Don Bosco Risorse

Annali della Società Salesiana 1841-1888 (vol._1)

ANNALI DELLA SOCIETÀ SALESIANA

Sac. EUGENIO CERIA


DALLE ORIGINI ALLA MORTE DI S. GIOVANNI BOSCO (1841-1888)

Ristampa extra-commerciale
a cura Editrice SDB
Vie della Pisana, 1111
C. P. 9092 - 00100 Roma-Aurelio

DEDICO QUESTO LAVORO
AL QUARTO SUCCESSORE DI S. GIOVANNI BOSCO
DON PIETRO RICALDONE
NEL DESIDERIO CHE SIA OPPORTUNO CONTRIBUTOALLA CELEBRAZIONE
DEL PRIMO CENTENARIO SALESIANO
ANNALI DELLA SOCIETA SALESIANA I. 1841-1888

PREMESSA

Il titolo dì Annali indica il metodo cronologico seguito nel presente lavoro. Anzichè procedere a periodi più o meno artificiosamente divisati, vi si batte la via maestra, segnata dal corso degli anni; il qual corso può prendere inizio dal 1841, come faranno palese i fatti e una categorica affermazione di Don Bosco (i). E ben vero però che, chi ama rappresentarsi in" fasi successive l'evolversi di complessi avvenimenti storici, non durerà fatica a trovare qui i limiti entro cui racchiudere varie serie di fatti contrassegnati da caratteri omogenei.

(i) Riportata sul principio del capo XI.

La specificazione del titolo generico ha semplicemente Società di S. Francesco di Sales senza il qualificativo di Pia. Perchè si dica Società anzichè Congregazione, apparirà nel seguito della storia. Quanto al Pia si deve osservare anzitutto che non compare mai nelle Regole, neanche nelle primissime redazioni, nè si trova generalmente nei documenti ufficiali. Don Bosco amava usarlo parlando o scrivendo, affinchè il nome di Società non desse ombra ai malevoli e facesse intendere ai buoni di che natura fosse il suo Istituto. Era opportuno conservarlo sempre? Il Capitolo Superiore giudicò che quell'appellativo rimanesse solamente alla Pia Unione dei Cooperatori Salesiani, non vedendo più la necessità di perpetuarlo nei riguardi della Società Salesiana; quindi dal 1926 lo soppresse ne' suoi Atti e negli Annuari (i).


( i) Gli Annuari, che cominciano dal 587o. portano il titolo di *Società di S. Francesco di Sales o. Dal 5887 al 5924, nell'interno, il Catalogo delle Case e dei Soci reca l'intestazione: a Elenco generale della Pia Società di S. Francesco di Sales.. Nel 1925 soltanto al gruppo del Capitolo Superiore 8 premesso a Capitolo Superiore della Pia Società di S. Francesco di Sales a; ma fu effetto di dimenticanza. Dall'anno seguente il " Pia " sparisce del tutto.

La nostra narrazione non oltrepasserà gli anni di vita del Santo Fondatore. Egli lasciò la Società perfettamente organizzata, sicchè null'altro restava al suo successore se non svilupparne le potenzialità in tutte le direzioni non solo tracciate, ma anche, quali più quali meno, già in corso di attuazione. Don Rua infatti non attuò cosa, che non fosse già contenuta almeno in germe nell'eredità trasmessagli da Don Bosco.

Credo inutile premettere una bibliografia; perchè, quanti scrissero finora di Don Bosco, attinsero o alle Memorie Biografiche, se poterono consultarle, o ad opere ricalcate su di quelle. Dove avessi incontrato alcun che di nuovo, non ho mai mancato di dare a ognuno il suo. Se cose d'archivio furono pubblicate, debbo dire che tutto passò anche per le mie mani, avendo io ogni agio di consultare liberamente l'archivio salesiano per attingere informazioni, controllare notizie ed anche, occorrendo, trar fuori dell'inedito, in quello naturalmente che abbia stretto rapporto con la storia della Società.

Poichè i lettori non avranno qui a lamentare un inconveniente, nel quale incorrono talora alcuni, trattando argomenti che si riferiscono a Don Bosco. Ci accade infatti di vedere a volte con quanta facilità, perduta di vista la linea del proprio disegno, si divaghi in escursioni biografiche, le quali non son necessarie, benchè servano a rendere più attraente la lettura. Nel caso nostro la tentazione era più frequente e più forte che mai. La ragione è che la vita di Don Bosco e la storia della Società si compenetrano a segno da rendere spesso difficile sceverare fra loro i relativi elementi, come ognuno ha potuto vedere leggendo le Memorie Biografiche. Qui dunque si troverà il materiale della nostra storia distinto dal resto e interamente rielaborato.

Non bisognava tardare più oltre a fare un primo tentativo di storia della nostra Società. Scompaiono gli ultimi contemporanei del Santo, nei quali concorrono tre preziosi vantaggi: aver avuto la sorte di vedere e di udire il gran luminare del secolo XIX; aver avvicinato i fortunati, che non solo dovettero a lui la loro formazione salesiana, ma vennero dal medesimo assunti al governo generale della Società; essere stati testimoni del come si passavano le cose nostre in tempi non troppo lontani dalle origini. Il lasciare che quei tempi si allontanassero di più senza che se ne ritraessero e fissassero le note caratteristiche sotto gli occhi di superstiti, i quali vi erano vissuti più o meno da presso, sarebbe stato un rendere assai più malagevole il compito di chiunque in seguito avesse voluto o dovuto risalire alle sorgenti, desideroso di obbedire al buon proverbio che chi vuole acqua chiara, vada alla fonte.

E poi un ideale di chi scrive storie dev'essere di avvicinare nella maggior misura possibile gli uomini e le cose che furono, a coloro che saranno, secondo l'avvertimento di un celebre storico, il quale dice delle storie che bisogna «scriverle in modo che così avesse tutte le cose innanzi agli occhi chi nasce in una età lontana come coloro che sono stati presenti, che è proprio fine della storia» (i). A raggiungere tale intento è evidentemente più atto chi men lontano sia vissuto dai tempi e dai fatti, di cui prende a narrare.

(i) GUICCIARD1NI, Ricordi poi. e civ., CX1,111.

Ho accennato ai collaboratori più immediati del Santo. Nelle origini di ogni Congregazione religiosa si osservano due fatti. Il Fondatore, favorito da grande copia di doni soprannaturali, viene operando la propria santificazione nella maniera corrispondente alla natura della fondazione a cui si accinge, e intanto infonde il suo spirito nello stuolo dei primi discepoli, che poi lo dovranno trasmettere alle prossime generazioni. « Lo spirito del discepolo, scrive S. Giovanni della Croce (i), si modella segretamente su quello del suo padre spirituale». Donde si vede l'importanza di conoscere questi satelliti che riflettono variamente la luce del toro astro; in questa parte però essi s'affacciano quasi solo all'orizzonte, ma rifulgeranno nel periodo seguente. Abbiamo, creduto opportuno tramandarne anche le sembianze, riproducendo i ritratti, di tutti coloro che furono membri del Capitolo Superiore, vivente Don Bosco.

(i) Salda del Molle Carmelo, II, 18, 5.

Esprimo qui infine la mia gratitudine all'Economo Generale Don Giraudi, che seguì con particolare interesse il mio lavoro e mi fu largo d'incoraggiamenti e di consigli.

Torino, 31 gennaio 1941.

ANNALI DELLA SOCIETA SALESIANA I. 1841-1888

CAPO I L'idea della Società.

Quando S. Giovanni Bosco vagiva in culla, i religiosi delle varie denominazioni nel Piemonte e nelle altre parti d'Italia facevano quello che il Servo di Dio avrebbe detto un giorno col suo piacevole modo di esprimersi. Disse egli nel 188o che i religiosi sogliono fare come i passeri adunati nell'aia a beccare il grano lasciatovi dai trebbiatori. Mentre se ne stan là tranquilli, un monello li spaventa ed essi volano via tutti; ma dopo qualche tempo, prima uno, poi un altro, poi parecchi, poi tutti quanti ritornano là a fare indisturbati quello che facevano poco innanzi. Era ciò che avveniva intorno al 1815. I religiosi, dispersi dal turbine napoleonico nel 1802, rientravano a poco a poco nelle loro antiche residenze, non esclusi i Gesuiti, i quali venivano anch'essi ristabiliti nel 1814 da Pio VII. Nel Piemonte Vittorio Emanuele I fu il Sovrano che più d'ogni altro si affrettò a richiamare ne' suoi Stati le famiglie religiose; anzi la capitale piemontese vedeva sorgere in quegli stessi anni fra le sue mura due novelle Istituzioni, la Congregazione degli Oblati di Maria per opera specialmente dell'Abate Lanteri e la prodigiosa Piccola Casa della Divina Provvidenza, detta dal nome del suo santo fondatore " il Cottolengo ", che nel suo seno racchiude una costellazione di religiose famiglie, dedite quali alla vita attiva, quali alla contemplativa. Orbene questa mirabile Provvidenza nel pargolo di Murialdo (i) preparava al Piemonte il creatore di una delle maggiori Istituzioni religiose che la Chiesa abbia avuto nei secoli, e questo allorchè novellamente le Congregazioni, fatte segno alle ire dei nemici di Dio, erano disciolte con leggi tali che nella mente dei legislatori avrebbero dovuto rendere impossibile il rinascere delle antiche e il nascerne di nuove.

(i) Poiché Murialdo era frazione di Castelnuovo d'Asti, si può dire che Don Bosco apparteneva a questo Comune. Perciò appunto nell'anno della Canonizzazione Castelnuovo d'Asti diventò Castelnuovo Don Bosco. Ora si fanno voti che sia intitolato a Don Bosco anche il colle dei Becchi, dov'egli ebbe I natali.

Per gli Istituti religiosi, siano essi Ordini o Congregazioni, si avvera quello che Giobbe dice della pianta, la quale, anche se tagliata, ritiene promessa di vita, sicchè a suo tempo rimette di bel nuovo, tornando a gettare i suoi rampolli. Lignum habet sport; si praerisnm fuerit, virescit et rami eius pullularti (i). La loro esistenza risponde a un triplice bisogno: individuale, ecclesiastico, sociale. Questi bisogni, sentiti fin da principio, ebbero soddisfacimento non appena il sole della libertà risplendette stilla Chiesa; allora infatti cominciarono a sorgere e a dilatarsi i cenobi o società di vita comune, i cui membri, oltre ai precetti generali, si obbligavano a osservare anche i consigli evangelici, facendo i voti di obbedienza, dí castità e di povertà. Bisogno individuale, dicevo: nella Chiesa vi furono, vi sono e vi saranno sempre anime che, schive del mondo e assetate di Dio, .cercano dove si schiuda loro un luogo di espiazione, un asilo dì pace, una scuola di santità, una palestra di apostolato: tutte cose che trovano riunite in comunità viventi sotto regole, dettate da santi fondatori e approvate dall'autorità gerarchica. Bisogno ecclesiastico: il clero secolare è l'organismo vitale della Chiesa docente, organismo le cui parti esplicano le loro funzioni in determinate sfere di attività e in circoscritte zone locali; ma alla Chiesa occorrono pure ausiliari volanti, organizzati e specializzati, che diano mano forte nell'opera della predicazione, negli svariati rami d'insegnamento, nella conversione degli infedeli, nell'estirpazione delle eresie; queste milizie mobili vengono appunto allestite dagli Ordini e dalle Congregazioni religiose. Bisogno sociale: spetta pure alla Chiesa l'esercizio della carità su vasta scala, verso tutto il corpo sociale, mediante specialmente la cura degli infermi, degli orfani, dei derelitti d'ogni specie; al che si prestano in mille modi sotto la sua dipendenza i religiosi d'ambo i sessi. Cosicchè la vita religiosa ha le sue radici nel cuore stesso della Chiesa, donde trae alimento perenne. Bbbero un bel levarsi di tempo in tempo ostili potenze a mortificare tale vita, non sono però mai riuscite a soffocarla: bastò infatti un raggio di sole perchè rigermogliasse, rifiorisse e ridonasse i suoi frutti, proprio come le piante dopo le brume invernali. Inoltre, ogni secolo, come rinnovava il mondo e creava necessità nuove, così novelle fondazioni religiose venivano in aiuto della Chiesa, che le benediceva e le mandava incontro alle nuove esigenze. Ora, dal secolo XIX a oggi, la più cospicua di quante ne spuntarono, è, possiamo e dobbiamo dirlo senza iattanza, ma con umile certezza, la Società Salesiana.

(i) Giobber, XIV, 7.

Allorchè dunque principiava quell'agitato periodo della vita italiana, il nostro Santo, chiudendo nel 1845 il penultimo capo della sua Storia Ecclesiastica con un cenno sulle Congregazioni religiose approvate da Leone XII e da Gregorio XVI nella prima metà del secolo XIX, scriveva: «Dopo la caduta di Napoleone I i religiosi poterono ritornare alle antiche loro dimore e lavorare di nuovo nel campo evangelico e nelle missioni straniere. Siccome per altro alcuni degli Ordini antichi non poterono più rialzarsi con quel vigore che già godevano una volta, così Iddio suscitò altri Ordini e altre Congregazioni, che in parte tenessero il loro posto e in parte soddisfacessero ai bisogni, ai quali quelli non potevano soddisfare ». Nello scrivere queste righe pensava già Don Bosco a un non lontano avvenire, in cui egli pure avrebbe dato origine a una di tali Congregazioni novelle, anzi alla più importante di tutte, sorta per colmare i vuoti lasciati dalle soppressioni napoleoniche e rinnovati dai rivolgimenti politici italiàni intorno alla metà del secolo che fu suo?
Che la Provvidenza fosse venuta preparando da lunga data in Giovanni Bosco il creatore e organizzatore della grande famiglia religiosa denominata da S. Francesco di Sales, è un fatto che non si può mettere in dubbio. Le vicende della sua vita, guidate come da mano invisibile, ci appaiono oggi preordinate all'esecuzione di un disegno, che Dio teneva riposto nel segreto del suo consiglio; inoltre il succedersi di quelle vicende era intercalato da non infrequenti manifestazioni piene di mistero e annunciatrici di eventi, dei quali Don Bosco sarebbe stato strumento per la gloria di Dio e per il bene delle anime in tempi per la Chiesa oltremodo procellosi. Di siffatte manifestazioni, pur senz'afferrarne tutto il significato, egli portava continuamente scolpito nella memoria il ricordo; ma solo di mano in mano che le cose si venivano attuando, riusciva a comprenderne distintamente il valore ed a misurarne tutta la portata. Nondimeno nel corso delle realizzazioni, insorgendo gravi difficoltà o producendosi forti ostacoli, il rammentare quei segni precursori bastava a infondergli coraggio ed a sostenerne la perseveranza. Veramente da ripetute sue affermazioni sembrerebbe a prima vista potersi dedurre che ogni cosa gli fosse palese in antecedenza, sicchè poco o nulla a lui rimanesse da fare per escogitare piani e metterli ad effetto; ma in realtà non fu cosi. In quelle sue asserzioni posi evention egli, partendo dal punto, in cui i misteriosi vaticini s'illuminavano dai fatti, intendeva nascondere se stesso, rilevando come il tutto fosse già previsto e predisposto; ma non per questo noi dobbiamo pensare che nel periodo esecutivo il Santo possedesse già la nozione precisa dei mezzi da usare per raggiungere dati scopi. Del resto egli stesso confessava che non soleva fidarsi dei sogni: indizio evidente che, operando, non pigliava norma da quelli, ma metteva in opera le native risorse dell'ingegno, ascoltava i dettami dell'umana prudenza e opponeva alle forze avverse una costanza talora eroica. Insomma, ebbe lampi in cui intuì la mèta finale, ma toccò a lui tracciami il cammino, al termine del quale salutò il compimento dell'opera grandiosa che la Provvidenza gli aveva affidata.

Giovanni Bosco, fanciullo e adolescente, intravvede quale debba essere la sua missione nella vita: dedicarsi tutto alla salvezza della gioventù, specialmente di quella povera e abbandonata. Mosso da interiore impulso, previene gli anni. Umile contadinello non ancora trilustre, raccoglie intorno a sè i ragazzi della
borgata di Moncucco e con la benedizione del loro pastore attende a catechizzarli. Semplice studente di ginnasio, esercita fra le scolaresche chieresi un apostolato, che è senza esempio. Seminarista, attrae a sè durante le lunghe vacanze i figli degli agricoltori dalle terre dei dintorni, li dirozza e li affeziona alle sante pratiche della pietà cristiana. Neosacerdote, va per Torino in cerca dei monelli, che crescono al mal fare nelle strade e nelle piazze; ma qui dà alla sua azione saltuaria una forma organica e duratura, quella dell'oratorio festivo, ponendo così la prima cellula, da cui si svilupperà un complesso gigantesco di opere intese a procurare sotto molteplici aspetti il bene della Chiesa e della civile società secondo le esigenze dei tempi moderni.

Lavorava da circa tre anni in ristretta cerchia, quando un nuovo lembo di orizzonte si dischiuse al suo sguardo. A centinaia e centinaia gli si affollavano intorno i monelli della capitale piemontese. Fino a un certo punto egli era pressoché bastato a se stesso. E vero che aiutanti secondari od occasionali gli prestavano mano nel disciplinare e istruire tanta moltitudine; ma gravava sulle sue spalle il peso maggiore della fatica e della responsabilità, sicché nel 1844 cominciò a sentirsi inferiore al bisogno: ci volevano ausiliari fissi, addestrati e bene affiatati. Questo pensiero lo angustiava forte. La sera che precedeva la seconda domenica di ottobre, alla vigilia di riaffrontare l'immane lavoro, andò a riposo con il cuore inquieto. Un sogno gli occupò tutta la notte. Parevagli dì trovarsi in mezzo a una moltitudine stragrande di be.tie: lupi, capre, capretti, agnelli, pecore, montoni, cani, uccelli. Facevano un casa del diavolo, che lo riempi di spavento e voleva fuggire. Ma una Signora, vestita da pastorella, gl'impose di fermarsi. Quando proprio non ne poteva più, vide parecchie novità, fra le altre i quattro quinti di quegli animali diventati agnelli e tosto sopraggiungere pastore% per custodirli. Respirò; ma fu per poco, giacché in breve questi ultimi lo abbandonarono tutti. Nuova metamorfosi: molti agnelli si cambiarono in pastorelli, dividendosi con lui le cure dell'immenso e crescente gregge. Poi ecco quei pastorelli staccarsi a gruppi e dirigersi altrove per raccogliere altri animali e guidarli in altri ovili. « Allora ne compresi poco il significato » e i poca fede ci prestava », scrisse trent'anni dopo nelle sue Memorie; tuttavia gli entrò in cuore una maggior fiducia nell'avvenire.

Con l'andare del tempo lo svolgersi delle cose gli diede la chiave dell'enigma. L'esperienza gl'insegnò che per avere buoni e costanti collaboratori se li doveva formare, cavandoli fuori da' suoi stessi ragazzi e legandoli a sè prima con l'affetto e poi con qualche cosa d'altro. Questo qualche cosa d'altro gli venne indicato appresso simbolicamente dalla Signora dei sogni, quando, messaglisi di nuovo accanto fra il tumultuare delle turbe giovanili, gli consegnò un nastrino bianco su cui si leggeva la parola OBBEDIENZA, e gli disse che per impedire le diserzioni, stringesse con quel nastro la fronte a giovani prescelti. Era in ciò adombrata l'idea della Congregazione; ma prima che tale idea balenasse nitida alla sua mente ed egli intraprendesse a darle corpo, lunghe e dure prove lo attendevano ancora.

Sogni confortatori si rinnovavano. Fra il 1847 e il 1856 tre volte se ne ripetè uno destinato a ritemprargli l'animo col mostrare che la sequela delle disdette e delle contrarietà avrebbero avuto lieto fine. Un pergolato di rose gli si prolungava a vista d'occhio dinanzi. Rosai fioriti da ambo i lati, volta di rose in alto, rose a profusione sul suolo. La solita Signora gl'ingiunse di togliersi le scarpe e dì andare avanti: quella essere la sua strada. Ci si mise ben volentieri a pie' nudi. Ma ahi! spine acutissime si celavano sotto le rose e gli facevano sanguinare le piante. Allora la guida gli ordinò di mettersi buone scarpe. Calzatosi e ripreso il cammino, ecco il pergolato restringersi ed abbassarsi, in modo che i rami recanti le rose lo toccavano di qua, di là, di sopra. Ma ogni rosa nascondeva le sue spine, e queste nei contatti inevitabili gli trafiggevano mani, gambe, faccia, collo, fianchi. Spasimava; eppure, stimolato dalla Signora, si sforzava di proseguire. I moltissimi che lo osservavano da lungi e non vedevano, andavan dicendo: — Don Bosco cammina sempre sulle rose. — Intanto chiamava chierici, preti, laici a venirgli appresso. Quelli obbedivano festanti; ma alle prime punture, credendosi traditi, tornavano indietro. Nel suo abbandono si querelava, rammaricandosi di non poterla durare a percorrere così da solo una via tanto dolorosa. E ben presto fu consolato. lin novello stuolo accorse: di tratto in tratto qualcuno si perdeva d'animo e si ritraeva, ma i più si spinsero con luí fino al fondo. Or ecco levarsi un fresco venticello, che col suo carezzevole alitare guarisce di botto le ferite. Quindi spunta un esercito immenso di giovani e quei che hanno seguito Don Bosco per l'aspro cammino si mostrano pronti a lavorare sotto i suoi ordini. La Signora al ripetersi del sogno gli spiegava ora una cosa ora l'altra; la sostanza era che attraverso a molte tribolazioni egli sarebbe pervenuto ad avere buon numero di collaboratori, stretti intorno a lui per dargli di braccio nell'opera intrapresa, aiutandolo animosamente a sostenerla e a dilatarla.

Nei primordi dell'opera vi furono davvero anni critici per Don Bosco, massime il 1848 e il x851. I suoi aiutanti, non paghi di lasciarlo in asso, gli si levarono contro, movendogli una guerra spietata. Erano gli amari frutti di un'incomprensione spiegabile in parte per le ardenti passioni politiche, a cui si abbandonavano anche membri del clero, in parte per la novità dei metodi inaugurati dal Servo di Dio. Tuttavia non ogni male venne per nuocere. Questi fatti dolorosi confermavano ognor più Don Bosco nella persuasione che, se non voleva costruire sull'arena, gli bisognava non essere alla mercé di nessuno, ma fare da se, svolgendo liberamente iniziative sue mediante personale proprio. Al primo affacciarsi di tale idea aveva pensato che per ottenere l'intento gli giovasse ascriversi a un Istituto religioso, che, prendendolo sotto la sua egida, gli permettesse libertà di azione nel campo giovanile e gli assegnasse confratelli che stessero alle sue dipendenze e s'imbevessero del suo spirito. Aveva dunque studiato se e dove esistesse un tale Istituto, all'ombra del quale potesse esplicare la missione avuta dal cielo; ma le sue ricerche erano state senza frutto. Allora fu che decise di procacciarsi giovani di buone speranze e capaci di ricevere da lui una formazione che li rendesse atti a divenire gradatamente suoi collaboratori, dividendo interamente con lui la vita.

Dura e lunga si prospettava la via, ma era l'unica. Veramente qualche tentativo di questo genere l'aveva già fatto, quando dimorava ancora nel Convitto Ecclesiastico; ma con esito scoraggiante, perchè, non appena i prescelti, grazie a' suoi aiuti negli studi, si sentivano in condizione di poter entrare nel seminario, gli voltavano le spalle. Queste delusioni Io indussero poco dopo a cambiare tattica. Frequentavano l'Oratorio festivo tre giovanotti e un quarto dimorava nell'ospizio da lui fondato, applicati a lavori manuali, ma adorni di doti, che li mostravano atti a entrare nello stato ecclesiastico. Si chiamavano Giuseppe Buzzetti, Carlo Gastini, Giacomo Bellia, Felice Reviglio. Nel luglio del £849, chiamatili a sè, disse loro paternamente: — Voi vedete quanti giovani vengono all'Oratorio. Ne verranno ancora di più. Ora io ho bisogno di trovare fra essi chi voglia prepararsi ad aiutarmi. Piacerebbe a voi divenire miei aiutanti? Io comincerei a farvi un po' di scuola elementare, poi v'insegnerò un po' di latino e, se Dio vorrà, un giorno sarete preti. — Risposero tutti con entusiasmo di si. Viste le loro buone disposizioni, spiegò meglio il suo pensiero dicendo che per arrivare al punto desiderato dovevano diventare nelle sue mani come il suo fazzoletto. E in cosi dire trasse di tasca il fazzoletto, lo maneggiò in tutti i sensi, lo sfilacciò financo e poi soggiunse: — Ecco qui come bisognerebbe che io potessi fare di voi: vorrei avervi obbedienti in tutto e per tutto a' miei desideri. — I giovani promisero.

Da quell'istante Don Bosco non li perdette più di vista. Dava loro frequenti lezioni; poi a mezzo settembre li menò seco ai Becchi nella casa paterna, dove non interruppe l'insegnamento. In quel medesimo autunno incontrò a Ramello, borgata di Castelnuovo, un quinto giovane quindicenne di nome Angelo Savio, che annoverò fra i suoi discepoli, conducendolo seco a Torino nell'ospizio. Qui tutti insieme continuarono gli studi. Oltre a Don Bosco faceva loro scuola in casa sua un sacerdote torinese. Terminato rapidamente il ginnasio, vestirono l'abito chiericale; se non che al trar dei conti Don Bosco non ne ebbe tutti i vantaggi sperati. Il Buzzetti e il Gastini deposero l'abito, il primo per essersi rovinato la mano destra, il secondo per motivi dì salute; quegli però, rimasto sempre con Don Bosco, divenne a suo tempo salesiano laico e prestò al buon padre innumerevoli servigi; il Bellia, e il Reviglio, aiutato Don Bosco per un certo numero d'anni, passarono nel clero delle rispettive diocesi di Biella e di Torino; il Savio, dopo essere stato braccio forte di Don Bosco in molte opere, chiuse la vita missionario salesiano nella Repubblica dell'Equatore. Sicché di cinque solamente due risposero alla sua aspettazione. Questo dico anticipando, perché si vegga subito quali difficoltà intralciassero a Don Bosco il cammino e quali contrattempi ne mettessero a dura prova la costanza.

