Don Bosco

Memorie dell'Oratorio di San Francesco di Sales (seconda decade 1835-1845)

GIOVANNI BOSCO

MEMORIE DELL'ORATORIO DI S. FRANCESCO DI SALES DAL 1815 AL 1855

SECONDA DECADE 1835-1845

 

1. Vestizione chiericale — Regolamento di vita

Presa la deliberazione di abbracciare lo stato ecclesiastico e subitone il prescritto esame andavami preparando a quel giorno di massima importanza, perciocché era persuaso che dalla scelta dello stato ordinariamente dipende l'eterna salvezza o l'eterna perdizione. Mi sono raccomandato a vari amici di pregare per me; ho fatto una novena e nel giorno di S. Michele (ottobre 1834)' mi sono accostato ai santi sacramenti, di poi il teologo Cinzano prevosto e vicario foraneo di mia patria,' mi benedisse l'abito e mi vesti da chierico prima della messa solenne. Quando mi comandò di levarmi gli abiti secolareschi con quelle parole: «Exuat te Dominus veterem hominem cum actibus suis»,3 dissi in cuor mio: «Oh quanta roba vecchia c'è da togliere! Mio Dio, distruggete in me tutte le mie cattive abitudini». Quando poi nel darmi il collare aggiunse: «Induat te Dominus novum hominem, qui secundum Deum creatus est in iustitia et sanctitate veritatis!»,4 mi sentii tutto commosso e aggiunsi tra me: «Si, o mio Dio, fate che in questo momento io vesta un uomo nuovo, cioè che da questo momento io incominci una vita nuova, tutta secondo i divini voleri e che la giustizia e la santità siano l'oggetto costante de' miei pensieri, delle mie parole e delle mie opere. Così sia. O Maria, siate voi la salvezza mia».

1 Dovrebbe dire: 1835; secondo i registri di curia, la vestizione di Giovanni Bosco avvenne la domenica 25 ottobre 1835 (cf. AAT 12.12.3: Registrum clericorum 1808-1847, rubr. B, 1835). Il 24 ottobre si celebrava la festa di san Raffaele arcangelo (quella di san Michele era celebrata il 29 settembre).

2 Antonio Pietro Michele Cinzano (1804-1870): laureato in teologia, prevosto di Castelnuovo dal 1834 alla morte.

3 Il Signore ti spogli dell'uomo vecchio con le sue azioni (cf. Col 3, 10: «Exuistis vos veterem hominem cum actibus eius»).

4 Il Signore ti rivesta dell'uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera (cf. Ef 4,22-24: «Deponere vos secundum pristinam conversationem veterem hominem, qui corrumpitur secundum desideria erroris, renovari autem spiritu mentis vestrae et induere novum hominem, qui secundum Deum creatus est in iustitia et sanctitate veritatis»).

Compiuta la funzione di chiesa il mio prevosto volle farne un'altra tutta profana: condurmi alla festa di S. Michele, che si celebrava a Bardella borgata di Castelnuovo.5 Egli con quel festino intendeva usarmi un atto di benevolenza, ma non era cosa opportuna per me. Io figurava un burattino vestito di nuovo che si presentava al pubblico per essere veduto. Inoltre dopo più settimane di preparazione a quella sospirata giornata, trovarmi di poi ad un pranzo in mezzo a gente di ogni condizione, di ogni sesso, colà radunata per ridere, chiacchierare, mangiare, bere e divertirsi; gente che per lo più andava in cerca di giuochi, balli e di partite di tutti i generi; quella gente quale società poteva mai formare con uno che al mattino dello stesso giorno aveva vestito l'abito di santità, per darsi tutto al Signore?

Il mio prevosto se ne accorse e nel ritorno a casa mi chiese perché in quel giorno di pubblica allegria, io mi fossi mostrato cotanto ritenuto e pensieroso. Con tutta sincerità risposi che la funzione fatta al mattino in chiesa discordava in genere, numero e caso con quella della sera. «Anzi, soggiunsi, l'aver veduto preti a fare i buffoni in mezzo ai convitati presso che brilli di vino, mi ha quasi fatto venire in avversione la mia vocazione. Se mai sapessi di venire un prete come quelli, amerei meglio deporre quest'abito e vivere da povero secolare, ma da buon cristiano».

«Il mondo è fatto così, mi rispose il prevosto, e bisogna prenderlo come è. Bisogna vedere il male per conoscerlo ed evitarlo. Niuno divenne valente guerriero senza apprendere il maneggio delle armi. Così dobbiamo fare noi che abbiamo un continuo combattimento contro al nemico delle anime».

Tacqui allora, ma nel mio cuore ho detto: «Non andrò mai più in pubblici festini, fuori che ne sia obbligato per funzioni religiose».

Dopo quella giornata io doveva occuparmi di me stesso. La vita fino allora tenuta doveva essere radicalmente riformata. Negli anni addietro non era stato uno scellerato, ma dissipato, vanaglorioso, occupato in partite, giuochi, salti, trastulli ed altre cose simili che rallegravano momentaneamente, ma che non appagavano il cuore.

Per farmi un tenore di vita stabile da non dimenticarsi, ho scritto le seguenti risoluzioni:

1° Per l'avvenire non prenderò mai più parte a' pubblici spettacoli sulle fiere, sui mercati, né andrò a vedere balli o teatri. E per quanto mi sarà possibile non interverrò ai pranzi, che soglionsi dare in tali occasioni.

2° Non farò mai più i giuochi de' bussolotti, di prestigiatore, di saltimbanco, di destrezza, di corda; non suonerò più il violino, non andrò più alla caccia. Queste cose le reputo tutte contrarie alla gravità ed allo spirito ecclesiastico.

5 La cappella di Bardella era dedicata a san Michele Arcangelo; vi si celebrava la festa il 29 settembre (cf. Relazione dello stato della Parrocchia di S. Andrea, f. 437). Evidentemente, don Bosco confonde momenti diversi: la vestizione (avvenuta nel giorno successivo alla festa di san Raffaele, 25 ottobre 1835) e la partecipazione, insieme al prevosto, ad un banchetto a Bardella in occasione della festa patronale di san Michele, forse l'anno successivo.

3° Amerò e praticherò la ritiratezza, la temperanza nel mangiare e nel bere; e di riposo non prenderò se non le ore strettamente necessarie per la sanità.

4° Siccome pel passato ho servito al mondo con letture profane, così per l'avvenire procurerò di servire a Dio dandomi alle letture di cose religiose.

5° Combatterò con tutte le mie forze ogni cosa, ogni lettura, pensiero, discorsi, parole ed opere contrarie alla virtù della castità. All'opposto praticherò tutte quelle cose anche piccolissime che possano contribuire a conservare questa virtù.

6° Oltre alle pratiche ordinarie di pietà, non ometterò mai di fare ogni giorno un poco di meditazione ed un po' di lettura spirituale.

7° Ogni giorno racconterò qualche esempio o qualche massima vantaggiosa alle anime altrui. Ciò farò coi compagni, cogli amici, coi parenti e quando non posso con altri, il farò con mia madre.

Queste sono le cose deliberate quando ho vestito l'abito chiericale, ed affinché mi rimanessero bene impresse sono andato avanti ad un'immagine della beata Vergine, le ho lette e dopo una preghiera ho fatto formale promessa a quella celeste benefattrice, di osservarle a costo di qualunque sacrifizio.

2. Partenza pel seminario

Il giorno 30 di ottobre di quell'anno 1835 doveva trovarmi in seminario.6 Il piccolo corredo era preparato. I miei parenti erano tutti contenti, io più di loro. Mia madre soltanto stava in pensiero e mi teneva tuttora lo sguardo addosso come volesse dirmi qualche cosa. La sera antecedente alla partenza ella mi chiamò a sé e mi fece questo memorando discorso: «Giovanni mio, tu hai vestito l'abito sacerdotale, io ne provo tutta la consolazione che una madre può provare per la fortuna di suo figlio. Ma ricordati che non è l'abito che onora il tuo stato, è la pratica della virtù. Se mai tu venissi a dubitare di tua vocazione, ah per carità! non disonorare questo abito. Deponilo tosto. Amo meglio di avere un povero contadino che un figlio prete trascurato ne' suoi doveri. Quando sei venuto al mondo ti ho consacrato alla Beata Vergine; quando hai cominciato i tuoi studi ti ho raccomandato la divozione a questa nostra Madre; ora ti raccomando di esserle tutto suo: ama i compagni divoti di Maria e se diverrai sacerdote raccomanda a propaga mai sempre la divozione di Maria».

6 Il 30 ottobre 1835 era venerdì. Sul Calendarium Sanctae Metropolitanae Taurinensis Ecclesiae ad annum 1835 (Torino, Botta, 1834), al giorno 30 ottobre si legge: «Hodie vespere Seminaria aperiuntur Taurini et Cherii. Clerici omnes hic addicti ad sua studia resumenda conveniant» (Oggi, verso sera, si aprono i Seminari di Torino e di Chieri. Tutti i chierici ad essi assegnati rientrino per riprendere i loro studi). Sulla fondazione (1828-29) e l'organizzazione del seminario di Chieri cf. GIRAUDO, Clero, seminario e società, 198-213.

Nel terminare queste parole mia madre era commossa, io piangeva. «Madre, le risposi, vi ringrazio di tutto quello, che avete detto e fatto per me; queste vostre parole non saranno dette invano e ne farò tesoro in tutta la mia vita».

Al mattino per tempo mi recai a Chieri e la sera dello stesso giorno entrai in seminario. Salutati i superiori e aggiustatomi il letto, coll'amico Garigliano' mi sono messo a passeggiare pei dormitorii, pei corridoi e in fine pel cortile. Alzando lo sguardo sopra una meridiana lessi questo verso: Afflictis lentae, celeres gaudentibus horae.8 «Ecco, dissi all'amico, ecco il nostro programma: stiamo sempre allegri e passerà presto il tempo».

Il giorno dopo cominciò un triduo di esercizi' ed ho procurato di farli bene per quanto mi fu possibile. Sul finire di quelli mi recai dal professore di filoso

fia che allora era il teologo Ternavasio di Bral° e gli chiesi qualche norma di vita con cui soddisfare a' miei doveri ed acquistarmi la benevolenza de' miei superiori. «Una cosa sola, mi rispose il degno sacerdote, coll'esatto adempimento de' vostri doveri».

Ho preso per base questo consiglio e mi diedi con tutto l'animo all'osservanza delle regole del seminario» Non faceva distinzione tra quando il cam

panello chiamava allo studio, in chiesa, oppure in refettorio, in ricreazione, al riposo. Questa esattezza mi guadagnò l'affezione de' compagni e la stima de' superiori, a segno che sei anni di seminario furono per me una piacevolissima dimora.

7 Guglielmo Garigliano aveva vestito l'abito ecclesiastico il 18 ottobre 1835, nella chiesa parrocchiale di Poirino (AAT 12.12.3: Registrum clericorum 1808-1847, rubr. G, 1835).

8 Le ore passano lente per chi è addolorato, veloci per chi è felice. L'edificio del seminario di Chieri era stato sede di una Congregazione dell'Oratorio di san Filippo Neri, dal 1664 al 1802, e il motto della meridiana fa riferimento a un aspetto caratteristico della spiritualità del santo.

9 Il triduo di esercizi era stabilito dal Regolamento: «L'aprimento del seminario è fissato la sera del 30 ottobre, giorno in cui si dà principio al sacro triduo, il quale terminerà il mattino dei 3 novembre» (Costituzioni del Seminario metropolitano di Torino, I/I, a. 9, in GIRAUDO, Clero seminario e società, 348).

10 Francesco Ternavasio (1806-1886), nativo di Bra, laureato in Teologia all'Università di Torino. Fino all'anno scolastico 1834-35 nel seminario di Chieri esisteva solo il quinquennio di teologia. Il biennio di Filosofia venne inaugurato proprio nell'ottobre 1835, con l'entrata di Giovanni Bosco. Il T. Ternavasio fu il primo professore di filosofia; rimase a Chieri fino al 1837, poi si trasferì a Bra (cf. GIRAUDO, Clero seminario e società, 211).

11 Il Regolamento del seminario di Chieri (tratto dalle Costituzioni del Seminario metropolitano di Torino) era stato approvato dall'arcivescovo mons. Luigi Fransoni nel 1832; è riportato integralmente in GIRAUDO, Clero seminario e società, 384-391.

3. La vita del seminario

I giorni del seminario sono presso poco sempre gli stessi; perciò io accennerò le cose in genere riserbandomi descrivere separatamente alcuni fatti particolari. Comincerò dai superiori.12

Io amava molto i miei superiori, ed essi mi hanno sempre usato molta bontà; ma il mio cuore non era soddisfatto. Il Rettore e gli altri superiori solevano visitarsi all'arrivo dalle vacanze e quando si partiva per le medesime. Niuno andava a parlare con loro se non nei casi di ricevere qualche strillata. Uno dei superiori veniva per turno a prestar assistenza ogni settimana in refettorio e nelle passeggiate e poi tutto era finito.13 Quante volte avrei voluto parlare, chiedere loro consiglio o scioglimento di dubbi, e ciò non poteva; anzi accadendo che qualche superiore passasse in mezzo ai seminaristi, senza saperne la cagione, ognuno fuggiva precipitoso a destra e a sinistra come da una bestia nera. Ciò accendeva sempre di più il mio cuore di essere presto prete per trattenermi in mezzo ai giovanetti, per assisterli ed appagarli ad ogni occorrenza.

In quanto ai compagni mi sono tenuto al suggerimento dell'amata mia genitrice; vale a dire associarmi a' compagni divoti di Maria, amanti dello studio e della pietà. Debbo dire per regola di chi frequenta il seminario che in quello vi sono molti chierici di specchiata virtù, ma ve ne sono anche dei pericolosi. Non pochi giovani senza badare alla loro vocazione vanno in seminario senza avere né spirito, né volontà del buon seminarista. Anzi io mi ricordo di aver udito cattivissimi discorsi da compagni. Ed una volta, fatta perquisizione ad alcuni allievi, furono trovati libri empi ed osceni di ogni genere." È vero che somiglianti compagni o deponevano volontariamente l'abito chiericale, oppure venivano cacciati dal seminario appena conosciuti per quello che erano. Ma mentre dimoravano in seminario erano peste pei buoni e pei cattivi.

12 Superiori: quando Giovanni Bosco entra nel seminario, i superiori sono sei: il Rettore canonico Sebastiano Mottura (1795-1876), il direttore spirituale Giuseppe Mottura (1798-1876), il professore di teologia Lorenzo Prialis (1803-1868) e il suo assistente (ripetitore) Innocenzo Arduino (18061880), il professore di filosofia Francesco Ternavasio, don Matteo Testa (1782-1854) confessore e rettore della chiesa di san Filippo Neri annessa al seminario (cf. GIRAUDO, Clero seminario e società, 202-212).

13 Il superiore assistente di turno era chiamato prefetto di guardia; ed aveva l'obbligo «di assistere al pranzo e alla cena degli alunni [.. .]; di dare la permissione di uscire di casa» e di «cantare la messa in cappella ne' giorni festivi [...]. Quando il prefetto di guardia ha terminata la sua settimana, entra tosto nella settimana di sottoguardia, per quanto spetta all'assistenza della ricreazione dopo pranzo e della cena» (Costituzioni del Seminario metropolitano di Torino, IIVIIII, aa. 12-14, in GIRAUDO, Clero seminario e società, 363-364).

14 Le ispezioni erano richieste dal Regolamento: «L'uffizio di tutti in comune i prefetti superiori si è di vegliare sopra i costumi e applicazione allo studio degli allievi, epperò fare frequenti visite ai cameroni loro assegnati in tempo delle orazioni e dello studio, farsi di quando in quando rimettere dai medesimi le chiavi de' rispettivi bauli per osservare se tengano de' libri proibiti o ad essi non convenevoli, o armi, o carte, o tarocchi, e punirli nel caso che se ne trovino» (Costituzioni del Seminario metropolitano di Torino,IIVIII, a. 16, in GIRAUDO, Clero seminario e società, 364).

Per evitare il pericolo di tali condiscepoli io mi scelsi alcuni che erano notoriamente conosciuti per modelli di virtù. Essi erano Garigliano Guglielmo, Giacomelli Giovanni di Avigliana" e di poi Comollo Luigi. Questi tre compagni furono per me un tesoro.

Le pratiche di pietà si adempivano assai bene. Ogni mattino messa, meditazione, la terza parte del rosario; a mensa lettura edificante. In quel tempo leggevasi la storia ecclesiastica di Bercastel." La confessione era obbligatoria ogni quindici giorni, ma chi voleva poteva anche accostarsi tutti i sabati.17 La santa comunione però potevasi soltanto fare la domenica od in altra speciale solennità. Qualche volta si faceva lungo la settimana, ma per ciò fare bisognava commettere una disubbidienza. Era uopo scegliere l'ora di colazione, andare di soppiatto nell'attigua chiesa di S. Filippo, fare la comunione e poi venire raggiungere i compagni al momento che tornavano allo studio o alla scuola. Questa infrazione di orario era proibita," ma i superiori ne davano tacito consenso, perché lo sapevano e talvolta vedevano, e non dicevano niente in contrario. Con questo mezzo ho potuto frequentare assai più la santa comunione, che posso chiamare con ragione il più efficace alimento della mia vocazione.

15 Giovanni Francesco Giacomelli (1820-'1901) succederà a don Bosco come cappellano dell'Ospedaletto di S. Filomena, costruito dalla marchesa Giulia di Barolo. Dal 1873 il santo lo sceglierà come suo confessore.

16Antoine Henri BÉRAULT-BERCASTEL, Storia del cristianesimo, Venezia, F. Stella, 1793-1809, 36 voli. La lettura durante i pasti era prescritta dal Regolamento (cf. Costituzioni del Seminario metropolitano di Torino, I/II, a. 3, in GIRAUDO, Clero seminario e società, 350-351).

17 «Ogni alunno si confesserà almeno due volte al mese e rimetterà al confessore il biglietto di fatta confessione, in cui sarà notato il nome, cognome, corso, mese e giorno in cui si sarà confessato»; «La sera del sabato, destinata per le confessioni, resterà nella camerata di studio uno dei due prefetti di cappella e noterà quelli che chiedono d'andar a confessarsi; non accorderà nello stesso tempo a tutti la permissione per evitar le confusione e, prima del terminar dello studio, porterà la nota al signor rettore» (Regolamento del seminario di Chieri, c. I, a. 8 e c. VIII, a. 11, in GIRAUDO, Clero seminario e società, 385 e 391). Dai registri risulta che il chierico Giovanni Bosco mantenne un ritmo di confessione quindicinale nei primi tre anni (1835-1838); in seguitò si confesserà ogni settimana, con poche eccezioni. Gli stessi registri ci informano che durante il primo anno ebbe due confessori, don Filippo Navissano (1801-1842) e il can. Francesco Bagnasacco (1776-1846); ma a partire dal novembre 1836 scelse il can. Giuseppe Maloria, suo confessore negli anni della scuola pubblica, e gli rimase fedele fino al termine del seminario (cf. AAT 12.12.25: Registro delle confessioni dei chierici del seminario di Chieri 1829-1868, per gli anni scolastici 1835/36-1840/41).

18 Nel Regolamento del seminario di Chieri (c. I, a. 8) era scritto: «Riguardo poi alla comunione ciascuno vi si accosterà secondo l'avviso del proprio confessore: si esortano però tutti alla maggior frequenza secondo che più si avanzano negli ordini sacri» (GIRAUDO, Clero seminario e società, 385). Di fatto, per influsso di una prassi rigorista ereditata dal passato, la comunione si distribuiva soltanto durante la messa della domenica.

A questo difetto di pietà si è ora provveduto, quando, per disposizione dell'arcivescovo Gastaldi 19 furono ordinate le cose da poter ogni mattino accostarsi alla comunione, purché uno siane preparato.

[3a.] Divertimenti e ricreazione

Il trastullo più comune in tempo libero era il noto giuoco di Bara rotta.2° In principio ci presi parte con molto gusto, ma siccome questo giuoco si avvicinava molto a quelli dei ciarlatani, cui aveva assolutamente rinunziato, così pure ho voluto da quello cessare. In certi giorni era permesso il giuoco dei tarocchi21 e a questo ci ho preso parte per qualche tempo. Ma anche qui trovava il dolce misto coll'amaro. Sebbene non fossi valente giocatore, tuttavia era così fortunato che guadagnava quasi sempre. In fine delle partite io aveva le mani piene di soldi, ma al vedere i miei compagni afflitti perché li avevano perduti, io diveniva più afflitto di loro. Si aggiugne che nel giuoco io fissava tanto la mente che dopo non poteva più né pregare, né studiare, avendo sempre l'immaginazione travagliata dal Re da Cope e dal Fante da Spada, dal 13 o dal quindici da tarocchi. Ho pertanto presa la risoluzione di non più prendere parte a questo giuoco come aveva già rinunziato ad altri. Ciò feci alla metà del secondo anno di filosofia 1836.22

La ricreazione, quando era più lunga dell'ordinaria, era allegrata da qualche passeggiata che i seminaristi facevano spesso ne' luoghi amenissimi23 che circondano la città di Chieri. Quelle passeggiate tornavano anche utili allo studio, perciocché ciascuno procurava di esercitarsi in cose scolastiche, interrogando il suo compagno, o rispondendo alle fatte dimande. Fuori del tempo di pubblica passeggiata, ognuno si poteva anche ricreare passeggiando cogli amici pel seminario, discorrendo di cose amene, edificanti e scientifiche.

19 Lorenzo Gastaldi (1815-1883), prima vescovo di Saluzzo (1867), poi arcivescovo di Torino (1871). Riformò le regole del seminario e diede un più serio impulso alla formazione seminaristia (cf. Regulae seminariorum archiepiscopalium clericorum archidioecesis taurinensis, Torino, Marietti, 1875); su mons. Gastaldi e le sue riforme si veda Giuseppe TuNNETTI, Lorenzo Gastaldi (18151883), Casale Monferrato, Piemme, 1983-1988, 2 voll.

