravamo contenti che egli guadagnasse giacché sentivamo di lui compassione e non volevamo rovinarlo.

Salì egli il primo sopra l'olmo e portò i piedi a tale altezza che, per poco fosse più alto salito, sarebbesi piegato cadendo a terra colui che si arrampicava. Tutti dicevano che non era possibile salire più in alto. Feci la mia prova. Salii alla possibile altezza senza far curvare la pianta, poi tenendomi colle mani all'albero alzai il corpo e portai i piedi circa un metro oltre all'altezza del mio contendente.

Chi mai può esprimere gli applausi della moltitudine, la gioia de' miei compagni, la rabbia del saltimbanco e l'orgoglio mio, che era riuscito vincitore, non contro i miei condiscepoli, ma contro ad un capo di ciarlatani? In mezzo però alla grande desolazione gli abbiamo voluto procurare un conforto. Mossi a pietà dalla tristezza del poverino gli abbiamo detto che noi gli ritornavamo il suo danaro se egli accettava una condizione, di venire cioè a pagarci un pranzo all'albergo del Muretto.79Accettò l'altro con gratitudine. Andammo in numero di ventidue, tanti erano i miei partigiani. Il pranzo costò 25 franchi, così che gli furono tornati fr. 215.

Quello fu veramente giovedì di grande allegria. Io mi sono coperto di gloria per avere in destrezza superato un ciarlatano. Contentissimi i compagni che si divertirono a più non posso col ridere e col buon pranzo. Contento dovette pur essere il ciarlatano che riebbe quasi tutto il suo danaro, godette anche un buon pranzo. Nel separarsi egli ringraziò tutti dicendo: «Col ritornarmi questo danaro voi impedite la mia rovina. Vi ringrazio di tutto cuore. Serberò di voi grata memoria, ma non faro mai più scommesse cogli studenti».

13. Studio dei classici

Nel vedermi passare il tempo in tante dissipazioni, voi direte che doveva per necessità trascurare lo studio. Non vi nascondo che avrei potuto studiare di più, ma ritenete che l'attenzione nella scuola mi bastava ad imparare quanto era necessario.

79 Dovrebbe dire Muletto. L'albergo del Muletto si trovava in Piazza d'Anni, oggi Piazza Cavour, lungo la Contrada maestra (cf. CASELLE, Giovanni Bosco a Chieri, 106).

Tanto più che in quel tempo io non faceva distinzione tra leggere e studiare e con facilità poteva ripetere la materia di un libro letto o udito a raccontare. Di più essendo stato abituato da mia madre a dormire assai poco, poteva impiegare due terzi della notte a leggere libri a piacimento e spendere quasi tutta la giornata in cose di libera elezione, come fare ripetizioni, scuole private, cui sebbene spesso mi prestassi per carità o per amicizia, da parecchi però era pagato.

Era allora in Chieri un libraio ebreo di nome Elia," col quale contrassi relazioni associandomi alla lettura dei classici italiani. Un soldo ogni volumetto che gli ritornava dopo averlo letto." Dei volumetti della biblioteca popolare ne leggeva uno al giorno." L'anno di quarta ginnasiale" l'impiegai nella lettura degli autori italiani. L'anno di retorica mi posi a fare studi sui classici latini e cominciai a leggere Cornelio Nepote, Cicerone, Sallustio, Quinto Curzio, Tito Livio, Cornelio Tacito, Ovidio, Virgilio, Orazio Fiacco ed altri. Io leggeva que' libri per divertimento e li gustava come se li avessi capiti interamente. Soltanto più tardi mi accorsi che non era vero, perciocché fatto sacerdote, messomi a spiegare ad altri quelle classiche celebrità, conobbi che appena con grande studio e con molta preparazione riusciva a penetrarne il giusto senso e la bellezza loro. Ma i doveri di studio, le occupazioni delle ripetizioni, la molta lettura, richiedevano il giorno ed una parte notabile della notte. Più volte accadde che giungeva l'ora della levata mentre teneva tuttora tra mano le Decadi di Tito Livio," di cui aveva intrapreso lettura la sera antecedente. Tal cosa mi rovinò talmente la sanità che per più anni la mia vita sembrava ognora vicina alla tomba. Laonde io darò sempre per consiglio di fare quel che si può e non di più.

80 Elia Foa, commerciante in stoffe (secondo il censimento del 1834 aveva 79 anni), con negozio unito a quello del cognato libraio Tobia tona, di 59 anni (cf. CASELLE, Giovanni Bosco a Chieri, 108).