Ma le difficoltà e i contrattempi non avrebbero mai potuto infirmare in lui il convincimento che si era formato della necessità di fare da sè, affiancandosi soggetti capaci di comprenderlo e disposti a secondario, ma soprattutto a obbedirgli. Un episodio del 1848 lo dimostra. Egli dirigeva allora i tre Oratori di Valdocco, di Porta Nuova e di Vanchiglia. I perturbamenti accennati sopra suggerirono al Can. Lorenzo Gastaldi, suo caldo fautore, l'idea di stringere in confederazione gli Oratori aperti e da aprirsi, mettendoli sotto la dipendenza di un'assemblea direttiva. Per lo studio del problema fu costituita una commissione, che tenne una conferenza preliminare, a cui partecipò anche Don Bosco. Egli capì che la sua adesione avrebbe avuto per effetto di ridurlo a dirigere in sott'ordine e in perpetuo il solo Oratorio di Valdocco. Quindi, risposto alle argomentazioni degli altri, conchiuse: — Io non condanno e desidero di non essere condannato. Il signor Canonico ha il suo piano e io ho il mio. Oratori da aprire non ne mancheranno: faccia ognuno la sua strada. A me bisognano due cose: mano libera e individui da me interamente dipendenti. — Il sig. Durando, prete della Missione, uno degli ecclesiastici più autorevoli e più stimati in Torino, obiettò: — Ella vuol dunque fondare una Congregazione?
— Rispose: — Una Congregazione o altro che si voglia, purché io possa erigere oratori, cappelle, chiese, organizzare catechismi e stuoie e avere personale a me devoto. — Il religioso si strinse nelle spalle, tanto gli parve strano quel linguaggio. Il convegno non ebbe seguito. Allora chi accusò Don Bosco di testardaggine, chi mise in canzone la sua utopia. Ma egli, fidando in Dio, aveva fatto un'affermazione, da cui non si sarebbe più tirato indietro, perché era parte integrale del suo programma.

La presenza in Don Bosco di un pensiero organico e non costretto entro limiti di spazio e di tempo appare già dal Regolamento dell'Oratorio festivo, da lui steso nel 1847 (i). Tre cose cì colpiscono ivi, perché sembrano contenere in germe ordinamenti essenziali, che darà alla sua Società Salesiana. Anzitutto i titoli e gli uffici assegnati ai Superiori dell'Oratorio festivo corrispondono a quelli che assegnerà ai Superiori nella sua Congregazione; infatti un Rettore vi tiene la direzione suprema, un Prefetto lo coadiuva e ne è il braccio destro, un Catechista fa le parti del Direttore spirituale. Inoltre vi si suppone chiaramente che gli Oratori f estivi non resteranno confinati nella cerchia della città di Torino, ma si propagheranno anche fuori; se così non fosse, non avrebbe senso un comma dell'articolo riguardante il Prefetto, del quale si dice che compierà anche gli uffici del Direttore spirituale nei paesi dove fosse penuria di sacerdoti. In terzo luogo, che egli mirasse alla perpetuità dell'istituzione, si desume dalla facoltà attribuita al Rettore di nominarsi un successore. Si può anche aggiungere che vi si stabilisce l'elezione degl'incaricati di vari uffici, fatta a maggioranza di voti in una specie di Capitolo dagl'impiegati dell'Oratorio. Non parlo infine dello spirito che informa il Regolamento, spirito di carità e di sacrificio, di paternità e di fraternità, ossia di famiglia, che sarà l'anima della Società.

MB, vol. III, pgg. 86-7.

CAPO II Lavorio di preparazione.

L'Arcivescovo di Torino Luigi Fransoni aveva approvato e riguardava come sua l'opera degli Oratori festivi. Anzi con lettere patenti del 31 marzo 1852 aveva deputato Don Bosco «effettivamente Direttore Capo Spirituale dell'Oratorio di S. Francesco di Sales », a cui voleva « uniti e dipendenti quelli di S. Luigi Gonzaga e del 8. Angelo Custode, affinchè l'opera intrapresa con sì felici auspici progredisse e s'amplificasse nel vincolo della carità, a vera gloria di Dio e a grande edificazione del prossimo, conferendogli tutte le facoltà necessarie e opportune al santo scopo ». Ma egli temeva per l'avvenire dell'opera; quindi esortava insistentemente Don Bosco a trovar modo di assicurarne l'esistenza. Mettesse dunque altri a parte delle sue esperienze, li iniziasse allo spirito fino allora mantenuto e li preparasse a raccogliere la sua eredità, quando egli, al pari di tutti i mortali, avrebbe pagato il suo tributo alla natura. Voleva insomma persuaderlo della necessità di dar vita a una Congregazione religiosa.

Non è da credere che con questo l'Arcivescovo spingesse le sue vedute oltre í confini della propria diocesi, il cui bene gli stava soprattutto a cuore; ma si trattava sempre di Congregazione religiosa, benchè semplicemente diocesana, e il crearne una quale occorreva a Don Bosco e che potesse fronteggiare le avverse condizioni dei tempi, era impresa molto ardua. Più ardua ancora per un altro verso. Tutte le maggiori famiglie religiose avevano avuto i loro esordi dall'aggregazione spontanea di uomini maturi, mossi da indiscutibile vocazione e disposti a qualunque prova si richiedesse da loro. Don Bosco invece aveva toccato con mano che, volendo approdare a qualche cosa di positivo, doveva attaccarsi a principianti, ai quali per anni e anni sarebbe bisognato dare tutto: pane, istruzione e spirito. Il più difficile era lo spirito, perchè il concetto della vita religiosa si andava smarrendo. I governanti chiudevano i conventi e ne sbandivano gli abitatori. La letteratura e in generale la stampa li dileggiavano. I pregiudizi contro i religiosi penetravano anche in famiglie cristiane. Sensi ostili serpeggiavano pure in mezzo al clero secolare. Religioso voleva dire frate, e frate era diventato sinonimo di uomo da poco e fannullone. Nei ragazzi stessi diffondevasi ima tendenza a ridere di tutto che sapesse di monastico. Se Don Bosco avesse parlato apertamente a' suoi giovani di Congregazione, si sarebbe sentito rispondere che frati non volevano essere. Ce lo attestavano Salesiani della prima ora e di prim'ordine, come il Cardinale Cagliero. Pensiamo dunque come Don Bosco dovesse andare coi pie' di piombo in affare sì delicato!
Eppure vi si accinse e riuscì. Ecco la sua tattica. Adocchiato un giovane oratoriano o ricoverato, la cui indole gl'ispirasse fiducia, se lo affezionava, lo provvedeva di quanto gli occorresse, gl'istillava una pietà serena, lo metteva in relazione con altri dalle medesime propensioni; lo invogliava a farsi piccolo apostolo fra i compagni e lo conduceva passo passo fino al chiericato. Intanto in conversazioni familiari e in prediche toccava destramente certi tasti, che su animi cosi ben disposti producessero impressioni conformi alle sue viste. Spesse volte, per esempio, in crocchi di ragazzi e di chierici ripeteva a mo' di scherzo la manovra del fazzoletto e all'improvviso esclamava: — Oh se avessi dodici giovani, dei quali poter disporre come di questo fazzoletto! Sapete che cosa vorrei fare? Vorrei spargere il nome di Nostro Signore Gesù Cristo non solo in tutta l'Europa, ma lontano lontano, nelle altre quattro parti del mondo. — Eli punto fermo: non aggiungeva altro. Dal pulpito poi dipingeva a tocchi rapidi le bellezze e i vantaggi della vita comune, nella quale non si conoscono i fastidi del presente e le preoccupazioni dell'avvenire; oppure raccontava di Santi, che, consacratisi a Dio, avevano fatto gran bene nel mondo, meritandosi le benedizioni dei posteri e grandi premi nel cielo. Nell'un caso e nell'altro non mancava di mettere in rilievo la perfezione di quello stato, ma senz'aver l'aria di raccomandarlo a' suoi ascoltatori. In privato finalmente rivolgeva a taluni domande come queste: — Vuoi bene tu a Don Bosco? Ti piacerebbe stare con lui? Vorresti farti chierico qui nell'Oratorio? Ameresti col tempo aiutare Don Bosco a lavorare per i giovani? Vedi, se ci fossero cento preti e cento chierici, avrei del lavoro da dare a tutti. — Quanti egli santamente ne adescò e prese con tale linguaggio!
Nè da coloro che lo secondavano, esigeva più di quanto si addica a buoni cristiani, desiderosi di salvarsi l'anima. Quindi nulla che avesse apparenza di costumanze religiose: non meditazioni regolari, non lunghe preghiere, non osservanze austere. Senza simili cautele non solo avrebbe rovinato tutto, ma si sarebbe tirato addosso un mondo di guai da parenti, da parroci, da Vescovi e da altri ancora.

Buon mezzo indiretto per guadagnare quanti giudicava atti a' suoi disegni era pure l'affezionarli alla propria persona e all'Oratorio. In questo la sua bontà paterna operava miracoli; ma bisogna anche dire che Dio e la Madonna ve lo aiutavano grandemente. Sogni rivelatori, predizioni di prossime morti, scrutazioni di coscienze, f atti straordinari da lui stesso narrati perchè se ne ringraziasse, il Signore, mentre servivano a cattivargli stima, venerazione e confidenza, creavano nella casa un'atmosf era eccezionale, che rendeva gradita la dimora, nonostante l'assenza di comodi che la vita moderna ha reso indispensabili. Quando perciò egli chiamava a speciali conferenze gli alunni migliori, otteneva con tutta facilità da essi che si assuefacessero a pie usanze proprie di coloro che amano darsi alla perfezione, com'era, per esempio, lo scegliersi ognuno un monitore segreto, che lo avvertisse di eventuali difetti.

Quando gli parve giunto il momento propizio, fece un passo innanzi. Michele Rua, che prima ancora di essere alunno interno (entrò come tale il 22 settembre 1852) prendeva già parte alle dette conferenze, lasciò in proposito un documento prezioso. È un fogliettino, in cui a guisa di verbale scrisse la relazioncella di un'adunanza tenuta la sera del sabato 5 giugno di quell'anno. Si erano raccolti allora intorno a Don Bosco, oltre a un diacono e al giovinetto Rua, altri dodici, dei quali fa i nomi, menzionando fra essi Francesia e Cagliero. C'informa Rua: «In questa conferenza si stabili di dover dire ogni domenica le sette allegrezze di Maria Santissima. L'anno venturo si osserverà chi di questi avrà perseverato ad eseguire ciò che si è stabilito sino al sabato prefisso, cioè il primo sabato del mese di maggio ». Terminava quindi con questa fervida invocazione: « O Gesù e Maria, fate tutti santi coloro che sono scritti in questo piccolo foglio ». Scopo non svelato di tali preghiere suggerite da Don Bosco era, come si seppe da poi, di ottenere dalla Madonna la grazia che fosse possibile iniziare la Società Salesiana.

Il giovinetto che si scrisse questo ricordo, aveva incontrato la prima volta Don Bosco nell'agosto del 1845. Una forza misteriosa lo attrasse subito verso il Santo, che a sua volta prese immediatamente ad averlo caro. Compiuto con ottimi risultati nel 185o l'intero corso elementare presso i Fratelli delle Scuole Cristiane, accolse di buon grado il suo consiglio d'intraprendere gli studi classici, recandosi da professori indicatigli da lui stesso. D'ingegno aperto, fece si rapidi progressi che in due anni svolse il programma allora prescritto per il ginnasio, dopo di che venne a stare con Don Bosco, affinché egli lo avviasse al sacerdozio. Don Bosco potè vestirlo chierico già il 3 ottobre 1852. Dio gli aveva mandato colui che sarebbe stato suo braccio destro nel fondare e governare la Congregazione.

Ma la Congregazione stava pur sempre soltanto nella mente di Don Bosco. Un secondo passo più decisivo egli fece un anno e mezzo dopo l'accennata proposta. Era il 26 gennaio 1854. Appressandosi la festa di S. Francesco di Sales, chiamò nella sua cameretta due chierici, uno dei quali Rua, e due studenti, di cui uno, Cagliero, ricevette poi l'abito in autunno. Anche su quell'abboccamento abbiamo uno scrittarello del medesimo relatore. Molto notevoli sono ivi le righe seguenti: e Ci venne proposto di fare coll'aiuto del Signore e di S. Francesco di Sales una prova di esercizio pratico della carità verso il prossimo, per venire poi ad una promessa; e quindi, se sarà possibile e conveniente, di farne un voto al Signore. Da tale sera fu posto il nome di Salesiani a coloro che si proposero e si proporranno tale esercizio *. Siffatta nuova proposta non più solo di pregare, ma di operare cadeva in animi assai ben preparati; tuttavia produsse in loro vivissima impressione.

Non generò per altro alcuna sorpresa, nè in quelli allora nè in altri dopo, l'appellativo di Salesiani. Dal Salesio s'intitolava l'Oratorio; del Salesio tutti sapevano essere Don Bosco divotissimo; al Salesio era dedicata la chiesa eretta da circa due anni accanto all'ospizio. Quale fosse poi il movente segreto della denominazione, Don Bosco lo manifestò gran tempo dopo, oltreché nelle sue già citate Memorie, in un autografo, dove leggiamo:
Quest'Oratorio è posto sotto la protezione di San Francesco di Sales per indicare che la base sopra cui è posta questa Congregazione, tanto in chi comanda quanto in chi obbedisce, dev'essere la carità, la dolcezza, che sono le virtù caratteristiche di questo Santo ».

Il mentovato Cagliero non deve passare senza un cenno speciale. Fu uno dei primi e più preziosi acquisti. Veniva da CaStelnuovo. Fece con altri compagni il ginnasio alla scuola di bravi professori esterni, amici del nostro Santo. Aveva un'indole vivacissima, insofferente di.giogo. Lo salvarono la vita di famiglia che si menava nell'Oratorio e soprattutto la bontà di Don Bosco. L'esperto educatore, avvezzo a pigliare i suoi allievi per il loro verso a fine di condurli bel bello dov'egli mirava, come si avvide che Cagliero amava la musica, ve lo applicò, nulla risparmiando perchè vi si perfezionasse a dovere. Che cosa sia diventato per la Congregazione quel ragazzo dall'argento vivo addosso, non è chi non lo sappia.

Il numero dei chierici, che Don Bosco si veniva lavorando per sè, crebbe in quell'anno e nell'anno appresso. Ai più fidi cominciò nelle particolari conferenze a parlare delle tre virtù, che i religiosi sogliono promettere in voto, ma ne parlava quasi accademicamente, senza ancora sollevare il velo, che copriva il suo gran disegno. Finalmente (e questo fu un terzo passo avanti) nel marzo del 1855 invitò l'ottimo fra tutti, il chierico Rua, a prepararsi per emettere quei voti. Il chierico acconsenti, ma non altra conseguenza scorgendo in tale atto fuorchè l'impegno di aiutare più efficacemente Don Bosco, mercè la pratica dei tre voti, nell'opera degli Oratori. La cerimonia si conipiè con la massima semplicità nella stanza di Don Bosco. Là, nella festa dell'Annunciazione, sul far della sera, senz'altro testimonio che il Servo di Dio non indossante nè cotta nè stola, il chierico Rua, postosi in ginocchio davanti al Crocifisso, pronunciò i voti di povertà, di castità e di obbedienza per la durata di un anno.

Trascorsi alcuni mesi, la stessa cerimonia, con la stessa assenza di apparato esteriore, fu rinnovata per un altro, al quale è molto probabile che Don Bosco avesse prima confidato qualche cosa de' suoi segreti divisamenti. Era un santo prete, che tutti i Salesiani avranno sempre in ammirazione: Don Vittorio Alasonatti. Insegnava egli nella scuola comunale di Avigliana, villaggio situato poco lungi da Torino. La sua vecchia amicizia con Don Bosco lo indusse ad accettarne la proposta di condividere con lui le cure dell'Oratorio. Sapeva bene il sant'uomo di andare incontro a gravi disagi e a dure fatiche; ma la sua virtù vinse le ripugnanze della natura e la forza delle abitudini. Arrivò il 14 agosto 1854. Lo mandava proprio la Provvidenza. Oltre ai numerosi esterni che frequentavano le scuole diurne e serali, l'Oratorio contava ottanta interni fra studenti e artigiani. Don Bosco sentiva estremo bisogno di avere al suo fianco un sacerdote che lo comprendesse e gli porgesse valido sostegno nella parte disciplinare ed amministrativa della casa. Don Alasonatti fu l'uomo che faceva per lui. Intelligente, docilissimo, laborioso al sommo, si addossò le incombenze di Prefetto, antesignano per ordine di tempo, e modello per spirito di sacrificio alla schiera innumerevole dei Prefetti che svolsero e svolgono l'attività loro nelle Case della Congregazione. A quarantatrè anni di età si votò dunque generosamente alla nuova forma di vita, con nessun'altra aspirazione al mondo fuorchè di fare in tutto e per tutto la volontà di Dio, resagli manifesta per bocca del suo Superiore.

L'anno dopo venne la volta di Giovanni Battista Francesia. Già assiduo all'Oratorio festivo, aveva ricevuto da Don Bosco l'abito sacro nell'autunno del 1853. Volendo il Servo di Dio nel novembre del 1855 dar principio a scuole interne con la sola terza ginnasiale, ne costituì insegnante il diciassettenne chierico, dall'ingegno squisitamente fatto per gli studi letterari in genere e per quelli classici in specie. Diede si buona prova di sè, che nell'anno successivo meritò di essere egli pure invitato a legarsi a Dio con voti annuali, prefiggendosi di dedicarsi così interamente all'opera di D3n Bosco.

In tal modo pertanto, mentre infieriva nel Piemonte la lotta contro le Congregazioni religiose vessate, soppresse, disperse, là in un angolo remoto della capitale, nei mal famati prati di Valdocco, un prete povero di mezzi, ma ricco di carità, senza che il mondo ne avesse sentore, gettava le basi di un Istituto religioso che, ergendosi al disopra di tante rovine, avrebbe col tempo esteso la sua azione benefica per tutti i cinque continenti del globo.

CAPO III Prima elaborazione delle Regole.

La prudente circospezione che guidava il nostro Santo nella scelta e nella cura dei soggetti, lo guidò ancora nell'abbozzare per essi e nel presentare loro un insieme di Regole, che fissassero le norme fondamentali della vagheggiata Congregazione.

Il compilarle gli costò due anni di lavoro, cominciato nel 1855. Lo studio e l'esperienza gliene somministrarono gli elementi. Attinse da priina alla Storia Ecclesiastica, ricercandovi le origini, le forme e le vicende di vari Istituti religiosi approvati dalla Chiesa. Poscia, ottenute a grande stento copie di Costituzioni, vi spigolò tutto quello che stimava utile al caso (i). Intanto a voce e per lettera chiedeva consiglio a persone benevole e competenti, facendo tesoro delle risposte. Alla fine però il risultato non lo appagava completamente. Egli comprendeva benissimo che l'esse nza della vita religiosa, la pratica cioè dei consigli evangelici, non muta; ma sentiva pure che, mutando le condizioni dei tempi, non.,si poteva far a meno di adottare atteggiamenti accidentali che si scostassero dalle usanze del passato, pena l'impossibilità di far proseliti e di compiere opera efficace di penetrazione nella società contemporanea. Mise dunque a profitto anche gl'insegnamenti della sua quotidiana maestra, l'esperienza.

(i) Noi diremo promiscuamente Regole e Costituzioni. In origine, Regole erano i primitivi statuti dei vari Ordini religiosi (Regola basiliana, agostiniana, benedettina, Francescana) e Costituzioni gli ordinamenti posteriormente aggiunti. Con l'andar del tempo si dissero Regole anche le Costituzioni; oggi nel linguaggio comune i due termini si equivalgono.

Per tal modo compose un complesso di articoli, che furono poi la base delle future Costituzioni.

Quale sia stato precisamente il testo primigenio, non è possibile determinarlo, mancando affatto i documenti. Un testo si è pubblicato nel quinto volume delle Memorie Biografiche, quello presentato nel 1858 a Pio IX, che ha il merito di essere il più antico da noi posseduto, ma non è il primitivo.

A parecchi Salesiani Don Bosco narrò di un colpo mancino infertogli da Satana, quando finiva di scrivere quelle prime Regole. Era notte inoltrata. Nell'atto che scriveva le parole finali Ad maiorem Dei gloriam, il tavolino sobbalza, il calamaio si rovescia e l'inchiostro inonda il manoscritto; poi questo vola turbinosamente per la camera e si abbatte tutto scompaginato sul pavimento. Strane voci accompagnavano quel diavoleto. Lo scritto restò così malamente imbrattato da essere illeggibile, tanto che Don Bosco fu costretto a rifare da capo il lavoro. Se egli avesse avuto bisogno di un qualche segno che valesse ad assicurarlo d'aver fatto bene le cose, tanta rabbia infernale bastava da sola a farnelo convinto.

Le Regole scritte dovevano essere portate a conoscenza di coloro, a cui sarebbe toccato di osservarle. Per fare questa comunicazione Don Bosco aspettò che gli si stringesse intorno un nucleo d'individui veramente risoluti di condividere in perpetuo le sue fatiche; pregava dunque il Signore che gl'ispirasse quando fosse giunta l'ora. Nel 1857 l'ora parve scoccata: aveva allora otto fra chierici e giovani studenti, sui quali pensava di poter fare assegnamento. Cominciò pertanto a far loro delle confidenze intorno a' suoi disegni e a descrivere vivamente i vantaggi straordinari che dalla loro cooperazione sarebbero derivati alla gioventù, bisognosa di aiuto. Come li vide ben animati, prese a leggere loro di tratto in tratto qualche parte delle Regole, compilate, diceva, per dare unità di pensiero e d'indirizzo all'azione comune. Così a poco a poco li assuefaceva a riguardare la loro unione come una vera società, suscitando fra essi quello che si dice spirito di corpo:
Sebbene egli raccomandasse di non propalare quanto veniva loro confidando, tuttavia qualche notizia trapelò in casa e uscì anche dall'Oratorio. Personalità ecclesiastiche, ciò inteso e intuendone le finalità, si allarmarono. Col vento che spirava, come mai arrischiarsi a iniziare una Congregazione? II Governo, che aveva decretato la soppressione degli Ordini religiosi, subodorando il tentativo e giudicandolo un attentato alle leggi dello Stato, non avrebbe, per soffocare la minaccia, colpito l'opera degli Oratori? Don Bosco ammetteva benissimo che bisognava armarsi di prudenza; ma osservava fiduciosamente che, essendo indiscutibile l'urgente necessità di correre in soccorso della gioventù e richiedendosi a estremi mali estremi rimedi, Dio non avrebbe lasciato mancare la sua assistenza in un'impresa diretta a sì nobile scopo. Si raccomandava quindi alle preghiere di tutti per il buon esito.

Certo egli teneva bene gli occhi aperti. I tempi di persecuzione sono tempi di sospetti e bastano dei nonnulla a cagionare guai irreparabili. D'altra parte le leggi c'erano e venivano applicate senza misericordia; il pericolo d'incappare net codice non era purtroppo immaginario. Orbene la Provvidenza dispose che giungesse a Don Bosco un aiuto donde meno se lo sarebbe aspettato.

Urbano Rattazzi, Ministro dell'Interno, il 7 luglio 1857 scriveva a Don Bosco, raccomandandogli caldamente un ragazzo abbandonato e pregandolo «di fare al più presto possibile un riscontro ». Il Santo colse, come si dice, la palla al balzo per riavvicinarlo; poichè già altre volte aveva avuto occasione di conferire con lui. Gli portò dunque la risposta personalmente, intavolando poi una conversazione molto interessante. Nel corso di questa, discorrendosi dell'opera degli Oratori che conosceva e apprezzava, il Ministro uscì a dire che bisognava pensare ad assicurarla anche dopo la morte del fondatore. Scegliesse dunque laici ed ecclesiastici di sua fiducia, li riunisse in Società e fossero prima suoi aiutanti e ín seguito suoi continuatori. Don Bosco gli osservò che una Società simile non sarebbe potuta durare, se i membri non fossero stretti insieme da vincolo religioso. Il Ministro ne convenne, purché però il vincolo non fosse di tal natura da attribuire le sostanze alla comunità, come ad ente morale. In ultima analisi consigliava di fondare una vera Congregazione religiosa, e poiché la legge di soppressione portava il nome di Rattazzi, è facile immaginare lo stupore di Don Bosco. La sua legge del 2g maggio 1855 nel solo Piemonte aveva colpito 35 Ordini religiosi e soppresso 334 case. Che i progressi del sovversivismo popolare cominciassero a far riflettere l'uomo di Stato? Spiegò meglio il suo concetto dicendogli d'istituire una Società, in cui ogni membro .conservasse i diritti civili, stesse soggetto alle leggi, pagasse le imposte e via discorrendo; una Società insomma che in faccia al Governo fosse un'associazione di liberi cittadini, uniti e conviventi per uno scopo di beneficenza; nessun Governo costituzionale egli diceva poter impedire l'impianto e lo sviluppo di una Società siffatta. Don Bosco affermò che le parole di Rattazzi erano state per lui «uno sprazzo di luce ». Qualunque valore si debba dare a questa affermazione, il certo è che ,quelle parole, lo illuminarono sulle disposizioni del Governo, e non era poco; quanto alla cosa in se, egli aveva già veduto alcun che di simile nelle Regole dei Rosminiani (i).

(i) II i*. gennaio del 1876 Don Bosco, discorrendo con Don Lemoyne, Don Barberia ed altri confratelli, disse di Battezzi: a Veniva di quando in quando all'Oratorio. Volle con me combinare vari articoli delle nostre Regole riguardanti il modo col quale la nostra Società doveva regolarsi rispetto al codice civile e allo Stato. Si può dir proprio che certe previdenze, perché non potessimo essere molestati dalla potestà civile, furono cose tutte sue o. (Cfr. Mem. Biogr., vol. V, pag. 699 e XII, pag. n). Le visite all'Oratorio avvennero molto probabilmente dopoché usci dal Ministero, nel novembre del 1857, nel qual tempo nutriva fiero risentimento contro Cavour, capo del Governo. Il Chiuso (La Chiesa in Piemonte, vol. IV, pag. 6o), alludendo al colloquio di Don Bosco con Battezzi, a da Cleto /Irrighi (Biografia dei 450 deputati, Milano, 1865, vol. IV) descritto come acceso di odio costante contro il clero e, si domanda: « Parlava quegli per amor di giustizia, od era simulazione/ Sello soltanto Iddio. Quanti Ministri ultraliberali trattarono amichevolmente Don Bosco! Il Rattazzi professava tanta riverenza per lui da chiamarlo, nelle conversazioni, un grand'uomo.