20 Bara rotta (o barra rotta): gioco di squadra, basato sulla prontezza dei riflessi, sulla velocità nella corsa e sulla strategia di gruppo.

21 Nel Regolamento del seminario di Chieri (c. VII, a. 4) si legge: «Si proibisce ogni sorta di giuoco di carte, dadi, come pure di ritenerli appo di sé. Il giuoco de' tarocchi potrà permettersi dal sig. Rettore, purché non s'interessi col danaro» (GIRAUDO, Clero seminario e società, 388).

22 Secondo anno di Filosofia: 1836-1837.

23 Nel Regolamento del seminario di Chieri (c. VI, a. 6) è scritto: «Il lunedì e il giovedì d'ogni settimana sarà destinato per il passeggio. Uscendo dal seminario i seminaristi cammineranno in buon ordine a due a due, distante una coppia dall'altre non più di tre passi» (GmAuDo, Clero seminario e società, 388).

Nelle lunghe ricreazioni 24 spesso ci raccoglievamo in refettorio per fare il così detto circolo scolastico?' Ciascuno colà faceva quesiti intorno a cose che non sapesse, o che non avesse ben intese nei trattati o nella scuola. Ciò mi piaceva assai e mi tornava molto utile allo studio, alla pietà ed alla sanità. Celebre a fare dimande era Comollo che era venuto in seminario un anno dopo di me?' Un certo Peretti Domenico,27 ora parroco di Buttigliera, era assai loquace e rispondeva sempre; Garigliano era eccellente uditore. Faceva soltanto qualche riflesso. Io poi era presidente e giudice inappellabile.

Siccome nei nostri famigliari discorsi mettevansi in campo certe questioni, certi punti scientifici, cui talvolta niuno di noi sapeva dare esatta risposta, così ci dividevamo le difficoltà. Ciascuno entro un tempo determinato doveva preparare la risoluzione di quanto era stato incaricato.

La mia ricreazione era non di rado dal Comollo interrotta. Mi prendeva egli per un brano dell'abito e dicendomi di accompagnarlo conducevami in cappella per fare la visita al SS. Sacramento pegli agonizzanti, recitare il rosario o l'ufficio della Madonna in suffragio delle anime del purgatorio.

Questo meraviglioso compagno fu la mia fortuna. A suo tempo sapeva avvisarmi, correggermi, consolarmi, ma con sì bel garbo e con tanta carità che in certo modo era contento di dargliene motivo per gustare il piacere di esserne corretto. Trattava famigliarmente con lui, mi sentiva naturalmente portato ad imitarlo e, sebbene fossi mille miglia da lui indietro nella virtù, tuttavia se non sono stato rovinato dai dissipati e se potei progredire nella mia vocazione ne sono veramente a lui debitore. In una cosa sola non ho nemmeno provato ad imitarlo: nella mortificazione. Il vedere un giovanetto sui diciannove anni digiunare rigorosamente l'intera quaresima ed altro tempo dalla Chiesa comandato; digiunare ogni sabato in onore della B. V.; spesso rinunziare alla colazione del mattino; talvolta pranzare a pane ed acqua; sopportare qualunque disprezzo, ingiuria senza mai dare minimo segno di risentimento; il vederlo esattissimo ad ogni piccolo dovere di studio e di pietà; queste cose mi sbalordivano e mi facevano28 ravvisare in quel compagno un idolo come amico, un eccitamento al bene, un modello di virtù per chi vive in seminario.

24 Ricreazioni: le ricreazioni lunghe, duravano tre quarti d'ora, e si facevano dopo il pranzo e dopo la cena.

25 Circolo scolastico: era un'attività didattica prevista dal sistema scolastico del tempo, mirata all'approfondimento della materia e all'esercizio dialettico degli allievi. Si svolgeva nel pomeriggio, prima della scuola, per mezz'ora, sotto la direzione del professore ripetitore, il quale incaricava un allievo a difendere una tesi e altri a confutarla, oppure dettava a tutti un quesito a cui rispondere (cf. GIRAUDO, Clero seminario e società, 269-270).

26 Luigi Comollo aveva ricevuto l'abito chiericale il 21 ottobre 1836 dallo zio Giuseppe, parroco di Cinzano (cf. AAT 12.12.3: Registrum clericorum 1808-1847, rubr. C, 1836).

27 Domenico Peretti (1816-1893), nativo di Volvera, nel 1850 diventerà parroco di Buttigliera Alta, paese a 26 km da Torino, presso Avigliana (non va confusa con Buttigliera d'Asti).

28 Don Bosco scrive: faceva.

4. Le vacanze

Un grande pericolo pei chierici sogliono essere le vacanze, tanto più in quel tempo che duravano quattro mesi e mezzo.29 Io impiegava il tempo a leggere, a scrivere, ma non sapendo ancora a trar partito dalle mie giornate ne perdeva molte senza frutto. Cercava di ammazzarle con qualche lavoro meccanico. Faceva fusi, cavigliotti, trottole, bocce o pallottole al torno; cuciva abiti, tagliava, cuciva scarpe; lavorava nel ferro, nel legno. Ancora presentemente avvi nella casa mia di Morialdo uno scrittoio, una tavola da pranzo con alcune sedie che ricordano i capi d'opera di quelle mie vacanze. Mi occupava pure a segare l'erba nei prati, a mietere il frumento nel campo; a spampinare, a smoccolare, a vendemmiare, a vaneggiare, a spillare il vino e simili.

Mi occupava de' miei soliti giovanetti, ma ciò poteva solamente fare ne' giorni festivi. Trovai però un gran conforto a fare catechismo a molti miei compagni che trovavansi ai sedici ed anche ai diciassette anni digiuni affatto delle verità della fede. Mi sono eziandio dato ad ammaestrarne alcuni nel leggere e nello scrivere con assai buon successo, poiché il desiderio anzi la smania d'imparare mi traeva giovanetti di tutte età. La scuola era gratuita, ma metteva per condizione assiduità, attenzione e la confessione mensile. In principio alcuni per non sottoporsi a queste condizioni cessarono. La qual cosa tornò di buon esempio e di incoraggiamento agli altri.

Ho pure cominciato a fare prediche e discorsi col permesso e coll'assistenza del mio prevosto. Predicai sopra il SS. Rosario nel paese di Alfiano," nelle vacanze di fisica;31 sopra S. Bartolomeo apostolo dopo il primo anno di teologia in Castelnuovo d'Asti; sopra la Natività di Maria in Capriglio.32 Non so quale ne sia stato il frutto. Da tutte parti però era applaudito, sicché la vanagloria mi andò guidando, finché ne fui disingannato come segue.

29 Le vacanze iniziavano il 24 giugno, festa di san Giovanni Battista titolare della cattedrale di Torino, e terminavano il 30 ottobre (GikAubo, Clero seminario e società, 239-240). Durante le vacanze i seminaristi erano affidati alla cura dei rispettivi parroci, presso i quali dovevano recarsi al mattino per la messa, l'ufficio e la meditazione, e al pomeriggio per la lettura spirituale, la benedizione col Santissimo Sacramento, la recita del rosario e un po' di ripetizione di teologia.

30 Alano Natta: paese a 27 km da Castelnuovo, nella diocesi di Casale; in quegli anni contava 1400 abitanti (cf. CASALIS, Dizionario, I, 200).

31 Vacanze di fisica: sono quelle del 1837, dopo il secondo anno di filosofia, detto di fisica (il primo anno era detto di logica).

32 La festa della Madonna del Rosario si celebrava la prima domenica di ottobre; la festa di san Bartolomeo il 24 agosto e la festa della Natività di Maria 1'8 settembre.

Un giorno dopo la detta predica sulla nascita di Maria ho interrogato uno, che pareva dei più intelligenti, sopra la predica, di cui faceva elogii sperticati, e mi rispose: «La sua predica fu sopra le povere anime del Purgatorio», ed io aveva predicato sopra le glorie di Maria. Ad Alfiano ho anche voluto richiedere il parere del parroco, persona di molta pietà e dottrina, di nome Pellato Giuseppe,' e lo pregai a dirmi il suo parere intorno alla mia predica.

— La vostra predica, mi rispose, fu assai bella, ordinata, esposta con buona lingua, con pensieri scritturali; e che continuando così potete riuscire nella predicazione.

— Il popolo avrà capito?

— Poco. Avranno capito il mio fratello prete, io e pochissimi altri.

— Come mai non furono intese cose tanto facili?

—A voi sembrano facili, ma pel popolo sono assai elevate. Lo sfiorare la storia sacra, volare ragionando sopra un tessuto di fatti della storia ecclesiastica, sono tutte cose che il popolo non capisce.

— Che adunque mi consiglia di fare?

— Abbandonare la lingua e l'orditura dei classici, parlare in volgare dove si può, od anche in lingua italiana, ma popolarmente, popolarmente, popolarmente. Invece poi di ragionamenti, tenetevi agli esempi, alle similitudini, ad apologi semplici e pratici. Ma ritenete sempre che il popolo capisce poco e che le verità della fede non gli sono mai abbastanza spiegate.

Questo paterno consiglio mi servì di norma in tutta la vita. Conservo ancora a mio disdoro que' discorsi, in cui presentemente non iscorgo più altro che vanagloria e ricercatezza. Dio misericordioso ha disposto che avessi quella lezione, lezione fruttuosa nelle prediche, nei catechismi, nelle istruzioni e nello scrivere, cui mi era fin da quel tempo applicato.

5. Festino di campagna — Il suono del violino — La caccia

Mentre poco fa diceva che le vacanze sono pericolose intendeva di parlare per me. Un povero chierico senza che se ne accorga gli accade spesso di trovarsi in gravi pericoli. Io ne fui alla prova. Un anno fui invitato ad un festino in casa di alcuni miei parenti. Non voleva andare, ma adducendosi che non eravi alcun chierico che servisse in chiesa, ai ripetuti inviti di un mio zio credei bene di accondiscendere e ci sono andato. Compiute le sacre funzioni, cui presi parte a servire e cantare, ce ne andammo a pranzo. Fino ad una parte del desinare andò bene, ma quando si cominciò ad essere un po' brilli di vino si misero in scena certi parlari che non potevansi più tollerare da un chierico.

33 Giuseppe Pellato (1797-1864), parroco di Alfiano dal 1823 alla morte.

Provai a fare qualche osservazione, ma la mia voce fu soffocata. Non sapendo più a qual partito appigliarmi me ne volli fuggire. Mi alzai da mensa, presi il cappello per andarmene; ma lo zio si oppose; un altro si mise a parlare peggio e ad insultare tutti i commensali. Dalle parole si passava ai fatti; schiamazzi, minacce, bicchieri, bottiglie, piatti, cucchiai, forchette e poi coltelli, si univano insieme a fare un baccano orribile. In quel momento io non ho più avuto altro scampo che darmela a gambe. Giunto a casa ho rinnovato di tutto cuore il proponimento, già fatto più volte, di stare ritirato se non si vuole cadere in peccato.

Fatto di altro genere, ma eziandio spiacente mi succedette a Croveglia34 frazione di Buttigliera. Volendosi celebrare la festa di S. Bartolomeo, fui invitato da altro mio zio ad intervenire per aiutare nelle sacre funzioni, cantare ed anche suonare il violino che era stato per me un istrumento prediletto, a cui aveva rinunciato. Ogni cosa andò benissimo in chiesa. Il pranzo era a casa di quel mio zio che era priore della festa, e fino allora niente era a biasimarsi. Finito il desinare i commensali mi invitarono a suonare qualche cosa a modo di ricreazione. Mi sono rifiutato. «Almeno, disse un musicante, mi farà l'accompagnamento. Io farò la prima ella farà la seconda parte».

Miserabile! non seppi rifiutarmi e mi posi a suonare e suonai per un tratto, quando si ode un bisbiglio ed un calpestio che segnava moltitudine di gente. Mi faccio allora alla finestra e miro una folla di persone che nel vicino cortile allegramente danzava al suono del mio violino. Non si può esprimere con parole la rabbia da cui fui invaso in quel momento. «Come, dissi ai commensali, io che grido sempre contro ai pubblici spettacoli, io ne son divenuto promotore? Ciò non sarà mai più». Feci in mille pezzi il violino e non me ne volli mai più servire, sebbene siansi presentate occasioni e convenienza nelle funzioni sacre.

Ancora un episodio avvenutomi alla caccia. Andava alle nidiate lungo l'estate, di autunno uccellava col vischio, colla trappoletta, colla passeriera e qualche volta anche col fucile. Un mattino mi sono dato ad inseguire una lepre e camminando di campo in campo, di vigna in vigna, trapassai valli e colli per più ore. Finalmente giunsi a tiro di quell'animale che con una fucilata gli ruppi le coste, sicché la povera bestiolina cadde lasciandomi in sommo abbattimento in vederla estinta. A quel colpo corsero i miei compagni e mentre essi rallegravansi per quella preda, portai uno sguardo sopra di me stesso e mi accorsi che era in manica di camicia, senza sottana, con un cappello di paglia, per cui faceva la comparsa di uno sfrosadore; e ciò in sito lontano oltre a due miglia" da casa mia.

34 Avrebbe dovuto dire Crivelle, borgata di Buttigliera d'Asti, a 6,5 km da Castelnuovo. Croveglia infatti è borgata del comune di Villanova d'Asti.

35 Due miglia: circa 5 km.

Ne fui mortificatissimo, chiesi scusa ai compagni dello scandalo dato con quella foggia di vestire, me ne andai tosto a casa e rinunciai nuovamente e definitivamente ad ogni sorta di caccia. Coll'aiuto del Signore questa volta mantenni la promessa. Dio mi perdoni quello scandalo.

Questi tre fatti mi hanno dato una terribile lezione e d'allora in poi mi sono dato con miglior proposito alla ritiratezza, e fui davvero persuaso che chi vuole darsi schiettamente al servizio del Signore bisogna che lasci affatto i divertimenti mondani. È vero che spesso questi non sono peccaminosi, ma è certo che pei discorsi che si fanno, per la foggia di vestire, di parlare e di operare, contengono sempre qualche rischio di rovina per la virtù, specialmente per la delicatissima virtù della castità.

[5a.] Relazioni con Luigi Comollo

Finché Dio conservò in vita questo incomparabile compagno, ci fui sempre in intima relazione. Nelle vacanze più volte io andava da lui, più volte egli veniva da me. Frequenti erano le lettere che ci indirizzavamo. Io vedeva in lui un santo giovanetto; lo amava per le sue rare virtù; egli amava me perché l'aiutava negli studi scolastici, e poi quando era con lui mi sforzava di imitarlo in qualche cosa.

Una vacanza venne a passar meco una giornata in tempo che i miei parenti erano in campagna per la mietitura. Egli mi fece leggere un suo discorso che doveva recitare alla prossima festa dell'Assunzione di Maria; di poi lo recitò accompagnando le parole col gesto. Dopo alcune ore di piacevole trattenimento ci siamo accorti essere ora del pranzo. Eravamo soli in casa. Che fare?

— Altolà, disse il Comollo, io accenderò il fuoco, tu preparerai la pentola e qualche cosa faremo cuocere.

— Benissimo, risposi, ma prima andiamo a cogliere un pollastrino nell'aia e questo ci servirà di pietanza e di brodo, tale è l'intenzione di mia madre.

Presto siamo riusciti a mettere le mani addosso ad un pollino, ma poi chi sentivasi di ucciderlo? Né l'uno né l'altro. Per venire ad una conclusione vantaggiosa fu deciso che il Comollo tenesse l'animale col collo sopra un tronco di legno appianato, mentre con un falcetto senza punta glielo avrei tagliato. Fu fatto il colpo, la testa spiccata dal busto. Di che ambidue spaventati ci siamo dati a precipitosa fuga e piangendo.

— Sciocchi che siamo, disse di lì a poco il Comollo, il Signore ha detto di servirci delle bestie della terra pel nostro bene, perché dunque tanta ripugnanza in questo fatto? Senz'altra difficoltà abbiamo raccolto quell'animale, e spennatolo e cottolo, ci servì per pranzo.

Io doveva recarmi a Cinzano per ascoltare il discorso del Comollo sull'Assunta, ma essendo anch'io incaricato di fare altrove il medesimo discorso, ci andai il giorno dopo. Era una meraviglia l'udire le voci di encomio che da tutte parti risuonavano sulla predica del Comollo. Quel giorno (16 di agosto) correva festa di S. Rocco," che suole chiamarsi festino della pignatta o della cucina, perché i parenti e gli amici sogliono approfittarne per invitare vicendevolmente i loro cari a pranzo ed a godere qualche pubblico trattenimento. In quella occasione avvenne un episodio che dimostrò fin dove giungesse la mia audacia.

Si aspettò il predicatore di quella solennità quasi fino all'ora di montare in pulpito e non giunse. Per togliere il prevosto di Cinzano dall'impaccio io andava ora dall'uno ora dall'altro dei molti parroci colà intervenuti, pregando ed insistendo che qualcheduno indirizzasse un sermoncino al numeroso popolo raccolto in chiesa. Niuno voleva acconsentire. Seccati da' miei ripetuti inviti mi risposero acremente: «Minchione" che siete; il fare un discorso sopra S. Rocco all'improvviso non è bere un bicchiere di vino; e invece di seccare gli altri fatelo voi». A quelle parole tutti batterono le mani. Mortificato e ferito nella mia superbia io risposi: «Non osava certamente offerirmi a tanta impresa, ma poiché tutti si rifiutano, io accetto». Si cantò una laude sacra in chiesa per darmi alcuni istanti a pensare; poi richiamando a memoria la vita del santo, che aveva già letto, montai in pulpito, feci un discorso che mi fu sempre detto essere stato il migliore di quanti avessi fatto prima e di poi.

In quelle vacanze e in quella stessa occasione (1838) uscii un giorno a passeggio" col mio amico sopra un colle, donde scorgevasi vasta estensione di prati, campi e vigne.

— Vedi, Luigi, presi a dirgli, che scarsezza di raccolti abbiamo quest'anno! Poveri contadini! Tanto lavoro e quasi tutto invano!

— È la mano del Signore, egli rispose, che pesa sopra di noi. Credimi, i nostri peccati ne sono la cagione.

— L'anno venturo spero che il Signore ci donerà frutti più abbondanti. — Lo spero anch'io, è buon per coloro che si troveranno a goderli.

— Su via, lasciamo a parte i pensieri malinconici, per quest'anno pazienza, ma l'anno venturo avremo più copiosa vendemmia e faremo miglior vino. — Tu ne beverai.

— Forse tu intendi continuare a bere la solita tua acqua?

36 A Cinzano, oltre alla chiesa parrocchiale dedicata a sant'Antonio abate, esistevano le cappelle di san Sebastiano, di san Rocco, di san Desiderio e di santa Maria al cimitero (cf. CASALIS, Dizionario, V, 227-228).

37 Italianizzazione del termine piemontese mincion, sciocco; esiste anche il verbo mincionè, burlare, prendere in giro (cf. Michele PONZA, Vocabolario piemontese-italiano, vol. II, Torino, Stamperia Reale 1832, 227).

38 Da questo punto fino al termine del capitolo, l'autore ricopia alla lettera dal suo Cenni sulla vita del giovane Luigi Comollo morto nel seminario di Chieri ammirato da tutti per le sue rare virtù, scritti dal sac. Bosco Giovanni suo collegO, Torino, Tipografia diretta da P. De-Agostini, 1854, 50-51.

— Io spero di bere un vino assai migliore.

— Che cosa vuoi dire con ciò?

— Lascia, lascia... il Signore sa quel che si fa.

— Non dimando questo, io dimando che cosa vuoi dire con quelle parole: Io spero di bere un vino migliore. Vuoi forse andartene al paradiso?

— Sebbene io non sia affatto certo di andare al paradiso dopo mia morte, tuttavia ne ho fondata speranza, e da qualche tempo mi sento un sì vivo desiderio di andare a gustar l'ambrosia dei beati, che parmi impossibile che siano ancora lunghi i giorni di mia vita.

Questo diceva il Comollo colla massima ilarità di volto in tempo che godeva ottima sanità e si preparava per ritornare in seminario.

6. Un fatto del Comollo

Le cose più memorabili che precedettero ed accompagnarono la preziosa morte di questo caro amico furono descritte a parte e chi lo desidera può leggerle a piacimento. Qui non voglio omettere un fatto che diede motivo a molto parlare e di cui appena si fa cenno nelle memorie già pubblicate. È il seguente. Attesa l'amicizia, la confidenza illimitata che passava tra me e il Comollo, eravamo soliti parlare di quanto poteva ad ogni momento accadere, della nostra separazione pel caso di morte. Un giorno dopo aver letto un lungo brano della vita dei Santi, tra celia e serietà dicemmo che sarebbe stata una grande consolazione, se quello che di noi fosse primo a morire avesse portato notizie dello stato suo. Rinnovando più volte tal cosa abbiamo fatto questo contratto: «Quello che di noi sarà il primo a morire, se Dio lo permetterà, recherà notizia di sua salvezza al compagno superstite». Io non conosceva l'importanza di tale promessa, e confesso che ci fu molta leggerezza, né mai sarei per consigliare altri a farla. Tuttavia l'abbiamo fatta e più volte ripetuta specialmente nell'ultima malattia del Comollo. Anzi le ultime sue parole e l'ultimo sguardo confermavano quanto si era detto a questo uopo. Molti compagni erano di ciò consapevoli.

Moriva Comollo il due aprile 1839 e la sera del dì seguente era con gran pompa portato alla sepoltura nella chiesa di San Filippo.39

39 Per poter seppellire il Comollo in san Filippo il rettore del Seminario, Sebastiano Mottura, presentò richiesta formale alle autorità governative, il giorno stesso della morte: «Resosi defunto in codesto seminario arcivescovile di Chieri il chierico Pietro Luigi Comollo di Cinzano, il sottoscritto, desiderando di farlo seppellire nelle cattacombe [sic] della chiesa di detto seminario detta di s. Filippo, ricorre alla V[ostra] S[acra] R[eal] M[aestà] umilmente supplicandola di volergli concedere l'opportuna facoltà non solo pel suddetto, ma anche per tutti quelli altri casi, che sgraziatamente potessero in avvenire occorrere» (AST, Grande Cancelleria, m. 128, n. 345: Sepolture e trasporti di cadaveri, 1839).