81 Un soldo corrispondeva a 5 centesimi di lira (cf. G. Bosco, Il sistema metrico decimale, 75, in OE IV, 75).

82 La Biblioteca Popolare Morale e Religiosa era una serie di cento volumetti tascabili (circa 200 pagine ciascuno), pubblicati settimanalmente tra 1828 e 1830 dall'editore Giuseppe Pomba (1795 1876), venduti al prezzo di 50 centesimi. «La scelta accurata dei testi e la varietà degli argomenti — dall'Imitazione di Cristo nella versione del Cesari, alle opere di Omero, Virgilio, Dante, Petrarca, Ariosto, Tasso, Metastasio, Manzoni e altri grandi della letteratura, con la sola esclusione delle opere moderne straniere —, la formula accorta dell'abbonamento e l'inoltro economico a mezzo di posta fecero la fortuna della collana, specialmente tra i ceti lontani dal mondo delle accademie, che sino allora non avevano goduto del privilegio della lettura» (Rosanna ROCCIA, L'editoria, in Storia di Torino. VI: La città nel Risorgimento, 1798-1864, a cura di Umberto Levra, Torino, Einaudi, 2000, 675-676). Dall'impresa di Giuseppe Pomba nacque nel 1854 il marchio editoriale UTET (cf. Luigi FIRPO, Vita di Giuseppe Pomba da Torino. Libraio, tipografo, editore, Torino, UTET, 1975; Catalogo storico delle edizioni Pomba e UTET, 1791-1990, a cura di Enzo Bottasso, Torino, UTET, 1991).

83 Quarta ginnasiale: nell'ordinamento scolastico del tempo corrispondeva al corso di umanità.

84 Tito Livio (59 a.C.-17 d.C.): il più grande storico dell'età augustea, autore delle Storie, un'opera monumentale divisa in periodi di dieci anni (decadi), di cui ci restano solo poche parti (le decadi I, III, IV e i primi cinque libri della V decade).

La notte è fatta pel riposo ed eccettuato il caso di necessità, altrimenti dopo la cena niuno deve applicarsi in cose scientifiche. Un uomo robusto reggerà alquanto, ma cagionerà sempre qualche detrimento alla sua sanità.

14. Preparazione — Scelta dello stato

Intanto si avvicinava la fine dell'anno di retorica," epoca in cui gli studenti sogliono deliberare intorno alla loro vocazione. Il sogno di Morialdo mi stava sempre impresso; anzi mi si era altre volte rinnovato in modo assai più chiaro, per cui, volendoci prestar fede, doveva scegliere lo stato ecclesiastico, cui appunto mi sentiva propensione; ma non volendo credere ai sogni, e la mia maniera di vivere, certe abitudini del mio cuore e la mancanza assoluta delle virtù necessarie a questo stato, rendevano dubbiosa e assai difficile quella deliberazione.

Oh se allora avessi avuto una guida che si fosse presa cura della mia vocazione! Sarebbe stato per me un gran tesoro, ma questo tesoro mi mancava. Aveva un buon confessore che pensava a farmi buon cristiano, ma di vocazione non si volle mai mischiare.

Consigliandomi con me stesso, dopo avere letto qualche libro che trattava della scelta dello stato, mi sono deciso di entrare nell'Ordine Francescano. Se io mi fo' chierico nel secolo, diceva tra me, la mia vocazione corre gran pericolo di naufragio. Abbraccerò lo stato ecclesiastico, rinuncerò al mondo, andrò in un chiostro, mi darò allo studio, alla meditazione, e così nella solitudine potrò combattere le passioni, specialmente la superbia che nel mio cuore aveva messe profonde radici. Feci pertanto dimanda ai conventuali riformati, ne subii l'esame," fui accettato e tutto era preparato per entrare nel convento della Pace in Chieri."

85 Retorica: l'ultima classe della latinità superiore. Giovanni Bosco la frequentò nell'anno scolastico 1834-1835. Il problema della scelta dello stato di vita, però, se lo era posto da tempo: infatti, la domanda di ammissione tra i Francescani, di cui parlerà più avanti, venne presentata nel marzo del 1834, durante il corso di umanità.

86 L'esame si svolse il 18 aprile 1834 nel convento dei Minori Riformati della Madonna degli Angeli di Torino, sede della Provincia piemontese dell'Ordine; l'accettazione avvenne il 28 dello stesso mese: «Anno 1834 receptus fuit in conventu S. Mariae Angelorum Ord. Reformat. S. Francisci juvenis Joannes Bosco a Castronovo natus, die 17 augusti baptizatus, et confirmatus. Habet requisita et vota omnia. Die 18 aprilis» (APOFM, Juvenes postulantes ad Ordinem acceptati ab anno 1638 ad annum 1838; cf. Pietro STELLA, Don Bosco nella storia della religiosità cattolica. Vol. I: Vita e opere, Roma, LAS, 1979, 45, n. 57).