Premeva al Santo conoscere come la pensassero uomini autorevoli del clero, particolarMente Vescovi; perciò, parlatone a lungo col Beato Cafasso, sottopose all'esame di chi gli parve più opportuno i seguenti quesiti: «Una Società desiderosa di lavorare alla gloria di Dio, pur rimanendo civile in faccia al Goverito, non potrebbe assumere eziandio la natura di un Istituto religioso in faccia a Dio ed alla Chiesa? — Non potrebbero i suoi membri essere e liberi cittadini e religiosi ad un tempo? — Mi pare di si, a quel modo che in uno Stato qualsiasi un Cattolico può essere e suddito del Re o della Repubblica e suddito della Chiesa, fedele ad entrambe le leggi ». Sembra 'che Vescovi e Teologi rispondessero favorevolmente; non ce ne rimangono però documenti. Può darsi che le risposte siano state orali, come fu quella di Mons. ',osane, 'Vescovo di Biella, secondoché attesta in una sua relazione il canonico Anfossi.

Ma soprattutto desiderava aver il parere del suo Arcivescovo, esule da sette anni a Lione. Avrebbe voluto recarsi in persona a consultarlo, se la prudenza non ne lo avesse sconsigliato. Gliene scrisse quindi e n'ebbe incoraggiamenti, come sempre; tuttavia l'ottimo Pastore gli diceva che per maggior sicurezza andasse a parlare con Pio IX. Don Bosco, da tempo bramoso di recarsi a Roma, risolse d'intraprendere quel viaggio sul principio del nuovo anno.

Mons. Fransoni, quando seppe che egli faceva i preparativi della partenza, gli mandò una bella lettera di presentazione per il Santo Padre. Partì il x8 febbraio 1858, accompagnato dal chierico Rua, che del viaggio e della dimora nell'eterna città stese un minuto ragguaglio. Giunse colà il 21; ma ebbe l'udienza solo il 9 marzo. Visto il gradimento del Papa, gli espose in lungo e in largo quanto si faceva a Torino con l'opera degli Oratori. Il Papa a un certo punto lo interruppe, interrogando: — Mio caro, voi avete messo molte cose in movimento; ma se veniste a morire, che ne sarebbe dell'opera vostra? — Mai domanda cadde più a proposito. Egli era venuto ai piedi del Santo Padre appunto per dare consistenza all'opera nel modo insinuato dal Pontefice, a cui manifestò il suo disegno e porse la commendatizia di Mons. Fransoni. Pio IX, scorsa la lettera, esclamò contento: — Si vede che andiamo tutt'e tre d'accordo. — Lo esortò pertanto a redigere le Regole di una Società che rispondesse all'idea espressagli, unendo alla 'raccomandazione alcune direttive. — Bisogna, disse, che voi stabiliate una Società che non possa essere incagliata dal Governo; ma nel tempo stesso non dovete contentarvi di legarne i membri con semplici promesse, chè altrimenti non esisterebbero gli opportuni legami fra soci e soci, fra superiori ed inferiori; non sareste mai sicuro dei vostri soggetti, nè potreste fare lungo assegnamento sulla loro volontà. Procurate di adattare le vostre Regole sopra questi principii, e compiuto il lavoro, sarà esaminato. L'impresa però non è tanto facile. Si tratta di vivere nel mondo senza essere conosciuti dal mondo. Tuttavia, se in quest'opera c'è il volere di Dio, Egli vi illuminerà. Andate, pregate e dopo alcuni giorni ritornerete, e vi dirò il mio pensiero.

Il Santo usci confortato da tanta benignità del Vicario di Gesù Cristo, per eseguire le cui istruzioni ripigliò in mano l'abbozzo delle Regole preparato a Torino e v'introdusse i cambiamenti, che giudicava rispondere alle istruzioni ricevute. Gli fu notificata poi una seconda udienza per il 21 a sera. L'ora insolita denotava che il Papa voleva intrattenersi a suo bell'agio con lui. Accoltolo con bontà paterna, Sua Santità entrò senz'altro in argomento, parlandogli così: — Ho pensato al vostro progetto, e mi sono convinto che potrà procacciare assai del bene alla gioventù. Bisogna attuarlo. I vostri Oratori senza di questo come potrebbero conservarsi e come provvedere ai loro bisogni spirituali? Perciò mi sembra necessaria una nuova Congregazione religiosa, in mezzo a questi tempi luttuosi. Essa deve fondarsi sopra queste basi: sia una società con voti, perchè senza voti non si manterrebbe l'unità di spirito e di opere; ma questi voti debbono essere semplici e da potersi facilmente sciogliere affinchè il malvolere di alcuno dei soci non turbi la pace e l'unione degli altri. Le Regole siero miti e di facile osservanza. La foggia di vestire, le pratiche di pietà non la facciano segnalare in mezzo al secolo. Porse a questo fine sarebbe meglio chiamarla Società, anzichè Congregazione. Insomma studiate il modo che ogni membro di essa in faccia alla Chiesa sia un religioso e nella civile società sia un libero cittadino. — Nominò infine alcune Congregazioni recenti, le cui Regole presentavano qualche analogia con la Società da istituire.

Allora Don Bosco umiliò il manoscritto delle Regole al Santo Padre, che non le supponeva già pronte. Avendole in quei giorni tempestate di modificazioni e arricchite di aggiunte conformi alle indicazioni significategli nella prima udienza, ne aveva fatto fare una nuova copia dal chierico Rua. Il Papa, preso l'incartamento, ne svolse un po' le pagine, vi diede qualche occhiata e lo pose sullo scrittoio. Dopo si fece esporre per filo e per segno tutta la storia dell'opera degli Oratori. Da alcuni indizi venuto in sospetto che Don Bosco avesse avuto segnalazioni arcane, gli ingiunse di esporgli tutto che avesse apparenza di soprannaturale. Il Santo obbedì, raccontandogli il primo sogno e qualche altro posteriore e rilevando i particolari ivì preannunciati e già avverati. Il Papa se ne mostrò assai soddisfatto, tanto che gli diede ordine categorico di scrivere ogni cosa, affinché se ne giovasse poi la futura Congregazione. Don Bosco, benché riluttante, ottemperò al reiterato comando nel 1874, mettendo in carta una serie di Memorie che vanno dai primi fatti della fanciullezza fino al 1855.

In una terza e ultima udienza del 6 aprile Pio IX gli restituì il manoscritto delle Regole, dicendogli di passarlo al Cardinale Gaude, il quale, esaminatolo, gliene avrebbe poi parlato. Don Bosco si avvide li stesso che il Papa vi aveva fatto di propria mano alcune note e modificazioni. Era pensiero del Santo Padre che le Regole fossero rimesse quanto prima a una Commissione con l'incarico di riferire; ma Don Bosco lo pregò rispettosamente di voler soprassedere per dargli tempo di sperimentarne la pratica e quindi, tenuto conto dei dettati dell'esperienza, ripresentarle. Il Papa annuì.

Nei giorni che rimase ancora a Roma, Don Bosco rivide da capo a fondo lo scritto, aggiungendo, togliendo e ritoccando, secondoché stimava più conforme ai sentimenti espressigli dal Papa nella seconda e terza udienza; dopo il chierico Rua ne fece una nuova trascrizione, che portò al suddetto Cardinale (i).

(i) I ritocchi alle Regole si moltiplicarono negli anni seguenti. Più volte Don Bosco fece rimettere in pulito il testo, sicché in cinque anni ne vennero fuori quattro successivi esemplari disuguali, che si possono vedere nei nostri archivi.

Il Gaude, domenicano piemontese, era in ottimi rapporti con Don Bosco, del quale aveva visitato l'Oratorio nel giugno dell'anno precedente. Egli lesse con la massima sollecitudine; appresso ebbe parecchie conferenze col Santo, che ne ascoltò con umile deferenza riflessi e consigli. La conclusione fu che, fattele praticare per una durata sufficiente, venissero rinviate a Sua Eminenza, che le avrebbe presentate al Santo Padre per la formale approvazione.

Nella più antica redazione giunta a noi, che è, come dicevo, la romana, il Fondatore premise un preambolo che è una specie di preistoria della Congregazione e serviva a mettere in valore l'opera degli Oratori, sulla quale si fondava la ragion d'essere delle Regole. Bisognava far vedere che la voluta Istituzione non era tutta di là da venire, ma già in via di divenire, e che la parte esistente non era spuntata come un fungo, ma per effetto di lenta e laboriosa preparazione. È bene leggere l'importante pagina, intitolata Origine di questa Società.
Fin dal 1841 il sac. Bosco Giovanni si univa ad altri ecclesiastici per accogliere in appositi locali i giovani più abbandonati della città di Torino a fine di trattenerli con trastulli e nel tempo stesso dar loro il pane della divina parola. Ogni cosa facevasi d'accordo coll'autorità ecclesiastica. Benedicendo il Signore questi tenui principii, il concorso dei giovani fu assai grande e l'anno 1844 S. E. Monsignor Pransoni concedeva di ridurre un edificio a forma di chiesa con facoltà di fare ivi quelle sacre funzioni che sono necessarie per la santificazione dei giorni festivi e per l'istruzione dei giovani che ogni giorno più numerosi intervenivano. Ivi l'Arcivescovo venne più volte ad amministrare il Sacramento della Cresima.

L'anno 1846 concedeva che tutti quelli che intervenivano a tale istituzione potessero ivi essere ammessi alla Santa Comunione e adempiere il precetto pasquale, permettendo di cantare la S. Messa, fare tridui e novene, qualora ciò si ravvisasse opportuno. Queste cose ebbero luogo fino all'anno 1847 nell'Oratorio detto di S. Francesco di Sales. In quell'anno crescendo il numero dei giovani, e così divenuta ristretta la chiesa attuale, col consenso sempre dell'autorità ecclesiastica, si apri in altro angolo della città, viale de' platani a Porta Nuova, un secondo oratorio sotto il titolo di San Luigi Gonzaga col medesimo scopo dell'antecedente. Divenuti insufficienti anche questi due locali, l'anno 1849 se ne apriva un altro in Vanchiglia sotto il titolo del Santo Angelo Custode. I tempi rendendosi assai calamitosi per la religione, il superiore ecclesiastico con tratto di grande bontà approvava il regolamento dí questi oratorii e ne costituiva il Sac. Bosco Direttore capo, concedendogli tutte quelle facoltà che potessero tornare necessarie ed opportune a questo scopo.
Molti Vescovi adottarono il medesimo piano di regolamento e si adoperarono per introdurre nelle loro diocesi questi oratorii festivi. Ma un bisogno grave apparve nella cura di tali oratorii. Molti giovani già di età alquanto avanzata non potevano essere abbastanza istruiti col solo catechismo festivo e fu mestieri aprire scuole e catechismi diurni e serali. Anzi molti dì essi trovandosi affatto poveri ed abbandonati furono accolti in una casa per essere tolti dai pericoli, istruiti nella religione ed avviati al lavoro. Il che si fa tutt'ora specialmente in Torino nella casa annessa all'Oratorio suddetto, ove i ricoverati sono in numero di duecento circa. Si fa eziandio in Genova nell'opera detta degli Artigianelli, ove è direttore Sac. Montebruno Francesco: ivi í ricoverati sono in numero di cinquanta (i). Per le radunante di giovani solite a farsi negli oratorii festivi, per le scuole diurne e serali, e pel numero ognora crescente di coloro che venivano ricoverati, la messe del Signore divenne assai copiosa. Onde per conservare l'unità di spirito e disciplina, da cui dipende il buon esito degli oratorii, fin dall'anno z844 alcuni ecclesiastici si radunarono a formare una specie di Società o Congregazione aiutandosi a vicenda e coll'esempio e coll'istruzione. Essi non fecero alcun voto e si limitarono ad una semplice promessa di occuparsi in quelle cose che sembrassero di maggior gloria di Dio e vantaggio dell'anima propria. Riconoscevano il loro superiore nel Sac. Bosco Giovanni. Sebbene non si facessero voti, tuttavia in pratica si osservavano presso a poco le Regole che sono qui esposte.

Don Bosco, lasciando Roma il 14 aprile, ritornava a Torino con la letizia in cuore di vedere il felice avviamento che prendevano le cose sue.

(i) Cfr. Mena. Biogr., vol. V, pgg. sop e 761. Nel x857 al trattava di unire le due opere. che qui il Santo considera già come unite; ma l'unione non ci fece né allora nè poi.

CAPO IV Principio di organizzazione.

L'Oratorio, irradiato dalla bontà di Don Bosco, era luogo fatto a posta per favorire nei giovani lo svilupparsi dei sentimenti migliori; cresceva perciò intorno al Santo una fioritura di volonterosi, che amavano stare con lui per aiutarlo nella sua opera. Domenico Rullino da Giaveno, seminarista a Chieri, incontratosi una volta con lui, gli si affezionò fortemente. Nelle vacanze del 1857 Don Bosco, che conosceva le strettezze della sua famiglia, lo invitò a passare quei mesi nell'Oratorio. Il chierico venne e di qui scrisse a un amico: e Mi sembra di essere in un paradiso terrestre, poichè tutti si amano come fratelli e più ancora. Tutti sono allegri, ma di un'allegria veramente celeste, e specialmente quando si trova Don Bosco in mezzo a noi. Allora passiamo le ore che ci paiono minuti e tutti pendon dalle sue labbra, come incantati. Egli è per noi come una calamita, poichè appena egli comparisce, tutti gli corrono incontro e più sono contenti quanto più gli sono vicini ». Nessuna meraviglia che il giovane chierico lasciasse un bel giorno il seminario per venir a stare con Don Bosco. Lo ritroveremo.

I chierici di Don Bosco ricevevano da lui l'abito con buona venia della Curia arcivescovile, previo un esame ad hoc, detto esame della vestizione; essi frequentavano poi le scuole del seminario. L'autorità ecclesiastica accordava a Don Bosco la facoltà di allevarsi chierici in casa, perchè ne riconosceva la necessità per l'opera degli Oratori, considerata come istituzione diocesana. Bisogna notare inoltre che tali concessioni erano agevolate dal fatto, che dopo il 1848 l'Oratorio apriva le sue porte a molti chierici dell'archidiocesi, perchè il seminario di Torino per causa delle guerre era occupato da militari; in tal modo i chierici di Don Bosco si confondevano con gli altri e non davano nell'occhio. Questi si trovavano pure insieme con i chierici della città nella scuola di filosofia e di teologia, che si faceva in alcune stanze del seminario, lasciate sgombre a tale scopo dall'autorità militare. Le controversie scoppiarono, quando si avverti che Don Bosco si circondava dei migliori per tenerli sempre con sè; donde brighe d'ogni sorta per distaccameli.
Dei chierici di Don Bosco nel 1859 spiccavano Giovanni Bonetti, Celestino Durando, Francesco Cerruti, Carlo Ghivarello e Giuseppe Lazzero: cinque nomi, cinque esponenti della Congregazione, allorchè questa cominciò a essere in fiore. Bonetti da Caramagna, compiuto il ginnasio nell'Oratorio, passò nel seminario di Chieri; ma dopo un solo anno l'affetto per Don Bosco la vinse su tutto e su tutti, ed egli tornò all'ovile. Durando da Farigliano fino alla quarta ginnasiale non aveva mai veduto un prete che lo guardasse con bontà, ed egli a sua volta guardava i preti con nessuna simpatia; messo nell'Oratorio, gli caddero, dinanzi a Don Bosco, le prevenzioni. Qui contrasse familiarità con l'angelico giovane Domenico Savio, che gli fece un bene grandissimo. Primeggiava nella classe. Dati con lode gli esami di licenza ginnasiale, ricevette da Don Bosco la veste talare, risoluto di stare con lui. Cerruti da Saluggia fu un altro intimo di Domenico Savio; egli pure, terminato il ginnasio, diede uno splendido esame di licenza, dopo di che, volendo stare con Don Bosco, ebbe da lui la vestizione chiericale. Ghivarello e Lazzero, ambidue da Pino Torinese, non erano più giovinetti, come i precedenti, ma avevano i loro vent'anni sonati. Desiderosi di farsi preti, trovarono in Don Bosco paterne accoglienze ed efficaci aiuti. Accelerati gli studi ginnasiali e fatti chierici, non vollero più staccarsi dal suo fianco. Avremo più volte occasione di rivederli tutti cinque.

Dal 1857 in poi Don Bosco veniva stringendo le maglie per organizzare la famiglia de' suoi eletti. Di mano in mano che scorgeva in qualcuno le convenienti disposizioni, lo invitava, come abbiamo visto per Rua e Don Alasonatti, a fare i voti annuali; da altri invece si contentava di ottenere che facessero la semplice promessa di perseverare nell'aiutarlo. Tanto ai primi che ai secondi dedicava cure speciali per informarne gli animi a virtù e riempirli del suo spirito. Perciò li radunava frequentemente e teneva loro conferenze alla buona, nelle quali il suo stesso modo di fare e di esprimersi esercitava su di essi un fascino singolare. Quivi rappresentava tutto il bene che avrebbero potuto compiere, se si fossero riuniti in società; diceva dei meriti e dei premi riserbati alla pratica della povertà volontaria; scioglieva le difficoltà accampate da taluno per il doversi allontanare dalla propria casa; dimostrava la necessità e i vantaggi del seguire una vocazione superiore a costo anche di gravi sacrifici; esponeva le ragioni che consigliavano di preferire una, Congregazione religiosa alla vita del prete secolare. Siccome parecchi erano maestri o assistenti nell'ospizio e altri andavano ai tre Oratori festivi, insegnava loro come bisognasse comportarsi coi giovani, insinuando le sapienti norme di quella pedagogia, di cui ci lasciò luminosi esempi e pochi, ma aurei scritti; a volte spiegava il Regolamento dell'Oratorio e insegnava la maniera di fare con profitto i catechismi. Brano trattenimenti avvivati da molta piacevolezza e resi graditi dall'intimità, con cui egli comunicava i segreti del suo apostolato e talora anche i lumi che riceveva dall'alto. Ogni settimana li chiamava con tutti i chierici della casa a recitare dieci versicoli del Nuovo Testamento, assegnati loro otto giorni prima, aggiungendo a tale esercizio, detto nell'Oratorio Testamentino, osservazioni sull'importanza e sul modo di annunciare la parola di Dio. Possiamo mettere fra le conferenze generali anche due scuole, quella di sacre cerimonie e quella di buona creanza, cominciate da lui e -poi continuate da altri. Di tutte queste riunioni profittava per legarli fraternamente fra loro e stringerli finalmente a se. Siffatti vincoli cordiali di famiglia costituivano la miglior preparazione per il giorno, in cui egli avrebbe dichiarato esplicitamente il suo proposito di formare una Congregazione religiosa.
E quel giorno spuntò nel dicembre del 1859. Erasi celebrata con grande solennità la festa dell'Immacolata. Alla sera Don Bosco annunciò pubblicamente nella " buona notte " (chierici e giovani facevano, si può dire, vita comune) che l'indomani, venerdì, dopo che studenti e artigiani fossero andati a dormire, avrebbe tenuto una conferenza speciale nella sua camera. I suoi confidenti, gl'iniziati cioè alle segrete cose, le speranze della nascitura Congregazione, capirono a volo che l'avviso era per loro, e un'ansiosa aspettazione li pervase: presentivano esserci nell'aria qualche importante novità.

Il 9 dicembre, venuta l'ora, si radunarono essi soli nella stanzetta del Santo. Egli, innalzate allo Spirito Santo e a Maria Santissima le preci di uso, ricapitolò le idee fondamentali che avevano formato la materia delle conferenze da qualche tempo a quella parte, chiari bene il concetto di Congregazione religiosa, ne illustrò i pregi, fece vedere il grande onore del consacrarsi interamente a Dio, la maggior facilità di conseguire così la salvezza eterna e il cumulo di meriti che il religioso acquista con l'obbedienza. Indi prosegui press'a poco nei seguenti termini: — Da molto tempo io meditava d'istituire una di queste Congregazioni e tale è stato da parecchi anni l'oggetto principale delle mie cure. Ecco giunto oggi il momento di venire all'atto. Il Santo Padre Pio IX m'incoraggiò e lodò il mio proposito. Veramente questa Congregazione non nasce adesso, ma esisteva già per quel complesso di Regole, che voi siete venuti osservando cosi per tradizione, benchè esse non obbligassero e non obblighino ancora in coscienza, non essendo finora dichiarate obbligatorie da chi ha l'autorità di farlo. Perciò possiamo dire che voi appartenete già in spirito a questa Congregazione; alcuni anzi vi appartengono più strettamente per via di promessa o voto temporaneo. Si tratta dunque ora di procedere oltre, cioè di costituire formalmente la Congregazione, di darvi il nome e di accettarne le Regole. Però sappiate che vi saranno ascritti soltanto coloro che dopo matura riflessione vorranno emettere a suo tempo i voti di povertà, castità e obbedienza. Voi che frequentavate le nostre conferenze, siete stati scelti da me, perché vi giudicava atti a divenire un giorno membri effettivi della Pia Società che prenderà o meglio conserverà il nome di Salesiana, messa cioè sotto la protezione di S. Francesco di Sales. Siamo dunque intesi: chi non avesse voglia di ascrivervisi, è pregato di non intervenire più alle conferenze che io terrò in seguito: il non comparirvi più sarà di per sè indizio che non s'intende di dare la propria adesione. Vi lascio una settimana di tempo per pensarci sopra. Pregate il Signore  che v'illumini. — Infine, recitata la preghiera di ringraziamento, l'assemblea si sciolse nel più profondo silenzio.

Si vide allora quanta ragione avesse avuto Don Bosco di andare avanti con la massima circospezione, lavorando gradatamente in vista dello scopo da raggiungere, ma senza mettere prematuramente allo scoperto i suoi piani. Infatti, usciti dalla camera e scesi nel cortile, alcuni borbottavano sotto voce: Don Bosco ci vuoi fare tutti frati! — Perfino il chierico Cagliero misurò a lungo in su e in giù il portico, in preda a forte agitazione: no e si gli tenzonavano nel capo. Finalmente, aprendosi con un amico, esclamò con quella nervosa energia che non gli venne mai meno in tutta la vita: — O frate o non frate, per me è tutto lo stesso, Io non mi staccherò mai da Don Bosco. — Scrisse quindi al Santo una letterina, dichiarandosi risoluto di rimettersi pienamente ai consigli e alla decisione di lui. Non andò guari che il Santo lo incontrò, lo guardò sorridendo e gli disse bonariamente: — Vieni, vieni; questa è la tua via!
Quella che si potrebbe chiamare la conferenza di adesione alla Società, ebbe poi luogo la sera del z8. Due soli non si fecero vedere. Il risultato della seduta fu consacrato in un verbale che conserviamo nei nostri archivi. È un documento d'incantevole semplicità, che contiene il primo atto ufficiale della Società Salesiana.

Nel nome di Nostro Signore Gesù Cristo. Amen.
L'anno del Signore mille ottocento cinquantanove alli i8 dì dicembre, in . questo Oratorio di S. Francesco di Sales nella camera del Sacerdote Bosco Giovanni si radunavano: Esso, il Sacerdote Alasonatti Vittorio, i chierici Savio Angelo diacono, Rua Michele Suddiacono, Cagliero Giovanni, Vrancesia Giov. Battista, Provera Francesco, Ghivarello Carlo, Lazzero Giuseppe, Bonetti Giovanni, Anfossi Giovanni, Marcellino Luigi, Cerruti Francesco, Durando Celestino, Pettiva Secondo, Rovetto Antonio, Bongiovanni Cesare Giuseppe, il giovane Chiapale Luigi, tutti allo scopo e in uno spirito di promuovere e conservare lo spirito di vera carità che richiedesi nell'opera degli Oratorii per la gioventù abbandonata e pericolante, la quale in questi calamitosi tempi viene in mille maniere sedotta a danno della società e precipitata nell'empietà ed irreligione.

Piacque pertanto ai medesimi Congregati di erigersi in Società o Congregazione, che avendo di mira la santificazione propria, si proponesse di promuovere la gloria di Dio e la salute delle anime, specialmente delle più bisognose d'istruzione e di educazione: ed approvato di comune consenso il disegno proposto, fatta breve preghiera ed invocato il lume dello Spirito Santo, procedevano alla elezione dei Membri, che dovessero costituire la direzione della Società per questa e per nuove Congregazioni (i), se a Dio piacerà favorirne l'incremento.

Pregarono pertanto unanimi Lui iniziatore e promotore a gradire la carica di Superiore Maggiore, siccome del tutto Lui conveniente, il quale avendola accettata colla riserva della facoltà di nominarsi il Prefetto, poiché nessuno vi si oppose, pronunziò che gli pareva non dovesse muovere dall'Uffizio di prefetto lo scrivente, il quale fin qui teneva tal carica nella casa.

Si pensò quindi tosto al modo di elezione per gli altri socii, che concorrono alla Direzione: e si convenne di adottare la votazione a suffragi segreti, per più breve via, a costituire il Consiglio, il quale doveva essere composto di un Direttore Spirituale, dell'Economo e di tre Consiglieri in compagnia dei due prescritti uffiziali.

Or fatto segretario a questo scopo lo scrivente, protesta d'aver fedelmente adempito l'uffizio commessogli di comune fiducia, attribuendo il suffragio a ciascuno dei socii, secondoché veniva nominato in votazione: e quindi essergli risultato nella elezione del Direttore Spirituale all'unanimità la scelta del chierico Suddiacono Rua Michele, che non se ne ricusava. Il che ripetutosi per l'Economo, riuscì e fu riconosciuto il diacono Angelo Savio, il quale promise altresì di assumere il relativo impegno.

 (i) Per nuove ‘Congregazioni’ qui si deve intendere nuove comunità fuori dell'Oratorio. Infatti, quando si parlerà della casa di Mirabello, vedremo che si dirà di *un nuovo Capitolo 4, mettendosi alla pari questo e quella dell'Oratorio. I,a nomenclatura si preci• serà con il concretarsi delle opere.