I consapevoli di quella promessa erano ansiosi di saperla verificata. Io ne era ansiosissimo, perché così sperava un grande conforto alla mia desolazione. La sera di quel giorno essendo già a letto in un dormitorio di circa 20 seminaristi, io era in agitazione, persuaso che in quella notte sarebbesi verificata la promessa. Circa alle 11 1/2 un cupo rumore si fa sentire pei corridoi: sembrava che un grosso carrettone tirato da molti cavalli si andasse avvicinando alla portina del dormitorio. Facendosi ad ogni momento più tetro e a guisa di tuono fa tremare tutto il dormitorio. Spaventati i chierici fuggono dai loro letti per raccogliersi insieme e darsi animo a vicenda. Fu allora, ed in mezzo a quella specie di violento e cupo tuono che si udì la chiara voce del Comollo dicendo tre volte: «Bosco, io son salvo». Tutti udirono il rumore, parecchi intesero la voce senza capirne il senso; alcuni però la intesero al pari di me, a segno che per molto tempo si andava ripetendo pel seminario. Fu la prima volta che a mia ricordanza io abbia avuto paura; paura e spavento tale che caduto in grave malattia fui portato vicino alla tomba. Non sarei mai per dare ad altri consigli di questo genere. Dio è onnipotente. Dio è misericordioso. Per lo più non da ascolto a questi patti, talvolta però nella sua infinita misericordia permette che abbiano il loro compimento, come nel caso esposto.

7. Premio — Sacristia — il T. Giovanni Borel

Nel seminario io sono stato assai fortunato ed ho sempre goduto l'affezione de' miei compagni e quella di tutti i miei superiori. All'esame semestrale si suole dare un premio di fr. 60 in ogni corso a colui che riporta i migliori voti nello studio e nella condotta morale. Dio mi ha veramente benedetto, e nei sei anni che passai in seminario sono sempre stato favorito di questo premio." Nel secondo anno di teologia fui fatto sacristano, che era una carica di poca entità, ma un prezioso segno di benevolenza dei superiori, cui erano annessi altri franchi sessanta. Così che godeva già metà pensione, mentre il caritatevole D. Cafasso provvedeva al rimanente.'" Il sacrista deve aver cura della nettezza della chiesa, della sacristia, dell'altare, e tenere in ordine lampade, candele, gli altri arredi ed oggetti necessari al divin culto.

40 Nel seminario di Chieri, a partire dal 1835-36, c'erano due tipi di pensione, quella normale di 27 lire e 50 centesimi mensili e una «pensione piccola» di 20 lire mensili, che comportava un diverso trattamento a mensa (il seminario somministrava pane e minestra, la famiglia integrava inviando prodotti caserecci). Come risulta dai registri economici, nell'anno 1838-39, su 122 seminaristi, ben 58 pagavano la «pensione piccola», tra questi Giovanni Bosco, Luigi Comollo e Guglielmo Garigliano (cf. ASMT 7.60 Caricamento pensioni 1838-1839). Negli ultimi due anni di seminario Giovanni Bosco passa dalla «pensione piccola» alla pensione normale (cf. GIRAUDO, Clero seminario e società, 230-231).

41 Abbiamo rintracciato nell'Archivio di Stato di Torino tre domande di sussidio del seminarista Giovanni Bosco, che sono riportate in appendice a questo volume (documento 1) pp. 207-208.

Fu in quest'anno che ebbi la buona ventura di conoscere uno de' più zelanti ministri del santuario venuto a dettar gli esercizi spirituali in seminario. Egli apparve in sacristia con aria ilare, con parole celianti, ma sempre condite di pensieri morali. Quando ne osservai la preparazione e il ringraziamento della messa, il contegno, il fervore nella celebrazione di essa, mi accorsi subito che quegli era un degno sacerdote, quale appunto era il T. Giovanni Borel di Torino» Quando poi cominciò la sua predicazione e se ne ammirò la popolarità, la vivacità, la chiarezza e il fuoco di carità che appariva in tutte le parole, ognuno andava ripetendo che egli era un santo.

Di fatto tutti facevano a gara per andarsi a confessare da lui, trattare con lui della vocazione ed avere qualche particolare ricordo. Io pure ho voluto conferire col medesimo delle cose dell'anima. In fine avendogli chiesto qualche mezzo certo per conservare lo spirito di vocazione lungo l'anno e specialmente in tempo delle vacanze, egli mi lasciò con queste memorande parole: «Colla ritiratezza e colla frequente comunione si perfeziona e si conserva la vocazione e si forma un vero ecclesiastico».

Gli esercizi spirituali del T. Borel fecero epoca in seminario, e parecchi anni appresso si andavano ancora ripetendo le sante massime che aveva in pubblico predicate o privatamente consigliate.

8. Studio

Intorno agli studi fui dominato da un errore che in me avrebbe prodotto funeste conseguenze, se un fatto provvidenziale non me lo avesse tolto. Abituato alla lettura dei classici in tutto il corso secondario, assuefatto alle figure enfatiche della mitologia e delle favole dei pagani, non trovava gusto per le cose ascetiche. Giunsi a persuadermi che la buona lingua e la eloquenza non si potesse conciliare colla religione. Le stesse opere dei santi Padri mi sembravano parto di ingegni assai limitati, eccettuati i principii religiosi, che essi esponevano con forza e chiarezza.

42 Nel ms. delle Memorie don Bosco scrive sempre Borrelli (o Borelli). Giovanni Battista Borel (1801-1873), torinese, laureato in teologia. Cappellano reale (1831-1841), dal 1829 al 1843 fu direttore spirituale del collegio di san Francesco da Paola. Nel 1840 assunse anche la direzione spirituale del Rifugio e dal 1843 si dedicò a tempo pieno alla cura pastorale nelle opere della marchesa di Barolo (cf. Natale CERRATO, Il teologo Giovanni Battista Borel inedito, in RSS 17 [1998] 151-177). Da un Elenco dei signori predicatori del sacro triduo e degli esercizi spirituali (conservato in ASMT 7.59) rileviamo che il T. Borel, in collaborazione col T. Carlo Borsarelli, predicò il triduo di inizio d'anno, tra il 30 ottobre e il 3 novembre 1837, dunque non all'inizio del secondo, ma del primo anno di teologia di Giovanni Bosco.

Sul principio del secondo anno di filosofia andai un giorno a fare la visita al SS. Sacramento e non avendo meco il libro di preghiera mi feci a leggere de imitatione Christi di cui lessi qualche capo intorno al SS. Sacramento» Considerando attentamente la sublimità dei pensieri e il modo chiaro e nel tempo stesso ordinato ed eloquente con cui si esponevano quelle grandi verità, cominciai a dire tra me stesso: «L'autore di questo libro era un uomo dotto». Continuando altre e poi altre volte a leggere quell'aurea operetta, non tardai ad accorgermi, che un solo versicolo di essa conteneva tanta dottrina e moralità, quanta non avrei trovato nei grossi volumi dei classici antichi. È a questo libro cui son debitore di aver cessato dalla lettura profana. Datomi pertanto alla lettura del Calmet, Storia dell'Antico e Nuovo Testamento;" a quella di Giuseppe Flavio, Delle Antichità giudaiche; Della Guerra giudaica;45 di poi di Monsig. Marchetti, Ragionamenti sulla Religione;" di poi Frayssinous, Balmes, Zucconi47 e molti altri scrittori religiosi. Gustai pure la lettura del Fleury, Storia Ecclesiastica," che ignorava essere libro da evitarsi.

43 De imitatione Christi: fortunata opera anonima risalente al XIV secolo, divisa in quattro libri, attribuita all'abate benedettino di Lucedio (Vercelli) Giovanni Gersenio o al canonico olandese Tommaso da Kempis; ebbe un grande influsso sulla spiritualità cristiana dei secoli successivi. Qui don Bosco fa riferimento al libro quarto, dedicato alla contemplazione del mistero eucaristico (De devota exhortatione ad sacram Corporis Christi communionem). Era uscita una nuova edizione torinese proprio in quei mesi: De imitatione Christi libri quatuor ad usum regiarum scholarum, Taurini, ex Typographia Regia, 1837.

44 Augustin Calmet (1672-1757), fecondo ed erudito autore benedettino. Don Bosco probabilmente lesse l'edizione piemontese: Storia dell'Antico e del Nuovo Testamento e degli Ebrei, Torino, G. Pomba, 1829-1832, 18 voll.

45 Giuseppe Flavio [Joseph Ben Matityahu] (37-100), storiografo politico e militare ebreo osservante, ma aperto all'ellenismo; deportato a Roma nel 67, durante la rivolta ebraica, poi liberato dall'imperatore Vespasiano, si dedicò alla raccolta di memorie storiche. Le Antichità giudaiche sono il racconto della storia del popolo ebreo dalle origini al 66 d.C.; la Guerra giudaica si sofferma sulle vicende militari della rivolta antiromana repressa nel 70 d.C.

46 Giovanni Marchetti (1753-1829), apologista antigallicano e antigiansenista, arcivescovo titolare di Ancira. Il titolo corretto dell'opera è: Trattenimenti di famiglia su la storia della religione (Torino, Bianco, 1823, 2 voll.).

47 Denis de Frayssinous (1765-1841), vescovo titolare di Ermopoli, vicario generale di Parigi, predicatore e conferenziere; le sue conferenze, stimate per chiarezza e qualità culturale, furono pubblicate in 4 volumi col titolo: Défense du Christianisme ou Conférences sur la religion (1825). Jaime Luciano Balmes (1810-1848), filosofo e pubblicista spagnolo; l'opera che lo rese famoso in tutto il mondo — El Protestantismo comparado con el Catolicismo en sus relaciones con la civilización Europea (1842-1844) — fu tradotta in francese, italiano, tedesco e inglese. Certamente don Bosco non la lesse durante gli anni del seminario, ma in seguito. Ferdinando Zucconi (1647-1732) gesuita; è autore di: Lezioni sacre sopra la divina Scrittura (5 voll.), di cui si fecero molte edizioni.

48 Claude Fleury (1640-1723), accademico di Francia, confessore del re Luigi XV. La sua Histoire ecclésiastique, in 20 volumi, opera lodata da Voltaire, è considerata la prima storia sistematica della Chiesa, della sua organizzazione, delle sue dottrine e dei suoi riti. Nell'Ottocento era ritenuta di impronta "gallicana", cioè favorevole ad una certa indipendenza delle chiese nazionali dallo stretto controllo del papato.

Con maggior frutto ancora ho letto le opere del Cavalca, del Passavanti," del Segneri" e tutta la Storia della Chiesa dell'Henrion»

Voi forse direte: occupandomi in tante letture, non poteva attendere ai trattati. Non fu così. La mia memoria continuava a favorirmi, e la sola lettura e la spiegazione dei trattati fatta nella scuola mi bastavano per soddisfare i miei doveri. Quindi tutte le ore stabilite per lo studio, io le poteva occupare in letture diverse. I superiori sapevano tutto e mi lasciavano libertà di farlo.

Uno studio che mi stava molto a cuore era il greco. Ne aveva già appreso i primi elementi nel corso classico, aveva studiato la grammatica ed eseguite le prime versioni coll'uso dei lessici. Una buona occasione mi fu a tale uopo assai vantaggiosa. L'anno 1836, essendovi in Torino minaccia di cholera, i Gesuiti anticiparono la partenza dei convittori dal collegio del Carmine per Montaldo.52 Quell'anticipazione richiedeva doppio personale insegnante perché dovevansi tuttora coprire le classi degli esterni, che intervenivano al collegio. Il sac. D. Cafasso, che ne era stato richiesto, propose me per una classe di greco." Ciò mi spinse ad occuparmi seriamente di questa lingua per rendermi idoneo di insegnarla. Di più trovandosi nella stessa compagnia un sacerdote di nome Bini, profondo conoscitore del greco, di lui mi valsi con molto vantaggio. In soli quattro mesi mi fece tradurre quasi tutto il Nuovo Testamento; i due primi libri di Omero con parecchie odi di Pindaro e di Anacreonte. Quel degno sacerdote ammirando la mia buona volontà continuò ad assistermi e per quattro anni ogni settimana leggeva una composizione greca o qualche versione da me spedita, e che egli puntualmente correggeva e poi rimandava colle opportune osservazioni. In questa maniera potei giungere a tradurre il greco quasi come si farebbe del latino.

49 Domenico Cavalca (m. 1342) e Iacopo Passavanti (1297-1357), frati domenicani, autori di opere ascetiche in lingua italiana, molto amate nel secolo XIX per la purezza letteraria della loro stile.

50 Paolo Segneri (1624-1694), gesuita, celebre predicatore e autore di fortunate raccolte di sermoni, panegirici e istruzioni religiose, considerate capolavori della retorica religiosa.

51 Mathieu Richard Auguste Henrion (1805-1862), laico, laureato in legge e autore di molti scritti di carattere storico e apologetico, tra i quali una Histoire générale de l'Eglise pendant les XVIIIe et XIXe siècles (1836) e una monumentale Histoire generale de l 'Eglise depuis la predication des apotres jusqu 'au pontificai de Gregoire XVI in 12 volumi (1834-36).

52 Collegio del Carmine: era uno degli istituti di educazione superiore più prestigiosi della capitale, riservato alla formazione della classe dirigente (cf. CASALIS, Dizionario, XXI, 863-873, che presenta nel dettaglio la riorganizzazione del collegio del Carmine, quando, il 9 ottobre 1849, dopo l'allontanamento dei Gesuiti, fu trasformato in Collegio nazionale). Montaldo Torinese: paese a 8 km da Chieri; il castello del paese serviva come dimora estiva degli studenti del Collegio del Carmine; dopo l'espulsione dei Gesuiti passò al Real Collegio di Moncalieri, gestito dai Barnabiti.

53 Giovanni Bosco fu assistente di camerata e ripetitore di greco nel castello di Montaldo dall' 11 luglio al 17 ottobre 1836, come risulta dall'attestato firmato dal rettore padre Giovanni Battista Dessi (in ASC A0200910: Attestto buona condotta).

Fu pure in questo tempo che io studiai la lingua francese, ed i principii di lingua ebraica. Queste tre lingue, ebraico, greco e francese mi furono sempre predilette dopo il latino e l'italiano.

9. Sacre ordinazioni — Sacerdozio

L'anno della morte del Comollo (1839)" riceveva la tonsura coi quattro [ordini] minori nel terzo anno di teologia." Dopo quell'anno mi nacque il pensiero di tentare cosa che in quel tempo rarissimamente si otteneva: fare un corso nelle vacanze. A tale uopo senza farne motto ad alcuno mi presentai solo dall'arcivescovo Fransoni" chiedendogli di poter istudiare i trattati del 4° anno in quelle vacanze e così compiere il quinquennio nel successivo anno scolastico 1840. Adduceva per ragione la mia avanzata età di 24 anni compiuti.

Quel santo prelato mi accolse con molta bontà, e verificato l'esito de' miei esami fino allora sostenuti in seminario, mi concedette il favore implorato a condizione che io portassi tutti i trattati corrispondenti al corso che io desiderava di guadagnare. Il T. Cinzano mio vicario foraneo era incaricato di eseguire la volontà del superiore. In due mesi ho potuto collo studio esaurire i trattati prescritti e per l'ordinazione delle quattro tempora di autunno" sono stato ammesso al suddiaconato."

54 Luigi Comollo morì il 2 aprile 1839.

55 In realtà Giovanni Bosco ricevette la tonsura e i quattro ordini minori l'anno successivo, domenica 29 marzo 1840, nella chiesa dell'arcivescovado (cf. Ordinatio peculiaris, 29 martii 1840, in AAT 12.3.12: Registrum ordinationum 1836-1847, alla data); per il rito di conferimento della tonsura e degli ordini minori (ostiariato, lettorato, esorcistato e accolitato) cf. Pontificale romanum. Editio princeps (1595-1596), a cura di Manlio Sodi e Achille Maria Triacca, Città del Vaticano, LEV, 1997, 25-37, nn. 46-73.

56 Luigi Fransoni (1789-1862), arcivescovo di Torino dal 1832; per motivi politici, sarà esiliato a Lione nel 1850, ma continuerà a governare la diocesi tramite il vicario generale Giuseppe Zappata (cf. Emanuele COLOMIATTI, Mons. Luigi dei marchesi Fransoni arcivescovo di Torino 1832-1863 e lo Stato Sardo nei rapporti colla Chiesa durante tale periodo di tempo, Torino, Tipografia G. Derossi, 1902; Luigi FRANSONI, Epistolario. Introduzione, testo critico e note a cura di Maria Franca Mellano, Roma, LAS, 1994).

57 Tempora: erano tre giorni di digiuno (mercoledì, venerdì e sabato della stessa settimana), collocati all'inizio di ciascuna stagione dell'anno; in tale periodo, per uso antico, si conferivano gli ordini sacri (cf. Mario RIGHETTI, Manuale di storia liturgica. IV: I Sacramenti — I Sacramentali — Indice generale dell'opera. Seconda edizione [riproduzione anastatica], Milano, Ancora, 1998, 364-367).

58 Suddiaconato: il primo degli ordini maggiori, che comportava la promessa di celibato e l'obbligo della recita quotidiana dell'ufficio (per il rito di ordinazione del suddiacono cf. Pontificale romanum. Editio princeps, 37-47, nn. 74-88). Con la riforma liturgica il suddiaconato è stato soppresso. Giovanni Bosco ricevette il suddiaconato il 19 settembre 1840, «super interstitiis dispensatus» (non erano ancora spirati sei mesi dagli ordini minori), nella chiesa dell'Immacolata annessa al palazzo arcivescovile (cf. Ordinatio generalis, 19 septembris 1840, in AAT 12.3.12: Registrum ordinationum 1836-1847, alla data).

Ora che conosco le virtù che si ricercano per quell'importantissimo passo, resto convinto che io non era abbastanza preparato; ma non avendo chi si prendesse cura diretta della mia vocazione, mi sono consigliato con D. Cafasso che mi disse di andare avanti e riposare sopra la sua parola. Nei dieci giorni di spirituali esercizi fatti nella casa della Missione" in Torino ho fatto la confessione generale affinché il confessore potesse avere un'idea chiara di mia coscienza e darmi l'opportuno consiglio. Desiderava di compiere i miei studi, ma tremava al pensiero di legarmi per tutta la vita, perciò non volli prendere definitiva risoluzione se non dopo avere avuto il pieno consentimento del confessore.

D'allora in poi mi sono dato il massimo impegno di mettere in pratica il consiglio del teologo Borel; colla ritiratezza e colla frequente comunione si conserva e si perfeziona la vocazione. Ritornato poi in seminario fui annoverato fra quelli del quinto anno e venni costituito prefetto," che è la carica più alta cui possa essere sollevato un seminarista.

Al Sitientes del 1841 ricevetti il diaconato» alle tempora estive doveva essere ordinato sacerdote. Ma un giorno di vera costernazione era quello in cui doveva uscire definitivamente dal Seminario. I superiori mi amavano e mi diedero continui segni di benevolenza. I compagni mi erano affezionatissimi. Si può dire che io viveva per loro, essi vivevano per me. Chi avesse avuto bisogno di farsi radere la barba o la chierica ricorreva a Bosco. Chi avesse abbisognato di berretta da prete, di cucire, rappezzare qualche abito faceva capo a Bosco. Perciò mi tornò dolorosissima quella separazione, separazione da un luogo dove era vissuto per sei anni; dove ebbi educazione, scienza, spirito ecclesiastico e tutti i segni di bontà e di affetto che si possano desiderare.

59 Casa della Missione, sede provinciale dei padri Lazzaristi di Torino (detti anche Signori della Missione o Vincenziani). Ad essi la diocesi di Torino aveva affidato la predicazione degli esercizi spirituali agli ordinandi. Alla casa, che era stata monastero delle suore Visitandine, è annessa la bella chiesa della Visitazione (cf. Aldo GIRAUDO - Giuseppe BIANCARDI, Qui è vissuto don Bosco. Itinerari storico-geografici e spirituali, Leumann-Torino, Elledici, 2004, 141-145).

60 Prefetto (di camerata), incarico che comportava l'assistenza di una classe di compagni; si affidava ai seminaristi più adulti e fidati. Nel Regolamento del seminario di Chieri (c. VIII, aa. 1, 3, 9 e 10) è detto che «I prefetti seminaristi, chiamati sotto la condotta de' superiori a promuovere il vantaggio spirituale e temporale della comunità [...], veglieranno sulla condotta degli individui loro affidati senza rispetto umano od accettazione di persone [...]. Procureranno che [...] s'alzino per tempo da letto [...], che in tempo di studio ognuno vi attenda con serietà, non legga libri di nissuna sorta, non disturbi i vicini [...]. Saranno insomma tenuti i prefetti a prevenire colla loro vigilanza i disordini e scoprire i colpevoli, a promuovere l'osservanza esatta di questi regolamenti» (Guziapo, Clero seminario e società, 389-390).

61 Sitientes, il sabato che precede la domenica di Passione (chiamato così dall'introito della messa del giorno: «Sitientes venite ad aquas, dicit Dominus»). Giovanni Bosco fu ordinato diacono il 27 marzo 1841 (cf. Ordinatio generalis, 27 martii 1841, in AAT 12.3.12: Registrum ordinationum 1836-1847 alla data). Per il rito dell'ordinazione diaconale cf. Pontificale romanum. Editio princeps, 47-60, nn. 89-104.