87 Convento della Pace: così era chiamato il convento dei Minori Osservanti di Chieri, annesso alla chiesa di Santa Maria della Pace, fondato nel 1642, sede del noviziato della Provincia Piemontese dell'Ordine (cf. CASELLE, Giovanni Bosco a Chieri, 81).

Pochi giorni prima del tempo stabilito per la mia entrata ho fatto un sogno dei più strani. Mi parve di vedere una moltitudine di que' religiosi colle vesti sdruscite indosso e correre in senso opposto l'uno dall'altro. Uno di loro vennemi a dire: «Tu cerchi la pace e qui pace non troverai. Vedi l'atteggiamento de' tuoi fratelli. Altro luogo, altra messe Dio ti prepara».

Voleva fare qualche dimanda a quel religioso, ma un rumore mi svegliò e non vidi più cosa alcuna. Esposi tutto al mio confessore, che non volle udire a parlare né di sogno né di frati. «In questo affare, rispondevami, bisogna che ciascuno segua le sue propensioni e non i consigli altrui».

In quel tempo succedette un caso che mi pose nella impossibilità di effettuare il mio progetto. E siccome gli ostacoli erano molti e duraturi, così io ho deliberato di esporre tutto all'amico Comollo. Esso mi diede per consiglio di fare una novena, durante la quale egli avrebbe scritto al suo zio prevosto. L'ultimo giorno della novena in compagnia dell'incomparabile amico ho fatto la confessione e la comunione, di poi udii una messa, e ne servii un'altra in duomo all'altare della Madonna delle Grazie. Andati poscia a casa trovammo di fatto una lettera di D. Comollo concepita in questi termini: «Considerate attentamente le cose esposte, io consiglierei il tuo compagno di soprassedere di entrare in un convento. Vesta egli l'abito chiericale, e mentre farà i suoi studi conoscerà viemeglio quello che Dio vuole da lui. Non abbia alcun timore di perdere la vocazione, perciocché colla ritiratezza e colle pratiche di pietà egli supererà tutti gli ostacoli».

Ho seguito quel savio suggerimento, mi sono seriamente applicato in cose che potessero giovare a prepararmi alla vestizione chiericale. Subito l'esame di retorica, sostenni quello dell'abito di chierico in Chieri e precisamente nelle camere attuali della casa Bertinetti Carlo, che morendo ci lasciò in eredità e che erano tenute a pigione dall'arciprete canonico Burzio. In quell'anno l'esame non ebbe luogo secondo il solito in Torino a motivo del cholera-morbus che minacciava i nostri paesi."

Voglio qui notare una cosa che fa certamente conoscere quanto lo spirito di pietà fosse coltivato nel collegio di Chieri. Nello spazio di quattro anni che frequentai quelle scuole non mi ricordo di avere udito un discorso od una sola parola che fosse contro ai buoni costumi o contro alla religione. Compiuto il corso della retorica, di 25 allievi, di cui componevasi quella scolaresca, 21 abbracciarono lo stato ecclesiastico, tre medici, uno mercante.

Andato a casa per le vacanze, cessai di fare il ciarlatano e mi diedi alle buone letture che, debbo dirlo a mia vergogna, fino allora aveva trascurato.

88 Il colera si diffuse in alcune parti del Piemonte tra la primavera e l'autunno 1835. Secondo le disposizioni governative, per evitare il contagio, l'arcivescovo di Torino dispose che gli esami di ammissione alla vestizione ecclesiastica non avvenissero, secondo l'usanza, nella capitale, ma presso le autorità religiose locali (cf. la Circolare ai parroci del 1 settembre 1835, in AAT, Provvisioni semplici 1835, alla data).

Ho però continuato ad occuparmi dei giovanetti, trattenendoli in racconti, in piacevole ricreazione, in canti di laudi sacre, anzi osservando che molti erano già inoltrati negli anni, ma assai ignoranti nelle verità della fede, mi sono dato premura d'insegnare loro anche le preghiere quotidiane ed altre cose più importanti in quella età.

Era quella una specie di Oratorio, cui intervenivano circa cinquanta fanciulli che mi amavano e mi ubbidivano, come se fossi stato loro padre.