Restavano ancora da eleggere i tre consiglieri: pel primo dei quali, fattasi al solito la votazione, venne il Chierico Cagliero Giovanni. Il secondo consigliere sorti il Chierico Giovanni Bonetti. Pel terzo ed ultimo essendo riusciti eguali i suffragi a favore dei Chierici Ghivarello Carlo e Provera Francesco, fattasi altra votazione, la maggioranza risultò pel Chierico Ghivarello, e così fu definitivamente costituito il corpo di amministrazione per la nostra Società.

Il quale fatto, come venne fin qui complessivamente esposto, fu letto in piena Congrega di tutti i prelodati socii ed uffiziali pur ora nominati, i quali riconosciutane la veracità, fermarono che se ne conservasse l'originale, a cui per l'autenticità si sottoscrive il Superiore maggiore e il redattore come segretario.

Sac. Bosco Grov.

ALASONATTI VITTORIO Sec. Prelato.
Abbiamo qui in embrione quello che fu ed è il Capitolo Superiore. I non aderenti conservarono piena libertà di secondare le proprie inclinazioni, nè cessarono di godere della carità di Don Bosco. In processo di tempo non tutti gl'iscritti perseverarono, come ad esempio l'Anfossi, al quale Don Bosco aveva procacciato i mezzi per laurearsi in lettere presso la Regia Università di Torino; ma sopraggiunsero altri a prendere i loro posti ed essi dopo aver lavorato chi più chi meno a lungo nell'Oratorio portarono con sè il ricordo dei benefici ricevuti da Don Bosco, serbandogliene perenne riconoscenza.

Il Provera che fu in ballottaggio con Ghivarello, nativo di MirabellO, dove faceva il negoziante con suo padre, a 22 anni abbandonò famiglia e affari per desiderio di diventare sacerdote. Chiese di entrare alla Piccola Casa del Cottolengo; ma non c'era più posto. Nel ritorno, recandosi alla ferrovia, vide un prete che si divertiva con deì ragazzi. Si fermò a osservare. Il prete lo chiama a sè, gli rivolge alcune domande e lo invita ad andare da lui. Quel prete era Don Bosco. Provera pochi giorni dopo entrò all'Oratorio, fece un corso abbreviato, prese la veste e con la sua virtuosa condotta si cattivò la stima generale, divenendo ottimo Salesiano.

Costituita la Società con il suo Consiglio o Capitolo, i membri di questo esercitarono la prima volta il loro ufficio, radunandosi per esaminare una domanda di ammissione. Dice il verbale:
L'anno del Signore mille ottocento sessanta il 2 febbraio alle 91/2 pomeridiane in questo Oratorio di S. Francesco di Sales il Capitolo della Società dello stesso titolo, composto del Sacerdote Bosco Giovanni, del sacerdote Alasonatti Prefetto, del suddiacono Rua Michele Direttore spirituale, del diacono Savio Angelo Economo, del chierico Cagliero Giovanni primo consigliere, del chierico Sonetti Giovanni secondo consigliere, del chierico Ghivarello Carlo terzo consigliere, si radunava nella camera del Rettore per l'accettazione del giovane Rossi Giuseppe di Matteo da Mezzanabigli.

Quivi pertanto dopo breve preghiera, coll'invocazione allo Spirito Santo, il Rettore diè principio alla votazione. Terminata questa e fattone lo spoglio, risultò che il detto giovane fu accolto a pieni voti. Perciò venne ammesso alla pratica delle Regole di detta Società.

Il nome del coadiutore Giuseppe Rossi nelle Memorie Biografiche di S. Giovanni Bosco s'incontra non rare volte, perchè, costituito Provveditore generale della Società per le cose materiali, ebbe parte in molti affari e riceveva spesso incarichi di fiducia. Per amore di Don Bosco avrebbe sacrificato tutto, anche la vita.

Nel maggio dello stesso anno vi furono due altre adunanze capitolari per l'aggregazione di nuovi soci. I verbali registrano nomi cari ai Salesiani e anche per questo si rileggono con piacere. Nel primo è detto:
L'anno del Signore 1860, i maggio il Capitolo della Società di S. Francesco di Sales si è radunato per fare l'accettazione dei giovani Capra Pietro figlio di Francesco di Alfiano, Albera Paolo figlio di Gio. Battista da None, Carino Giovanni figlio di Antonio da Busca, Momo Gabriele figlio di Giuseppe da Saluggia, tutti proposti dal Rettore D. Bosco in altra seduta anteriore. Pertanto dopo la solita preghiera ed invocazione dello Spirito Santo fecesi la votazione. Capra Pietro ottenne i pieni voti, gli altri su sette voti ebbero ciascuno un sol voto negativo. Perciò tutti furono ammessi alla pratica delle Regole della Società.

Paolo Albera, il secondo successore di Don Bosco, faceva allora la terza ginnasiale. Nella notte dal io al 2 di quel maggio Don Bosco in un drammatico sogno l'aveva visto dinanzi a mietitori strappare il loglio per bruciarlo, portare in mano una lucerna splendente anche in pieno sole e trarre piacevoli melodie da una chitarra. Don Bosco medesimo spiegò dicendo che strappare il loglio significava ufficio di superiore che toglie i cattivi di mezzo ai buoni; portare la lucerna, ufficio di sacerdote che precede gli altri sacerdoti col buon esempio; le piacevoli armonie, ufficio di chi, posto in alto, guida e incoraggia al bene altri sacerdoti.

Il Capitolo si radunò nuovamente alla distanza di appena due giorni. Eccone l'oggetto e il risultato.

L'anno del Signore 186o li 3 maggio alle Io pomeridiane il Capitolo della Società di S. Francesco di Sales radunossi per l'accettazione dei giovani, Ruffino Domenico, Chierico, figlio di Michele, da Giaveno, Vaschetti Francesco, Chierico figlio di Pietro, di Avigliana, Donato Edoardo fu Carlo da Saluggia. Fatta secondo il solito la votazione, il Chierico Ruffino su sette voti ne ottenne sei, il Chierico Vaschetti ne ottenne' cinque, il giovane Donato ebbe i pieni voti. Pertanto furono tutti ammessi alla pratica delle Regole di detta Società.

Don Bosco, come si vede nel caso di Albera, vestiva chierici e ammetteva nella Società anche semplici studenti di ginnasio; è chiaro poi che allora non si parlava di noviziato vero e proprio, ma solo di ammissione «alla pratica delle Regole della Società ». I voti negativi sì spiegano appunto per la giovane età degli aspiranti; Albera, per esempio, piccoletto ed esilino, doveva sembrare ancora troppo immaturo. L'associazione, avendo carattere privato, non sottostava alle leggi canoniche dei religiosi. Don Bosco, pieno di Dio e uomo non solo di azione, ma anche di orazione, si dava la massima premura di trasfondere nei teneri germogli della Congregazione la linfa della vita 'soprannaturale, crescendoli a sua immagine e somiglianza. Provenendo quasi tutti da famiglie di modeste o umili condizioni ed essendo dotati di buona indole, sentivano la forza della gratitudine per i benefici che ricevevano dal loro amato padre e si abbandonavano volentieri nelle sue mani come il famoso fazzoletto.

La persuasione che Don Bosco fosse un personaggio straor-dinario e che sarebbe passato alla storia, mosse due di quei primi soci, Bonetti e Ruffino, "a principiare una cronaca, nella quale notarne diligentemente i detti e i fatti, di cui fossero testimoni. Bonetti scrisse dal 1858 all'autunno del 1863 e Ruffino dal 1859 all'ottobre del 1864, finchè cioè i due cronisti non furono mandati alla direzione di collegi. Per intelligenza e coscienza degnissimi entrambi di fede, sono due ottime fonti per la biografia del nostro Santo e per la storia della Congregazione.

Intanto non era stata fatta ancora la comunicazione ufficiale delle Regole nel testo scritto. Tale comunicazione si fece il 7 giugno 186o. Don Bosco, convocati i Soci in adunanza plenaria e datane lettura, annunciò che ín una prossima seduta avrebbero tutti apposta la loro firma alla domanda da inviarsi all'esule Arcivescovo con un esemplare delle Regole per chiederne l'approvazione. La cosa ebbe esecuzione il giorno n. La lettera di accompagnamento era di questo tenore.

Noi sottoscritti, unicamente mossi dal desiderio di assicurarci la nostra eterna salute, ci siamo uniti a far vita comune a fine di poter con maggior comodità attendere a quelle cose, che riguardano la gloria di Dio e la salute delle anime.

Per conservare l'unità di spirito, di disciplina, e mettere in pratica mezzi riconosciuti utili allo scopo proposto, abbiamo formulato alcune regole a guisa di Società Religiosa, che escludendo ogni massima relativa alla politica, tende unicamente a santificare i suoi membri, specialmente coll'esercizio della carità verso il prossimo. Noi abbiamo già provato a mettere in pratica queste regole e le abbiamo trovate compatibili colle nostre forze, e vantaggiose alle anime nostre.

Ma noi sappiamo, che la mente dei privati va troppo soggetta ad illusioni e spesso ad errare se non è guidata dall'autorità stabilita da Dio sopra la terra, che è la santa Madre Chiesa. Egli è per questo motivo, che noi ricorriamo umilmente a V. E. Reverendissima, facendole umile preghiera di voler leggere l'unito piano di Regolamento, cangiare, togliere, aggiungere, correggere quanto il Signore le inspirerà per maggior sua gloria e compatibile colle nostre forze.

Noi riconosciamo in Lei, Eccellenza Reverendissima, il Pastore, che ci unisce col supremo Gerarca della Chiesa di Gesù Cristo. Parli V. E. e nella voce di Lei riconosceremo la volontà del Signore.

Mentre la supplichiamo di accogliere con bontà questa nostra dimanda, prostrati le dimandiamo la Santa Sua Benedizione e La preghiamo di voler leggere l'unito piano dì regolamento, in fine a cui ci sottoscriviamo.

Seguivano dopo quella di Don Bosco venticinque firme con l'indicazione della qualità di ognuno. Vi erano due sacerdoti (Don Alasonatti e Don Savio) e un Diacono (Don Rua); due chierici del terzo anno di teologia, quattro del secondo e quattro del primo; un chierico del secondo anno di filosofia e tre del primo; cinque chierici di seconda retorica e uno della prima (5a e 4a ginnasiale); due coadiutori.

Rullino scriveva nella cronaca dell'adunanza: e Facemmo tra noi promessa solenne che se per mala ventura a cagion della tristezza dei tempi non si potessero fare i voti, ognuno in qualunque luogo si troverà, fossero anche tutti i nostri compagni dispersi, non esistessero più che due soli, non ce ne fosse più che un solo, costui si sforzerà di promuovere questa Pia Società e di osservarne sempre, per quanto sarà possibile, le Regole ». Si sente in queste righe l'eco dei pubblici rivolgimenti. Tutta l'Italia era allora in fermento per le guerre dell'indipendenza e dell'unità. Minacce di colore oscuro si profilavano sull'orizzonte circa i rapporti fra la Chiesa e lo Stato. Proprio in quei giorni, il 26 maggio e il io giugno, per sospetti politici fomentati dalla setta, prima Don Bosco e poi l'Oratorio avevano dovuto subire odiosissime perquisizioni condotte con i modi più polizieschi che si possano immaginare. I Soci poi ricordavano certe frasi di Pio IX in un suo Breve del 7 gennaio a Don Bosco; il Papa vi accennava al e grande scompiglio d'Italia », allo «sconvolgimento delle cose pubbliche » ed alla e fierissima procella suscitata da Satana e. C'erano dunque seri motivi di apprensione.

Monsignore non potè rispondere prima del 2 luglio. Aveva letto le Costituzioni, ma diceva: « Penso anche di consultare qualche persona che meglio di me s'intenda di quanto riguarda la vita di comunità ». Intanto i mesi passavano e non giungevano altre notizie. Don Bosco il 6 settembre in un'adunanza dei Soci dichiarò che, se la Congregazione non fosse per ridondare a maggior gloria di Dio, egli era contentissimo che il Signore facesse sorgere tali difficoltà da impedirne l'approvazione.

Di esaminare le Regole era stato incaricato il signor Durando, quel prete della Missione che cascò dalle nuvole, quando subodorò che Don Bosco aveva in animo di fondare una Congregazione. Nelle osservazioni che spedì all'Arcivescovo partiva da criteri che sarebbero stati a proposito, se si fosse trattato di un Ordine religioso dello stampo tradizionale, non di una Congregazione nuova, fatta per i nuovi tempi; perciò il suo parere fu negativo su tutta la linea. L'Arcivescovo invece si mostrava assai benevolo; infatti raccomandò al suo, Vicario generale di far in modo che si venisse ad una canonica approvazione. ,II giudizio del Cardinale .Gaude avrebbe portato un elemento decisivo; ma egli, poco dopo aver accusato ricevuta di una nuova copia delle Regole (1), cessò di vivere il 14 dicembre senza che se ne fosse potuto occupare. La perdita di sì fido consigliere e alto protettore cagionò un impreveduto e imprevedibile ritardo nell'approvazione della Società e delle Regole da parte della Santa Sede.

Che valore avevano gli atti surriferiti? Prima che fosse promulgato il Codice di diritto canonico, a costituire canonicamente una Religione bastava l'approvazione anche solo orale degli Ordinari dei luoghi (2); ma in morte di Mons. Fransoni, avvenuta il 26 marzo 1862, nulla ancora di questo erasi fatto. Non gliene mancò il volere, ma il tempo, perchè mori prima che fossero appianate le difficoltà messe innanzi dal Signor Durando. In una sua lettera del 23 ottobre 186i a Don Bosco scriveva: 4 Sulla Società di S. Francesco di Sales, mi fu detto che, essendo occorse osservazioni anche d'importanza, come per esempio da chi abbia da dipendere la Società, le si erano rimesse le Regole perchè le aggiustasse e le completasse. .Parmi che dopo mi si diceva, che avea fatto qualche concessione, ma che vi erano ancora molti notabili difetti. Essendo cosa prudente, posso bene chiederne conto (alla Curia]; e lo farò quanto prima ». Così stando le cose, effetto dell'atto costitutivo restò un'Associazione puramente privata e di fatto, e le cariche e le elezioni non ebbero se non valore interno, proveniente dalla libera volontà dei singoli. Qui per altro è da tener conto anche degli incoraggiamenti e consigli dati a Bosco da Pio IX e opportunamente ricordati dal Santo nella sua allocuzione..

 (1) Lettera de1 Cardinale'a Don Bosco, Roma 14 ottobre 1860.
(2) Cfr. can. 492. § I.

Le innovazioni di Don Bosco nel regime de' suoi . chierici gli attiravano osservazioni dalla Curia arcivescovile e critiche da ecclesiastici. In Curia sembrava incredibile che chierici, occupati chi nell'insegnamento, chi nelle assistenze e negli Oratori festivi; potessero attendere con la dovuta serietà alla loro filosofia e teologia. Ma fortunatamente gli esami finali del 186o, dati in novembre, furono la miglior risposta che si potesse desiderare. Infatti, presentatisi in numero di ventidue, ottennero, come risulta dai registri, due egregie, sedici optime, tre fere optime, uno solo bene; e, cosa degna di nota, le votazioni migliori le riportarono i chierici insegnanti regolari dei giovani.

Le critiche ebbero pure un'altra origine. La mente organizzatrice di Don Bosco, poichè la sua doveva essere una Congregazione insegnante, aveva affrontato per tempo la soluzione di un problema, che a nessuno ancora si era affacciato. Egli prevedeva che la legge Casati sulla libertà d'insegnamento, promulgata il. 13 novembre 1854, sarebbe rimasta lettera morta, sì grande era l'accanimento con cui gli uomini del Governo osteggiavano l'influenza della Chiesa nella scuola. Bisognava aspettarsi che incagli d'ogni genere si sarebbero messi agli istituti privati, retti specialmente da religiosi. Quindi, fra non molto, aut aut: o chiudere le scuole cattoliche o avere maestri e professori titolati. Per venire in possesso di titoli, non c'era altra via di mezzo che far conseguire a chierici e preti, patenti e lauree. Non pochi si lusingavano con la speranza che il nuovo ordine di cose non fosse duraturo, ma che presto si sarebbe tornati all'antico. Ai loro occhi le cose d'Italia non avevano come consolidarsi. Don Bosco invece non si faceva illusioni. Persuaso che nessuna forza umana avrebbe arrestato il corso degli avvenimenti e che lo spirito settario avrebbe fatto di tutto per guadagnare terreno, stimò prudenza non lasciarsi cogliere alla sprovvista. Perciò dispose che parecchi de' suoi si preparassero a dare gli esami di licenza normale (corso magistrale superiore) per ottenere patenti elementari e che altri, di maggiori attitudini, si ascrivessero alle Facoltà di lettere, filosofia e matematica presso la Regia Università di Torino. Il secondo provvedimento sollevò opposizioni. È vero che egli non aveva agito di suo capo,- ma si era messo d'accordo con il Vicario generale dell'archidiocesi; tuttavia ecclesiastici dotti e pii ed anche Vescovi deploravano ch'ei sí piegasse alle pretese del laicismo governativo. Certo nelle aule universitarie spiravano arie pestilenziali, come confessava il professore Tommaso Val-lauri; ma professori coscienziosi non ne mancavano e poi Don Bosco stava attento a premunire dal contagio i suoi studenti universitari. Il tempo gli diede ragione. Inaspritasi la lotta fra Chiesa e Stato e moltiplicatesi le esigenze ministeriali sulle scuole private, in che modo avrebbe egli potuto tenere aperti i collegi senza professori legalmente riconosciuti? Superiori religiosi e Vescovi finirono poi con imitarne l'esempio. Chi scriverà la storia dell'insegnamento privato in Italia non dovrà ignorare o disconoscere questa benemerenza del nostro Santo.

CAPO V Inizi di espansione: a Gíaveno e a Mirabello.

Se Don Bosco avesse aspettato a lanciarsi, fino a quando fosse pronta una schiera di Soci armata di tutto punto e fosse interamente sistemata la Società, avrebbe compiuto una minima parte del bene che fece prima della sua morte. Ma lo zelo delle anime che gli aveva fatto triplicare in Torino l'opera degli Oratori, allorchè non disponeva ancora di personale proprio, gli accese in cuore una volontà grande di espansione non appena potè contare sopra un gruppo d'individui docili a' suoi cenni. Perciò, organizzata in nucleo la Congregazione, non indugiò ad allargarle il campo di attività fuori della città e della diocesi di Torino.

Avanti però di seguirlo nelle prime mosse lungi dalla capitale, soffermiamoci a osservare come dilatasse a Valdocco quello che sarebbe stato un giorno il centro d'irradiazione della sua opera mondiale. Per suo impulso l'Oratorio s'incamminò ben presto a diventare una Casa Madre adeguata al numero di filiali, che nella sua mente presaga egli intuiva dover sorgere in ogni parte del globo. La primitiva cappella angusta e povera come la capanna di Betlem e la primitiva casupola non molto dissimile dalla casetta di Nazareth, negli anni di cui si parla nel capo antecedente avevano ceduto il posto a una chiesetta di discrete proporzioni e ad un edificio capace di duecento alunni interni. Accanto a queste due fabbriche contigue, divenute il cuore dell'Oratorio, Don Bosco aggiungeva costruzioni a costruzioni, sicchè nel 1862 vi potè già accogliere cinquecento giovani fra studenti e artigiani. Intanto non si lasciava sfuggire occasione per acquistare nelle adiacenze tutto il terreno possibile con l'evidente disegno di assicurarsi una vasta area, sulla quale ampliare sempre più i fabbricati sì da albergarvi un migliaio di persone. Ond'è che i 600 metri quadrati affittati nel 1846 dal Pinardi erano saliti a 35 mila di sua proprietà nell'anno della sua morte. Grazie a tale previdenza e provvidenza l'occupazione del suolo limitrofo che rapidamente si coperse poi di caseggiati, non contese nè a lui nè a' suoi successori lo spazio necessario agli ulteriori sviluppi, imposti dal giganteggiare dell'Opera salesiana.

La fama dell'Oratorio e del suo Direttore si diffondeva ogni dì più nelle diocesi del Piemonte e ne avveniva che anche Municipi di cospicui Comuni, volendo avere o riavere scuole secondarie di grado inferiore, ricorressero a Don Bosco, perchè mandasse insegnanti idonei. Non di tutte simili richieste ci rimangono i documenti; ma sappiamo che non furono poche. Ci son note soltanto quelle di Cavour, di Dogliani e di Giaveno. Le trattative con i Municipi dei due primi Comuni non approdarono; quelle col Municipio di Giaveno arrivarono a un punto morto, perchè urtarono contro i diritti della Curia arcivescovile, alla quale si dovette cedere il campo nel condurre pratiche con Don Bosco.

Esisteva a Giaveno un piccolo seminario già fiorente, ma da parecchi anni in progressiva decadenza e ormai vicino a spopolarsi del tutto; quindi il Governo stava per mettere le mani sul magnifico edificio e il Consiglio municipale anelava di ottenerne l'uso per utilità scolastiche. Questa minaccia scosse l'autorità ecclesiastica, già angustiata per lo scadimento di un istituto, che in addietro era stato vivaio di vocazioni. Il mal governo e la tristezza dei tempi avevano congiurato alla sua rovina, nè scorge-vasi barlume di speranza per un miglior avvenire. Allora il Canonico Vogliotti, Provicario generale e Rettore del seminario metropolitano, ebbe l'ispirazione d'invocare l'intervento di Don Bosco; anzi per muoverlo in suo favore agevolò generosamente l'ordinazione sacerdotale di. Don Rua e sollecitò dall'Arcivescovo una parola dì approvazione e d'incitamento. L'Arcivescovo si rimise totalmente al Vicario Generale, Canonico Fissore, che condivideva la fiducia del Provicario nella riputazione di Don Bosco e nell'opera de' suoi figli per rialzare le sorti del disgraziato istituto. Don Bosco dopo matura riflessione, essendoci di mezzo un interesse supremo della diocesi, acconsentì.

Intanto l'affare urgeva, perchè al chiudersi di quell'anno scolastico 1859-60 i Superiori avevano lasciato chiaramente intendere che non vi sarebbe stata riapertura; se si voleva scongiurare la temuta catastrofe, bisognava prendere senza indugio seri provvedimenti per il nuovo anno.

Don Bosco pose una sola condizione essenziale: piena libertà di agire. Egli sapeva che una causa dello sfacelo era stata l'ingerenza di estranei nel regime interno. Una volta rassicurato su questo punto, si mise all'opera. Anzitutto pensò al personale. Un prete e tre chierici nel primo anno potevano bastare. Avrebbe voluto mandare Don Alasonatti; ma gli era troppo necessario nell'Oratorio. Fece dunque venire un tal Don Grassino, suo amico e parroco a Cavallermaggiore; questi, essendo dimorato sei mesi con lui, ne conosceva abbastanza il metodo educativo. Fra i chierici si parlava della cosa come di un grande avvenimento e sembrava loro di vedere l'orizzonte allargarsi dinanzi ai propri occhi.. Parecchi aspiravano a esservi mandati. Dei designati, uno per nome Vaschetti, che s'intendeva di economia, avrebbe fatto da Prefetto; gli altri due si sarebbero occupati delle assistenze. Tre professori scelti fra gli antichi insegnanti avrebbero retto nel primo anno le tre classi del ginnasio inferiore. Un sacerdote chiamato Don Rocchietti, aspirante alla Società, vi si sarebbe recato tutte le settimane a confessare e a predicare, per i quali due ministeri possedeva speciali attitudini. Egli era stato il secondo sacerdote uscito dalle file degli alunni dell'Oratorio (il primo fu nel 1857 Don Felice Reviglio, parroco di Sant'Agostino in Torino). Ordinato prete nel x858 e sempre malaticcio, sebbene amasse grandemente il suo benefattore, aveva dovuto lasciare l'Oratorio; ma nel 1860 vi fece ritorno col desiderio, poi insoddisfatto, di rimanervi. Don Bosco avrebbe tenuto l'alta direzione.

Il 25 settembre mandò il Vaschettí a fare un sopraluogo. Che desolazione! Non trovò che le nude muraglie. Allora, spedite le suppellettili e gli utensili più indispensabili, incaricò dell'assestamento un nobile signore torinese, il Cav. Federico Oreglia di Santo Stefano, che, assai destro negli affari, viveva nell'Oratorio. Don Bosco l'aveva conosciuto a Sant'Ignazio sopra Lanzo durante un corso di esercizi spirituali per laici, affezionandoselo talmente, che, quando risolse di consacrarsi al Signore, si ritirò nell'Oratorio per studiare la sua vocazione. Umile, paziente, generoso, decise di entrare nella Società come Coadiutore.

Mentre il Cavaliere attendeva a ordinare i locali, il Santo compilò un programma, che, approvato dalla Curia, fece stampare e spedire a tutti i parroci dell'archidiocesi. Neppur uno rispose. Allora ricorse a un espediente. Le domande di ammissione all'Oratorio fioccavano in numero sovrabbondante. A tutte rispondeva affermativamente; poi, quando i genitori gli conducevano i figli, a quelli che potevano pagare la retta proponeva Giaveno. Quasi tutti, sentendo che Don Bosco avrebbe diretto quell'istituto, accettavano la proposta. Così i nuovi inquilini vi venivano guidati a schiere di quindici o venti per volta. A mezzo novembre arrivarono a no. Poi, diffusasi la notizia che Don Bosco si era assunta la cura di quel seminario, le domande affluirono, sicché, raggiunto il numero di xso, furono sospese le accettazioni.

Il nostro Santo guardava con particolare attenzione a quel primo esperimento del suo sistema pedagogico fuori di Torino. Per meglio trapiantare colà le buone costumanze dell'Oratorio aveva avuto l'avvertenza di mescolare agli altri alcuni dei migliori vissuti già qualche anno vicino a lui. Per essere poi messo bene al corrente delle cose mandò sul finire di novembre il chierico Cagliero a farvi una visita d'ufficio, e lo consolò assai la sua relazione circa la disciplina, lo studio e la pietà. Il viavai da Valdocco a Giaveno per ragioni di ministero o per esami semestrali e finali o per ricorrenze speciali o per semplici gite era così frequente da produrre l'impressione che le due Case ne facessero una sola. Don Bosco vi fu due volte, accoltovi come un padre. Ogni volta fece fare l'esercizio della buona morte; onde predicò, parlò dopo le orazioni della sera e confessò, tutto come nell'Oratorio.