Il giorno della mia ordinazione era la vigilia della SS. Trinità,62 ed ho celebrato la mia prima messa nella chiesa di S. Francesco d'Assisi dove era capo di conferenza D. Cafasso.63 Era ansiosamente aspettato in mia patria, dove da molti anni non si era più celebrata messa nuova; ma ho preferito di celebrarla in Torino senza rumore, e quello posso chiamarlo il più bel giorno della mia vita. Nel Memento di quella memoranda messa ho procurato di fare divota menzione di tutti i miei professori, benefattori spirituali e temporali, e segnatamente del compianto D. Calosso che ho sempre ricordato come grande ed insigne benefattore. Lunedì andai a celebrare alla chiesa della SS. Consolata," per ringraziare la gran Vergine Maria degli innumerabili favori, che mi aveva ottenuto dal suo Divin Figliuolo Gesù.

Martedì mi recai a Chieri e celebrai messa nella chiesa di S. Domenico, dove tuttora viveva l'antico mio professore P. Giusiana, che con paterno affetto mi attendeva.

Durante quella messa egli pianse sempre per commozione. Ho passato con lui tutto quel giorno che posso chiamare giornata di paradiso.

Il giovedì, solennità del Corpus Domini,65 appagai i miei patrioti, cantai messa e feci quivi la processione di quella solennità. Il prevosto volle invitare a pranzo i miei parenti, il clero ed i principali del paese. Tutti presero parte a quell'allegrezza, perciocché io era molto amato dai miei cittadini ed ognuno godeva di tutto quello, che avesse potuto tornare a mio bene. La sera di quel giorno mi sono restituito in famiglia.

62 Vigilia della SS. Trinità, era il sabato delle Tempora dopo Pentecoste, 5 giugno 1841. Giovanni Bosco fu ordinato prete nella chiesa annessa all'arcivescovado, dedicata all'Immacolata, «super interstitiis dispensatus», non essendo ancora trascorsi sei mesi dal diaconato. Nello stesso pontificale vennero consacrati altri 42 presbiteri, 26 diaconi e 26 suddiaconi (cf. il verbale redatto dal cancelliere: Ordinatio generalis, 5 junii 1841, in AAT 12.3.12: Registrum ordinationum 1836-1847 alla data); per il rito di ordinazione presbiterale cf. Pontificale romanum. Editio princeps, 60-82, nn. 105-135.

63 Giovanni Bosco celebrò la sua prima messa all'altare dell'Angelo Custode. Presso la chiesa di san Francesco d'Assisi aveva sede il Convitto ecclesiastico. Capo di conferenza: professore titolare delle «Conferenze di teologia morale», corsi speciali della durata di tre anni per l'abilitazione dei giovani sacerdoti all'esercizio della confessione e alla direzione spirituale.

64 Chiesa della SS. Consolata, è uno dei santuari più amati dai torinesi, dedicato alla SS. Vergine Consolatrice. Costruito su una struttura basilicale del V secolo, ha subito nel tempo numerose ristrutturazioni. Tra 1834 e 1855 il santuario venne officiato dagli Oblati di Maria Vergine, fondati da Pio Brunone Lanteri. Oggi si presenta con un corpo ellittico, detto di Sant'Andrea, unito ad un corpo esagonale, in cui si trova l'altar maggiore con la venerata icona. Le due strutture sono frutto di successivi progetti degli architetti Guarino Guarini (1624-1683) e Antonio Bertola (1647-1719); l'altar maggiore, realizzato nel 1729, è disegnato da Filippo Juvarra (1678-1736). Il santuario venne ampliato e abbellito, tra 1899 e 1904, per opera del rettore, beato Giuseppe Allamano (1851-1826), nipote di don Cafasso ed exallievo di don Bosco, fondatore dei Missionari della Consolata. Nell'edificio attiguo, già convento cistercense, mons. Lorenzo Gastaldi trasferì il Convitto Ecclesiastico (1871), affidandolo alla direzione dell'Allamano.

65 Il Corpus Domini cadeva il 10 giugno 1842.

Ma quando fui vicino a casa e mirai il luogo del sogno fatto all'età di circa nove anni non potei frenare le lagrime e dire: «Quanto mai sono maravigliosi i disegni della divina Provvidenza! Dio ha veramente tolto dalla terra un povero fanciullo per collocarlo coi primari del suo popolo».

10. Principii del sacro ministero — Discorso di Lavriano e Giovanni Brina

In quell'anno (1841) mancando il mio prevosto di vicecurato io ne compii l'uffizio per cinque mesi." Provava il più grande piacere a lavorare. Predicava tutte le domeniche, visitava gli ammalati, amministrava loro i santi sacramenti, eccetto la penitenza, perché non aveva ancora subito l'esame di confessione. Assisteva alle sepolture, teneva in ordine i libri parrocchiali, faceva certificati di povertà o di altro genere. Ma la mia delizia era fare catechismo ai fanciulli, trattenermi con loro, parlare con loro. Da Morialdo mi venivano spesso a visitare; quando andava a casa era sempre da loro intorniato. In paese poi cominciavano pure a farsi compagni ed amici. Uscendo dalla casa parrocchiale era sempre accompagnato da una schiera di fanciulli e dovunque mi recassi, era sempre attorniato da' miei piccoli amici che mi festeggiavano.

Avendo molta facilità ad esporre la parola di Dio era spesso ricercato di predicare, di fare panegirici nei paesi vicini. Fui invitato a dettare quello di S. Benigno a Lavriano" sul finire dell'ottobre di quell'anno. Accondiscesi di buon grado, essendo quella patria del mio amico e collega D. Grassino Giovanni," ora parroco di Scalenghe. Desiderava di rendere onore a quella solennità e perciò preparai e scrissi il mio discorso in lingua popolare ma pulita; lo studiai bene, persuaso di acquistarne gloria. Ma Dio voleva dare terribile lezione alla mia vanagloria. Essendo giorno festivo, e prima di partire dovendo celebrare la santa messa a comodità della popolazione, fu mestieri servirmi di un cavallo per fare a tempo a predicare.

66 Cinque mesi: da giugno a fine ottobre 1842.

67 Lavriano [Lauriano]: comune agricolo e commerciale, a 24 km da Castelnuovo, nel mandamento di Casalborgone, provincia e diocesi di Torino (da cui dista 33 km), sulla strada per Casale Monferrato. Nel 1841 contava 1066 abitanti. La parrocchia è dedicata all'Assunta, ma «la principale solennità del comune si celebra in onore di s. Benigno nella quarta domenica di ottobre coll'intervento degli abitanti dei circonvicini paesi» (CAsALis, Dizionario, IX, 323). Il prevosto era don Giuseppe Navone (1775-1846).

68 Giovanni Grassino (1821-1902), condiscepolo di don Bosco nel seminario di Chieri e nel Convitto Ecclesiastico. Don Grassino collaborò per qualche tempo nell'Oratorio di Valdocco e in quello dell'Angelo Custode; fu direttore del piccolo seminario di Giaveno, quando questo venne affidato alla responsabilità di don Bosco (1860-1862). Scalenghe è un paese delle diocesi di Torino distante 30 km dalla capitale.

Percorsa metà strada trottando e galoppando, era giunto nella valle di Casalborgone tra Cinzano e Berzano,69 quando da un campo seminato di miglio all'improvviso si alza una moltitudine di passeri, al cui volo e rumore il mio cavallo spaventato si dà a correre per via, campi e prati. Mi tenni alquanto in sella, ma accorgendomi che questa piegava sotto al ventre dell'animale, tentai una manovra di equitazione, ma la sella fuori di posto mi spinse in alto ed io caddi capovolto sopra un mucchio di pietre spaccate.

Un uomo dalla vicina collina poté osservare il compassionevole incidente e con un suo servo corse in mio aiuto e trovatomi privo dei sensi, mi portò in casa sua e mi adagiò nel miglior letto che avesse. Prodigatemi cure le più caritatevoli, dopo un'ora riacquistai me stesso e conobbi di essere in casa altrui. «Non datevi pena, disse il mio ospite, non inquietatevi perché siete in casa altrui. Qui non vi mancherà niente. Ho già mandato pel medico; ed altra persona andò in traccia del cavallo. Io sono un contadino, ma provveduto di quanto mi è necessario. Si sente molto male?».

— Dio vi compensi di tanta carità, o mio buon amico. Credo non vi sia grave male; forse una rottura nella spalla, che più non posso muovere. Qui dove mi trovo?

— Ella è sulla collina di Berzano in casa di Giovanni Calosso soprannominato Brina, suo umile servitore. Ho anch'io girato pel mondo ed anch'io ho avuto bisogno degli altri. Oh quante me ne sono accadute andando alle fiere ed ai mercati!

— Mentre attendiamo il medico raccontatemi qualche cosa.

— Oh quante ne avrei da raccontare; ne ascolti una. Parecchi anni or sono di autunno io era andato in Asti colla mia somarella a fare provvigioni per l'inverno. Nel ritorno, giunto nelle valli di Morialdo la mia povera bestia, carica assai, cadde in un pantano e restò immobile in mezzo la via. Ogni sforzo per rialzarla tornò inutile. Era mezzanotte, tempo oscurissimo e piovoso. Non sapendo più che fare mi diedi a gridare chiamando aiuto. Dopo alcuni minuti mi si corrispose dal vicino casolare. Vennero un chierico, un suo fratello con due altri uomini portando fiaccole accese. Mi aiutarono a scaricare la giumenta, la tirarono fuori del fango, e condussero me e tutte le cose mie in casa loro. Io ero mezzo morto; ogni cosa imbrattata di melma. Mi pulirono, mi ristorarono con una stupenda cena, poi mi diedero un letto morbidissimo. Al mattino prima di partire ho voluto dare compenso come di dovere; il chierico ricusò tutto dicendo: «Non può darsi che dimani noi abbiamo bisogno di voi?».

A quelle parole mi sentii commosso e l'altro si accorse delle mie lagrime.

— Si sente male, dissemi.

— No, risposi; mi piace tanto questo racconto, che mi commuove.

— Se sapessi che cosa fare per quella buona famiglial... Che buona gente!

69 Berzano S. Pietro è situato a 8 km da Castelnuovo; Casalborgone si trova 6 len più avanti.

— Come si chiamava?

— Famiglia Bosco, detta volgarmente Boschetti. Ma perché si mostra tanto commosso? Forse conosce quella famiglia... Vive, sta bene quel chierico?

— Quel chierico, mio buon amico, è quel sacerdote cui ricompensate mille volte di quanto ha fatto per voi. É quello stesso che voi portaste in vostra casa, collocaste in questo letto. La divina provvidenza ha voluto farci conoscere con questo fatto che chi ne fa, ne aspetti.

Ognuno può immaginarsi la maraviglia, il piacere di quel buon cristiano e di me, che nella disgrazia Dio mi aveva fatto capitare in mano di tale amico. La moglie, una sorella, altri parenti ed amici furono in grande festa nel sapere che era capitato in casa colui, di cui avevano tante volte udito a parlare. Non ci fu riguardo che non mi fosse usato. Giunto di lì a poco il medico trovò che non esistevano rotture, e perciò in pochi giorni sul ritrovato cavallo potei rimettermi in cammino alla volta della mia patria. Giovanni Brina mi accompagnò sino a casa, e finché egli visse abbiamo sempre conservato le più care rimembranze di amicizia.

Dopo questo avviso ho fatto ferma risoluzione di voler per l'avvenire pre

parare i miei discorsi per la maggior gloria di Dio, e non per comparire dotto o letterato.

11. Convitto ecclesiastico di S. Francesco d'Assisi

Sul finire di quelle vacanze mi erano offerti tre impieghi, di cui doveva scegliere uno: l'uffizio di maestro in casa di un signore genovese collo stipendio di mille franchi annui; di cappellano di Morialdo, dove i buoni popolani, pel vivo desiderio di avermi, raddoppiavano lo stipendio dei cappellani antecedenti; di vicecurato in mia patria. Prima di prendere alcuna definitiva deliberazione ho voluto fare una gita a Torino per chiedere consiglio a D. Cafasso, che da parecchi anni era divenuto mia guida nelle cose spirituali e temporali. Quel santo sacerdote ascoltò tutto, le profferte di buoni stipendi, le insistenze dei parenti e degli amici, il mio buon volere di lavorare. Senza esitare un istante egli mi indirizzò queste parole: «Voi avete bisogno di studiare la morale e la predicazione. Rinunciate per ora ad ogni proposta e venite al Convitto»." Seguii con piacere il savio consiglio e il 3 Novembre 1841 entrai nel mentovato Convitto.

70 Il Convitto ecclesiastico era un'istituzione per la qualificazione pastorale e la formazione spirituale dei novelli sacerdoti. Lo dirigeva il teologo Luigi Guala (1775-1848), che l'aveva fondato nel 1817. San Giuseppe Cafasso vi era entrato come allievo nel 1834, venne scelto dal Guala come "ripetitore" di teologia morale e collaboratore; diverrà rettore del Convitto nel 1848 (cf. Giuseppe BucCELLATO, il Convitto ecclesiastico di Torino: un modello di formazione presbiterale nell'Ottocento italiano, in San Giuseppe Cafasso, Il direttore spirituale di don Bosco. Atti del Convegno, Zafferana Etnea, 29 giugno - 1° luglio 2007, Roma, LAS, 2008, 11-50).

Il Convitto ecclesiastico si può chiamare un complemento dello studio teologico, perciocché ne' nostri seminarii si studia soltanto la dommatica, la speculativa. Di morale si studia[no] soltanto le proposizioni controverse. Qui si impara ad essere preti. Meditazione, lettura, due conferenze al giorno, lezioni di predicazione, vita ritirata, ogni comodità di studiare, leggere buoni autori, erano le cose intorno a cui ognuno deve applicare la sua sollecitudine. Due celebrità in quel tempo erano a capo di questo utilissimo istituto: il teologo Luigi Guala e D. Giuseppe Cafasso. Il T. Guala era il fondatore dell'opera. Uomo disinteressato, ricco di scienza, di prudenza e di coraggio, si era fatto tutto a tutti in tempo del governo di Napoleone I. Affinché poi i giovani leviti, terminati i corsi in seminario, potessero imparare la vita pratica del sacro ministero, fondò quel maraviglioso semenzaio, da cui provenne molto bene alla Chiesa specialmente a sbarbare alcune radici di giansenismo che tuttora si conservava tra noi."

Fra le altre era agitatissima la questione del probabilismo e del probabiliorismo.72 In capo ai primi era l'Alasia,73 l'Antoine74 con altri rigidi autori la cui pratica può condurre al giansenismo. I probabilisti seguivano la dottrina di S. Alfonso," che ora è stato proclamato dottore di S. Chiesa e la cui autorità si può dire la teologia del Papa, perché la Chiesa proclamò le sue opere potersi insegnare, predicare, praticare, né esservi cosa che meriti censura.

71 Giansenismo: corrente di pensiero teologico sorta in Francia, nel sec. XVII, ispirata a dottrine contenute nel trattato Augustinus, opera postuma del vescovo d'Ypres, Cornelius Jansen detto Giansenius (1585-1638). Alla base di tale dottrina vi è la convinzione che la natura umana, totalmente debilitata dal peccato originale, sia incapace di resistere al male con le proprie forze: soltanto l'aiuto della grazia divina può salvarla. La grazia però è concessa solo agli uomini predestinati da Dio. Per l'influsso di importanti pensatori (Blaise Pascal, Antoine Arnauld, Pierre Nicole, Pasquier Quesnel) il Giansenismo si diffuse anche fuori della Francia, suscitando accese polemiche; venne censurato con la bolla Unigenitus (1713). Una delle conseguenze pastorali dell'influsso giansenista in Piemonte fu il rigorismo morale e sacramentale (sulla diffusione in Italia e le varie dispute cf. Pietro STELLA, Il giansenismo in Italia, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2006, 3 voli.).

72 Probabiliorismo e probabilismo: scuole di teologia morale sviluppatesi tra XVII e XVIII sec., una più rigorista, l'altra moderata. La prima asseriva che, tra due situazioni o opinioni — l'una favorevole alla libertà e l'altra alla legge — si deve scegliere quella favorevole alla libertà, solo nel caso che sia o possa essere considerata più probabile di quella aderente alla legge. Il probabilismo, invece, semplifica il modo di intendere le leggi morali e sostiene la liceità di seguire l'opinione favorevole alla libertà, purché seriamente probabile.

73 Giuseppe Antonio Alasia (1731-1812), professore di teologia morale all'Università di Torino, pubblicò un poderoso trattato, usato nell'ateneo e nei seminari torinesi per tutto il corso dell'Ottocento, che si dovette adottate anche nel Convitto ecclesiastico (cf. Commentaria theologiae moralis auctore Josepho Antonio Alasia. Editio altera recognita et aucta, Augusta Taurinorum, Typis Heredum Botta, 1830-1831, 8 voll.).

74 Paul Gabriel Antoine (1678-1743), teologo gesuita, autore di una Theologia universa speculativa et dogmatica (1723) e di una Theologia moralis universa (1726) di cui si fecero molte edizioni in Europa tra metà Settecento e primo Ottocento.

75 Sant'Alfonso Maria de' Liguori (1696-1787), brillante avvocato napoletano che abbandonò la carriera forense per dedicarsi all'evangelizzazione del popolo; divenne sacerdote nel 1726 e fondò la Congregazione dei Redentoristi (1749). Nel 1762 venne consacrato vescovo di Sant'Agata dei Goti. Fu scrittore fecondissimo di teologia e letteratura spirituale (cf. Giovanni VELOCC1, Sant'Alfonso. Un maestro di vita cristiana, Cinisello Balsamo, San Paolo, 1994; Domenico CAPONE, La proposta morale di Sant'Alfonso. Sviluppo e attualità, Roma, Accademia Alfonsiana, 1997). Qui si fa riferimento ai sette volumi della sua Theologia moralis (composti tra 1753-1755). Le operette spirituali che ebbero maggior influsso al tempo di don Bosco sono: Visite al SS. Sacramento e a Maria SS. (1745); Le glorie di Maria (1750); Apparecchio alla morte (1758); Del gran mezzo della preghiera (1759); Pratica di amar Gesù Cristo (1768), considerata capolavoro spirituale e compendio del suo pensiero. Il Guala e il Cafasso furono in Torino, insieme agli Oblati di Maria Vergine e ai laici aderenti alle Amicizie Cattoliche, tra i più fervidi diffusori della dottrina alfonsiana; per loro iniziativa l'editore Marietti ne pubblicò l'opera omnia. Pio IX lo dichiarò dottore della Chiesa nel 1871. Sulle dipendenze di don Bosco dal santo, cf. Arnaldo PEDRINI, Don Bosco e sant Alfonso. La dottrina salesiana e alfonsiana alla luce delle celebrazioni centenarie, Rovigo, Istituto Padano Arti Grafiche, 1988.

Il T. Guala si mise fermo in mezzo ai due partiti, e per centro di ogni opinione mettendo la carità di N. S. G. C. riuscì a ravvicinare quegli estremi. Le cose giunsero a tal segno che mercé il T. Guala S. Alfonso divenne il maestro delle nostre scuole con quel vantaggio che fu lungo tempo desiderato, e che oggidì se ne provano i salutari effetti.

Braccio forte del Guala era D. Cafasso. Colla sua virtù che resisteva a tutte prove, colla sua calma prodigiosa, colla sua accortezza, prudenza poté togliere quell'acrimonia che in alcuni ancora rimaneva dei probabilioristi verso ai liguoristi.

Una miniera d'oro nascondevasi nel sacerdote torinese T. Golzio Felice," egli pure convittore. Nella sua vita modesta fece poco rumore; ma col suo lavoro indefesso, colla sua umiltà, e colla sua scienza era un vero appoggio o meglio un braccio forte del Guala e del Cafasso. Le carceri, gli ospedali, i pulpiti, gli istituti di beneficenza, gli ammalati a domicilio; le città, i paesi e possiamo dire i palazzi dei grandi ed i tuguri dei poveri provarono i salutari effetti dello zelo di questi tre luminari del clero torinese.

Questi erano i tre modelli che la divina Provvidenza mi porgeva, e dipendeva solamente da me seguirne le tracce, la dottrina, le virtù. D. Cafasso, che da sei anni era mia guida, fu eziandio mio direttore spirituale, e se ho fatto qualche cosa di bene lo debbo a questo degno ecclesiastico nelle cui mani riposi ogni mia deliberazione, ogni studio, ogni azione della mia vita. Per prima cosa egli prese a condurmi nelle carceri,77 dove imparai tosto a conoscere quanto sia grande la malizia e la miseria degli uomini.

76 Felice Golzio (1808-1873), prima professore al Convitto Ecclesiastico, poi rettore del Santuario della Consolata; è stato confessore di don Bosco dopo la morte di don Cafasso (23 giugno 1860).

77 Gli istituti carcerari di Torino erano cinque: «le carceri del magistrato d'appello, le correzionali, quelle dell'antico vicariato e del comando militare, ora a servizio della questura, per gli uomini, ed il carcere delle forzate per le donne. Le prime fanno parte del palazzo dei magistrati supremi, le seconde stanno nel convento già dei gesuiti, le terze nell'antico palazzo delle torri [Torri palatine], le quarte nel castello, ossia palazzo di Madama Reale, e le ultime in una casa accanto ai quartieri militari di porta Susa» (CAsALIs, Dizionario, XXI, 1130). Don Cafasso frequentava le varie carceri della città per la catechesi, l'amministrazione dei sacramenti e la cura delle necessità dei detenuti. Era noto soprattutto per il suo carisma nel confortare i condannati a morte.

Vedere turbe di giovanetti, sull'età dei 12 ai 18 anni; tutti sani, robusti, d'ingegno svegliato; ma vederli là inoperosi, rosicchiati dagli insetti, stentar di pane spirituale e temporale, fu cosa che mi fece inorridire. L'obbrobrio della patria, il disonore delle famiglie, l'infamia di se stesso erano personificati in quegli infelici. Ma quale non fu la mia maraviglia e sorpresa quando mi accorsi che molti di loro uscivano con fermo proposito di vita migliore ed intanto erano in breve ricondotti al luogo di punizione, da cui erano da pochi giorni usciti.