Le cose andavano troppo bene, perchè il diavolo non vi ficcasse la coda. Il Rettore, lusingato dalla prosperità dell'istituto, cominciò a sentir gelosia dell'influenza esercitatavi da Don Bosco e cedette alla tentazione dì voler fare da sé; quindi, come ebbe trovato a Torino chi era disposto a secondarlo, cessò di riferire a lui e si rivolgeva direttamente alla Curia, colorendo il suo nuovo atteggiamento con un preteso zelo per l'interesse della diocesi e per il prestigio dell'autorità diocesana. Criticava anche le idee di Don Bosco sull'educazione dei giovani a base di pietà e di sacramenti, dicendo che erano contrarie all'indole dei tempi e che attiravano sul piccolo seminario la taccia di gesuitismo. Sobillava intanto i tre chierici, perchè abbandonassero la Società; ma siccome trovava resistenza e temeva che, ritirandosi Don Bosco, sarebbe rimasto senza assistenti, si studiava d'indurre la Curia a ordinare che tutti i chierici appartenenti all'archidiocesi venissero via dall'Oratorio. Era però un armeggio coperto, sicché della malaugurata rivalità non apparivano indizi all'esterno.

Don Bosco, informato da' suoi chierici, usava prudenza. Durante le vacanze ne scrisse allo sconsigliato Rettore e all'Arcivescovo. Al primo diceva (i): « Consideri ciò che era l'anno scorso il Seminario di Giaveno e ciò che è adesso. Tutti quelli che noi abbiamo inviato di qui si sono soltanto indotti ad andare colà, quando loro si disse essere una cosa sola tra qui e Giaveno [...]. Nemmeno pensi ch'io ambisca di mischiarmi nelle cose di Giaveno; no, che ho da fare qui a Torino in tutti i sensi; desidero ardentemente che Ella si occupi, che continui l'avviamento sì bene iniziato a Giaveno.

(i) Lett... Torino, 3 settembre 1861.

Del resto Ella sa che da venti anni io ho sempre lavorato e tuttora lavoro e spero di continuare la mia vita lavorando per la nostra Diocesi; ed ho sempre riconosciuto la voce di Dio in quella del Superiore ecclesiastico ». L'esule Pastore, manifestata la sua 4 disgustosa sensazione » per le cose scrittegli, proseguiva (x): 4 Le notizie che ne ebbi l'anno scorso furono effettivamente consolantissime e l'aumento degli allievi, ad un numero non mai superato) ne era la più convincente prova. Quel nuovo Rettore mi si dipingeva come eccellente ». Tuttavia le sue condizioni lo mettevano in una posizione delicata verso chi portava la responsabilità diretta del governo diocesano; onde continuava: «Io non oso chiederne direttamente [al
Provicario], perché l'anno prima, quando non sembrava più possibile di sostenere il Seminario, ed io non sapeva che cosa pro. porre, finii per rispondere, che si cavassero come potevano, mentre io abbandonava affatto la cosa al loro arbitrio. Mi occorre ben sovente di trovarmi in simile penosa situazione, e dopo aver indicato qual sarebbe la mia maniera di vedere, non m'informo più di quello che si è fatto. Non potendo governare io, e dovendo lasciar governare da altri, mi è forza comprimere il pronto mio carattere ».

Per il riapirsi delle scuole Don Bosco badava, come se nulla ci fosse stato, a riempire di alunni il seminario, che salirono a 240, senza che restasse più un angolo libero. Aggiunse pure due nuovi chierici per l'assistenza. Nel programma aveva annunciato anche il ginnasio superiore, di cui affidò la quarta al Vaschetti e la quinta a un altro degli antichi insegnanti.

I seminari dipendono canonicamente dall'autorità diocesana, e Don Bosco lo sapeva benissimo; ma l'autorità diocesana gli aveva dato carta bianca ed egli continuò ad esercitare i suoi pieni poteri. Continuarono pure le manovre occulte. Una sua visita nel gennaio del 1862 lo rallegrò molto per il crescente rifiorire del buono spirito.
i) Lettera, Lione, 23 ottobre 361.

Purtroppo la morte dell'Arcivescovo, avvenuta poco dopo, lo privò del suo maggior protettore, come ebbe tosto a constatare dall'aumentarsi degl'imbarazzi.. Pazientò fino al termine dell'anno scolastico, chiusosi molto bene; ma dopo notificò a chi di ragione che egli si ritirava. Era quello che si voleva. Vi perdette però un chierico, il più valente, Vaschetti, vero factotum della casa. Il poverino non seppe resistere alle lusinghe altrui. Nondimeno gli si mantenne sempre devotissimo non solo, ma quando l'Arcivescovo Gastaldi nel 1875, per rimettere a galla le sorti del seminario di nuovo miseramente precipitate, volle conoscere come avesse fatto Don Bosco in soli due anni a rialzarlo cosi bene, fu Don Vaschetti, allora parroco di Volpiano, colui che gliene fece un'esatta relazione, udita la quale, Monsignore approvò la condotta del Santo e impose che si ritornasse ai metodi da lui usati.

Tutta organicamente sua fu la fondazione di Mirabello, concertata durante i due anni di Giaveno. Con essa Don Bosco mise piede .fuori dell'archidiocesi torinese, appartenendo quel Comunello alla diocesi di Casale Monferrato. L'invito parti dal parroco, desideroso di avere nella sua cura un convitto, che facilitasse alle famiglie di tutta la regione l'avviamento dei figliuoli agli studi. Don Bosco promise di esaminare la proposta. Il padre del chierico Provera offriva il terreno e una casetta. Il Vescovo Calabiana, che conosceva Don BOsco da dieci anni e lo stimava, diede la sua approvazione. Gli accordi furono conchiusi in breve. Nell'autunno del 1862 si pose mano ai lavori. Sopperì alle prime spese la famiglia Provera; poi vennero i generosi aiuti della Contessa Canori, insigne benefattrice torinese di Don Bosco; ma vi rimase ancora largo margine per la Provvidenza. La mano d'opera procedette tanto alacremente, che la casa era già allestita per l'anno scolastico 1863-64.

Parve avvenimento di somma importanza l'apertura del primo collegio; .almeno Don Bosco la considerò come tale. Per questo nell'agosto del 1863 aveva voluto andare in pellegrinaggio al celebre Santuario di Oropa sui monti biellesi con la precisa intenzione di raccomandare alla Madonna il buon inizio dell'impresa. Dalla Vergine implorò anche lume per la felice scelta di coloro che sarebbero da destinarvisi. Diede ivi l'ultimo tocco al Regolamento, ricalcato su quello dell'Oratorio, ma con modificazioni richieste dalla natura dell'istituto; tale Regolamento doveva formare in seguito lo statuto fondamentalé per tutti i collegi salesiani. Aveva pronto anche il programma, che poi fece stampare e spedì a tutti i parroci del Casalese e luoghi circonvicini.

Ritornato da Oropa, scelse il personale, non senza ascoltare prima il suo Capitolo. Risultò così composto: Don Rua Direttore; suoi aiutanti i chierici Provera, Bonetti, Cerruti, Albera, Dalmazzo, Cuffia, più i giovani aspiranti Belmonte, Nasi e Alessio. Ai tre ultimi però impose, prima che partissero, l'abito chiericale.

Avvicinandosi il giorno della partenza, Don Bosco fece a tutti insieme varie raccomandazioni su punti di gran rilievo. Avessero particolarissima cura delle vocazioni ecclesiastiche; fossero ossequenti ed affezionati al Vescovo, prestandosi volentieri a quanto venisse dal medesimo richiesto e adoperandosi a conciliargli il rispetto e l'obbedienza dei diocesani; mostrassero piena deferenza all'autorità del parroco, invitandolo a funzioni e a trattenimenti, e concedendogli cantori per la festa titolare e preti per il sacro ministero. Si facessero un quaderno, intitolato Esperienza, dove registrare inconvenienti, disordini, sbagli man mano che accadessero in scuole, camerate, passeggi, feste; nelle relazioni tra giovani e giovani, tra superiori e inferiori, tra i superiori stessi; nei rapporti del collegio con i parenti dei giovani, con gli estranei e con le autorità scolastiche o civili o ecclesiastiche. Notassero i motivi di cambiamenti in certe circostanze e i nomi di persone da invitare a feste o teatrini. Leggessero di quando in quando queste note, massime al ritornare di talune occasioni. Fu quello davvero un ottimo viatico ai partenti.

Don Rua in ottobre precedette di alcuni giorni gli altri, la cui partenza segnò una data memorabile per chi andava e per chi restava. Dare l'addio all'Oratorio e staccarsi dal fianco di Don Bosco era come un doloroso allontanarsi dalla casa paterna. « Allora Mirabello, scrisse Don Francesia (1), era per noi come l'America adesso ». Tutti poi sentirono che cominciava un nuovo e .grande ordine di cose. Il 28 Don Bosco scriveva al Direttore: « Ad ogni momento noi parliamo di Mirabello e dei Mirabellesi ».

A Don Rua aveva promesso d'inviargli per iscritto norme speciali. Mantenne la parola, premettendo al foglio questo esordio: « Poichè la Divina Provvidenza dispose di poter aprire una casa, destinata a promuovere il bene della gioventù, in Mirabello, ho pensato tornare a maggior gloria di Dio il fidarne a te la direzione. Ma siccome non posso trovarmi sempre al tuo fianco per dirti, o meglio ripeterti quelle cose, che tu forse avrai già veduto a praticarsi, così stimo farti cosa grata, scrivendoti qui alcuni avvisi, che potranno servirti di norma nell'operare. Ti parlo colla voce di tenero padre, che apre il cuore ad uno dei più cari suoi figliuoli. Ricevili dunque scritti di mia.mano, come pegno dell'affetto che ti porto, e come atto esterno del mio vivo desiderio, che tu guadagni molte anime al Signore ». Le norme da lui tracciate riguardano il modo di comportarsi con se stesso, coi maestri, con gli assistenti, con le persone di servizio, coi giovani studenti e con gli esterni. In quelle brevi pagine alita uno spirito assolutamente superiore, tutto pervaso dalla carità di Gesù Cristo.

Tali istruzioni costituirono poi come un codice sacro, che viene consegnato personalmente ra ogni novello Direttore salesiano (2).

(1) G. IL FRANCESIA, D. Francesco Provera. Cenni biografici. S. Benigno Can. 5895. Pag. 127.

(2) Il Santo ritoccò in seguito queste norme, il cui testo definitivo è il seguente:
Con TE STESSO.

1. Niente ti turbi.

2. Evita le austerità nel cibo. Le tue mortificazioni siano nella diligenza a' tuoi doveri e nel sopportare le molestie altrui. In ciascuna notte farai sette ore di riposo. stabilita un'ora di latitudine in più o in meno per te e per gli altri, quando v'interverrà qualche ragionevole causa. Questo è utile per la sanità tua e per quella de  tuoi dipendenti.

30 Celebra la Santa Messa e recita il Breviario pie. attente, ae devote. Ciò sia per te e per i tuoi dipendenti.

4° Non mai omettere ogni mattina la meditazione, lungo il giorno una visita al SS. Sa. cramento. Il rimanente come è disposto dalle Regole della Società.

5° Studia di farti amare se vuoi farti temere. La carità e la pazienza ti accompagnino costantemente nel comandare, nel correggere, e fa' In modo che ognuno da' tuoi fatti e dalle tue parole conosca che tu cerchi il bene delle anime. Tollera qualunque cosa quando trattasi d'impedire il peccato. Le tue sollecitudini siano dirette al bene spirituale, sanitario, scientifico dei giovanetti dalla Divina Provvidenza a te affidati.

6° Nelle cose di maggior importanza fa' sempre breve elevazione di cuore a Dio prima di deliberare. Quando ti è fatta qualche relazione, ascolta tutto, ma procura di rischiarare bene i fatti e di ascoltare ambe le parti prima di giudicare. Non di rado certe cose a primo annunzio sembrano travi e non sono che paglie.

COI MAESTRI.

10 Procura che ai Maestri nulla manchi di quanto loro é necessario pel vitto e pel vestito. Tien conto delle loro fatiche, ed essendo ammalati o semplicemente incomodati, manda tosto un supplente nella loro classe.

2° Parla spesso con loro separatamente o simultaneamente; osserva se non hanno troppe occupazioni; se loro mancano abiti, libri, se hanno qualche pena fisica o morale; oppure se in loro classe abbiano allievi bisognosi di correzione o di special riguardo nella disciplina, nel modo e nel grado dell'insegnamento. Conosciuto qualche bisogno, fa' quanto puoi per provvedervi.

3° In conferenza apposita raccomanda che interroghino indistintamente tutti gli allievi della classe; leggano per turno qualche lavoro di ognuno. Fuggano le amicizie particolari e le parzialità, né mai introducano allievi od altri in camera loro.

4° Dovendo dare incombenze od avvisi agli allievi, si servano di una sala o camera stabilita a questo scopo.

50 Quando occorrono solennità, novena o festa in onore di Maria SS., di qualche Santo nel paese, nel Collegio, o qualche Mistero di Nostra S. Religione, ne diano annunzio con brevi parole, ma non si omettano mai.

6° Si vegli affinché i Maestri non mandino mai allievi via di scuola ed ove vi fossero assolutamente costretti li facciano accompagnare al Superiore. Neppure percuotano mai per nessun motivo i negligenti o i delinquenti e si limitino ai consigli, avvisi, o al pià alle correzioni che permette e suggerisce la carità ben intesa.

COGLI ASSISTENTI E CAPI DI DORMITORIO.

1° Quanto si è detto dei Maestri si può in gran parte applicare agli Assistenti ed ai Capì di Dormitorio.

20 Procura di distribuire le occupazioni in modo che tanto essi quanto i Maestri abbiano tempo e comodità di attendere ai loro studi.

30 Trattienti volentieri con essi per udire il loro parere intorno alla condotta dei giovani al medesimi affidati. La parte più importante dei loro doveri sta nel trovarsi puntuali al luogo ove si raccolgono i giovani pel riposo, scuola, lavoro, ricreazione, ecc.

4° Accorgendoti che taluno di essi contragga amicizia particolare con qualche allievo, oppure che l'uffizio affidatogli, o la moralità di lui sia in pericolo, con tutta prudenza lo cangerai d'impiego; che' se continua il pericolo, ne darai tosto avviso al tuo superiore.

5°. Raduna qualche volta i Maestri, gli Assistenti, i Capi di Dormitorio e a tutti dirai che si sforzino per impedire i cattivi discorsi, allontanare ogni libro, scritto, immagini, pitture, hic scientia est, e qualsiasi cosa che metta in pericolo la regina delle virtù, la purità. Diano buoni consigli, usino carità con tutti.

6°. Si faccia oggetto di comune sollecitudine per 'scoprire allievi pericolosi, e scoperti inculca che ti siano svelati.

COI COADIUTORI E COLLE PERSONE DI SERVIZIO.

1° Non abbiano famigliarità coi giovani, Fa' in modo che ogni mattina possano ascoltare la S. Messa ed accostarsi ai SS. Sacramenti secondo le regole della Congregazione. Le persone di servizio si esortino alla Confessione ogni quindici giorni od una volta al mese.

2° Usa grande carità nel comandare, facendo conoscere colle parole e coi fatti che tu desideri il bene delle anime loro; veglia specialmente che non contraggano famigliarità col giovani o con persone esterne.

3° Non mai permettere che entrino donne nei dormitorii od in cucina, nè trattino con alcuno della casa se non per cose di carità o di assoluta necessità. Questo articolo è della massima importanza.

4° Nascendo dissensioni o contese tra le persone di servizio, tra gli assistenti, tra i giovani allievi od altri, ascolta ognuno con bontà, ma per via ordinaria dirai separatamente il parer tuo in modo che uno non oda quanto si dice dell'altro.

5°. Alle persone di servizio sia stabilito per capo un coadiutore di probità conosciuta, che-vegli sui loro lavori e sulla loro moralità, affinché non succedano furti nè facciansi discorsi; ma si adoperi costantemente per impedire che alcuno si assuma commissioni, affari riguardanti i parenti, od altri esterni, chiunque siano.

COI GIOVANI ALLIEVI.

1° Non accetterai mai allievi che siano stati espulsi da altri Collegi, oppure ti consti altrimenti esser di mali costumi. Se malgrado la debita cautela, accadrà di accettarne alcuno di questo genere, fissagli subito un compagno sicuro che lo assista e non lo perda mai di vista. Qualora egli manchi in cose lubriche, si avvisi appena una volta, e se ricade, sia immediatamente inviato a casa sua.

2° Procura dì farti conoscere dagli allievi e di conoscere essi passando con loro tutto il tempo possibile, adoperandoti di dire all'orecchio qualche parola affettuosa, che tu ben sai, di mano in mano che ne scorgerai il bisogno. Questo è il gran segreto che ti renderà padrone del loro cuore.

3° Dimanderai: Quali sono queste parole ? Quelle stesse che un tempo per lo più furono dette a te. P. E. Come stai? Bene. — E di anima? — Cosi, cosi. — Tu dovresti aiutarmi in una grande impresa; mi aiuterai? — SI, ma in che cosa? — A farti buono. — Oppure: A salvarti l'anima; oppure: A farti il più buono dei nostri giovani. — Coi più dissipati: — Quando vuoi cominciare? — Che cosa? — Ad essere la mia consolazione; — A tenere la condotta di San Luigi. — A quelli che sono un po' restii ai Santi Sacramenti: — Con una buona confessione. — Quando vuole. — Al più presto possibile. — Altre volte: — Quando faremo un buon bucato? — Oppure: — Ti senti di aiutarmi a rompere le corna al demonio? Vuoi che siamo due amici per gli affari dell'anima? Haec aut similia.

4° Nelle nostre Case il Direttore è il Confessore ordinarlo, perciò fa' vedere che ascolti volentieri ognuno in Confessione, ma da' loro ampia libertà di confessarsi da altri se lo desiderano. Fa' ben conoscere che nelle votazioni sulla condotta morale tu non ci prendi parte e studia di allontanare sia l'ombra di sospetto che tu abbia a servirti, oppure anche ricordarti di quanto fu detto in Confessione. Neppure apparisca il minimo segno di parzialità verso chi si confessasse da uno a preferenza degli altri.

Il piccolo clero, la Compagnia di S. Luigi, del SS. Sacramento e dell'Immacolata Concezione, Siano raccomandate e promosse. Dimostra benevolenza e soddisfazione verso coloro che vi sono ascritti, ma tu ne sarai soltanto promotore, non direttore; considera tal cose come opere dei giovani, la cui direzione è affidata al catechista, ossia al Direttore Spirituale.

6° Le parti odiose e disciplinari siano per quanto è possibile affidate ad altri. Quando riesci a scoprire qualche grave mancanza, fa' chiamare il colpevole o sospettato tale in tua camera e nel modo più caritatevole procura di fargli dichiarare la colpa e il torto nell'averla commessa; di poi correggilo e invitalo ad aggiustar le cose di sua coscienza. Con questo mezzo e continuando all'allievo una benevola assistenza si ottennero de' maravigliosi effetti e delle emendazioni che sembravano impossibili.

Il collegio venne aperto con l'intero ginnasio e la seconda e terza elementare. Gli alunni erano novanta; anche in mezzo a questi Don Bosco mandò parecchi dei migliori dell'Oratorio, perchè vi facessero da buon lievito. Fra scuole e assistenze quei giovani chierici non avevano riposo: lo spirito di sacrificio suppliva alla scarsità del numero. Fino al maggio del 1864 Don Rua fu il solo sacerdote; in quel mese gli si aggiunse il nuovo ordinato Don Bonetti.

Ai soci di Mirabello restava da dare forma di comunità religiosa, perché Don Bosco aveva fatto la scelta del personale soltanto in vista del collegio. Perciò, radunati a suo tempo i Soci che si trovavano nell'Oratorio, fece fare l'elezione del Capitolo di quella casa.

Li 12 novembre 1863 i Confratelli della Società di S. Francesco di Sales si radunavano per eleggere e stabilire nella nuova Casa di Mirabello un nuovo Capitolo. Perciò il Sig. D. Bosco Rettore e fondatore cominciò egli medesimo, come è prescritto dalle Regole della Società, ad eleggere il Direttore, che è il Sig. D. Rua Michele. Dopo stabili Prefetto il Ch. Provera Francesco, a cui commise anche l'uffizio di Economo. Elesse quindi Catechista il Ch. Bonetti Giovanni. Finalmente ad unanimità di voti si elessero consiglieri Cerruti Francesco ed Albera Paolo. Così fu stabilito il nuovo Capitolo della Casa di Mirabello composto dal Direttore, dal Prefetto che ha pure il titolo di Economo, dal Catechista e da due consiglieri.

Conti ESTERNI.

1° Prestiamo volentieri l'opera nostra pel servizio religioso, per la predicazione, per celebrare Messe a comodità del pubblico, e ascoltare le confessioni, tutte le volte che la carità e f doveri del proprio stato lo permettono, specialmente a favore della parrocchia nei. cui limiti trovasi la nostra casa. Ma non assumetevi mai Impieghi o altro che importi assenza dallo stabilimento o possa impedire gli uffizi a ciascuno affidati.

2° Per cortesia siano talvolta invitati Sacerdoti esterni per le predicazioni, od altro in occasione di solennità o di trattenimenti musicali o di altro genere. Lo stesso invito ai faccia alle autorità civili e a qualsiasi altra persona benevola o benemerita per favori usati o che sia In grado di usarne.

3° La carità e la cortesia siano le note caratteristiche di un Direttore verso gli interni quanto verso gli esterni.

4° In caso di questioni di cose materiali accondiscendi in tutto quello che puoi, anche con qualche danno purchè si tenga lontano ogni appiglio di liti, o di altra questione che possa far perdere la carità.

5° Se trattasi di cose spirituali, le questioni risolvansi sempre come possono tornare a maggior gloria di Dio. Impegni, puntigli, spirito di vendetta, amor proprio, ragioni, pretensioni ed anche l'onore, tutto deve sacrificarsi per evitare il peccato.

6° Se per altro la cosa fosse di grave importanza è bene di chiamare tempo per pregare e dimandare consiglio a qualche pia e prudente persona.

CON QUELLI DELLA SOCIETÀ.

1° L'esatta osservanza delle Regole, e specialmente dell'ubbidienza, sono la base di tutto. Ma se vuoi che gli altri obbediscano a te, ali tu obbediente ai tuoi superiori. Niuno è idoneo a coruanaare, se non è capace di ubbidire.

2° Procura di ripartire le cose in modo che niuno sia troppo carico d'incombenze, ma fa' che ciascuno adempia fedelmente quelle che gli sono affidate.

3° Niuno della Congregazione faccia contratti, riceva danaro, faccia mutui o imprestiti al parenti, agli amici o ad altri. Nè alcuno conservi danaro od amministrazione di cose temporali senza esserne direttamente autorizzato dal Superiore. L'osservanza di questo articolo terrà lontano la peste più fatale alle Congregazioni religiose.

4° Abbordaci come veleno le modificazioni delle Regole. L'esatta osservanza di esse è migliore di qualunque variazione. Il meglio è nemico del bene.

5° Lo studio, il tempo, l'esperienza mi hanno fatto toccare con mano che la gola, l'interesse, la vanagloria, furono la rovina di floridissime Congregazioni e di rispettabili Ordini Religiosi. Gli anni ti faranno conoscere delle verità che forse ora ti sembreranno incredibili.

.6. Massima sollecitudine nel promuovere con le parole e co' fatti la vita comune.

NEL COMANDARE.

1° Non mai comandare cose che giudichi superiori alle forze dei subalterni, o quando prevedi di non essere ubbidito. Fa' in modo di evitare i comandi ripugnanti; anzi abbi massima cura di secondare le inclinazioni di ciascuno affidando di preferenza quegli uffizi che a ciascuno si conoscono di maggior gradimento.

2° Non comandare cose dannose alla sanità o che impediscano il necessario riposo o vengano in urto con altre incombenze o con ordini di altro superiore.

3° Nel comandare si usino sempre modi e parole di carità e di mansuetudine. Le minacce, le ire, tanto meno le violenze, siano sempre lungi dalle tue parole e dalle tue azioni.

4° In caso di dover comandare cose difficili o ripugnanti al subalterno ai dica p. es.: Potresti fare questa o quell'altra cosa? Oppure: Ho cosa importante, che non vorrei addossarti, perché difficile, ma non ho chi al pari di te possa compierla. Avresti tempo, sanità, non ti impedisce altra occupazione? L'esperienza ha fatto conoscere che simili modi, usati a tempo, hanno molta efficacia.

5°. Si faccia economia in tutto, ma assolutamente in modo che agli ammalati nulla manchi. Si faccia per altro a tutti notare che abbiamo fatto voto di povertà, perciò non dobbiamo cercare, nemmeno desiderare agiatezze in cosa alcuna. Dobbiamo amare la povertà ed i compagni della povertà. Quindi evitare ogni spesa non assolutamente necessaria negli abiti, nei libri, nel mobiglio, nei viaggi, ecc.

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Questo è come testamento che indirizzo ai Direttori delle case particolari. Se questi avvisi saranno messi in pratica, io muoio tranquillo, perché sono sicuro che la nostra Società sarà ognor più fiorente in faccia agli uomini e benedetta dal Signore e conseguirà il suo scopo, che è la maggior gloria di Dio e la salvezza delle anime.

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Di questo atto il Ch. Ghivarello, fungendo da segretario, mandò a Mirabello la comunicazione ufficiale. A un'altra cosa bisognava provvedere. Due membri del Capitolo di Valdocco avevano lasciato l'Oratorio per il nuovo collegio; fu dunque necessario sostituirli.

Li 15 novembre 1863 nella Casa Madre di Torino si sono radunati i Confratelli della Società dì S. Francesco di Sales per l'elezione del Direttore spirituale e del secondo Consigliere, perché quei che prima sostenevano tale ufficio andarono a comporre un nuovo Capitolo nella Casa di Mirabello. Il Sig. D. Bosco Rettore, premessa la solita invocazione e preghiera allo Spirito Santo, dichiarò Direttore spirituale il Sac. D. Ruffino Domenico, che perciò come tale fu da tutti riconosciuto. Il Consigliere poi dovendosi eleggere dal voto di tutti, fecesi la votazione in cui la maggioranza fu in favore del Sac. Francesia Giovanni: onde egli fu riconosciuto e costituito secondo Consigliere.

Come si vede, alcuni Capitolari eran nominati dal Rettor Maggiore e altri eletti dall'assemblea dei Soci. Le Regole non dicevano nulla al riguardo; ma così erasi stabilito nel costituire il primo Capitolo (i). Qualcuno aveva ben proposto di rimettere al fondatore anche la nomina dei tre Consiglieri; ma egli rispose che non lo credeva conveniente.

(i) Cfr. sopra. pag. 32.

Il Santo visitò Mirabello dopo la festa dell'Immacolata. Lo accompagnava Don Cagliero, che era stato ordinato prete con Don Francesia il 14 giugno 1862. Avrebbe voluto ritornarvi dopo le feste natalizie; ma, non essendo potuto andare, l'ultimo giorno dell'anno scrisse ai giovani per ringraziarli dei e segni di figliale affetto » datigli nell'occasione della visita, per avvisarli di alcuni inconvenienti allora notati e raccomandare fuga dell'ozio, comunione frequente e divozione alla Madonna.

Mette conto riportare un tratto della cronaca di Don Ruffino, che, già sacerdote anche lui, aveva avuto occasione di osservare da vicino la vita del collegio: « Don Rua a Mirabello si diporta come Doli Bosco a Torino. È sempre attorniato dai giovani, attratti dalla sua amabilità e anche perché loro racconta sempre cose nuove. Sul principio dell'anno scolastico raccomandò ai maestri che non fossero per allora troppo esigenti, che non pigliassero a sgridare gli alunni per qualche loro negligenza o vivacità, ma che tollerassero molto. Al dopo pranzo fa anch'egli ricreazione sempre in mezzo ai giovani, giuocando o cantando laudi. Nello studio comune tutti i maestri e gli assistenti hanno il loro posto ad una tavola riservata per loro [...). Ei nelle feste predica due volte. Al mattino racconta la storia sacra e alla sera spiega le virtù teologali. n da notare che allorquando alla sera parla ai giovani, si esprime ìn modo sempre faceto ed ilare».

(i) Legge 13 novembre 1859. art. 246 e 247.
Le cose dunque filavano a meraviglia, quando sorse un gravoso incidente. Per sottrarre il collegio alle esigenze legali dei titoli d'insegnamento, Don Bosco aveva ottenuto da Mons. di Calabiana che quello fosse da lui riconosciuto come piccolo seminario, dipendente perciò dall'autorità diocesana; quindi non erasi nemmeno chiesta al Regio Provveditore degli studi di Alessan, dria l'autorizzazione voluta dalla legge per l'apertura di un collegio (i). Ecco perché questo s'intitolava "Piccolo Seminario di San Carlo "; ecco pure perché Don Bosco aveva fatto una speciale raccomandazione circa il coltivar ivi le vocazioni ecclesiastiche. E, sia detto fra parentesi, non fu quel titolo un mero notnen sine re. Infatti si dovette alla Casa di Mirabello se il seminario vescovile di Casale, ridotto a una ventina di chierici, potè in breve contarne più di cento. Orbene il Regio Provveditore, venuto a conoscere l'esistenza di un collegio a Mirabello, scrisse immediatamente a chi lo dirigeva, domandando spiegazioni. Don Rua interrogò Don Bosco, il quale gli fece rispondere che pregasse il Vescovo di scrivere egli stesso al Provveditore per dirgli che, se non si toccavano i piccoli seminari aperti da lungo tempo, segno era non esserci legge in contrario; che se il Provveditore non credesse lecito a un Vescovo di aprire un piccolo seminario, lo dichiarasse, e in tal caso il Vescovo sarebbe ricorso al Ministero, affinché gli fosse concesso per favore quanto gli si negava in nome della legge. Ma il Provveditore non volle sentir ragioni; onde Don Bosco scrisse a Don Rua: « Va bene che tu vada col Conte Radicati dal Provveditore. Il tenore del tuo discorso sarà che ti rincresce del disturbo datogli, e lo ringrazi della cortesia usata: che Monsignore conta il piccolo seminario di Mirabello come una continuazione di quello stato chiuso o meglio occupato per uso militare in Casale. Che questo seminario di Mirabello incontrava molte difficoltà; ma la beneficenza venne in aiuto; Monsignore chiese a D. Bosco in Torino il personale, che gli fu somministrato e provveduto gratuitamente, e gratuitamente si occupa tuttora. Il resto te lo dirà il Signore ».

Seguirono lunghe pratiche, il cui risultato fu che l'autorità scolastica, ammettesse o no i motivi addotti, lasciò correre. Anche nell'Oratorio Don Bosco patì continue noie per la questione dei titoli, finché, dopo un periodo di concessioni strappate con gli argani, riuscì ad avere in casa professori titolati. Guai se non avesse pensato in tempo a procurarsene! Con l'estendersi della Congregazione in Italia, quella dei titoli legali d'insegnamento fu poi sempre una delle maggiori preoccupazioni.

CAPO VI Come si arrivò al " decretum laudis ".

Nella cronaca di Don Ruffino ai primi di aprile del 1861 si legge: e Don Bosco tagliò la testa a Costamagna e a quattro altri ». L'espressione sonava spietata, ma la cosa espressa piaceva a chi se la sentiva dire da Don Bosco. " Tagliare la testa " significava far entrare nella Società; e quando il Santo diceva ad alcuno di volergli tagliare la testa, era già sicuro che quegli vi si sarebbe acconciato volentieri. L'entrare nella Società importava la rinuncia alla volontà propria. Trattavasi dunque di una decapitazione spirituale, ossia di abbandonare la propria testa nelle mani di Don Bosco. Fino al cominciare del 1864 si erano lasciati così decapitare sessantuno individui, di cui nove già avevano ricevuto il presbiterato.

Perchè tante volontà stessero unite in guisa da formare una anima sola, ci volevano Regole non solo ben definite e già tradotte in pratica, ma anche rivestite di un'autorità che le rendesse obbligatorie in coscienza. La morte del Cardinale Gaude aveva arrestato bruscamente le trattative iniziate a Roma nel 1858 per raggiungere l'approvazione pontificia; la morte poi. di Mons. Fransoni troncò l'azione del buon Prelato per addivenire all'approvazione diocesana. Il Vicario Capitolare Zappata, succeduto al defunto Arcivescovo nell'amministrazione della diocesi, menava le cose in lungo. Don Bosco dopo aver pazientato alquanto spedì un'altra volta le Regole a Roma nel 1863; ma perchè a Roma si potesse dare corso alla pratica, occorrevano due cose preliminari: le commendatizie di alcuni Vescovi e l'approvazione dell'autorità diocesana. Senza quest'approvazione le commendatizie vescovili non sarebbero state prese in considerazione. Perciò Don Bosco nel settembre di quell'anno inviò al detto Vicario una domanda, nella quale, esposto brevemente l'antefatto, così si esprimeva:
Considerando che vi potrebbero nascere non lievi inconvenienti se la morte mi sorprendesse prima che questa. Società fosse dal Superiore Ecclesiastico approvata;
Ritenuto l'esperimento di queste Regole fatto nello spazio di una quindicina d'anni, durante i quali si poterono introdurre quelle modificazioni, che dietro prudenti consigli sembrarono opportune;
Considerato il vistoso numero dei soci in essa inscritti che tra Sacerdoti, Chierici e Coadiutori giungono a sessanta;
Avuto eziandio riguardo alla molta e svariata messe evangelica che si offre in questa Capitale, tanto per parte di giovani ricoverati in questa che sommano a settecento, quanto per parte delle scuole feriali e delle radunanze festive che hanno luogo nell'Oratorio di S. Francesco di Sales in Valdocco, del Santo Angelo Custode in Vanchiglia, di S. Luigi a Porta Nuova, quindi maggior bisogno di vincolo sicuro e regolare che unisca gli spiriti e si conservino invariabili quelle pratiche te quali poterono conoscersi maggiormente fruttuose, al bene delle anime;
Tenendo anche conto dell'occasione in cui mi trovo per una casa novella che si sta preparando e che a Dio piacendo col beneplacito di Lei si aprirà nel prossimo mese dì ottobre in Mírabello presici Casal Monferrato;
Per tutti questi motivi, a nome di tutti i membri di questa Società, fo umile preghiera onde siano al più presto appagati i nostri comuni desiderii, degnandosi di approvarla con tutte quelle clausole, osservazioni e condizioni che a Lei sembrassero tornare a maggior gloria di Dio e vantaggio delle anime.

Ciò fatto, si diede attorno per ottenere il maggior numero possibile di commendatizie da Vescovi piemontesi. A questo fine durante un paio dí mesi scrisse lettere, fece visite, presentò copie delle Regole, sostenne discussioni, raccomandò ripetute volte ai giovani di pregare « per affari importanti*, dice la cronaca, e aspettò. Finalmente ecco una prima commendatizia dal Vescovo di Cuneo con la data del 27 novembre. Monsignore raccomandava alla Santa Sede la nuova Società, allegando tre motivi: la stima che egli professava grandissima al pio Istituto, l'intimo suo convincimento che questa istituzione dovesse diventare uno dei mezzi precipui ordinati da Dio a rimedio del guasto spaventoso causato dalle sétte alla povera inesperta gioventù e il vedere non piccoli vantaggi recati da essa alla sua diocesi. Alludeva certamente alle numerose vocazioni di suoi diocesani, educati nell'Oratorio. Di questa lettera Don Bosco informò il Provicario Vogliotti, che lo pregò di recargliela in Curia. Il Santo, impedito di andarvi in persona, gliela mandò con una sua lettera, in cui, rammaricandosi del negato consenso di tenere nell'Oratorio un chierico, diceva: « Non posso a meno di dirle che sento il peso di questo rifiuto. È il solo chierico che io dimandassi, mentre quasi tutti quelli che teste entrarono in Seminario partivano da questa casa. Dovrò per necessità raccomandarmi ai Vescovi di altre diocesi per avere assistenti nella casa, e fortunatamente trovo molta accondiscendenza ». Parlava di chierici estradiocesani venuti nell'Oratorio solo per compiervi i loro studi e di allievi che, compiuto ivi il ginnasio, ottenevano dai rispettivi Ordinari il permesso di ricevere da Don Bosco l'abito chiericale; degli uni e degli altri ve n'erano sempre che finivano con restare per farsi Salesiani.

Della commendatizia del Vescovo di Cuneo Don Bosco aveva mandato l'originale, ritenendone però una copia. Ora, mentre ne aspettava la restituzione, che è che non è, il Provícario a una sua richiesta di restituzione rispose di non aver ricevuto nulla. Gliene trasmise un'altra copia. Nel frattempo gli perveniva quella del Vescovo di Acqui, che, lette attentamente e con somma soddisfazione le Regole, dichiarava di conunendare altamente lo spirito e lo scopo della Società e di riconoscerne l'utilità grande per la Chiesa e per la società civile.

Ma nulla ancora dalla Curia, nonostante una promessa orale. Ne riscrisse il 6 gennaio al Provicario, dicendogli: e Il regnante Pio IX avendomi egli stesso data la traccia ed il suggerimento della Società, credo che il Regolamento troverà benevola accoglienza presso il medesimo. Qualora per altro travedesse qualche difficoltà presso il prelodato Sig. Vicario Generale, La prego rispettosamente a volermene dar cenno per norma; giacche mi sta assai a cuore che questo Regolamento o in un modo o in un altro, cioè o dall'Ordinario o dal Pontefice, ottenga qualche approvazione ».

Intanto l'afflusso di giovani alla Società continuava. Dal 18 novembre all'u febbraio ne furono in più volte ammessi ventuno, fra cui i noti Giulio Barberis, Giuseppe Monateri, Francesco Paglia e Domenico Vota. Il crescere del numero non sarebbe stato senza causare disagio, se fosse tardata troppo una rassicurante sistemazione.

Il 19 gennaio si aggiunse la commendatizia del Vescovo di Susa. Monsignore, fatti i più alti elogi di Don Bosco e descrittane l'opera, diceva le Regole dettate da vero spirito di zelo e faceva caldi voti perchè fossero rese stabili in perpetuo. Grandi lodi del Fondatore e della Società si leggevano poco dopo anche nelle commendatizie dei Vescovi di Mondovì e di Casale. Monsignore .dí Calabiana terminava con questa esclamazione: «Oh quanto ne sarà consolato il paterno animo dell'immortale Pio IX, dal cui venerato oracolo si attende il fiati ».
Don Bosco si sentiva ognor più addolorato per il silenzio del Vicario Capitolare. Non dobbiamo però farne le meraviglie. Un Vicario Capitolare che esercita il potere durante la vacanza della sede, va a rilento nel prendere deliberazioni, che possano poi imbarazzare il nuovo Ordinario. Inoltre l'affare sotto esame si collegava con interessi che toccavano tutta la diocesi. Nè si deve tacere che non tutti i suoi consiglieri vedevano con favore la nascente Società. Don Bosco tornò alla carica il 26 gennaio. «Mi raccomando pure, scriveva, per la nota commendatizia per la povera nostra Società; perché io temo molto che qualche nicchia del Campo Santo venga ad incagliare i miei progetti ». Diceva così perchè la sua salute non era buona; infatti aveva espettorazioni sanguigne e stentava a digerire.

Gli recò sollievo una lettera da Roma di Don Emiliano Manacorda. Questi da chierico, sentendosi a disagio nel seminario di Fossano, era venuto nel 1854 a consigliarsi col Santo sul da fare. Carezzava l'idea di rimanere con lui; ma ne fu indotto a terminare in patria gli studi teologici. Ordinato prete, tornò verso il 1863 a passare sei mesi nell'Oratorio, donde, accogliendo il consiglio di Don Bosco, parti per Roma affine di avviarsi alla carriera prelatizia. L'aver conosciuto da vicino il nostro Santo gli valse a concepire di lui un'affettuosa venerazione e a renderlo felice ogni volta che glipotesse prestare qualche servigio. Gli scriveva dunque il 21 gennaio: «Esco dall'udienza del Santo Padre, il quale mi trattenne a lungo con molti discorsi. Mi lasciò di scrivere alla S. V., mandandole di cuore la sua santa benedizione da me chiesta pel caro Don Bosco e per tutti i suoi figli spirituali ».

Quando ebbe nelle mani cinque commendatizie, Don Bosco credette che potessero ormai bastare. Ma come spedirle a Roma senza quella dell'autorità diocesana? Vedendo che questa non veniva mai, Don Bosco il io febbraio scrisse nuovamente con la sua santa calma al Provicario: « Venerdì prossimo mattino avrei un'occasione sicura per fare pervenire il mio piego alle mani del S. Padre; non mi manca più altro che la implorata commendatizia che V. S. 111.ma e M. Rev.da mi aveva fatto sperare. Se pertanto Ella me la può terminare, mi farebbe duplice favore e per la cosa in sè e per l'occasione favorevole che mi si presenta. Voglia perdonarmi il replicato disturbo ». L'indomani finalmente il Vicario Capitolare firmò quel benedetto documento e glielo mandò. Era redatto benino. Dopo una succinta esposizione su l'origine, lo scopo e l'incremento della Società, vi si conchiudeva: « Tante cure e fatiche adoperate da questo egregio Sacerdote nel rinfrancare i giovanetti buoni nel sentiero della virtù e ritrarre gli altri dalla via dell'errore e del vizio, tanto zelo per la salute spirituale ed anche temporale del prossimo e per educare al Santuario giovani di buone speranze, meritano certamente i distinti encomii del Superiore Ecclesiastico. Questi novelli Sacerdoti poi e coadiutori del lodato Sacerdote vivono sotto certi regolamenti e con tale regolare condotta, che riescono di edificazione agli allievi alle loro cure affidati ». Chiedeva quindi « quelle grazie e favori » che potevano « procurare incremento all'Oratorio e Religiosa famiglia e recare maggior bene alla città e diocesi di Torino ».

In giornata Don Bosco, radunato il Capitolo e ragguagliatolo delle pratiche condotte e del loro esito, consegnò ad un inviato speciale una copia delle Regole e le sei commendatizie, perché le portasse a Roma insieme con questa sua lettera al Papa:
Santissimo Padre,
Coll'unico scopo e soltanto col desiderio di promuovere la gloria di Dio e il bene delle anime, umile, mi prostro ai piedi di V. S. per domandare l'approvazione della Società di S. Francesco di Sales. È questo un progetto da me molto meditato e lungo tempo desiderato. L'anno 1858 quando io aveva la felice ventura di potermi presentare a V. S., all'intendere gli sforzi che faceva l'eresia e l'incredulità per, insinuarsi nei popoli e sopratutto fra la povera ed inesperta gioventù, accoglieva con segno di gradimento l'idea di una Società, che di quella pericolante porzione del gregge di Gesù Cristo si prendesse cura particolare. La medesima S. V. degnavasi di tracciarmene le basi, che io ho fatto quanto ho potuto per svolgere in questo piano di regolamento. Ma sebbene io abbia avuto ferma volontà e sfatai secondo le deboli mie forze adoperato per mettere in opera i consigli di V. S., tuttavia nella esecuzione del lavoro temo di.essertni di troppo, in cose anche essenziali, allontanato da quanto esami proposto. Per questo motivo io domando piuttosto la correzione di queste progettate costituzioni anzichè l'approvazione.

Pertanto Vostra Santità, o chi Ella si degnerà deputare, corregga, aggiunga, tolga quanto giudicherà tornare a maggior gloria di Dio. Io non farò osservazione di sorta, anzi mentre mi offro dì dare qualunque spiegazione, che si ravvisi necessaria ed opportuna, mi professo fin d'ora obbligatissimo verso chiunque mi aiuterà a perfezionare gli statuti di questa Società e ridurli quanto più possibile, stabili e conformi ai principi di Nostra Santa Cattolica Religione.

Gli statuti sono composti di 26 capitoli, divisi in brevi articoli di cui unisco una copia. In foglio .a parte si dà ragione di alcune cose più importanti.

I Vescovi di Acqui, di Cuneo, di Mondovì, di Susa, di Casale e il Vicario Capitolare di questa nostra Archidiocesi ebbero la bontà di fare commendatizie in favore della medesima Società. Essa attualmente è composta di oltre settantacinque sodi, tutti deliberati d'impegnare vita e sostanze per la gloria di Dio e per la salute delle anime.

Mentre noi tutti nella preghiera aspettiamo le decisioni del Supremo Gerarca della Chiesa, di Vostra Santità, ci prostriamo supplicandola di volerci anticipare il segnalato favore coll'impartire ad ognuno la Vostra Santa Apostolica Benedizione, intanto che a nome di tutti ho il massimo degli onori di potermi dichiarare ai piedi di V. S.

Torino, 12 febbraio 1864.

Umil.mo obbl.mo aff.mo figlio di S. Chiesa e dí V. Santità
Sac. Bosco GIOVANNI.

Il foglio a parte, menzionato nella lettera, conteneva alcune osservazioni, che miravano a dissipare dubbi e a dire chiarimenti sopra certi punti speciali.

Lo scopo di questa Società, se si considera ne' suoi membri, non è altro che un invito a volersi unire in ispirito tra di loro per lavorare a maggior gloria di Dio e per la salute delle anime, a ciò spinti dal detto di S. Agostino; Divinorum divinissimitm est in kerma animarton operati.
Se poi si considera in se stessa, ha per iscopo la continuazione  di quanto da circa 20 anni si fa nell'Oratorio di S. Francesco di Sales. Imperocchè si può dire che qui non si fece quasi altro che ridurre la disciplina, praticata finora in questo Oratorio, ad un'ordinata Costituzione, secondo il consiglio del Supremo Gerarca della Chiesa.

In questo regolamento non si parla esplicitamente del Sommo Pontefice, sebbene sia scopo principale di esso il sostenere e difenderne l'autorità con tutti quei mezzi, che i tempi, i luoghi, le persone permetteranno di poter prudentemente usare. Il motivo per cui si esprime meno esplicitamente si è che questa casa essendo già stata più volte perquisita dall'Autorità civile, ad oggetto di trovarvi relazioni compromettenti (si diceva) con Roma, quindi la Società correrebbe rischio di essere posta a repentaglio, qualora questo regolamento, cadendo • in mano a taluno, vi si trovassero espressioni non opportune.

In quanto al costitutivo delle regole, ho consultato e, per quanto convenne, ho eziandio seguito gli statuti dell'Opera Cavanis di Venezia, le costituzioni dei Rosminiard, gli statuti degli Oblati di Maria Vergine, tutte corporazioni o società religiose approvate dalla S. Sede. I capitoli 50, 60, 70 che riguardano la materia dei voti, furono quasi interamente ricavati dalle costituzioni dei Redentoristi. La formola poi dei voti fu estratta da quella dei Gesuiti.

Nel capitolo 80, articolo 20, si domanda che i chierici siano posti sotto la giurisdizione del Superiore Generale della Società.
1° Perché questa Società, avendo unione di case di diocesi diverse, non potrebbe disporre de' suoi membri secondo i varii bisogni, giacché potrebbero essere dall'Ordinario liberamente inviati altrove a piacimento.

20 Ne' nostri Stati essendo gli ordini religiosi soppressi, quei pochi che sono • eccettuati non potendo più godere alcun privilegio nel richiamo della leva militare, devono ricorrere ai Vescovi che, secondo le leggi finora  conservate, possono richiamarne alcuni, cioè ogni ventimila richiamare annualmente un chierico. Per la qual cosa è di tutta necessità che i membri aspiranti allo Stato Ecclesiastico si possano mandare da una casa ad un'altra secondo che il Vescovo Ordinario della medesima può o non può richiamarli dal servizio militare.

30 Havvi ancora una terza ragione che riguarda al sacro ministero. I membri di essa hanno per iscopo di esercitarlo verso la gioventù, che è un lavoro delicato e difficile e che per lo più non s'impara che coll'esperienza e con lungo studio, specialmente vivendo e trattando con coloro stessi di cui si vuole prendere cura. Questa esperienza, questa unità di spirito si potrebbe difficilmente acquistare e mantenere, senza che il Superiore generale abbia piena giurisdizione sopra i membri della Società.

L'incartamento fu consegnato dal messo di Don Bosco al Cardinale Antonelli, Segretario di Stato, con una lettera del Santo, che pregava Sua Eminenza di presentare quei documenti al Papa. Vi era pure unito uno scritto del Servo di Dio per la Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari. Egli dava in quello un ragguaglio sulla Società, passando in rassegna tutti gli atti ufficiali e ufficiosi di Mons. Fransoni a favore della medesima, le grazie accordate da Pio IX all'opera degli Oratori e tutto ciò che il Papa aveva detto, consigliato e concesso nelle tre udienze del 1858. Questo documento ci servì di fonte nel riferire i colloqui tenuti allora dal Pontefice con Don Bosco. Verso la fine diceva: « Io lascerei queste opere in non pochi fastidii, se la morte venisse a sorprendermi prima che questa Società fosse regolarmente costituita, sia per l'amministrazione temporale e spirituale, sia per la successione legale delle diverse case ». Perciò faceva umile preghiera, che alla pratica si desse quella sollecitudine che con la moltitudine e gravità degli affari della Santa Sede fosse « compatibile e benevisa ».

Il Segretario di Stato gli rispose molto amorevolmente il rg febbraio. «Il desiderio, diceva, manifestatomi da V. S. Ill.ma col foglio in data 12 del corrente ebbe pronto effetto con deporsi nelle venerate mani del S. Padre il Regolamento da Lei inviato con corredo di alcune carte relativamente alla Congregazione religiosa, di cui Egli ebbe già a lodare il progetto quando la S. V. trovavasi qui a tenergliene discorso. La compiacenza allora espressale dall'Augusto Pontefice sarà bastevole a farle immaginare con quale interesse siensi or da Lui accolti i rassegnatigli documenti. Quanto a me non occorre dirle del piacere e della premura nel compiere la raccomandatami onorevole consegna, potendolo ben Ella argomentare dalla parte da me presa sul principio, come Ella stessa ricorda nel menzionato foglio, sul commendevole suo intento ».

Il Santo Padre trasmise ogni cosa al Cardinale Quaglia, Prefetto della Congregazione dei Vescovi e Regolari, il quale subitamente incaricò il Prosegretario della Congregazione di deputare un Consultore a prendere in esame i documenti, e di riferire poi in merito alla richiesta. Il Consultore a ciò deputato fu Fra Angelo Savini Carmelitano, che il 6 aprile formulò così il suo voto o parere: « Sembra alquanto prematura la domanda di approvazione per una Società di fresca data, non per anco fornita di un corpo completo di regolamenti, nè decorata di un decreto di lode: Il quale decreto potrebbe senza più accordarsi alla medesima in vista dello scopo santissimo, delle lodi che in due Brevi il Regnante Sommo Pontefice impartì alle buone opere dei Soci non che all'Istituto, è delle raccomandazioni dei Superiori Ecclesiastici di Torino, Casale, Mondovì, Susa, Cuneo, Acqui ». Il medesimo faceva tredici osservazioni sopra diversi punti particolari delle Regole, affinchè fossero comunicate al Fondatore. Lo svolgimento dell'intera pratica richiedette altri quattro mesi, finché in luglio Don Bosco ebbe la gioia di sapere che l'esito era consolante. Infatti un decreto della Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari, emanato il 23 luglio, pervenne a lui per il tramite della Curia arcivescovile verso il cadere dell'agosto. Era il decreto detto di lode, che riconosceva l'esistenza e approvava lo spirito della nuova Società, differendo a tempo più opportuno l'approvazione delle Regole. Frattanto costituivasi Don Bosco Superiore Generale a vita, mentre per i successori la durata in ufficio sarebbe stata di dodici anni. Eccone la traduzione italiana:
Mosso a pietà della condizione dei fanciulli più poveri, il sacerdote Giovanni Bosco della Diocesi di Torino, fin dall'anno 1845, coll'aiuto anche di altri Preti, incominciò a raccoglierli insieme, insegnar loro i primi elementi della Fede Cat- tolica, e soccorrerli con aiuti temporali. Di quí ebbe origine la pia Società, che prendendo nome da San Francesco di Sales, consta di Preti, Chierici e laici. I soci fanno professione coi tre consueti voti semplici di Obbedienza, Povertà e Castità: sono sotto la direzione del Superiore Generale, che viene chiamato Rettor Maggiore, ed oltre la propria santificazione, si propongono per fine principale di attendere ai bisogni sì temporali che spirituali dei giovanetti specialmente più miserabili.