Fu in quelle occasioni che mi accorsi come parecchi erano ricondotti in quel sito perché abbandonati a se stessi. «Chi sa, diceva tra me, se questi giovanetti avessero fuori un amico, che si prendesse cura di loro, li assistesse e li istruisse nella religione nei giorni festivi, chi sa che non possano tenersi lontani dalla rovina o almeno diminuire il numero di coloro, che ritornano in carcere?». Comunicai questo pensiero a D. Cafasso, e col suo consiglio e co' suoi lumi mi sono messo a studiar modo di effettuarlo abbandonandone il frutto alla grazia del Signore senza cui sono vani tutti gli sforzi degli uomini.

12. La festa dell'Immacolata Concezione e il principio dell'Oratorio festivo

Appena entrato nel Convitto di S. Francesco, subito mi trovai una schiera di giovanetti che mi seguivano pei viali, per le piazze e nella stessa sacristia della chiesa dell'Istituto. Ma non poteva prendermi diretta cura di loro per mancanza di locale. Un lepido incidente porse occasione di tentare l'attuazione del progetto in favore dei giovanetti vaganti per le vie della città specialmente quelli usciti dalle carceri."

Il giorno solenne all'Immacolata Concezione di Maria (8 dicembre 1841) all'ora stabilita era in atto di vestirmi dei sacri paramentali per celebrare la santa messa. Il chierico di sacristia, Giuseppe Comotti, vedendo un giovanetto in un canto lo invita di venirmi a servire la messa. «Non so, egli rispose tutto mortificato».

78 Giovanetti vaganti: in quegli anni, a causa dell'incremento demografico e della crisi agricola, si verificò una crescente migrazione di giovani dalle campagne alla capitale. Abbandonati a se stessi, aggregati in gruppi, spinti dal bisogno e dalla fame, facilmente erano preda dei vizi. Arrestati dalla polizia cittadina, venivano rinchiusi nel carcere delle Torri in attesa di giudizio (cf. Claudio FELLONI - Roberto AUDISIO, I giovani discoli, in Giuseppe BRACCO [cur.], Torino e don Bosco, Torino, Archivio Storico della Città, 1989, I, 99-113; Aldo GIRAUDO, I giovani pericolanti di Torino e il successo dell'opera educativa di don Bosco nel decennio preunitario, in 150° dell'Unità d'Italia, «Il Tempietto» 11 [2010], 197-222).

— Vieni, replicò l'altro, voglio che tu serva messa.

— Non so, replicò il giovanetto, non l'ho mai servita.

— Bestione che sei, disse il chierico di sacristia tutto furioso, se non sai servire messa, a che vieni in sacristia?

Ciò dicendo dà di piglio alla pertica dello spolverino, e giù colpi sulle spalle o sulla testa di quel poverino. Mentre l'altro se la dava a gambe.

— Che fate, gridai ad alta voce, perché battere costui in cotal guisa, che ha fatto?

— Perché viene in sacristia, se non sa servir messa?

— Ma voi avete fatto male.

— A lei che importa?

— Importa assai, è un mio amico, chiamatelo sull'istante, ho bisogno di parlare con lui.

— Tuder, tuder," si mise a chiamare; e correndogli dietro, e assicurandolo di miglior trattamento, me lo ricondusse vicino.

L'altro si approssimò tremante e lagrimante per le busse ricevute.

— Hai già udita la messa? gli dissi colla amorevolezza" a me possibile.

— No, rispose l'altro.

— Vieni adunque ad ascoltarla; dopo ho piacere di parlarti di un affare, che ti farà piacere. Me lo promise. Era mio desiderio di mitigare l'afflizione di quel poveretto e non lasciarlo con quella sinistra impressione verso ai direttori di quella sacristia. Celebrata la santa messa e fattone il dovuto ringraziamento condussi il mio candidato in un coretto. Con faccia allegra ed assicurandolo, che non avesse più timore di bastonate, presi ad interrogarlo così:

— Mio buon amico, come ti chiami?

— Mi chiamo Bartolomeo Garelli.

— Di che paese tu sei?

— D'Asti.

— Vive tuo padre?

— No, mio padre è morto.

— E tua madre?

— Mia madre è anche morta.

79 Tuder: termine dialettale spregiativo per zotico, sgarbato (cf. Giovanni PASQUALI, Nuovo dizionario piemontese-italiano ragionato e comparato alla lingua comune, coll'etimologia di molti idiotismi, premesse alcune nozioni filologiche sul dialetto, Torino, Libreria Ed. Enrico Moreno, '1870, 319).

80 Amorevolezza: una delle tre parole-chiave usate da don Bosco per esprimere i capisaldi del suo sistema educativo: «Questo sistema si appoggia tutto sopra la ragione, la religione, e sopra l'amorevolezza» (cf. Giovanni Bosco, Il sistema preventivo nella educazione della gioventù. Introduzione e testi critici a cura di Pietro BRAIDO, Roma, LAS, 1989, 83). Il racconto che segue illustra che cosa egli intenda con tale termine: una relazione umana attenta alla persona del ragazzo, sinceramente cordiale e affettuosa, ispirata dalla carità cristiana, che spinge l'educatore ad avvicinarsi per capirlo e farsi carico delle sue necessità e dei suoi problemi.

— Quanti anni hai?

— Ne ho sedici.

— Sai leggere e scrivere? — Non so niente. — Sei stato promosso alla santa comunione?

— Non ancora.

— Ti sei già confessato?

— Sì, ma quando era piccolo.

— Ora vai al catechismo?

— Non oso.

— Perché?

— Perché i miei compagni più piccoli sanno il catechismo; ed io tanto grande ne so niente; perciò ho rossore di recarmi a quelle classi.

— Se ti facessi un catechismo a parte, verresti ad ascoltarlo?

— Ci verrei molto volentieri.

— Verresti volentieri in questa cameretta?

— Verrò assai volentieri, purché non mi diano delle bastonate.

— Sta tranquillo, ché niuno ti maltratterà. Anzi tu sarai mio amico, e avrai da fare con me e con nissun altro. Quando vuoi che cominciamo il nostro catechismo?

— Quando a lei piace.

— Stasera?

— Sì.

— Vuoi anche adesso?

— Si anche adesso con molto piacere.

Mi alzai e feci il segno della S. Croce per cominciare, ma il mio allievo nol faceva perché ignorava il modo di farlo. In quel primo catechismo mi trattenni a fargli apprendere il modo di fare il segno della Croce e a fargli conoscere Dio creatore e il fine per cui ci ha creati. Sebbene di tarda memoria, tuttavia coll'assiduità e coll' attenzione in poche feste riuscì ad imparare le cose necessarie per fare una buona confessione e poco dopo la sua santa comunione.

A questo primo allievo se ne aggiunsero alcuni altri e nel corso di quell'inverno mi limitai ad alcuni adulti che avevano bisogno di catechismo speciale e soprattutto per quelli che uscivano dalle carceri.

Fu allora che io toccai con mano che i giovanetti usciti dal luogo di punizione, se trovano una mano benevola che di loro si prenda cura, li assista nei giorni festivi, studi di collocarli a lavorare presso di qualche onesto padrone e andandoli qualche volta a visitare lungo la settimana, questi giovanetti si davano ad una vita onorata, dimenticavano il passato, divenivano buoni cristiani ed onesti cittadini. Questo è il primordio del nostro Oratorio, che benedetto dal Signore prese quell'incremento, che certamente non avrei potuto allora immaginare.

13. L'Oratorio nel 1842

Nel corso pertanto di quell'inverno mi sono adoperato di consolidare il piccolo Oratorio. Sebbene mio scopo fosse di raccogliere soltanto i più pericolanti fanciulli, e di preferenza quelli usciti dalle carceri; tuttavia per avere qualche fondamento sopra cui basare la disciplina e la moralità, ho anche" invitato alcuni altri di buona condotta e già istruiti. Essi mi aiutavano a conservare l'ordine ed anche a leggere e cantare laudi sacre; perciocché fin d'allora mi accorsi che senza la diffusione di libri di canto e di amena lettura le radunanze festive sarebbero state come un corpo senza spirito. Alla festa della Purificazione (2 febbraio 1842), che allora era ancora festa di precetto, aveva già una ventina di fanciulli con cui per la prima volta potemmo cantare Lodate Maria, o lingue fedeli.82

Alla festa della Vergine Annunziata eravamo già in numero di 30. In quel giorno si fece un po' di festa. Al mattino gli allievi si accostarono ai santi sacramenti; la sera si cantò una lode e dopo il catechismo si raccontò un esempio in modo di predica. Il coretto in cui ci eravamo fino allora radunati essendo divenuto ristretto, ci siamo trasferiti nella vicina cappella della sacristia.

Qui l'Oratorio si faceva così: ogni giorno festivo si dava comodità di accostarsi ai santi sacramenti della confessione e comunione; ma un sabato ed una domenica al mese era stabilita per compiere questo religioso dovere. La sera, ad un'ora determinata si cantava una lode, si faceva il catechismo, poi un esempio, colla distribuzione di qualche cosa ora a tutti ora tirata a sorte.

Fra i giovani che frequentarono i primordi dell'Oratorio vuolsi notare Buzzetti Giuseppe," che fu costante ad intervenire in modo esemplare. Esso si affezionò talmente a D. Bosco ed a quella radunanza festiva, che ebbe a rinunziare di recarsi a casa in sua famiglia (a Caronno Ghiringhello)" come erano soliti di fare gli altri suoi fratelli ed amici. Primeggiavano eziandio i suoi fratelli, Carlo, Angelo, Giosuè;" Gariboldi Giovanni e suo fratello, allora semplici garzoni ed ora capi mastri muratori.

81 A.S.F. omette anche.

82 Lodate Maria o lingue fedeli: canto in onore della Vergine Maria, che diverrà molto popolare nelle case salesiane. La lode, sotto il titolo di Affetti a Maria, sarà introdotta nella seconda edizione del Giovane provveduto (Giovanni Bosco, Il giovane provveduto per la pratica de' suoi doveri, degli esercizi di cristiana pietà..., Torino, Tipografia G. B. Paravia, 1851, 346-347).

83 Giuseppe Buzzetti (1832-1891) rimarrà legato a don Bosco per tutta la vita come collaboratore e diventerà salesiano laico (cf. Memorie biografiche di Giuseppe Buzzetti, coadiutore salesiano, S. Benigno Canavese, Scuola Tip. Salesiana, 1898; Eugenio PILLA, Giuseppe Buzzetti, coadiutore salesiano, Torino, Società Editrice Internazionale, 1960) .

84 Caronno Ghiringhello (oggi Caronno Varesino): paese in provincia di Varese, che dista 148 km da Torino.

85 Carlo (1829-1891) e Giosuè (1840-1902), fratelli di Giuseppe, diventeranno impresari edili e collaboreranno con don Bosco alla costruzione degli edifici di Valdocco, in particolare della chiesa di Maria Ausiliatrice (cf. Fedele GIRAUDI, L'Oratorio di don Bosco. Inizio e progressivo sviluppo edilizio della Casa madre dei Salesiani in Torino, Torino, Società Editrice Internazionale, 1935, 127128, 135, 143, 150, 177-188).

In generale l'Oratorio era composto di scalpellini, muratori, stuccatori, selciatori, quadratoci e di altri che venivano di lontani paesi. Essi non essendo pratici né di chiese né di compagni erano esposti ai pericoli di perversione specialmente nei giorni festivi.

Il buon teologo Guala e D. Cafasso godevano di quella raccolta di fanciulli e mi davano volentieri immagini, foglietti, libretti, medaglie, piccole croci da regalare. Talvolta mi diedero mezzi per vestire alcuni che erano in maggior bisogno; e dar pane ad altri per più settimane, fino a tanto che col lavoro potessero guadagnarsene da sé. Anzi, essendo cresciuto assai il loro numero, mi concedettero di poter qualche volta radunare il mio piccolo esercito nel cortile annesso per fare ricreazione. Se la località l'avesse permesso saremmo presto giunti a più centinaia, ma dovemmo limitarci ad ottanta circa.

Quando si accostavano ai santi sacramenti lo stesso T. Guala o D. Cafasso solevano sempre venirci a fare una visita e raccontarci qualche episodio edificante.

Il T. Guala desiderando che si facesse una bella festa in onore di S. Anna, festa dei muratori, dopo le funzioni del mattino li invitò tutti a fare seco lui colezione. Si raccolsero quasi in numero di cento nella gran sala detta delle conferenze. Colà furono tutti serviti abbondantemente di caffè, latte, cioccolato, ghiffer, briossi, semolini ed altri simili pani dolci, che sono cose ghiottissime pei fanciulli. Ognuno può immaginarsi quanto rumore eccitasse quella festa, e quanti sarebbero venuti se il locale avesse ciò permesso!

La festa era tutta consacrata ad assistere i miei giovanetti; lungo la settimana andava a visitarli in mezzo ai loro lavori nelle officine, nelle fabbriche. Tal cosa produceva grande consolazione ai giovanetti, che vedevano un amico prendersi cura di loro; faceva piacere ai padroni, che tenevano volentieri sotto la loro disciplina giovanetti assistiti lungo la settimana e più ne' giorni festivi che sono giorni di maggior pericolo.

Ogni sabato mi recava nelle carceri colle saccocce piene ora di tabacco, ora di frutti, ora di pagnottelle sempre nell'oggetto di coltivare i giovanetti che avessero la disgrazia di essere colà condotti; assisterli, rendermeli amici, e così eccitati di venire all'Oratorio quando avessero la buona ventura di uscire dal luogo di punizione.

14. Sacro ministero — Scelta di un impiego presso al Rifugio (settembre 1844)

In quel tempo ho cominciato a predicare pubblicamente in alcune chiese di Torino, nell'Ospedale di Carità, all'Albergo di Virtù, nelle carceri, nel Collegio di S. Francesco di Paola," dettando tridui, novene od esercizi spirituali. Compiuti due anni di morale ho subito l'esame di confessione; e così potei con maggior successo coltivare la disciplina, la moralità e il bene dell'anima de' miei giovanetti nelle carceri, nell'Oratorio ed ovunque ne fosse mestieri.

Era per me cosa consolante lungo la settimana e segnatamente ne' giorni festivi vedere il mio confessionale intorniato da quaranta o cinquanta giovanetti attendere ore ed ore perché venisse il loro turno per potersi confessare.

Questo fu l'andamento ordinario dell'Oratorio per quasi tre anni, cioè fino all'ottobre del 1844.

Intanto cose nuove, mutazioni ed anche tribolazioni andava la divina Provvidenza preparando.

Sul fine" del triennio di morale doveva applicarmi a qualche parte determinata del sacro ministero. Il vecchio e cadente zio del Comollo, D. Giuseppe Comollo rettore di Cinzano, col parere dell'arcivescovo mi aveva chiesto ad economo amministratore della parrocchia, cui per età e malori non poteva più reggere." Il T. Guala mi dettò egli stesso la lettera di ringraziamento all'arcivescovo Fransoni, mentre mi preparava ad altro.

Un giorno D. Cafasso mi chiamò a sé e mi disse: «Ora avete compiuto il corso de' vostri studi; uopo è che andiate a lavorare. In questi tempi la messe è copiosa assai. A quale cosa vi sentite specialmente inclinato?».

— A quella che ella si compiacerà di indicarmi.

— Vi sono tre impieghi: vicecurato a Buttigliera d'Asti; ripetitore di morale qui al Convitto; direttore del piccolo Ospedaletto accanto al Rifugio." Quale scegliereste?

86 Ospedale di Carità e Albergo di Virtù: istituzioni caritative risalenti ai sec. XVI-XVII, la prima istituita per la cura degli anziani e dei minori abbandonati, la seconda per la formazione artigianale dei giovani poveri (cf. CASALIS, Dizionario, XXI, 679-683, 690-692). Il Collegio di S. Francesco da Paola, era una delle scuole pubbliche secondarie della città, nella quale, fino al 1842, era stato cappellano il teologo Borel.

87 A.S.F. legge finire.

88 Don Giuseppe Comollo morì a Cinzano il 1° gennaio 1843 (cf. Calendarium Sanctae Metropolitanae Taurinensis Ecclesiae... ad annum MCCCXLIV, Taurini, Botta Impress. Archiep., 1844, 73).

89 Ospedaletto, così era chiamato l'Ospedale di santa Filomena, fondato dalla marchesa Giulia di Barolo per accogliere ragazze disabili povere, dai 3 ai 12 anni di età. In quel momento se ne stava concludendo la costruzione (venne inaugurato il 10 agosto 1845). La direzione dell'ospedale fu affidata alle suore di San Giuseppe (cf. Ave TAGO, Giulia Colbert di Barolo, madre dei poveri. Biografia documentata, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2007, 375-377). Rifugio [Pia Opera di Nostra Signora Rifugio dei Peccatori]: istituzione fondata nel 1822 dalla stessa marchesa per il «ricovero volontario, ed interamente gratuito a quelle donne o zitelle colpevoli, che avendo scontata la pena dei loro falli, o volendo lasciare da sé la strada del vizio, danno prove di un vero pentimento, e si dimostrano disposte a perseverare nel bene. Questa pia casa è capace di contenere oltre a cento ricoverate, le quali vengono ammaestrate nell'esercizio della virtù e nei lavori del loro sesso sotto il governo delle suore dell'instituto di s. Giuseppe» (CAsAus, Dizionario, XXI, 653; notizie più dettagliate in TAGO, Giulia Colbert di Barolo, 235-260). Il teologo Giovanni Borel, incaricato della cura spirituale in queste istituzioni, aveva proposto alla marchesa don Giovanni Bosco come cappellano dell' Ospedaletto.

— Quello che ella giudicherà.

— Non vi sentite propensione ad una cosa più che ad un'altra? — La mia propensione è di occuparmi per la gioventù. Ella poi faccia di me quel che vuole; io conosco la volontà del Signore nel suo consiglio.

— In questo momento che cosa occupa il vostro cuore, che si ravvolge in mente vostra?

— In questo momento mi pare di trovarmi in mezzo ad una moltitudine di fanciulli, che mi dimandano aiuto.

— Andate adunque a fare qualche settimana di vacanza. Al vostro ritorno vi dirò la vostra destinazione.

Dopo quelle vacanze D. Cafasso lasciò passare qualche settimana senza dirmi niente; io gli chiesi niente affatto.

— Perché non dimandate quale sia la vostra destinazione? mi disse un giorno. — Perché io voglio riconoscere la volontà di Dio nella sua deliberazione e voglio metter niente del mio volere.

— Fatevi il fagotto e andate col T. Borel; là sarete direttore del piccolo Ospedale di S. Filomena; lavorerete anche nell'Opera del Rifugio. Intanto Dio vi metterà tra mano quanto dovrete fare per la gioventù.

A prima vista sembrava che tale consiglio contrariasse le mie inclinazioni, perciocché la direzione di un ospedale, il predicare e confessare in un istituto di oltre a quattrocento giovanette, mi avrebbero tolto il tempo ad ogni altra occupazione. Pure erano questi i voleri del Cielo, come ne fui in appresso assicurato.

Dal primo momento che ho conosciuto il T. Borel ho sempre osservato in lui un santo sacerdote, un modello degno di ammirazione e di essere imitato. Ogni volta che poteva trattenermi con lui aveva sempre lezioni di zelo sacerdotale, sempre buoni consigli, eccitamenti al bene. Nei tre anni passati al Convitto fui dal medesimo più volte invitato a servire nelle sacre funzioni, a confessare, a predicare seco lui. Di modo che il campo del mio lavoro era già conosciuto e in certo modo famigliare.

Ci siamo parlato a lungo più volte intorno alle regole da seguirsi per aiutarci a vicenda nel frequentare le carceri e compiere i doveri a noi affidati, e nel tempo stesso assistere i giovanetti, la cui moralità ed abbandono richiamava sempre di più l'attenzione dei sacerdoti. Ma come fare? Dove raccogliere que' giovanetti?

— La camera, disse il T. Borel, che è destinata per lei, può per qualche tempo servire a raccogliere i giovanetti che intervenivano a S. Francesco d'Assisi. Quanto poi potremo andare nell'edilizio preparato pei preti accanto all'Ospedaletto, allora studieremo località migliore.

15. Un nuovo sogno

La seconda domenica di ottobre di quell'anno (1844)" doveva partecipare ai miei giovanetti che l'Oratorio sarebbe stato trasferito in Valdocco. Ma l'incertezza del luogo, dei mezzi, delle persone mi lasciavano veramente sopra pensiero. La sera precedente andai a letto col cuore inquieto. In quella notte feci un nuovo sogno che pare un'appendice di quello fatto ai Becchi quando aveva nove anni. Io giudico bene di esporlo letteralmente.

Sognai di vedermi in mezzo ad una moltitudine di lupi, di capre e capretti, di agnelli, pecore, montoni, cani ed uccelli. Tutti insieme facevano un rumore, uno schiamazzo o meglio un diavolio da incutere spavento ai più coraggiosi. Io voleva fuggire, quando una Signora, assai ben messa a foggia di pastorella, mi fe' cenno di seguire ed accompagnare quel gregge strano, mentre ella precedeva. Andammo vagando per vari siti; facemmo tre stazioni o fermate. Ad ogni fermata molti di quegli animali si cangiavano in agnelli, il cui numero andavasi ognor più ingrossando. Dopo avere molto camminato mi sono trovato in un prato, dove quegli animali saltellavano e mangiavano insieme senza che gli uni tentassero di nuocere agli altri.

Oppresso dalla stanchezza voleva sedermi accanto di una strada vicina, ma la pastorella mi invitò a continuare il cammino. Fatto ancora breve tratto di via, mi sono trovato in un vasto cortile con porticato attorno, alla cui estremità eravi una chiesa. Allora mi accorsi che quattro quinti di quegli animali erano diventati agnelli. Il loro numero poi divenne grandissimo. In quel momento sopraggiunsero parecchi pastorelli per custodirli. Ma essi fermavansi poco e tosto partivano. Allora succedette una meraviglia. Molti agnelli cangiavansi in pastorelli, che crescendo prendevano cura degli altri. Crescendo i pastorelli in gran numero, si divisero e andavano altrove per raccogliere altri strani animali e guidarli in altri ovili.