Sino dal principio della pia Congregazione, con tale studio e diligenza curarono quelle cose, le quali giudicarono poter giovare al loro scopo, che a tutti fu noto il grandissimo vantaggio, che colle loro fatiche recarono alla Religione Cristiana: e molti Vescovi li chiamarono nelle rispettive Diocesi, e li associarono come solerti e laboriosi operai nel coltivare la vigna del Signore. Ma al prefato sacerdote Giovanni Bosco, che è Fondatore e insieme Superiore Generale della Pia Società, sembrò mancar molto a sè ed ai suoi Sodi, se non s'aggiungesse alla medésima Società l'Apostolica Sanzione.

Raccomandato pertanto da parecchi Vescovi ha testé domandato con umilissime preghiere la predetta sanzione alla Santità di Nostro Signore Pio Papa IX, e presentò le Costituzioni per l'approvazione. Sua Santità nell'Udienza avuta dal sottoscritto Mons. Prosegretario della Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari in data del to Luglio 1864, la mentovata Società, attese le lettere Commendatizie dei predetti Vescovi, con amplissime parole lodò e commendò, come col tenore del presente Decreto loda e commenda quale Congregazione di voti semplici, sotto il governo del Superiore Generale, salva la giurisdizione degli Ordinali, secondo il prescritto dei Canoni e delle Costituzioni Apostoliche; differita a tempo più opportuno l'approvazione delle Costituzioni. Inoltre la Santità Sua, attese le circostanze speciali, concedette, siccome col tenore di questo Decreto concede, che l'attuale Superiore Generale, ovvero Rettor Maggiore, rimanga per tutta la vita nella sua carica, quantunque sia stabilito che il Superiore Generale della medesima Pia Società resti in carica soltanto per dodici anni.

Dato a Roma dalla Segreteria della Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari in questo giorno 23 Luglio 1864,
A. Card. QUAGLIA Prefetto.

STANISLAO SVEGLIATI Pro-Segretario.

La Sacra Congregazione mandò, annesse al decreto, tredici osservazioni, che coincidevano in massima parte con quelle del Consultore. Don Bosco si affrettò a ringraziare il Cardinale Quaglia. Nella lettera gli diceva fra l'altro: « Io mi occuperò per dare corso alle osservazioni fatte sulle Costituzioni .di questa Società; dopo mi raccomanderò nuovamente alla provata di Lei bontà perchè si degni condurre al desiderato termine l'opera si bene incominciata sotto aí benevoli di Lei auspizii ». Ma il suo pensiero andava soprattutto al Papa, per ii quale diceva a Sua Eminenza: « Un novello favore La pregherei di aggiungere ai già concessi, ed è di voler dire a nome mio e di tutti i membri della Società una parola del più vivo, del più sentito atto di gratitudine, che noi tutti nutriamo in cuore, alla sacra e sempre amata persona di Sua Santità. La assicuro che tutti i palpiti del nostra cuore sono diretti ad amare un si tenero padre che tanto ci ama nel Signore ». Latore della lettera fu il già ricordato Don Manacorda, che il Santo raccomandava con calorose espressioni al Cardinale, alla cui dipendenza quegli stava, essendo impiegato presso la Congregazione dei Vescovi e Regolari.

Giustamente venne giudicato questo un gran passo della Società nella via della sua organizzazione; infatti era un suo riconoscimento solenne e ufficiale da parte della Santa Sede e le apriva il cammino ad ulteriora.
Le tredici osservazioni erano proposte, non imposte; quindi potevano essere oggetto di qualche discussione. Don Bosco vi studiò sopra attentamente. 5.sigenze di tempi e luoghi e caratteristiche peculiari della nuova ' Società richiedevano maturo esame per vedere se e fino a qual punto fossero da modificarsi nel senso voluto le Regole. Don Bosco ne accolse nove senz'altro. Le quattro rimanenti riguardavano quattro punti delle Regole, dove cioè si asseriva nel Superiore Generale la facoltà di sciogliere i Soci dai voti, si considerava come acquisito il privilegio delle sacre ordinazioni previe le lettere dimissioriali rilasciate dal medesimo Superiore, si prescindeva dall'obbligo di ricorrere alla Santa Sede in materia di contratti e di alienazioni, e si riteneva sufficiente la licenza dell'Ordinario tanto per aprire nuove case quanto per assumere la direzione di seminari diocesani. Ora la Sacra Congregazione dichiarava i voti essere riservati alla Santa Sede; non essere ammissibile che il Superiore Generale potesse rilasciare dimissorie; doversi ricorrere alla Santa Sede per poter fare alienazioni e contrarre debiti; per fondare nuove case e prendere la direzione di seminari bisognarvi l'autorizzazione della Santa Sede.

Don Bosco redasse un memoriale e attese il tempo opportuno per mandarlo a Roma. In esso passava in rassegna le tredici osservazioni, indicando quali accettava senza più, e intorno alle quattro accennate sottoponendo alcune sue riflessioni. Riguardo ai voti, si limitava a domandare la facoltà di dispensare solamente dai triennali. Per ottenere la facoltà di rilasciare le dimissorie adduceva otto argomenti; ma tale questione gli diede poi filo da torcere per una ventina d'anni. Ricorrere alla Santa Sede per contratti e per fondazioni sarebbe stato un richiamare pericolosamente l'attenzione del Governo sulla Società; poiché in Piemonte, affinché le disposizioni della Santa Sede intorno a cose esterne andassero in vigore, ci voleva il regio placet (i). Ma i succeduti mutamenti della legislazione italiana annullarono quell'articolo, sicché per questi due lati cadde la difficoltà accampata da Don Bosco.

(i) Don 'tua aveva avuto bisogno di dispensa dell'età per essere ordinato prete nel 186o; tua per goderne bisognò aspettare il piace: regio. Allora però le pratiche furono fatte dalla Curia; anzi, conte ho accennato, il Provicario sborsò alla regia cancelleria quasi per Intero la somma •assai vistosa dovuta in simili casi.

Debbo dire una parola sull'osservazione nona. Nelle Regole sotto il titolo XVI " Esterni " si stabiliva quanto segue:
10 Qualunque persona anche vivendo nel secolo, nella propria casa, in seno alla propria famiglia, può appartenere alla nostra Società.

20 Egli non fa alcun voto: ma procurerà di mettere in pratica quella parte del regolamento, che è compatibile colla sua età, stato e condizione, come sarebbe fare o promuovere catechismi a favore dei poveri fanciulli, promuovere la diffusione di buoni libri: dare opera perché abbiano luogo tridui, novene, esercizi spirituali od altre opere di carità, che siano specialmente dirette al bene spirituale della gioventù o del basse, popolo.

30 Per partecipare dei beni spirituali della Società bisogna che il socio faccia almeno una promessa al Rettore d'impiegarsi in quelle cose che egli giudicherà tornare a maggior gloria di Dio.

40 Tale promessa per altro non obbliga sotto pena di colpa nemmeno veniale.

50 Ogni membro della Società che per qualche ragionevole motivo uscisse dalla medesima è considerato come membro esterno e può tuttora partecipare dei beni della intera Società, purchè pratichi quella parte del regolamento prescritta per gli esterni.

Don Bosco dice promiscuamente, come abbiamo veduto, Regole e Regolamento; nell'ultima riga dell'articolo quinto allude al prescritto nei quattro articoli precedenti. Orbene circa questo titolo il Consultore aveva osservato: « Crederei ben fatto cancellare tutti gli articoli di questo Numero XVI, come quelli che presentano una novità nelle affigliazioni all'Istituto di persone estranee, ed un vero pericolo, fatta ragione dei tempi che corrono e dei luoghi poco sicuri ». La Sacra Congregazione, facendo sua l'osservazione, dichiarava: Approbandum non est, ut personae extraneae Pio Instituto adscribantur per ita dictam affiliationem. Ma qui occorreva un semplice chiarimento. Don Bosco nel suo memoriale precisò trattarsi di un quid simile dei terziari di parecchi sodalizi religiosi; pregava perciò che potesse quel capo figurare almeno in appendice alle Costituzioni. Come si vede, già nel 5864 faceva più che capolino l'idea dei Cooperatori Salesiani.
Due fatti sopravvennero a rallegrare Don Bosco dopo le descritte pratiche. Nel mese di ottobre il Papa, ricevendo Don Manacorda, parlò del Servo di Dio con accento di vivo affetto e con termini di grande stima, inviandogli anche due oggetti per una lotteria ideata a favore dell'erigenda chiesa di Maria Ausiliatrice; del che Don Manacorda gli fece relazione (i). E pochi giorni dopo ecco arrivargli un magnifico Breve pontificio in risposta alla sua lettera del 25 agosto, indirizzata al Cardinale Quaglia e da questo comunicata al Santo Padre. Tradotto suona cosi:
(i) Lett. 8 ottobre t864.

Dalla tua ossequentissima lettera del 25 Agosto u. s., ed or ora pervenuta nelle nostre mani, sappiamo esserti tornato molto gradito il decreto per nostro ordine emanato dalla nostra Congregazione preposta agli affari ed alle consultazioni dei Vescovi e Regolari, riguardante cotesta Società di S. Francesco di Sales, istituita per educare i giovani nel timor di Dio e nella pietà. Dalla medesima apprendiamo che tu ti dài premura di eseguire tutte quelle cose che furono notate e stabilite nelle osservazioni dalla medesima Congregazione aggiunte.

Con gioia abbiamo saputo che la stessa Società con l'aiuto di Dio, va crescendo ogni giorno, che ad essa accorrono molti giovani di ogni ordine e condizione, e che il nostro diletto Figlio Emiliano Manacorda pone ogni studio per esserle di vantaggio.

Certamente, se in altri era necessario, tanto più in questi difficilissimi tempi, si debbono rivolgere le sollecitudini e gli studi a strappare dalle insidie di uomini perversi i giovani che noi vediamo circondati da tanti pericoli, e con impegno istruirli intorno ai precetti della nostra divina Religione e formarli con tutta diligenza alla pietà, all'onestà e ad ogni genere di virtù. Perciò ti incoraggiamo a continuare, confidando nell'aiuto di Dio, un'opera così salutare, mettendo in essa quotidianamente ogni cura, impegno e studio. Continua poi ad innalzare a Dio ferventissime preghiere per il trionfo delta sua santa Chiesa e per la conversione di tutti gli erranti.

Infine qual pegno del nostro paterno affetto verso di te, con tutta l'effusione del cuore impartiamo l'Apostolica Benedizione a Te, diletto Figlio, ed a tutti i giovani appartenenti alla sullodata Congregazione di S. Francesco di Sales.

Dato a Roma presso S. Pietro, il 13 Ottobre 1864, del nostro Pontificato l'anno decimonono.
Pio PP IX.

Al Diletto Figlio Sacerdote Giovanni Bosco - Torino.

Questo documento era il miglior epilogo di questa prima fase delle pratiche per l'approvazione della Società e delle Regole, alla quale, come ho detto, apriva largamente la via.

CAPO VII Fondazione del collegio di Lanzo.

Chi guarda oggi al collegio di Lanzo Torinese, vede uno dei tanti collegi salesiani, aperti alla gioventù per ogni dove; ma chi abbia toccato la settantina, ricorda che quel collegio ebbe un periodo di eccezionale importanza nella vita della Società.- Fu palestra di Soci, che là si allenarono a svariate e gloriose imprese: basti nominare un Guidazio, un Fagnano, un Costamagna, un Lasagna, per dire solamente dei più noti. Fu sede dei due primi Capitoli generali, doppio avvenimento di sommo rilievo nella nostra storia. Fu per tempo notevole il paradiso dei Salesiani nei loro esercizi spirituali. Fu amato da Don Bosco con amore di predilezione ed ebbe la bella sorte di lenirgli pei un mese e mezzo i gravi incomodi che ne travagliaróno il fisico affranto verso il tramonto della sua esistenza. Vivo Don Bosco, diede preziose vocazioni: in primis, Don Andrea Beltrami.

Un Servo di Dio, del quale è in corso la Causa di beatificazione, il Vicario Federico Albert, fu lo strumento della Provvidenza in quest'opera. Ve lo moveva zelo pastorale: gli piangeva il cuore a vedere la gioventù del paese, trascinata dalla mala corrente, disertare ogni di più la chiesa e aborrire il prete. Conoscendo Don Bosco e il suo sistema educativo fin dal 1847, quando aveva predicato i primi esercizi spirituali nella povera cappella Pinardi, pensò che un collegio retto col medesimo spirito sarebbe facilmente diventato un centro di attrazione per la gioventù e una sorgente di vita giovanile cristiana:. Nè mancava il luogo adatto. Da parecéhio tempo eravisi chiuso un collegio, durato in fiore cinquant'anni e poi decaduto senza speranza di rinascita. Aveva occupato un edificio, già convento dei Cappuccini, soppresso nel 1802 da Napoleone e allora proprietà del Municipio. Il fabbricato sorgeva sopra un'altura saluberrima e incantevole. Don Bosco, salito lassù nel 1851, alla vista del magnifico panorama che gli si spiegava dinanzi allo sguardo, non erari potuto trattenere dall'esclamare: — Che bel posto per un collegio! — Ed ecco nel 1864 giunto il momento di aprirvelo.

Il Vicario, strappatane l'adesione, intavolò trattative col Mucipio. Le discussioni si trascinarono per parecchi mesi, finchè venne formulata dalle due parti una convenzione, in forza della quale Don Bosco si obbligava a fare le spese d'impianto, a provvedere maestri patentati per le quattro classi elementari e insegnanti idonei per le cinque ginnasiali, e il Municipio avrebbe corrisposto la somma annua di lire tremila e procurato un mutuo di dodicimila. A tutte le scuole sarebbero ammessi anche alunni esterni del paese e di luoghi circonvicini.. Non poteva considerarsi certamente affare molto lucroso; ma Don Bosco cercava anime, non danari.

L'autorità scolastica, alla quale Don Bosco presentò con la domanda di aprire il collegio i nomi e i diplomi degli insegnanti, accordò l'autorizzazione. Nel primo anno vi sarebbe stato l'intero corso elementare, ma del ginnasio soltanto quello inferiore. Il regolamento interno e il programma di ammissione riproducevano quel di Mirabello.

Il Santo nominò Direttore Don Ruffino, che egli nel mese di luglio condusse con sè a Sant'Ignazio, perché vi si preparasse alla sua missione con un buon ritiro spirituale. Questi scese di là tutto infervorato nè pensò più ad altro che a mettersi in punto. Nella seconda metà di ottobre parti per la sua destinazione con i compagni delle sue fatiche. Erano i chierici Francesco Provera, Pietro Guidazio, Francesco Bodrato, Giuseppe Fagnano, Nicolao Cibrario, Giacomo Costamagna, Antonio Sala. Il Provera aveva l'incarico della prefettura; gli altri si sarebbero diviso l'insegnamento e le assistenze. Alla casa. Don Bosco assegnò per celeste patrono S. Filippo Neri. Nulla meglio di una pagina del Sala, futuro Economo generale, conservataci da Don Lemoyne (i), varrebbe a darci un'idea dello spirito che animava i figli di Don Bosco in quei primordi.
Siamo andati ad aprire quel collegio, una volta liceo imperiale, con un solo prete, il Direttore Don Ruffino. Arrivati a Lanzo, credevamo di trovare molte cose aggiustate e che a noi altra cura non incombesie che quella di ricevere i giovani. Ma invece non trovammo altro, fuorché un locale nudo, e, ciò che è peggio, alcune muraglie più che per metà rovinate. Non sapevamo dove pranzare, poiché non vi erano nè sedie nè tavola. Si presero perciò due cavalletti, sopra questi si collocò una porta scassinata, e la tavola fu pronta. Non avevamo ancora un cuoco e il cameriere Givone fu destinato a preparare il rancio. Riso e carne cotta nella stessa caldaia fu il nostro pasto in quei giorni. Le finestre non avevano vetri, anzi alcune mancavano del telaio e nella prima notte ne furono chiusi i vani con qualche asciugamano e coperta fissata con dei chiodi agli stipiti. Così potemmo metterci al riparo dalle intemperie del mese di ottobre. Ma non vi erano letti; e come fare? Il Vicario Albert ospitò quanti potè: e gli altri, cercata della paglia, con quella si aggiustarono per qualche notte un giaciglio, finché arrivarono da Torino le lettiere dimenticate da colui che doveva farne la spedizione. Intanto Don Rullino e noi chierici eravamo sossopra a preparare i locali, tutti col grembiale cinto ai fianchi. Chi scopava, chi toglieva la polvere, chi poneva in ordine i banchi delle scuole, chi aiutava in cucina. Il Ch. Guidazio, essendo stato prima di entrare in Congregazione un buon falegname, fece le intelaiature ad alcune finestre e aggiustò le porte. Vedi di noi lavoravano nell'orto, divenuto una boscaglia, tanto erano cresciuti gli sterpi, gli spinai e le acacie, e lo dissodammo in parte. Accresceva il lavoro il collocamento delle masserizie spedite dall'Oratorio. Stando già in collegio varii giovani, vi era. difficoltà a destinare qualcuno per l'assistenza e per l'insegnamento. Si aggiunga che la gioventù del paese, incitata forse da qualcuno, cì era contraria, ci prendeva a sassate e disturbava alla domenica le nostre funzioni religiose con urla e percuotendo la porta esterna della chiesa. Anche alcuni convittori ci tenevano soprappensiero, essendo il rifiuto di altri collegi.

{x) Mem. Biogr., vol. VII, pgg.807-8
Il numero degli alunni interni arrivò nel primo anno scolastico 1864-65 a trentasette; ma gli esterni erano una turba, tutti però delle classi elementari. In novembre Don Bosco andò a farvi la sua prima visita. I.,a presenza del Santo fu una grande benedizione per la casa. Molto lo consolò il vedere la buona volontà, con la quale quei suoi cari chierici si sacrificavano, perché tutto procedesse bene. Vi tornò poi verso la metà di gennaio, riempiendo di contentezza i cuori; ma i suoi consigli sull'andamento amministrativo, scolastico e disciplinare, le sue avvertenze sulle relazioni con le autorità ecclesiastiche e civili, le sue parole paterne ai singoli, i suoi santi esempi in ogni atto e detto infusero buon volere, coraggio e zelo. Ritornato all'Oratorio, nel dare la " buona notte ", narrò a tutta la comunità le accoglienze fattegli dagli alunni di Lanzo, come ai secondi avesse parlato dei primi, negli uni e negli altri studiandosi d'insinuare sentimenti di reciproca simpatia, quasi formassero tutti insieme un'unica famiglia, di cui egli era il padre.
Occorreva ancora un titolo per il ginnasio. Il ch. Lagnano, presentatosi con altri compagni nel dicembre 1864 a esami straordinari dí abilitazione all'insegnamento nel ginnasio inferiore, non aveva potuto terminare l'ultima prova, ossia la lezione pratica, perché, entrato febbricitante nell'aula dell'Università, era stato dalla febbre impedito di continuare, onde la Commissione gli aveva assegnato una votazione inferiore alla sufficienza. Don Bosco, sebbene sapesse anche per esperienza quanto il Ministero della Pubblica Istruzione guardasse di mal occhio i collegi e le scuole private tenute da ecclesiastici, pure indirizzò al Ministro Natoli una supplica, pregandolo di far computare al candidato complessivamente i voti o di obbligarlo a ripetere sol.: tanto la lezione. La motivazione era così concepita: e D ricorrente si fa animo a domandare questo favore: iO Perché gli esami delle materie principali risultarono tutti favorevoli e solamente nell'accessorio della lezione orale fu mancante. — 20 Fu mancante perché sorpreso da febbre, come se ne accorsero gli stessi esaminatori. — 30 Per coadiuvare ad un'opera di beneficenza, cui il mentovato. chierico appartiene. — 40 Pel merito del chierico stesso che da molti anni impiega gratuitamente e con somma attività le sue fatiche ad istruire ed educare altri poveri giovani. — so Ma il motivo principale si è la fiducia che si ha nella nota di Lei bontà, che suole sempre concedere quei favori che tornano di pubblica utilità, purché siano compatibili colle vigenti, leggi ». Questo linguaggio fece breccia; infatti dopo breve intervallo, il 27 aprile 1865, il diploma venne.

Nel mese di marzo due sciagure piombarono sulla casa. A Don Provera, che aveva preso Messa da poco tempo, si acuì una vecchia carie ossea in un piede sì da condannarlo a stare sempre inchiodato sopra una sedia senza poter più fare un passo. La debolezza generale dell'organismo sconsigliava l'amputazione. Egli dunque si vedeva costretto a inazione quasi completa. Ben peggio fu per il Direttore. Preso da violento mal di petto, cadde in tale esaurimento di forze che bisognò trasportarlo all'Oratorio, dove giunse più morto che vivo. Nessuna cura valse a scamparlo dalla morte, avvenuta il /6 luglio. Don Lemoyne attesta (i) che Don Bosco nel 1884, parlando di lui, disse: e Che bell'anima aveva Don Ruffino, il fratello del nostro Giacomo! Pareva un angiolo in carne. Il solo vederlo imparadisava; il suo volto era assai più divoto di quello che suole dipingersi nelle immagini di S. Luigi ».

(i) Mem Biogr., vol. VIII, pag. 161
Quasi tutto questo non bastasse ancora, nacque un incidente col Municipio. Essendo cresciuto a dismisura il numero degli esterni che frequentavano le scuole elementari, sicchè stavano a disagio, il Sindaco voleva che Don Bosco per fare posto ad essi restringesse i locali destinati agli interni. Ma come restringerli, se erano già fin troppo stretti? E poichè spesseggiavano le domande per l'anno prossimo, non c'erano che due mezzi: o ampliare fabbricando o rendere servibile l'edificio nella parte ancora inabitabile. Ma il Municipio non sembrava disposto nè a fabbricare nè a concedere più del già dato. Allora Don Bosco, forse anche per iscandagliare meglio il pensiero del Sindaco, gli scrisse dicendo che, nell'impossibilità di rimediare, egli si ritraeva dalla convenzione stipulata e lasciava libero il Municipio di provvedere alla continuazione del collegio nel modo che sarebbe giudicato migliore (2).

(2) Lett. 29 aprile 1865.

Ma il Municipio evitò di spingere le cose all'estremo; inoltre il Vicario Albert scongiurava Don Bosco di non insistere. Don Bosco, recatosi a Lanzo sul finire di luglio e conferito con la Giunta municipale, ritirò la sua decisione.

Intanto la salute del Prefetto non accennava punto a migliorare; quindi Don Bosco lo richiamò e lo rimandò nel collegio di Mirabello, sperando che l'aria nativa gli apportasse qualche giovamento, sì da poter tentare l'operazione. Nella lettera di richiamo, che è dell'8 agosto, gli diceva: 4 10 Ultima bene i tuoi
conti e metti a giorno di ogni cosa Sala e Bodrato. 20 Di' loro che l'amministrazione del collegio è momentaneamente lasciata nelle loro mani, si parlino molto spesso e vadano d'accordo per promuovere la maggior gloria di Dio. — 30 Il sig. Avv. Don Arrò continuerà ad aver cura delle anime dei nostri giovani, finché si possa trovare qualcuno che possa surrogarlo. — 40 Lascia il danaro necessario; se vedi poter avere qualche cosa d'avanzo, portalo giù e faremo provviste pel collegio ». Partito lui, il collegio rimase nelle mani dei soli chierici. Il già citato Sala, che teneva il posto di primus inter pares, scrisse nella memoria suddetta (i): e Eravamo senza preti; pure si mantenne l'ordine nel collegio fino al termine dell'anno. Don Arrò e qualche altro sacerdote del paese venivano a celebrare la santa Messa, a confessare e a predicare. Oh! mi ricordo ancora come lavoravamo in quel tempo, perché le cose procedessero bene. Non volevamo mica che fosse mai detto il collegio andar male perché eravamo sdlamente noi chierici ».

  1. Lemoyne, Mens. Biogr., vol. VIII, pag. 175.

Il primo anno scolastico terminò dunque così. Alla riapertura delle scuole il numero dei convittori era notevolmente aumentato e con ingegnosi adattamenti vi furono accomodati. Il corpo insegnante rafforzato si mise con ardore all'opera. Il nuovo Direttore, Don Lemoyne, del quale diremo presto, si guadagnò il cuore di tutti in casa e fuori. Frequenti visite di Don Bosco vi arrecavano piogge di grazia divina. Il terzo anno cominciò cosi bene che egli scrisse di là il 20 novembre 1866 a Don Bonetti: e Sono assai contento di questi giovanetti, ma ancora più dell'unione dei Superiori, degli assistenti. Dicono, predicano e praticano in modo da generare gelosia a quei di Torino e quasi quasi perfino a quelli di Mirabello, dove sta raccolto il fiore del nostro personale ». Insomma l'avvenire del collegio di Lanzo poteva dirsi assicurato.

E l'avvenire rispose all'aspettazione. La parte edilizia si sviluppò in proporzione del numero sempre crescente dee. allievi, sicché oggi ha un'imponenza tale che dalla pittoresca :altura su cui siede, richiama l'attenzione di quanti si dirigono verso la grande vallata. Per ampiezza e comodità di locali, per serietà di studi, per bontà di disciplina, per eccellenza di risultati si è veramente conquistata una larga e invidiabile riputazione. Il nome di Don Bosco, che in lettere cubitali si legge in alto sul fianco dell'edificio fin dalla lontana stazione ferroviaria, dice ai viandanti che lassù è uno dei più gloriosi monumenti del nostro gran Santo.

CAPO VIII Il progredire dell’organamento interno.

Malattie e morti, assottigliando il numero dei più formati, rendevano meno agevole l'organizzare religiosamente la Società; pure Don Bosco non si perdeva d'animo. Il 24 luglio 1865 scriveva alla Contessa Callori: « Contemporaneamente cinque sacerdoti dei più importanti caddero ammalati. Don Ruffino, ieri otto giorni, volava glorioso al paradiso; il prode Don Alasonatti sta per tenergli dietro; gli altri tre lasciano speranza remota di guarigione. In questi momenti s'immagini quante spese, quanti disturbi, quante incombenze caddero sopra le spalle di Don Bosco. Non si pensi per altro che io sia abbattuto: stanco, e non altro. Il Signore diede, cangiò, tolse nel tempo che a lui piacque; sia sempre benedetto il suo santo nome! Sono per altro consolato dalla speranza che dopo il temporale ci sarà bel tempo ».