Io voleva andarmene, perché mi sembrava tempo di recarmi a celebrar messa, ma la pastora mi invitò di guardare al mezzodì. Guardando vidi un campo in cui era stata seminata meliga, patate, cavoli, barbabietole, lattughe e molti altri erbaggi.

90 Domenica 13 ottobre 1844,

— Guarda un'altra volta, mi disse, e guardai di nuovo. Allora vidi una stupenda ed alta chiesa. Un'orchestra, una musica istrumentale e vocale mi invitavano a cantar messa. Nell'interno di quella chiesa era una fascia bianca, in cui a caratteri cubitali era scritto: Hic domus mea, inde gloria mea.91

Continuando nel sogno volli dimandare alla pastora dove mi trovassi; che cosa volevasi indicare con quel camminare, colle fermate, con quella casa, chiesa, poi altra chiesa. «Tu comprenderai ogni cosa quando cogli occhi tuoi materiali vedrai di fatto quanto ora vedi cogli occhi della mente». Ma parendomi di essere svegliato, dissi: «Io vedo chiaro e vedo cogli occhi materiali; so dove vado e quello che faccio». In quel momento suonò la campana dell'Ave Maria nella chiesa di S. Francesco ed io mi svegliai.

Questo [sogno] mi occupò quasi tutta la notte; molte particolarità l'accompagnarono. Allora ne compresi poco il significato perché poca fede ci prestava, ma capii le cose di mano in mano avevano il loro effetto. Anzi più tardi, congiuntamente ad altro sogno, mi servì di programma nelle mie deliberazioni.

16. Trasferimento dell'Oratorio presso al Rifugio

La seconda domenica di ottobre sacra alla Maternità di Maria partecipai ai miei giovanetti il trasferimento dell'Oratorio presso al Rifugio. Al primo annunzio provarono qualche turbazione, ma quando loro dissi che colà ci attendeva vasto locale, tutto per noi, per cantare, correre, saltare e ricrearci ne ebbero piacere, ed ognuno attendeva impaziente la seguente domenica per vedere le novità che si andavano immaginando. La terza domenica di quell'ottobre,92 giorno sacro alla purità di M. V., un po' dopo il mezzodì ecco una turba di giovanetti di varia età e diversa condizione correre giù in Valdocco in cerca dell'Oratorio novello.

— Dove è l'Oratorio, dov'è D. Bosco? si andava da ogni parte chiedendo. Niuno sapeva dirne parola, perché niuno in quel vicinato aveva udito a parlare né di D. Bosco né dell'Oratorio. I postulanti credendosi burlati alzavano la voce e le pretese. Gli altri credendosi insultati opponevano minacce e percosse. Le cose cominciavano a prendere severo aspetto, quando io e il T. Borel, udendo gli schiamazzi, uscimmo di casa. Al nostro comparire cessò ogni rumore, ogni alterco. Corsero in folla intorno a noi; dimandando dove fosse l'Oratorio.

91 Qui è la mia casa, di qui la mia gloria.

92 Era il 20 ottobre 1844.

Fu detto che il vero Oratorio non era ancora ultimato, che per intanto vevissero in mia camera, che, essendo spaziosa, avrebbeci servito assai bene. Di fatto per quella domenica le cose andarono abbastanza bene. Ma la domenica successiva, agli antichi allievi aggiugnendosene parecchi del vicinato, non sapeva più ove collocarli. Camera, corridoio, scala, tutto era ingombro di fanciulli. Al giorno dei Santi col T. Borel essendomi messo a confessare, tutti volevano confessarsi, ma che fare? Eravamo due confessori, erano oltre dugento fanciulli. Uno voleva accendere il fuoco, l'altro si adoperava di spegnerlo. Costui portava legna, quell'altro acqua, secchia, molle, palette, brocca, catinella, sedie, scarpe, libri ed ogni altro oggetto era messo sossopra, mentre volevano ordinare ed aggiustare le cose.

— Non è più possibile andare avanti, disse il caro teologo, uopo è provvedere qualche locale più opportuno —. Tuttavia si passarono sei giorni festivi in quello stretto locale, che era la camera superiore al vestibolo della prima porta di entrata al Rifugio.

Intanto si andò a trattare coll'arcivescovo Fransoni, il quale capì l'importanza del nostro progetto. «Andate, ci disse, fate quanto giudicate bene per le anime, io vi do tutte le facoltà che vi possono occorrere. Parlate colla marchesa Barolo," forse essa potrà somministrarvi qualche locale opportuno. Ma ditemi: questi ragazzi non potrebbero recarsi alle rispettive loro parrocchie?».

— Sono giovanetti per lo più stranieri, i quali passano a Torino soltanto una parte dell'anno. Non sanno nemmeno a quale parrocchia appartengano. Di essi molti sono mal messi, parlano dialetti poco intelligibili, quindi intendono poco e poco sono dagli altri intesi. Alcuni poi sono già grandicelli e non osano associarsi in classe coi piccoli.

— Quindi, ripigliò l'arcivescovo, è necessario un luogo a parte adattato per loro. Andate adunque. Io benedico voi e il vostro progetto. In quel che potrò giovarvi, venite pure e farò sempre quanto potrò.

93 Marchesa Barolo: Giulia Vittorina Colbert de Maulévrier (1785-1864), nata in Vandea (Francia), moglie del marchese Tancredi Falletti di Barolo, ultimo discendente di nobile famiglia. Insieme al marito diede vita ad asili infantili e istituzioni educative; con lui fondò le suore di Sant'Anna per l'educazione delle ragazze di «civile condizione». Si dedicò alla cura delle carcerate, proponendo al Governo una riforma carceraria che ella stessa attuò, orientata al recupero morale e civile attraverso l'istruzione, il lavoro, la persuasione, la gratificazione e il sentimento religioso (cf. Simona TROMBETTA, Punizione e carità. Carceri femminili nell'Italia dell 'Ottocento, Torino, Il Mulino, 2004, 7588). Fondò il Rifugio (1822) per le giovani traviate desiderose di redenzione e il monastero delle Sorelle penitenti di Santa Maria Maddalena (1833) per quelle che, dopo il recupero, desiderassero consacrarsi a Dio (cf. Giulia COLBERT FALLETrI DI BAROLO, Lettere alla Sorelle penitenti di S. Maria Maddalena, Roma, s.e., 1986-1987, 2 voll.; Silvia BARBERO, Donne consacrate e recupero delle "pericolanti" nella Torino preunitaria, in Stefania BARTOLONI [Ed.], Per le strade del mondo. Laiche e religiose fra Otto e Novecento, Bologna, Il Mulino, 2007, 268-277). Fondò un collegio (il Rifugino) per l'educazione di bambine sotto gli 11 anni, orfane o abbandonate dalle famiglie, affidate alle cure delle suore Maddalene. Costruì anche l'Ospedaletto, di cui si è parlato, e avviò varie altre iniziative assistenziali e caritative.

Si andò di fatto a parlare colla marchesa Barolo, e siccome fino all'agosto dell'anno successivo non si apriva l'Ospedaletto, la caritatevole signora si contentò che noi riducessimo a cappella due spaziose camere destinate per la ricreazione dei preti del Rifugio, quando essi avessero colà trasferito la loro abitazione. Per andare adunque al novello Oratorio passavasi dove ora è la porta dell'ospedale, e pel piccolo viale che separa l'Opera Cottolengo" dall'edifizio citato, si andava fino all'abitazione attuale dei preti e per la scala interna si saliva al 3° piano.

Là era il sito scelto dalla divina Provvidenza per la prima chiesa dell'Oratorio. Esso cominciò a chiamarsi di S. Francesco di Sales per due ragioni: 1a perché la marchesa Barolo aveva in animo di fondare una congregazione di preti sotto a questo titolo, e con questa intenzione aveva fatto eseguire il dipinto di questo santo che tuttora si rimira all'entrata del medesimo locale; 2a perché la parte di quel nostro ministero esigendo grande calma e mansuetudine, ci eravamo messi sotto alla protezione di questo santo, affinché ci ottenesse da Dio la grazia di poterlo imitare nella sua straordinaria mansuetudine e nel guadagno delle anime. Altra ragione era quella di metterci sotto alla protezione di questo santo, affinché ci aiutasse dal cielo ad imitarlo nel combattere gli errori contro alla religione, specialmente il protestantismo che cominciava insidioso ad insinuarsi nei nostri paesi e segnatamente nella città di Torino.

Pertanto l'anno 1844, il giorno 8 dicembre, sacro all'Immacolato Concepimento di Maria, coll'autorizzazione dell'arcivescovo," per un tempo freddissimo, in mezzo ad alta neve, che tuttora cadeva fitta dal cielo, fu benedetta la sospirata cappella, si celebrò la santa messa, parecchi giovanetti fecero la loro confessione e comunione, ed io compii quella sacra funzione con un tributo di lagrime di consolazione, perché vedeva in modo che parevami stabile l'opera dell'Oratorio collo scopo di trattenere la gioventù più abbandonata e pericolante dopo avere adempiuti i doveri religiosi in chiesa."

94 Opera Cottolengo [Piccola Casa della Divina Provvidenza]: istituzione fondata da san Giuseppe Cottolengo (1786-1842) a vantaggio dei malati poveri o cronici, dei disabili fisici e psichici, degli anziani e dei mendicanti. Per il servizio dell'Opera il Cottolengo istituì due congregazioni maschili (una di sacerdoti e una di fratelli) e congregazioni femminili (di vita attiva e di vita contemplativa). Oggi l'istituzione ha succursali in Italia e all'estero (cf. Lino PIANO, San Giuseppe Benedetto Cottolengo, fondatore della Piccola Casa della Divina Provvidenza sotto gli auspici di San Vincenzo de' Paoli, 1786-1842, Torino, Piccola Casa della Divina Provvidenza, 1996).

95 Si veda il documento della Curia torinese, in data 7 dicembre 1844, in appendice a questo volume (documento 2) p. 208.

96 Nel ms. originale, a questo punto, don Bosco annota: «Villa della benemerita C[onte]ssa Corsi Gabriella Peletta Nizza Monferrato] 21 ott[obre] 1873». Il testo non è stato riportato nel ms. Bene). L'annotazione indica il luogo nel quale l'autore ha composto le pagine precedenti. La contessa Corsi, «meritamente da lui chiamata col nome di mamma», per più anni ospitò don Bosco nella sua villa di Nizza Monferrato «per riposare un po' in quella solitaria e fresca villeggiatura, con vantaggio della salute, e lavorando in pari tempo senz'essere disturbato» (MB X, 372).

17. L'Oratorio a S. Martino dei Molazzi — Difficoltà — La mano del Signore

Nella cappella annessa all'edilizio dell'Ospedaletto di S. Filomena, l'Oratorio prendeva ottimo avviamento. Nei giorni festivi intervenivano in folla i giovanetti per fare la loro confessione e comunione. Dopo la messa tenevasi breve spiegazione del Vangelo. Dopo mezzodì catechismo, canto di laudi sacre, breve istruzione, litanie lauretane e benedizione. Nei vani intervalli i giovani erano trattenuti in piacevole ricreazione con trastulli diversi. Ciò si faceva nel piccolo viale che tuttora esiste tra il monastero delle Maddalene e la via pubblica." Passammo colà sette mesi e noi ci pensavamo di aver trovato il paradiso terrestre, quando dovemmo abbandonare l'amato asilo per andarcene a cercarne" un altro.

La marchesa Barolo, sebbene vedesse di buon occhio ogni opera di carità, tuttavia, avvicinandosi l'apertura del suo Ospedaletto (fu aperto il 10 agosto 1845) volle che il nostro Oratorio venisse di là allontanato. È vero che il locale destinato a cappella, a scuola o a ricreazione dei giovani non aveva alcuna comunicazione coll'interno dello stabilimento, le medesime persiane erano fisse e rivolte all'insù, nulla di meno si dovette ubbidire. Si promosse viva istanza al municipio torinese e mercé raccomandazione dell'arcivescovo Fransoni si ottenne di trasferire l'Oratorio alla chiesa di S. Martino dei Molazzi ovvero dei molini di città."

Ed eccoci una domenica del mese di luglio 1845; si prendono panche, inginocchiatoi, candelieri, alcune sedie, croci, quadri e quadretti, e ciascuno portando quell'oggetto di cui era capace, a guisa di popolare emigrazione, fra gli schiamazzi, il riso ed il rincrescimento siamo andati a stabilire il nostro quartiere generale nel luogo sopra indicato.

Il T. Borel fece un discorso di opportunità tanto prima della partenza, quanto nell'arrivo alla novella chiesa.

Quel degno ministro del santuario, con una popolarità che si può chiamare piuttosto unica che rara, espresse questi pensieri: «I cavoli, o amati giovani, se non sono trapiantati non fanno bella e grossa testa.

97 Monastero delle Maddalene: è il monastero delle Sorelle Penitenti di santa Maria Maddalena adiacente all'Ospedaletto e al Rifugio (cf. TAGO, Giulia Colbert di Barolo, 261-340; BARBERO, Donne consacrate e recupero delle "pericolanti", 277-284).

98 Don Bosco scrive cercarcene.

99 Molazzi [Molassi], detti anche Mulini Dora: grande complesso per la molitura dei cereali, costruito nel secolo XIV, ampliato e modernizzato tra '700 e '800. Si trovava a pochi minuti di cammino dal Rifugio (sulla storia, l'architettura e la tecnologia dei mulini Dora, cf. Giuseppe BRACCO [cuti, Acque, ruote e mulini a Torino, Torino, Archivio storico della città di Torino, 1988, I, 273300). Le indagini archivistiche hanno appurato che i fatti narrati in questo capitolo si svolsero più tardi, dopo quelli raccontati nel capitolo 18 (cf. Francesco Morto, L'oratorio di Don Bosco presso il cimitero di S. Pietro in Vincoli in Torino. Una documentata ricostruzione del noto episodio, RSS 5 [1986] 199-220).

Diciamo lo stesso del nostro Oratorio. Finora fu spesso trasferito di luogo in luogo, ma ne' vari siti dove fece qualche fermata ebbe sempre un notabile incremento, con non leggero vantaggio dei giovani che sono intervenuti. S. Francesco di Assisi lo vide cominciar come catechismo e un po' di canto. Colà non si poteva fare di più. Il Rifugio lo accolse,'°° ma momentaneamente a fare una fermata, come dicono farsi da chi cammina in ferrovia, e ciò affinché i nostri giovani non mancassero in quei pochi mesi dell'aiuto spirituale della confessione,101 dei catechismi, delle prediche e di ameni trastulli.

Accanto all'Ospedaletto cominciò un vero Oratorio, e ci sembrava di avere trovato la vera pace, un luogo opportuno per noi, ma la divina Provvidenza dispose che dovessimo sloggiare e venire qua a S. Martino. Qui staremo molto tempo? Nol sappiamo. Speriamo di sì, ma comunque sia noi crediamo che, come i cavoli trapiantati, il nostro Oratorio crescerà nel numero de' giovani amanti della virtù, crescerà il desiderio del canto, della musica, delle scuole serali ed anche diurne.

Adunque passeremo qui molto tempo? Non occupiamoci di questo pensiero. Gettiamo ogni nostra sollecitudine tra le mani del Signore, egli avrà cura di noi. È certo che egli ci benedice, ci aiuta e ci provvede. Egli penserà al luogo conveniente per promuovere la sua gloria e pel bene delle nostre anime. Siccome, però, le grazie del Signore formano una specie di catena in guisa che un anello è collegato coll'altro, così, approfittando noi delle prime grazie siamo sicuri che Dio ne concederà delle maggiori; e noi, corrispondendo allo scopo dell'Oratorio, cammineremo di virtù in virtù finché giungeremo alla patria beata dove l'infinita misericordia di N. S. G. C. darà il premio che ognuno colle sue buone opere si sarà meritato».

A quella solenne funzione era presente una folla immensa di giovanetti; e colla massima emozione si cantò un Te Deum di ringraziamento.

Le pratiche religiose qui si compievano come al Rifugio. Ma non si poteva celebrar messa, né dare la benedizione alla sera, quindi non poteva avere luogo la comunione, che è l'elemento fondamentale della nostra istituzione. La stessa ricreazione era non poco disturbata, incagliata a motivo che i ragazzi dovevano trattenersi nella via e nella piazzetta situata avanti la chiesa per dove passavano spesso gente a piedi, carri, cavalli e carrettoni. Non potendo avere di meglio ringraziavamo il Cielo di quanto ci aveva concesso, aspettando località migliore. Ma nuovi disturbi ci caddero addosso.

I mugnai, i garzoni, i commessi, non potendo tollerare i salti, i canti e talvolta gli schiamazzi dei nostri allievi, si allarmarono e d'accordo promossero lamenti al medesimo municipio.

100 A.S.F., seguendo Cefia, legge lo volle.

101 A.S.F., seguendo Ceria, legge delle confessioni.

Fu allora che si cominciò a dire che quelle radunane di giovanetti erano pericolose, che da un momento all'altro potevano fare sommosse e rivoluzioni. Ciò dicevano appoggiati alla pronta ubbidienza con cui eglino si prestavano ad ogni piccolo cenno del superiore. Si aggiungeva, senza fondamento, che i ragazzi facevano mille guasti in chiesa; fuori di chiesa, nel selciato, e sembrava che Torino dovesse subissare se noi avessimo continuato a radunarci in quel luogo.

Pose poi il colmo ai nostri guai una lettera scritta da un segretario dei molini al sindaco di Torino, in cui si raccoglievano tutte le voci vaghe ed amplificando i guasti immaginarli,'" diceva essere impossibile che le famiglie addette a quegli uffizi potessero continuare i loro doveri ed avere tranquillità.

Si giunse fino a dire che quello era un semenzaio d'immoralità. Il sindaco, sebbene persuaso della relazione infondata, scrisse una calda lettera in forza di cui dovevasi immediatamente portare altrove il nostro Oratorio. Rincrescimento generale, sospiri inutili! Dovemmo sgombrare.'"

È bene però di notare che il segretario di nome Cussetti (non mai da pubblicarsi) autore della famosa lettera, scrisse per l'ultima volta, giacché fu colpito da un tremolo violento alla destra, dietro a cui passati tre anni andò alla tomba. Dio dispose che il figlio di lui fosse abbandonato in mezzo ad una strada e costretto di venire a chiedere pane e ricetto nell'ospizio che si aprì di poi in Valdocco.

18. L'Oratorio in S. Pietro in Vincoli — La serva del cappellano — Una lettera — Un tristo accidente

Siccome il sindaco e in generale il municipio erano persuasi della insussistenza di quanto scrivevasi contro di noi, così a semplice richiesta, e con raccomandazione dell'arcivescovo, si ottenne di poterci raccogliere nel cortile e nella chiesa del Cenotafio del SS.mo Crocifisso detto volgarmente S. Pietro in Vincoli.'" Così dopo due mesi di dimora a S. Martino noi dovemmo con amaro rincrescimento trasferirci in altra nuova località, che per altro era più opportuna per noi.

102 A margine del ms. Berto leggiamo un'annotazione di mano del segretario: «Il sindaco mandò a verificare e trovò mura, selciato esterno, pavimento, tutte le cose di chiesa a suo posto. Il solo guasto consisteva che un ragazzo colla punta di un chiodino aveva fatto una breve riga nella parete».

103 Secondo una ricostruzione storica documentata, i catechismi si fecero nella cappella dei Mulini dal 13 luglio alla domenica 28 dicembre 1845; la lettera dell'ufficio tecnico del Comune (Ragioneria) che ordina lo sfratto entro il 1° gennaio 1846, è datata 14 novembre (cf. Morro, L'oratorio di Don Bosco, 214-215).

104 Il fatto narrato in questo capitolo ebbe luogo domenica 25 maggio 1845, prima del trasferimento a san Martino presso i Molassi. S. Pietro in Vincoli: si trova non lontano dal Rifugio e dall'opera Cottolengo, nei prati vicini all'Arsenale militare. Insieme al cimitero di san Lazzaro (collocato nella parte opposta della città), era stato costruito nel 1777; «ambidue erano della medesima forma, quadrati con portici a tre lati, in fondo la chiesa, ed in mezzo un cortile coi pozzi dei sepolcri comuni, in cui si accalcavano bare e cadaveri l'uno addosso all'altro», mentre le sepolture private si trovavano «nel sotterraneo che girava sotto al portico». A fianco del cimitero di San Pietro in Vincoli, in cui non si seppelliva più fin dal 1832 (dopo la costruzione del grandioso cimitero generale), c'era uno spazio, «chiuso da mura, dove ancora di presente [1851] si seppelliscono i giustiziati» (cf. CASALIS, Dizionario, XXI, 195-197). L'edificio, dal quale sono stati asportati i resti delle sepolture, esiste tuttora e viene utilizzato per manifestazioni culturali e mostre.

Il lungo porticato, lo spazioso cortile, la chiesa adattata per le sacre funzioni, tutto servì ad eccitare entusiasmo nei giovanetti, sicché parevano frenetici per la gioia. Ma in quel sito esisteva un terribile rivale, da noi ignorato. Era questi non un defunto, che in gran numero riposavano nei vicini sepolcri, ma una persona vivente, la serva del cappellano. Appena costei incominciò a udire i canti e le voci e, diciamo, anche gli schiamazzi degli allievi, uscì fuori di casa tutta sulle furie, e colla cuffia per traverso e colle mani sui fianchi si diede ad apostrofare la moltitudine dei trastullanti. Con lei inveiva una ragazzina, un cane, un gatto, tutte le galline dimodoché sembrava essere imminente una guerra europea. Studiai di avvicinarmi per acquetarla, facendole osservare che quei ragazzi non avevano alcuna cattiva volontà, che si trastullavano, né facevano alcun peccato. Allora si volse contro di me e diedemi il fatto mio.

In quel momento ho giudicato di far cessare la ricreazione, fare un po' di catechismo, e recitato il Rosario in chiesa, ce ne partimmo colla speranza di ritrovarci con maggiore quiete la domenica seguente. Ben il contrario. Allora che in sulla sera giunse il cappellano, la buona domestica se gli mise attorno e chiamando D. Bosco e i suoi figli rivoluzionari, profanatori dei luoghi santi e tutto fior di canaglia, spinse il buon padrone a scrivere una lettera al municipio.

Scrisse sotto il dettato della fantesca, ma con tale acrimonia, che fu immediatamente spedito ordine di cattura per chiunque di noi fosse colà ritornato. Duole il dirlo, ma quella fu l'ultima lettera del cappellano D. Tesio, il quale scrisse il lunedì, e poche ore dopo era preso da colpo apoplettico che lo rese cadavere quasi sull'istante.'" Due giorni dopo simile sorte toccava alla fantesca. Queste cose si dilatarono e fecero profonda impressione sull'animo dei giovani e di tutti quelli cui pervenne tale notizia. La smania di venire, di udire i tristi casi era grande in tutti; ma essendo proibiti di raccoglierci in S. Pietro in Vincoli, né essendosi potuto dare avviso opportuno, nissuno più poteva immaginarsi, nemmeno io, dove sarebbesi potuto avere un luogo di radunanza."

105 Giuseppe Tesio (1777-1845), ex cappuccino originario di Racconigi (Cuneo), morì il mercoledì 28 maggio (cf. ASCT Atti di morte 1845, vol. 105).

106 Dai documenti d'archivio non risulta che don Tesio abbia scritto una lettera ostile a don Bosco; la Ragioneria non proibì l'accesso ai ragazzi dell'Oratorio, ma ai membri della «congregazione dei catechisti di S. Pelagia» che si riunivano nella cappella la domenica pomeriggio per la celebrazione dei vespri, senza rispettare gli orari concordati con don Tesio. Sulla vicenda e sugli equivoci che hanno determinato questa interpretazione dei fatti da parte di don Bosco, cf. Morro, L'oratorio di don Bosco, 204-211.

19. L'Oratorio in casa Moretta

La domenica successiva a quella proibizione una moltitudine di giovanetti si recò a S. Pietro in Vincoli; perciocché non si era potuto dare loro alcun avviso preventivo. Trovando tutto chiuso si versarono in massa sulla mia abitazione presso l'Ospedaletto. Che fare? Io mi trovava un mucchio di attrezzi di chiesa e di ricreazione; una turba di fanciulli seguiva ovunque i miei passi, mentre io non aveva un palmo di terreno dove poterci raccogliere.

Celando tuttavia le mie pene mi mostrava con tutti di buon umore e tutti li rallegrava raccontando mille maraviglie intorno al futuro Oratorio che per allora esisteva soltanto nella mente mia e nei decreti del Signore. Per poterli poi in qualche modo occupare ne' giorni festivi li conduceva quando a Sassi,1°7 quando alla Madonna del Pilone,'" alla Madonna di Campagna,1°9 al monte dei Cappuccinill° ed anche fino a Superga.1" In queste chiese procurava di celebrare loro la S. Messa nel mattino colla spiegazione del vangelo. La sera un po' di catechismo, canto di lodi, qualche racconto, quindi giri, passeggiate fino all'ora di fare ritorno alle proprie famiglie. Sembrava che questa critica posizione dovesse mandare in fumo ogni pensiero di Oratorio, ed invece aumentava in numero straordinario gli avventori.

Intanto eravamo al mese di novembre (1845) stagione non più opportuna per fare passeggiate o camminate fuori città.

107 Sassi: paese a circa 3 km da Torino, sulle pendici della collina che fiancheggia la riva destra del fiume Po.

108 Madonna del Pilone: «così chiamasi una borgata distante un miglio circa da Torino, a destra del Po. Vi esiste un venerando santuario dedicato alla SS. Vergine, l'origine del quale si attribuisce ad un miracolo avvenuto nel 1644, per cui una fanciulla per nome Margarita Molar essendo sgraziatamente caduta fra le ruote di un molino, ch'eravi allora, per intercessione della B.V., di cui stava l'immagine sopra un vicino piliere, sarebbe stata tolta sana e salva» (CASALIS, Dizionario, XXI, 150).

109 Madonna di Campagna: parrocchia annessa a un convento di Cappuccini (risalente al 1567), collocata sulla strada tra Torino e Venaria, a 3 km dalla capitale (cf. CASALIS, Dizionario, XXI, 156162).

110 Monte dei Cappuccini: bella chiesa cinquecentesca dell'architetto Ascanio Vitozzi (15391615), officiata dai frati Cappuccini, che sovrasta la città da un rilievo boscoso presso la riva destra del fiume Po (cf. CASALIS, Dizionario, XXI, 101-105).

111 Superga: monumentale basilica posta sulla collina che domina Torino; ideata e costruita dall'architetto Filippo Juvarra, in conseguenza di un voto fatto da Vittorio Amedeo II nel settembre 1706, durante l'assedio delle truppe francesi. Nella cripta si trovano le tombe di alcuni membri della famiglia reale. La chiesa, a pianta circolare, è sovrastata dalla cupola alta 75 metri e affiancata da due campanili di 60 metri. Nell'edificio di fianco alla basilica aveva sede un'accademia ecclesiastica, dotata di un'importante biblioteca, oggi depositata presso la Biblioteca Reale di Torino (cf. CASALIS, Dizionario, XXI, 88-97).

D'accordo col T. Borel abbiamo preso a pigione tre camere della casa di D. Moretta,12 che è quella vicina, quasi di fronte all'attuale chiesa di Maria Ausil[iatrice]. Ora quella casa a forza di riparazioni venne pressoché rifatta. Colà passammo quattro mesi, angustiati pel locale, ma contenti di poter almeno in quelle camerette raccogliere i nostri allievi, istruirli e dar loro comodità specialmente delle confessioni. Anzi in quello stesso inverno abbiamo cominciato le scuole serali. Era la prima volta che nei nostri paesi parlavasi di tal genere di scuole; perciò se ne fece gran rumore, alcuni in favore, altri in avverso.

Fu pure in quel tempo che si propagarono alcune dicerie strane assai. Taluni chiamavano D. Bosco rivoluzionario, altri il volevano pazzo oppure eretico. La ragionavano così: «Questo Oratorio allontana i giovanetti dalle parrocchie, quindi il parroco si vedrà la chiesa vuota, né più potrà conoscere i fanciulli, di cui dovrà rendere conto al tribunale del Signore. Dunque D. Bosco mandi i fanciulli alle loro parrocchie e cessi di raccoglierli in altre località».

Così dicevanmi due rispettabili parroci di questa città, che mi visitarono a nome anche dei loro colleghi.

— I giovani che raccolgo, loro rispondeva, non turbano la frequenza alle parrocchie, perché la maggior parte di essi non conoscono né parroco né parrocchia.

— Perché?

— Perché sono quasi tutti forestieri, i quali rimangono abbandonati dai parenti in questa città, o qui venuti per trovare lavoro, che non poterono avere. Savoiardi, Svizzeri, Valdostani, Biellesi, Novaresi, Lombardi sono quelli che per ordinario frequentano le mie adunanze.

— Non potrebbe mandare questi giovanetti alle rispettive parrocchie?

— Non le conoscono.

— Perché non farle conoscere?

— Non è possibile. La lontananza dalla patria, la diversità di linguaggio, la incertezza del domicilio, e l'ignoranza dei luoghi rendono difficile per non dire impossibile l'andare alle parrocchie. Di più molti di essi sono già adulti: taluni toccano i 18, i 20 ed anche i 25 anni d'età, e sono affatto ignari delle cose di religione. Chi mai potrebbe indurre costoro di andarsi ad associare con ragazzi di 8 o 10 anni, molto più di loro istruiti?

— Non potrebbe ella stessa condurli e venire a fare il catechismo nelle stesse chiese parrocchiali? — Potrei al più recarmi ad una parrocchia, ma non a tutte.

112 Giovanni Battista Moretta (1777-1847), cappuccino secolarizzato nel 1803. La casa di sua proprietà era una costruzione a due piani, con «cantina e stalla, nove stanze abitabili al pianterreno» e due scale di legno attraverso le quali «si saliva al piano superiore dove un lungo ballatoio dava accesso ad altre nove camere [...]. La casa a levante confinava col prato Filippi, sul quale prospettava colla porta d'entrata» (GiRAupi, L'Oratorio di don Bosco, 49-50).

Si potrebbe a ciò provvedere se ogni parroco volesse prendersi cura di venire, od inviare chi raccogliesse questi fanciulli e li guidasse alle rispettive parrocchie. Ma anche tal cosa riesce difficile, perché non pochi di quelli sono dissipati ed anche discoli, i quali lasciandosi adescare dalla ricreazione, dalle passeggiate che tra noi hanno luogo, si risolvono a frequentare anche i catechismi e le altre pratiche di pietà. Perciò sarebbe necessario che ogni parrocchia avesse eziandio un luogo determinato dove radunare e trattenere questi giovanetti in piacevole ricreazione.

— Queste cose sono impossibili. Non ci sono locali, né preti che abbiano libero il giorno festivo per queste occupazioni.

— Dunque?

— Dunque, faccia come giudica bene, intanto stabiliremo tra di noi quello che sia meglio di fare.

Venne quindi agitata la questione tra i parroci torinesi, se gli Oratorii dovevansi promuovere oppure riprovarsi. Si disse pro e contro. Il curato di Borgo Dora D. Agostino Gattino"' col T. Ponsati Curato di S. Agostino,"4 mi portò la risposta in questi termini: «I parroci della città di Torino, raccolti nelle solite loro conferenze, trattarono sulla convenienza degli Oratorii. Ponderati i timori e le speranze, da una parte e dall'altra, non potendo ciascun parroco provvedere un Oratorio nella rispettiva parrocchia, incoraggiscono il sac. Bosco a continuare finché non sia presa altra deliberazione».

Mentre queste cose avvenivano, giungeva la primavera del 1846. La casa Moretta era abitata da molti inquilini, i quali, sbalorditi dagli schiamazzi e dal continuo rumore dell'andare e venire dei giovanetti mossero lagnanza al padrone, dichiarando di smettersi tutti dalla pigione se non cessavano immantinenti quelle radunanze. Così il buon sacerdote Moretta dovette avvisarci di cercarci immediatamente altra località dove raccogliere i nostri giovani se volevamo tenere in vita il nostro Oratorio.

113 Agostino Luigi Gattino (1816-1869): curato della parrocchia dei SS. Simone e Giuda in Borgo Dora, sotto la cui giurisdizione stava il Rifugio e l'Oratorio, quando si stabilirà in casa Pinardi. La parrocchia di Borgo Dora contava in quegli anni 20 mila abitanti; era la più vasta e la più povera della città: «Il territorio sottoposto alla giurisdizione di questa parrocchia incomincia dalla borgata del Martinetto, e va sino all'imboccatura della Stura nel Po, presso l'edificio del R. Parco [...1. Molto insalubre è l'aria che si respira in questo borgo a cagione dell'umidità prodotta dalle molte acque che vi scorrono. Pochi anni sono vi si confinavano per ordine del vicariato tutte le officine dei fabbricanti di grosse macchine, de' carlderai, de' bottai, e di altri siffatti mestieri per liberare gli abitanti dell'interno della città dal rumore insopportabile che per esse facevasi» (CAsAus, Dizionario, XXI, 202).

114 Il teologo Vincenzo Ponsati (1800-1874), dal 1827, era curato della parrocchia dei SS. Filippo e Giacomo, che aveva sede nella chiesa di Sant'Agostino, e cappellano delle carceri senatoriali di Torino (dove erano rinchiusi fino a 300 carcerati), si faceva aiutare in quel ministero da don Cafasso, dal teol. Borel e da altri (cf. Giovanni ELIA, Nelle solenni esequie del teologo Vincenzo Ponsati commendatore dei SS. Maurizio e Lazzaro, curato dei SS. Filippo e Giacomo in Torino, parroco decano della città... Elogio funebre, Torino, Tip. Giulio Speirani e figli, 1875).

20. L'Oratorio in un prato — Passeggiata a Superga

Con grave rincrescimento e con non leggero disturbo delle nostre radunanze, nel marzo del 1846 dovemmo abbandonare casa Moretta e prendere in affitto un prato dai fratelli Filippi,"5 dove attualmente avvi una fonderia di getto ossia ghisa. Io mi trovai là a cielo scoperto, in mezzo ad un prato, cinto da grama siepe, che lasciava libero adito a chiunque volesse entrare. I giovanetti erano da tre a quattrocento, i quali trovavano il loro Paradiso terrestre in quell'Oratorio, la cui volta, le cui pareti erano la medesima volta del cielo.

Ma in questo luogo come"' mai praticare le cose di religione? Alla bell'e meglio qui si faceva il catechismo, si cantavano lodi, si cantavano i vespri, quindi il T. Borel od io montavamo sopra di una riva o sopra di una sedia e indirizzavamo il nostro sermoncino ai giovani, che ansiosi venivano ad ascoltarci.

Le confessioni poi si facevano così: ne' giorni festivi, di buon mattino, io mi trovava nel prato dove già parecchi attendevano. Mettevami a sedere sopra di una riva ascoltando le confessioni degli uni, mentre altri ne facevano la preparazione od il ringraziamento, dopo cui non pochi ripigliavano la loro ricreazione. Ad un certo punto della mattinata si dava un suono di tromba, che radunava tutti i giovanetti, altro suono di tromba indicava il silenzio, che mi dava campo a parlare e segnare dove andavamo ad ascoltare la santa messa e fare la comunione.

Talvolta, come si disse, andavamo alla Madonna di Campagna, alla chiesa della Consolata, a Stupinigill7 o nei luoghi sopra mentovati. Siccome poi facevamo frequenti camminate in luoghi anche lontani, così io ne descriverò una fatta a Superga, da cui si conoscerà come si facevano le altre.

Raccolti i giovani nel prato e dato loro tempo a giuocare alquanto alle bocce, alle piastrelle, alle stampelle, etc., si suonava un tamburo, quindi una tromba che segnava la radunanza e la partenza. Si procurava che ognuno ascoltasse prima la messa e poco dopo le 9 partimmo alla volta di Superga. Chi portava canestri di pane, chi cacio o salame o frutta od altre cose necessarie per quella giornata. Si osservava silenzio sin fuori delle abitazioni della città, di poi cominciavano gli schiamazzi, canti e grida, ma sempre in fila ed ordinati.

Giunti poi a' piedi della salita, che conduce a quella basilica, trovai uno stupendo cavallino che, bardato a dovere, il sac. Anselmettim curato di quella chiesa mi aveva mandato.

115 Fratelli Filippi: Pietro Antonio e Carlo, proprietari di case e terreni adiacenti alla casa di don Moretta.

116 A.S.F. omette come.

117 Stupinigi: località a 8 km dal centro della città, verso sud, dove sorge una splendida palazzina usata dal re durante le battute di caccia, progettata dell'architetto Filippo Juvarra (1678-1736), affiancata da un vasto parco e da una folta boscaglia (cf. CASALIS, Dizionario, XX, 500).

118 Giuseppe Maurizio Anselmetti (1778-1852), curato della parrocchia della Natività di Maria, non lontana dalla basilica di Superga.

Là pure riceveva una letterina del T. Borel, che ci aveva preceduti, nella quale diceva: «Venga tranquillo coi cari nostri giovani, la minestra, la pietanza, il vino sono preparati». Io montai sopra quel cavallo e poi lessi ad alta voce quella lettera. Tutti si raccolsero intorno al cavallo e, udita quella lettura, unanimi si posero a fare applausi ed ovazioni gridando, schiamazzando e cantando. Gli uni prendevano il cavallo per le orecchie, gli altri per le narici o per la coda, urtando ora la povera bestia, ora chi la cavalcava. Il mansueto animale tutto sopportava in pace dando segni di pazienza maggiore di quella che avrebbe dato chi era portato sul dorso.

In mezzo a que' trambusti avevamo la nostra musica che consisteva in un tamburo, in una tromba ed in una chitarra. Era tutto disaccordo, ma servendo a fare rumore colle voci dei giovani bastava per fare una maravigliosa armonia.

Stanchi dal ridere, scherzare, cantare e direi di urlare, giungemmo al luogo stabilito. I giovanetti, perché sudati, si raccolsero nel cortile del santuario e furono tosto provveduti di quanto era necessario pel vorace loro appetito. Dopo alquanto riposo li radunai tutti e loro raccontai minutamente la storia maravigliosa di quella basilica, delle tombe reali che esistono sotto alla medesima, e dell'Accademia ecclesiastica"' ivi eretta da Carlo Alberto120 e promossa dai vescovi degli Stati Sardi.

Il T. Guglielmo Audisio,121 che ne era preside, fece la graziosa spesa di una minestra colla pietanza a tutti gli ospitati.

119 Accademia Ecclesiastica di Superga: centro superiore di studi teologici e canonici riservato a giovani laureati in Teologia e Diritto all'Università di Torino, distinti per ingegno e qualità morali, destinati alla carriera accademica ed ecclesiastica. Fondata nel 1730 da Vittorio Amedeo II, soppressa nel periodo giacobino, venne riaperta dal re Carlo Alberto nel 1834. Era «composta di un protettore che ne fosse capo, di due professori, di cui uno preside, e l'altro vicepreside e di quindici membri [...]. Per esservi ammesso era necessario essere laureato in teologia, o in leggi in una delle università dello stato. I membri attendevano per quattro anni allo studio della teologia morale, della canonica, dell'eloquenza sacra, e della storia ecclesiastica» (CAsAus, Dizionario, XXI, 88-97).

120 Carlo Alberto di Savoia-Carignano (1798-1849), salito al trono nel 1831, aveva portato avanti e ampliato le riforme avviate da Carlo Felice, tra cui quella dei codici e dell'organizzazione economica e commerciale del regno. Dopo il decreto di emancipazione di valdesi ed ebrei, concesse, il 4 marzo 1848, uno Statuto di ispirazione liberale (Statuto fondamentale della Monarchia di Savoia, detto comunemente Statuto albertino), e si mise alla testa del movimento patriottico di unificazione italiana. Il 23 marzo 1849, dopo il fallimento della guerra contro l'Austria, abdicò a favore del figlio, Vittorio Emanuele II. Morì quattro mesi più tardi, il 28 luglio, ad Oporto, dove si era ritirato (cf. la voce di Giuseppe TALAMO, in Dizionario biografico degli italiani, XX, 310-326).

121 Guglielmo Antonio Audisio (1802-1882), teologo e scrittore, preside dell'Accademia Ecclesiastica di Superga fino al 1849, quando, accusato di conservatorismo, fu costretto a lasciare lo Stato e trasferirsi a Roma. Pio IX nel 1850 gli affidò la cattedra di Diritto di natura e delle genti all'Università La Sapienza, insegnamento che tenne fino al 1871. Venne nominato canonico di San Pietro. Gli anni romani furono un periodo fecondo di pubblicazioni, durante il quale aderì al rosminianesimo. Dopo la breccia di Porta Pia ottenne il collocamento a riposo. Un suo libro, in cui sosteneva l'opportunità della conciliazione tra lo Stato italiano e la Chiesa (Della società politica e religiosa rispetto al secolo decimo nono, Firenze, Tip. Cooperativa, 1876), gli attirò la condanna del S. Ufficio, alla quale si sottomise (cf. la voce di Francesco CORVINO, in Dizionario biografico degli italiani, IV, 575-576). Si ricorda una discussione tra don Bosco e l'Audisio, nel gennaio 1870, a proposito dell'opportunità del dogma sull'infallibilità pontificia (cf. MB IX, 799-803).

Il parroco donò vino e frutta. Si concedette lo spazio di un paio d'ore per visitare i locali, di poi ci siamo radunati in chiesa, dove era pure intervenuto molto popolo. Alle 3 pomeridiane ho fatto un breve discorso dal pulpito, dopo cui alcuni più favoriti dalla voce cantarono un Tantum ergo in musica, che per la novità delle voci bianche trasse tutti in ammirazione. Alle sei si fecero salire alcuni globi aerostatici, di poi, tra vivi ringraziamenti a chi ci aveva beneficati, partimmo alla volta di Torino. Il medesimo cantare, ridere, correre e talvolta pregare occupò la nostra via. Giunti in città, di mano in mano che alcuno giungeva al sito più vicino alla propria casa, cessava dalle file e si ritirava in famiglia. Quand'io giunsi al Rifugio aveva ancora con me 7 od 8 giovani dei più robusti che portavano gli attrezzi usati nella giornata.

21. 11 marchese Cavour e sue minacce — Nuovi disturbi per l'Oratorio

Non è a dire quale entusiasmo eccitassero nei giovanetti quelle passeggiate. Affezionati a questa mescolanza di divozione, di trastulli, di passeggiate, ognuno mi diveniva affezionatissimo a segno che non solamente erano ubbidientissimi a' miei comandi, ma erano ansiosi che loro affidassi qualche incumbenza da compiere. Un giorno un carabiniere vedendomi con un cenno di mano ad imporre silenzio ad un quattrocento giovanetti, che saltellavano e schiamazzavano pel prato, si pose ad esclamare: «Se questo prete fosse un generale d'armata, potrebbe combattere contro al più potente esercito del mondo». E veramente l'ubbidienza e l'affezione de' miei allievi andava alla follia. Questo per altro die' cagione a rinnovare la voce che D. Bosco co' suoi figli poteva ad ogni momento eccitare una rivoluzione.

Tale asserzione, che appoggiava sul ridicolo, trovò di nuovo credenza tra le autorità locali e specialmente presso al marchese di Cavour,'" padre dei celebri Camillo'23 e Gustavo,124 allora vicario di città, che era quanto dire capo del potere urbano.'25 Egli adunque mi fece chiamare al palazzo municipale e, tenutomi lungo ragionamento sopra le fole che si spacciavano a mio conto, conchiuse con dirmi: «Mio buon prete, prendete il mio consiglio, lasciate in libertà quei mascalzoni. Essi non daranno che dispiaceri a voi ed alle pubbliche autorità. Io sono assicurato che tali radunanze sono pericolose, e perciò io non posso tollerarle».

— Io, risposi, non ho altra mira, sig. marchese, che migliorare la sorte di questi poveri figli del popolo. Non dimando mezzi pecuniarii ma soltanto un luogo dove poterli raccogliere. Con questo mezzo spero di poter diminuire il numero dei discoli, e di quelli che vanno ad abitare le prigioni.

— V'ingannate, mio buon prete; vi affaticate invano. Io non posso assegnarvi alcuna località ravvisando tali radunanze pericolose; e voi dove prenderete i mezzi per pagare pigioni e sopperire a tante spese che vi cagionano questi vagabondi? Vi ripeto qui che io non posso permettervi tali radunanze.

— I risultati ottenuti, sig. marchese, mi assicurano che non fatico invano. Molti giovanetti totalmente abbandonati furono raccolti, liberati dai pericoli, avviati a qualche mestiere, e le prigioni non furono più loro abitazione. I mezzi materiali finora non mi mancarono, essi sono nelle mani di Dio, il quale talvolta si serve di spregevoli istrumenti per compiere i suoi sublimi disegni.

122 Michele Giuseppe Benso, marchese di Cavour (1781-1850), apparteneva ad una famiglia dell'alta nobiltà piemontese (sulle sue vicende biografiche in periodo napoleonico, cf. Rosario RoMEO, Cavour e il suo tempo, I: 1810-1842, Bari, Laterza, 1971, 21-179). Uomo pratico, si dedicò con successo agli affari. Nel periodo napoleonico fece parte della massoneria, ma con la Restaurazione ritrattò e tornò in seno alla Chiesa. Negli anni Venti fu uno dei decurioni della città di Torino, Direttore della Casa di correzione, membro della Camera di commercio e della Società di Agricoltura. Dal 1835 al 1847 ricoprì la carica di Vicario generale di politica e di polizia per la capitale e i suoi sobborghi (Vicario di Città), col compito di tutelare l'ordine pubblico. In tale veste si occupò di diverse iniziative: illuminazione a gas della città, pavimentazione delle strade, regolamentazione dei mercati e degli esercizi commerciali, sviluppo del piano regolatore. Lasciò l'incarico il 17 giugno 1847 (cf. la voce di Marco GROSSO, in Dizionario biografico degli italiani, XXIII, 144-146).

123 Camillo Paolo Filippo Giulio Benso, conte di Cavour (1810-1861), figlio minore di Michele, uomo d'affari, studioso delle teorie economiche e delle nuove tecniche agrarie, giornalista di indirizzo liberale moderato. Dopo il 1848 emerse come uomo politico innovativo. In qualità di ministro dell'Agricoltura e Commercio (1850) e di Primo Ministro del regno di Sardegna (1852-1860) promosse una linea politica liberista, dando forte impulso alle opere pubbliche e all'industria. Sviluppò una tenace azione diplomatica e politica che portò il Piemonte, attraverso l'alleanza con la Francia e la seconda guerra d'indipendenza contro l'Austria (1859), all'annessione di gran parte della penisola e all'unificazione nazionale. Formò il primo Parlamento nazionale e rese possibile la proclamazione del Regno d'Italia, avvenuta il 17 marzo 1861 (cf. Rosario ROMEO, Cavour e il suo tempo, 3 voll., Roma-Bari, Laterza, 41984).

124 Gustavo Filippo Benso, marchese di Cavour (1806-1864), figlio primogenito di Michele, laureato in legge, studioso di filosofia e pubblicista, attento alle questioni pedagogiche, al tema del pauperismo e della pubblica carità. Ebbe posizioni liberali moderate in politica e vagamente razionalistiche in campo religioso. Con la morte della moglie (1833), ritornò alla religione. Dopo l'incontro con il beato Antonio Rosmini (1836), il cui pensiero rispondeva alla sua aspirazione verso un cristianesimo filosofico razionale, divenne entusiasta propagatore della sua filosofia. Per questo entrò in polemica con Vincenzo Gioberti. Dopo la morte del figlio Augusto nella battaglia di Goito (30 maggio 1848), si chiuse in una solitaria meditazione, isolandosi sempre di più. Fu tra i fondatori del giornale L'Armonia, all'interno del quale ebbe una funzione equilibratrice; si dimise dalla direzione nel maggio 1851, non condividendo la posizione anticostituzionale assunta dal Margotti. Eletto alla Camera dei deputati dalla IV alla VII legislatura nelle file della corrente cattolica conservatrice (cf. la voce di Francesco TRANIELLO, in Dizionario biografico degli italiani, XXIII, 138-144). Estimatore di don Bosco, ne incoraggiò e sostenne l'opera.

125 Sui compiti e gli ampi poteri del Vicario di città, cf. Giurisdizione, autorità e attribuzioni del Vicario sopraintendente generale di politica e polizia, Torino, Tipografia Favale, 1844.

— Abbiate pazienza, ubbiditemi senz'altro, io non posso permettervi tali radunanze.

— Non concedetelo per me, sig. marchese, ma concedetelo pel bene di tanti giovanetti abbandonati, che forse andrebbero a fare trista fine.

— Tacete, io non sono qui per disputare. Questo è un disordine, ed io lo voglio e lo debbo impedire. Non sapete che ogni assembramento è proibito, ove non vi sia legittimo permesso?

— Li miei assembramenti non hanno scopo politico: io insegno il catechismo a' poveri ragazzi e questo faccio col permesso dell'arcivescovo.

— L'arcivescovo è informato di queste cose?

— Ne è pienamente informato, e non ho mai mosso un passo senza il consentimento di lui.

— Ma io non posso permettere questi assembramenti!

— Io credo, sig. marchese, che voi non vorrete proibirmi di fare un catechismo col permesso del mio arcivescovo.

— E se l'arcivescovo vi dicesse di desistere da questa vostra ridicola impresa, non opporreste difficoltà?

— Nissunissima. Ho cominciato ed ho finora continuato col parere del mio superiore ecclesiastico e ad un semplice suo motto sarò tutto a' cenni suoi.

— Andate, parlerò coll'arcivescovo, ma non siate poi ostinato agli ordini suoi, altrimenti mi costringerete a misure severe, che io non vorrei usare.

Ridotte le cose a questo punto, credeva, almeno per qualche tempo, essere lasciato in pace. Ma quale non fu la mia perturbazione quando giunsi a casa e trovai una lettera con cui i fratelli Filippi mi licenziavano dal locale a me pigionato.

— I suoi ragazzi, mi dicevano, calpestando ripetutamente il nostro prato, faranno perdere fino la radice dell'erba. Noi siamo contenti di condonarle la pigione scaduta purché entro a quindici giorni ci dia libero il nostro prato. Maggior dilazione non le possiamo concedere.

Sparsa la voce di tante difficoltà parecchi amici mi andavano dicendo di abbandonare l'inutile impresa, così detta da loro. Altri poi, vedendomi sopra pensiero e sempre circondato da ragazzi, cominciavano a dire che io era venuto pazzo.

Un giorno il teologo Borel, in presenza del sac. Pacchiotti Sebastianoi" e di altri, prese a dirmi così: «Per non esporci a perdere tutto è meglio salvare qualche cosa. Lasciamo in libertà tutti gli attuali giovanetti, riteniamone soltanto una ventina dei più piccoli.

126 Pacchiotti Sebastiano (1806-1885), cappellano delle opere Barolo insieme al teologo Borel e a don Bosco; collaborò attivamente all'Oratorio con catechismi, confessioni, predicazione e l'insegnamento nelle scuole festive e serali.

Mentre continueremo ad istruire costoro nel catechismo, Dio ci aprirà la via e l'opportunità di fare di più». Loro risposi: «Non occorre aspettare altra opportunità il sito è preparato, vi è un cortile spazioso, una casa con molti fanciulli, porticato, chiesa, preti, chierici, tutto ai nostri cenni».

— Ma dove sono queste cose? interruppe il T. Borel.

— Io non so dire dove siano, ma esistono certamente e sono per noi.

Allora il T. Borel, dando in copioso pianto, «Povero D. Bosco, esclamò, gli è dato la volta al cervello». Mi prese per mano, mi baciò e si allontano con D. Pacchiotti, lasciandomi solo nella mia camera.

22. Congedo dal Rifugio — Altra imputazione di pazzia

Le molte cose che andavansi dicendo sul conto di D. Bosco cominciavano ad inquietare la marchesa Barolo, tanto più da che il municipio torinese si mostrava contrario a' miei progetti.

Un giorno, dunque, venuta in mia camera, ella prese a parlarmi così: «Io sono assai contenta delle cure che si prende pei miei istituti. La ringrazio che abbia cotanto lavorato per introdurre in quelli il canto delle laudi sacre, il canto fermo, la musica, l'aritmetica ed anche il sistema metrico».

— Non occorre ringraziamenti: i preti devono lavorare per loro dovere, Dio pagherà tutto e non si parli più di questo.

— Voleva dire, che mi rincresce assai che la moltitudine delle sue occupazioni abbiano alterata la sua sanità. Non è possibile che possa continuare la direzione delle mie opere e quella dei ragazzi abbandonati, tanto più presentemente, che il loro numero è cresciuto fuori misura. Io sono per proporle di fare soltanto quello che è di obbligo suo, cioè direzione dell'Ospedaletto, non più andare nelle carceri, nel Cottolengo e sospendere ogni sollecitudine pei fanciulli. Che ne dice?

— Signora marchesa, Dio mi ha finora aiutato e non mancherà di aiutarmi. Non si inquieti sul da farsi. Tra me, D. Pacchiotti, il T. Borel faremo tutto.

— Ma io non posso più tollerare che ella si ammazzi.1" Tante e così svariate occupazioni da volere o non volere tornano a detrimento della sua sanità e de' miei instituti. E poi, le voci che corrono intorno alla sua sanità mentale; l'opposizione delle autorità locali mi costringono a consigliarla...

— A che, signora marchesa?

— O a lasciare l'opera de' ragazzi, o l'opera del Rifugio. Ci pensi e mi risponderà.

127 Le ragioni della marchesa di Barolo sono illustrate in una lettera al T. Borel, del 18 maggio 1846 (conservata in ASC A101), riportata in appendice a questo volume (documento 4), pp. 210-212.

— La mia risposta è già pensata. Ella ha danaro e con facilità troverà preti quanti ne vuole pe' suoi istituti. De' poveri fanciulli non è così. In questo momento se io mi ritiro, ogni cosa va in fumo, perciò io continuerò a fare parimenti quello che posso pel Rifugio, cesserò dall'impiego regolare e mi darò di proposito alla cura dei fanciulli abbandonati.

— Ma come potrà vivere?

— Dio mi ha sempre aiutato e mi aiuterà anche per l'avvenire.

— Ma ella è rovinata di sanità, la sua testa non la serve più; andrà ad ingolfarsi nei debiti; verrà da me, ed io protesto fin d'ora che non le darò mai un soldo pei suoi ragazzi. Ora accetti il mio consiglio di madre. Io le continuerò lo stipendio, e l'aumenterò se vuole.128 Ella vada a passare uno, tre, cinque anni in qualche sito, si riposi, quando sia ben ristabilito, ritorni al Rifugio e sarà sempre il benvenuto. Altrimenti mi mette nella spiacevole necessità di congedarlo da' miei istituti. Ci pensi seriamente.

— Ci ho già pensato, signora marchesa. La mia vita è consacrata al bene della gioventù. La ringrazio delle profferte che mi fa, ma non posso allontanarmi dalla via che la divina Provvidenza mi ha tracciato.

— Dunque preferisce i suoi vagabondi ai miei istituti? Se è così, resta congedato in questo momento. Oggi stesso provvederò chi la deve rimpiazzare.

Le feci vedere che un diffidamento così precipitoso avrebbe fatto supporre motivi non onorevoli né a me né a lei: era meglio agire con calma, e conservare tra noi quella stessa carità, con cui dovremo poi parlare ambidue al tribunale del Signore.

— Dunque, conchiuse, le darò tre mesi, dopo cui lascerà ad altri la direzione del mio Ospedaletto.

Accettai il diffidamento, abbandonandomi a quello che Dio avrebbe disposto di me.

Intanto prevaleva ognor più la voce che D. Bosco era divenuto pazzo. I miei amici si mostravano dolenti; altri ridevano; ma tutti si tenevano lontani da me. L'arcivescovo lasciava fare; D. Cafasso consigliava di temporeggiare, il T. Borel taceva. Così tutti i miei collaboratori mi lasciarono solo in mezzo a circa quattrocento ragazzi.

In quell'occasione alcune rispettabili persone vollero prendersi cura della mia sanità. «Questo D. Bosco, diceva uno di loro, ha delle fissazioni che lo condurranno inevitabilmente alla pazzia. Forse una cura gli farà bene. Conduciamolo al manicomio e colà, coi dovuti riguardi, si farà quanto la prudenza suggerirà». Furono incaricati due di venirmi a prendere con una carrozza e condurmi al manicomio.

128 Secondo G. B. Lemoyne lo stipendio percepito da don Bosco come cappellano dell'Ospedaletto era di 600 lire annuali (cf. MB II, 226).

I due messaggeri mi salutarono cortesemente, di poi chiestemi notizie della sanità, dell'Oratorio, del futuro edilizio e chiesa, trassero in fine un profondo sospiro e proruppero in queste parole: «È vero». Dopo ciò mi invitarono di recarmi seco loro a fare una passeggiata. «Un po' di aria ti farà bene; vieni; abbiamo appunto la carrozza, andremo insieme ed avremo tempo a discorrere».

Mi accorsi allora del giuoco che mi volevano fare, e senza mostrarmene accorto, li accompagnai alla vettura, insistetti che essi entrassero primi a prendere posto nella carrozza, e invece di entrarci anch'io, ne chiusi lo sportello in fretta dicendo al cocchiere: «Andate con tutta celerità al manicomio, dove questi due ecclesiastici sono aspettati».

23. Trasferimento nell'attuale Oratorio di S. Francesco di Sales in Valdocco

Mentre succedevansi le cose sopramentovate, era venuta l'ultima domenica, in cui mi era ancora permesso di tenere l'Oratorio nel prato (15 marzo 1846).129 Io taceva tutto, ma tutti sapevano i miei imbarazzi e le mie spine. In sulla sera di quel giorno rimirai la moltitudine di fanciulli, che si trastullavano; e considerava la copiosa messe che si andava preparando pel sacro ministero, per cui era solo di operai, sfinito di forze, di sanità male andata, senza sapere dove avrei in avvenire potuto radunare i miei ragazzi. Mi sentii vivamente commosso.

Ritiratomi pertanto in disparte, mi posi a passeggiare da solo e, forse per la prima volta, mi sentii commosso fino alle lagrime. Passeggiando e alzando gli occhi al cielo, «Mio Dio, esclamai, perché non mi fate palese il luogo in cui volete che io raccolga questi fanciulli? O fatemelo conoscere o ditemi quello che debbo fare».

Terminava quelle espressioni, quando giunge un cotale, di nome Pancrazio

Soave"° che balbettando mi dice: «È vero che cerca un sito per fare un laboratorio?».

— Non un laboratorio, ma un Oratorio.

— Non so se sia lo stesso Oratorio o laboratorio, ma un sito c'è, lo venga a vedere. È di proprietà del sig. Giuseppe Pinardi,131 onesta persona. Venga e farà un buon contratto.

129 Il fatto qui descritto avvenne, probabilmente, la domenica precedente, 8 marzo, come si può dedurre da una lettera di don Bosco al Vicario di Città, in data 13 marzo 1846 (cf. Bosco, Epistolario [Motto], I, 66-67), riportata in appendice a questo volume (documento 3), pp. 208-210.

130 Pancrazio Soave: commerciante originario di Verolengo (comune a circa 34 km da Torino) che, dal 10 novembre 1845, affittava la casa Pinardi (cf. GIRAUDI, L'Oratorio di don Bosco, 66).

131 Dovrebbe dire Francesco Pinardi. Il Pinardi, immigrato a Torino da Arcisate (Varese), che in quel tempo faceva parte del Regno Lombardo-Veneto, aveva acquistato la casa «il 14 luglio 1845 (Atto rogato Giovanni Pio De Amicis), dai fratelli Giovanni e Carlo Filippi per la somma di lire 14 mila [...]; il 10 novembre dello medesimo anno la cedeva in affitto al signor Pancrazio Soave», ad esclusione della «tettoia che si sta costruendo dietro detta casa, nonché il terreno esistente vanti [davanti] la medesima» (GIRAUDI, L'Oratorio di don Bosco, 65-66; cf. Pietro STELLA, Don Bosco nella storia economica e sociale (1815-1870), Roma, LAS, 1980. 75).

Giunse opportuno in quel momento un fedele mio collega di seminario, D. Merla Pietro, fondatore dell'opera pia nota sotto al nome di Famiglia di S. Pietro.132 Egli si occupava con zelo nel sacro ministero, ed aveva iniziato il suo istituto ad oggetto di provvedere al triste abbandono in cui si trovano tante zitelle o donne sgraziate, che, dopo aver scontata la pena del carcere, per lo più sono aborrite dalla società degli onesti, a segno che loro riesce pressoché impossibile trovare chi loro voglia dare pane o lavoro. Quando a quel degno sacerdote rimaneva qualche momento di tempo, correva con piacere in aiuto del suo amico, che per lo più si trovava solo in mezzo ad una moltitudine di ragazzi.

— Che c'è, disse appena mi vide, non ti vidi mai così malinconico. Ti colse qualche disgrazia?

— Disgrazia no, ma un grande imbarazzo. Oggi è l'ultimo giorno, che mi è permesso dimorare in questo prato. Siamo alla sera; rimangono due [ore] di giorno; debbo dire ai miei figli dove si raduneranno un'altra domenica e non so. Avvi qui un amico, che mi dice esservi un locale forse conveniente. Vieni, assisti un momento la ricreazione; io vado a vedere e presto sarò di nuovo qua.

Giunto al luogo indicato, vidi una casupola di un solo piano colla scala e balcone di legno tarlato, attorniata da orti, prati, campi. Io voleva salire la scala, ma il Pinardi ed il Pancrazio, «No, mi dissero. Il sito destinato per lei è qui di dietro». Era una tettoia prolungata, che da un lato appoggiava al muro, dall'altro terminava coll'altezza di circa un metro da terra. Poteva per necessità servire a magazzino o per legnaia e non di più. Per entrarci dentro ho dovuto tenere chino il capo a fine di non urtare nel solaio.'"

— Non mi serve, perché troppo bassa, dissi.

— Io la farò aggiustare come vuole, ripigliò graziosamente il Pinardi. Io scaverò, farò scalini, farò altro pavimento; ma desidero tanto che il suo laboratorio venga stabilito qui.

— Non un laboratorio, ma un Oratorio, una piccola chiesa per radunare dei giovanetti.

— Più volentieri ancora. Mi presterò assai di buon grado. Facciamo contratto. Sono anch'io cantore, verrò ad aiutarla; porterò due sedie, una per me l'altra per mia moglie. E poi in mia casa ho una lampana, la porterò ancora qua.

132 Pietro Merla (1815-1855), compagno di seminario di don Bosco e suo grande amico; in quell'anno era cappellano delle carceri femminili. Due anni più tardi fonderà il Ritiro di S. Pietro Apostolo (detto anche Famiglia di S. Pietro) destinato all'accoglienza delle donne dimesse dal carcere e al loro inserimento nella società (Emilio GARBO, L'(Istituto S. Pietro» ... Cenni storici dal 1854 al 1966, Pinerolo, Tipografia Cottolengo, 1966, 7-30).

133 Come risulta dal contratto d'affitto tra Pinardi e Soave, la tettoia fu costruita nel novembre 1845.

Quel dabben uomo sembrava che vaneggiasse per la contentezza di avere una chiesa in sua casa.

— Vi ringrazio, o mio buon amico, della vostra carità e del vostro buon volere. Accetto queste belle offerte. Se voi mi potete abbassare il pavimento non meno di un piede (cm 50) io l'accetto, ma quanto dimandate?

— Trecento franchi; me ne vogliono dare di più, ma preferisco lei, che vuole destinare questo locale al pubblico vantaggio ed alla religione.

— Ve ne do trecentoventi, purché mi diate anche la striscia di sito che lo circonda per la ricreazione dei giovani; purché mi promettiate che domenica prossima io possa già venir qua co' miei ragazzi.

— Inteso, patto conchiuso. Venga pure. Tutto sarà ultimato.'34

Non cercai di più. Corsi tosto da' miei giovani; li raccolsi intorno a me e ad alta voce mi posi a gridare: «Coraggio, miei figli, abbiamo un Oratorio più stabile del passato; avremo chiesa, sacristia, camere per le scuole, sito per la ricreazione. Domenica, domenica andremo nel novello Oratorio che è colà in casa Pinardi». E loro additava il luogo.

Quelle parole furono accolte col più vivo entusiasmo. Chi faceva corse o salti di gioia; chi stava come immobile; chi gridava con voci e sarei per dire con urli e strilli. Ma commossi come chi prova un gran piacere e non sa come esprimerlo, trasportati da profonda gratitudine e per ringraziare la S. Vergine che aveva accolte ed esaudite le nostre preghiere, che in quel mattino stesso avevamo fatto alla Madonna di Campagna, ci siamo inginocchiati per l'ultima volta in quel prato, ed abbiamo recitato il SS. Rosario dopo cui ognuno si ritirò a casa sua. Così veniva dato l'ultimo saluto a quel luogo, che ciascuno aveva amato per necessità, ma che, per la speranza di averne un altro migliore, abbandonava senza rincrescimento.

La domenica seguente, solennità di Pasqua, nel giorno 12 di aprile, si trasportarono colà tutti gli attrezzi di chiesa e di ricreazione, e andammo a prendere possesso della nuova località.'"

134 II contratto d'affitto, datato 1° aprile 1846 e firmato da Francesco Pinardi e dal T. Giovanni Borel, prevedeva una pigione annuale di 300 lire (cf. GIRAUDI, L'Oratorio di don Bosco, 67-70).

135 Si veda la lettera del 13 marzo 1846, con la quale don Bosco informa il Vicario di Città sulla nuova sede dell'Oratorio, riportata in appendice a questo volume (documento 3), pp. 208-210.