A Don Ruffino aveva purtroppo tenuto dietro Don Alasonatti tre mesi e mezzo dopo. Era ammalato da circa un anno per un'ulcera alla gola con aggiunta di artrite deformante. Tornata inutile ogni cura, andò in settembre a Lanzo nella speranza che quell'aria gli rendesse le forze; ma nella notte sull'8 ottobre soccombette al male. Le sue ultime settimane furono un vero martirio, che egli sopportò con pazienza eroica e con perfetta rassegnazione alla volontà di Dio. La serenità dello spirito non lo abbandonò mai neppure in momenti di spasimo atroce. Edificò fino agli estremi i confratelli con la sua fervorosa pietà. Don Bosco celebrò solennemente nella trigesima .il funerale del primo Prefetto della Congregazione e dell'Oratorio; il ch. Sala ne lesse l'elogio dinanzi a tutta la comunità e a un'eletta di persone, a cui il Santo aveva mandato speciale partecipazione con lettera stampata. Il defunto aveva bene meritato di Don Bosco e della sua Opera..

Al ricominciare dell'anno scolastico 1865-66 si dovettero dunque colmare nel personale dirigente due vuoti, che poi diventarono tre. Successore di Don Alasonatti nella doppia mansione doveva essere necessariamente un uomo di polso, vale a dire intelligente, attivo e pronto a qualunque sacrificio, tanto era cresciuto e cresceva il da fare. L'Oratorio aveva settecento giovani; fervevano i lavori per la costruzione della chiesa di Maria Ausiliatrice; il numero dei professi e degli aspiranti aumentava: tutte cose che richiedevano cure vigilanti e assidue, per le quali Don Bosco abbisognava di un alter ego, fidato a prova di bomba. Non c'era che Don Rua. Egli possedeva una straordinaria capacità di lavoro, mente superiore e grande padronanza di sé; 10 dominava poi una devozione illimitata verso Don Bosco, del quale per nulla al mondo avrebbe mai, non che trasandato un ordine, messa in non cale qualsiasi menoma intenzione. Il Santo lo mandò a chiamare, mentre stava tutto intento a ordinare il collegio di Mirabello per il nuovo anno scolastico. Ricevere l'avviso e partire fu un attimo, come fu un pulito solo giungere all'Oratorio e sedersi al tavolo del suo predecessore. La direzione del collegio di Mirabello passò nelle mani di Don Bonetti, giovane ancora, ma pio, istruito e tutto fatto secondo il cuore di Don Bosco.

Due posti erano rimasti vacanti nel Capitolo Superiore per la morte del Prefetto generale e per grave infermità del Direttore spirituale Don Fusero. Perciò il 29 ottobre x865 Don Bosco, radunati i Capitolari, nominò nuovo Prefetto Don Rua e nuovo Direttore spirituale Don Francesia. Siccome poi per la nomina di quest'ultimo veniva a mancare il terzo Consigliere, .radunatisi nello stesso giorno tutti i Soci, se ne fece l'elezione. La maggioranza dei voti designò a quell'ufficio Don Durando.

Restava da cercare un Direttore per Lanzo. Trovavasi da un anno nell'Oratorio il giovane sacerdote Don Giovanni Battista Lemoyne, di nobile famiglia genovese. Obbedendo a una distinta voce interiore, aveva deciso di venire con Don Bosco, per aiutarlo in quel poco che potesse, diss'egli. — No, corresse Don Bosco, ma unicamente per fare del bene all'anima sua. — Venne, visse umile e, avendo dato ottima prova di sè, fu il Direttore ideale per il collegio di Lanzo.

Egli fu il secondo che venne già sacerdote alla Società, e vi rimase. Veramente ne arrivavano di adulti, preti e non preti, con l'intenzione di stare con Don Bosco; ma Don Bosco li sottoponeva ad un probandato, che gli lasciasse discernere chiaramente chi facesse per lui e chi no. Don Lemoyne, parlando non solo di scienza, ma anche di esperienza propria, così ne riferisce (i): « Con modi cordiali e cortesi, ma con finezza particolare, ad un professore di filosofia affidava una scuola di prima elementare; ad un oratore di merito la sorveglianza dei famigli; a un signore distinto l'assistenza di un laboratorio; a questo, che pareva troppo legato alla famiglia, dava l'incarico di un suo mandato nel proprio paese; a quello destinava un posto meno onorevole alla mensa dei superiori. Ma sovratutto osservava come si adattassero alla vita comune e agli incomodi che da questa sono cagionati; e conoscendo che un'occupazione non andava a genio di qualcuno, un bel giorno lo incaricava proprio di questa con un: — Mi faccia il piacere di fare la tal cosa, gliene sarò grato! Ed anche i rimproveri e gli avvisi gli porgevano il destro per giudicare dell'amor proprio di ciascuno. Talora, specialmente col simulare una sottrazione di benevolenza, in vari modi scrutava ì sentimenti del Cuore e la fermezza nella vocazione ». Quelli che la duravano, erano rari come le mosche bianche. Invece si rassodavano sempre più gli altri, che il medesimo Don Lemoyne chiama con felice espressione « membri nati » della Società, coloro cioè che si erano votati ad aiutare Don Bosco nella sua missione prima che alcuna approvazione ecclesiastica fosse venuta a onorarla.

(i) Mem. Biogr., voi. VIII, pag. 238.

Dopo il decreto di lode i più dei quaranta che avevano fatto i voti temporanei (tanti ne risultano dal registro dei professi), non vedevano il momento di consacrarsi al Signore per tutta la loro vita. A quell'atto Don Bosco li veniva preparando con una serie di conferenze; quando poi credette sonata l'ora, ne ammise, in tempi diversi, diciannove alla professione perpetua. Stimo opportuno riportare ancora una volta i relativi verbali.

Il so novembre 1865 dopo radunatisi tutti i confratelli della Pia Società di S. Francesco di Sales, il Sacerdote Lemoyne Giovanni Battista, compiendosi tutte le cerimonie prescritte dal Regolamento, emise innanzi al Rettore Sac. Bosco Giovanni i voti perpetui di castità, povertà ed obbedienza, avendo ai Iati i due testimoni Sac. Cagliero Giovanni e Sac. Ghivarello Carlo.

Li 15 novembre dopo essersi radunati tutti i confratelli della Società, premesse le preghiere secondo il Regolamento, emisero i voti perpetui innanzi al Rettore Sac. Bosco Giovanni; Rua Michele Sac., Cogliere Giovanni Sac., Francesia Giovanni Sac., Ghivarello Carlo Sac., Sonetti Giovanni Sac., Bonelli Enrico eh., Rocca Pietro eh., Gaia Giuseppe laico, Rossi Domenico laico. Finita la funzione, il Rettore Sac. Bosco Giovanni, inculcando ciò che già aveva premesso, tenne breve discorso, dicendo specialmente che nessuno facesse i voti per far piacere al Superiore, o per fare i suoi studi, o per qualche interesse o fine umano, nè manco per essere utile alla Società, ma che ciascuno avesse per unico scopo la salvezza dell'anima propria e di quella del prossimo.

Li 6 dicembre 1865 dopo di essersi radunati tutti i confratlli della Società di S. Francesco di Sales, premessa l'invocazione allo Spirito Santo colle altre preghiere prescritte dalla Regola, innanzi al Rettore Sac. Bosco Giovanni, essendo testimoni il Sac. Rua Michele Prefetto e il Sac. Francesia Giovanni Direttore spirituale, emisero i voti perpetui il Sac. Durando Celestino di Francesco da Farigliano (Mondovi): Oreglia Federico Cav. S. Stefano, laico, di Bene Vagienna; Sarach Luigi Ch. da Ivrea, Mazzarello Giuseppe Ch. da Mornese, Berlo Gioachino Ch. da Villar Almese.

II 29 dicembre 1865 nell'Oratorio fecero i voti perpetui anche i chierici Francesco Bodrato e Antonio Sala; l'H gennaio x866 in Mirabello, dinanzi a Don Rua, delegato da Don Bosco, il sacerdote Francesco Provera e il eh. Francesco Cerruti. Fecero poi i voti triennali nove nell'Oratorio, quattro a Mirabello e uno a Trofarello. Di questi quattordici meritano particolare menzione Don Angelo Savio e i tre chierici Giovanni Tamietti, Giulio Barberis, Giuseppe Daghero.

E Don Bosco non fece voti? A questa domanda che gli parve sentirsi rivolgere da coloro che per i primi avevano il 14 maggio. 1862 fatto i voti triennali, cosi aveva risposto, seconda la testimonianza .di Don Bonetti nella sua' cronaca: «Mentre voi facevate a me questi voti, io li faceva pure a questo Crocifisso per tutta la mia vita ».

Nel gennaio del 1866 la Società contava già un totale di novanta soggetti, di cui dodici preti. Professi perpetui i diciannove nominati sopra, temporanei ventinove, e gli altri ascritti. Era giunto il tempo di dare una solennità maggiore ad una pratica, che fino all'anno precedente non aveva avuto niente di straordinario. In occasione della festa di S. Francesco di Sales soleva Don Bosco tenere una conferenza ai Soci. Nel 1865 tale adunanza assunse una forma diversa dal consueto, perchè i due Direttori di, Mirabello e di' Lanzo furono invitati a riferire sull'andamento dei loro collegi. Nel r866 Don Bosco era assente, ma radunò e presiedette l'assemblea Don: Rua, che per la prima volta si presentava ufficialmente ai confratelli quale vicario e portavoce del Fondatore. Ebbe la parola anzitutto un Salesiano un po' singolare, Don Domenico Pestarino, del quale dirò a suo luogo. Egli nel nativo .Mornese badava alla costruzione di un collegio, cambiatosi poi nella Casa Madre delle Figlie di Maria Ausiliatrice; di quei lavori appunto diede particolareggiate notizie ai presenti.' Quindi si levò Don Bonetti a dire della sua casa di Mirabello. Gli tenne dietro Don Lernoyne, che espose il fatto e il da farsi nel .collegio di Lanzo. Ultimo parlò Don Rua, sicia potestatem habens,. ragionando di una triplice unità, che doveva regnare in ogni collegio: unità di direzione mediante la totale dipendenza. dal Direttore, unità di spirito mediante la pratica della carità fraterna, unità materiale mediante l'osservanza della Vita comune. Terminò esortando a esemplare delicatezza nel trattare coi giovani. Questi periodici convegni, che crebbero poi d'importanza e d'interesse a misura che la Società dilatava' le sue tende, contribuivano potentemente ad affratellare i Soci, ad accenderli di amore verso la Società ed a fomentare lo spirito di solidarietà.

Due cose preoccupavano ogni anno più Don Bosco: i titoli d'insegnamento e la leva militare dei chierici. Bisognava assicurare il funzionamento dei collegi presenti e futuri col moltiplicare in tempo gl'insegnanti titolati. Il 1866, grazie alle sue solerti industrie e nonostante difficoltà  e opposizioni di vario genere, ne apportò un discreto numero. Tre chierici conseguirono a Novara la patente elementare superiore e due il diploma di professori nel ginnasio inferiore; uno di questi ultimi era Paolo Albera. Don Durando ottenne il diploma di ginnasio superiore. Il curioso si fu che, indetto dal Ministero un esame straordinario presso le Regie Università per provvedere a tante cattedre vacanti nei ginnasi, i professori commissari, irritati per quel privilegio accordato cosi per breviorem senz'aver fatto i corsi accademici, cercavano il pelo nell'uovo per escludere dagli esami quanti più potevano dei candidati e per dichiarare non idonei gli altri. Anche a Don Durando sì voleva assolutamente negare l'abilitazione, che non senza molto battagliare gli venne poi concessa: ma fu l'unico a ottenerla in tutta l'Italia. Si presentò pure Don Rua, diede brillantemente le prove scritte, ma non lo ammisero a quelle orali per meri cavilli. Egli si ripresentò più tardi nel 1872, conseguendo con lode l'abilitazione. Don Francesia, in vista degli splendidi esami precedenti e dell'età sua, strappò la concessione di presentarsi per la laurea in lettere dopo soli tre anni di Università. Don Durando e Don Francesia godettero le simpatie di parecchi professori universitari; li portava in palma di mano specialmente il grande latinista Tommaso Vallauri. Nello stesso anno si laureò in lettere il ch. Cerruti. Intanto sempre nuovi chierici s'inscrivevano alle Facoltà dì lettere e filosofia e di matematica. Naturalmente gli studi per la preparazione a detti esami e per seguire i corsi universitari non dispensavano nessuno dalle quotidiane occupazioni scolastiche e disciplinari.

Altra fonte di brighe per Don Bosco era la questione del servizio militare. Cessato il privilegio generale che esimeva i chierici dagli obblighi di leva, ne restava ancora un briciolo: i Vescovi potevano chiedere esenzioni in ragione di un chierico ogni ventimila diocesani. Orbene avveniva che qualche anno certi Vescovi non avessero bisogno di chiederne quante avevano diritto di ottenere, perchè o per lo stato di famiglia o per condizioni fisiche individuali parecchi erano già legittimamente esenti e gli altri non raggiungevano il numero legale. Don Bosco s'ingegnava di salvare i suoi ricorrendo a tali Vescovi e supplicandoli di inscriverne qualcuno nelle loro liste aventi ancora del margine: favore che non sempre facilmente gli riusciva di farsi concedere.
Un'innovazione si rendeva ornai indispensabile nell'Oratorio riguardo ai chierici. Don Bosco ne manteneva anche di quelli che non avevano intenzione di farsi Salesiani; poiché per favorire le vocazioni ecclesiastiche apriva le sue porte a chierici poveri, che non sarebbero potuti entrare nei seminari diocesani. Tanto questi che gli aspiranti o professi andavano a scuola nel seminario di Torino. Ora Don Bosco deplorava che da qualche tempo si verificasse fra gli uni e gli altri con dolorosa frequenza l'abbandono dell'abito sacro. «Saranno i tempi, scriveva al Vicario Generale (i), le circostanze politiche, le poche speranze di agiatezza del sacerdote, saranno i libri, i giornali che con facilità pervengono alle loro mani, ma il fatto sta che la deposizione dell'abito clericale è assai frequente ». Col fine di rimediare a tanto male fece umile istanza che almeno i chierici addetti all'Oratorio potessero avere la scuola di filosofia e di teologia in casa, promettendo che negli studi avrebbero seguito i programmi del seminario e avrebbero dato gli, esami con gli altri chierici della diocesi, e che dopo un anno di prova, se non si avessero risultati favorevoli nelle) studio e nella pietà, sarebbero ritornati alle scuole del seminario. « Con questi provvedimenti, seguitava, io credo di poter allontanare questi chierici da molti pericoli, specialmente dalla vista delle caricature e delle fotografie lubriche, dalle voci dei giornalai, dagli scherzi e dagli insulti delle vie e delle piazze, dì cui, specialmente i più piccoli di statura, furono più volte fatti segno nell'andata e nel ritorno dalla scuola ». Univa alla lettera l'elenco delle materie e i nomi degli eventuali insegnanti tutti Salesiani, tranne il Canonico Lorenzo Gastaldi.

(i) Lett. 27 agosto 1866.

La risposta del Vicario Generale fu negativa. Don Bosco replicò al Provicario, non omettendo di notare (i): « Se mi avesse almeno fatto qualche osservazione, sarei in qualche modo appagato; ma il rifiuto nudo e crudo mi ha non poco afflitto ». Limitò dunque la domanda ai filosofi, rimettendosi però docilmente alla volontà dei Superiori. Questa volta gli si rispose favorevolmente, sicché i chierici studenti di filosofia ebbero la scuola nell'Oratorio.

Tanto più a cuore egli si prendeva la formazione spirituale de' suoi, nel che hanno grandissima efficacia gli esercizi spirituali. Fino al i866 non vi furono ritiri spirituali esclusivamente per í Soci, ma preti e chierici prendevano parte solo a quelli degli alunni. Alcuni pochi il Santo conduceva con sé ogni anno a Sant'Ignazio, secondo l'opportunità o il bisogno; gli ordinandi poi facevano presso i Signori della Missione i ritiri prescritti dai Canoni. Allora dunque dispose che i suoi avessero due corsi a parte, uno nella prima e l'altro nell'ultima settimana di agosto. Qui, come sempre, Don Bosco agì con estrema discretezza. Chierici e preti avevano studiato, dato esami, assistito, fatto scuola fino alla fine dell'anno scolastico. Le ferie estive non erano lunghe e bisognava per di più sottrarne alcuni giorni. Qualche ripugnanza appariva naturale. Non si dimentichi quante cautele fossero necessarie per introdurre usanze conformi alla vita religiosa in elementi che spesso a quei tempi vi sentivano istintiva avversione. Eppure bisognava far passare la cosa in consuetudine. Orbene egli cominciò a contentarsi di soli tre giorni interi, più la introduzione e la chiusura; poi annunciò che nelle ore libere si sarebbe potuto, scrive Don Lemoyne (2), « parlare, ridere, passeggiare »; fece pure intendere che sarebbe migliorato notevolmente il vitto. Così ottenne che la proposta incontrasse il gradimento generale. Si capisce che in seguito prolungò a poco a poco la durata, introdusse i tempi di silenzio, volte ricreazioni moderate e accrebbe le pie pratiche.

 (1) Lett. 6 settembre 1866.

(2) Mem. Biogr., vol. VIII, pag. 443.

Anche il luogo scelto allettava. Egli -era venuto in possesso di un'amena villetta presso Trofarello, piccolo Comune non lontano da Torino. Là indisse arnbidue i corsi allora e per parecchi anni da poi. Nel primo predicò le meditazioni il Can. Gastaldi e le istruzioni egli stesso; nel secondo predicarono Don Bonetti e nuovamente Don Bosco. Le prediche del Santo versarono sulla vocazione, sui vantaggi materiali e spirituali della vita religiosa e sui tre voti. Si vide in quel caso come sovente sia vero che chi ben comincia è alla metà dell'opera.

Parlando a' suoi figli in esercizi e conferenze, Don Bosco non lasciava mai di mettere in valore le benevole attestazioni di Pio IX sul conto della Società. Una glien'era venuta in quell'anno. Sul principio del 1866, avendo scritto al Papa per far atto di devozione e rendere conto della Società e de' suoi sviluppi, ne ricevette in risposta non una semplice lettera con la firma del Cardinale Segretario di Stato, ma un Breve Pontificio con la data del 24 febbraio. Gli diceva il Santo Padre: « Di cuore ci congratuliamo con te, con i pii sacerdoti tuoi compagni e colle divote Associazioni di cui ci scrivi, ed a cui auguriamo sempre maggior incremento. Del resto .puoi conoscere di quanto affetto noi amiamo te e le opere tue, dalla facilità con cui abbiamo esaudito tue preci ed arricchito dette Associazioni dei privi‑legi e indulgenze domandate ». Testimonianze così auguste, illustrate da lui in modo conveniente, colpivano più che mai in quei primordi i Soci, affezionandoli a una istituzione tanto apprezzata dal Vicario di Gesù Cristo.

CAPO IX La chiesa di Maria Ausiliatrice.

L'erezione della chiesa di Maria SS. Ausiliatrice ha nella storia della Società Salesiana un'importanza eccezionale. La Società non godeva ancora di esistenza canonica; interiormente , era tuttora in via di formazione sia quanto a numero di soci che quanto alla loro organizzazione; esteriormente, lottava contro formidabili forze avverse per conquistare, come si dice, il suo posto al sole. A Don Bosco per la vitalità della sua Opera bisognavano tre cose: un saldo punto d'appoggio, donde muovere ognora con sicurezza; un focolare sacro, che fosse quasi ideale ritrovo unificatore di tutta la sparsa famiglia; un monumento che parlasse al mondo e apparisse agli occhi dell'universale come consacrazione vivente e perenne del voluto sodalizio. Orbene San Giovanni Bosco nella chiesa di Maria Ausiliatrice diede all'Oratorio il suo centro di coesione, alla Congregazione il suo tempio comune, al mondo un gran santuario.

Di questa chiesa Don Bosco parlò esplicitamente la prima volta nel 1862; ma l'aveva sognata e risognata dal 1844 in poi. Fece conoscere nel 1862 anche il titolo che intendeva di darle e il perchè.  La Madonna, disse, vuole che la onoriamo sotto il titolo di Maria Ausiliatrice. I tempi corrono cosi tristi che abbiamo proprio bisogno che la Vergine Santissima ci aiuti a conservare e difendere la fede cristiana » (1). Due anni dopo Pio IX, inviando una elargizione, manifestò il pensiero che quello sarebbe stato un titolo certamente gradito all'Augusta Regina del Cielo (2). Nel 1863 fu posta la pietra basilare, nel 1865 la pietra angolare, nel 1866 l'ultimo mattone della cupola e nel 1868 se ne celebrò la solenne consacrazione. La storia di questa chiesa è un poema; qui per altro non diremo più del necessario, rimettendo per il rimanente alle biografie del Santo.

 (1) Lemoyne, Mem. Biogr., vol. VII, pag 334.

(2) Ivi. pag. 658.

Una chiesa di tali dimensioni veniva ad operare un'evoluzione nel luogo dove sorgeva. I giovani Salesiani che ne vedevano crescere i muri, non poterono a meno di pensare che l'Oratorio si avviava a diventare qualche casa di più e di meglio che un semplice ospizio per ragazzi poveretti. Un'atmosfera di grandezza sentivano formarsi intorno a loro e già ne respiravano i primi aliti. Don Bosco di tanto in tanto sollevava un lembo del velo che ricopriva il futuro, ond'essi nutrivano un vago presentimento di essere i pionieri chiamati ad aver parte negli inizi di un'opera straordinaria. È assai dubbio però che alcuno di essi intuisse allora che cosa fosse una Casa Madre, destinata a essere quasi capitale di un vasto regno. Lo sapeva bene Don Bosco, che, vedendo e guardando lontano, dava alle cose vicine proporzioni corrispondenti a un avvenire di non comune grandezza.

Intanto a lui premeva dì far sì che presto la chiesa di Maria Ausiliatrice divenisse veramente il cuore dell'Oratorio. Vagheggiava già con la mente svariate forme di attività che all'ombra della sua cupola avrebbero preso svolgimento fra un mondo di persone; pregustava la gioia che avrebbe provato vedendo tutti riuniti sotto le sue volte fare un sol coro, cantando le lodi del Signore e della Madonba, e dissetare le loro anime alle fonti della grazia; si rappresentava la gara generale per celebrarvi con pompa le festività maggiori, spiegando ivi tutte le magnificenze del culto. Il concerto delle sue campane avrebbe ricreato e sollevato gli spiriti come armonie scese dal cielo. Per le sue porte sempre aperte sarebbero passati grandi e piccoli durante il giorno per andar a pregare dinanzi al tabernacolo di Gesù Sacramentato e al quadro della Beata Vergine. Ivi i magnifici pontificali; ivi gl'imponenti uffici funebri; ivi le care funzioni quotidiane fatte non solo con sacerdotale gravità, ma 'anche con divota partecipazione di folte schiere giovanili; ivi l'abbondanza della divina parola; ivi in periodiche circostanze gli intimi convegni serali per ascoltare ammonimenti salutari dai, più che superiore, padre. Insomma, eretta che fosse la bella casa di Dio, egli scorgeva nel suo interno pietà, all'esterno festevole ammirazione, in ogni dove serenità di pensieri e giocondità di vita, e sul vertice la Madonna benedicente e dicente: — Io sono quassù per vedere e ascoltare tutti i miei figli dell'Oratorio.

A più di settant'anni dai bei giorni della storica dedicazione noi oggi, abbracciando un sì fecondo passato, comprendiamo a pieno quello che i primi testimoni non potevano se non vagamente divinare intorno agli ideali che animavano Don Bosco nel far sorgere la sua amata chiesa di Maria Ausiliatrice sul suolo imporporato dal sangue dei Martiri tebei. Egli mirava ad accendere qui un mistico focolare, a cui si sarebbero scaldate e sarebbero tornate a ritemprarsi generazioni di operai evangelici, mandati largamente a lavorare nella vigna del Signore. L'acuto Don Cagliero n'ebbe qualche sentore, quando, udito come parlasse Don Bosco del suodisegno d'innalzare questa chiesa, gli manifestò l'opinione che essa fosse da lui contemplata come la chiesa madre della futura Congregazione e il centro dal quale sarebbero emanate tutte le opere salesiane. Al che il Santo: — Hai indovinato! — prontamente rispose.

Sì, veramente, Don Bosco, mosso da spirito profetico e assistito dal suo genio; ebbe coscienza di edificare una chiesa simile al tempio di Gerusalemme, non certo in sontuosità, ma in forza di attrazione. Il tempio salomonico non serviva esclusivamente alla comunità della capitale come luogo di preghiera e di culto, ma spiritualmente unite ad esso si sentivano pure tutte le comunità giudaiche disseminate per il mondo, che vi pensavano con orgoglio, che contribuivano al suo decoro, che giuravano nel suo nome, che si volgevano da quel lato orando, che anelavano di pellegrinarvi almeno una volta nel corso della vita. i primi Salesiani, cresciuti presso la chiesa di Maria Ausiliatrice, avvezzi a gustare in essa mistiche gioie di paradiso e dalla medesima partiti per recarsi alle loro mansioni o missioni, come mai avrebbero potuto non lasciarvi un pezzo di cuore? I luoghi dove abbiamo trascorso un periodo importante della nostra esistenza, ci si riaffacciano alla mente con nostalgico desiderio e ci tengono avvinti alle istituzioni che con quei luoghi sono per avventura immedesimate. Anche coloro che non videro tali luoghi, ma che vivono di una istituzione ivi incentrata, condividono i sentimenti dei fratelli di là venuti, sospirando di potersi un giorno appressare anch'essi là dove arde il fuoco sacro di tutta la religiosa famiglia. Ecco quindi in siffatte correnti di simpatia alimentarsi una potenza di unione, che tenacemente resiste agli anni e alle lontananze. La realtà è che sui Salesiani di qualsiasi nazione la chiesa di Maria Ausiliatrice esercitò sempre e continua ad esercitare un'attrattiva non dissimile da quella che ha il focolare paterno sui figli vicini e lontani. Era quindi naturale che i Salesiani, dovunque fossero, amassero suscitare presso di sè opere recanti l'impronta della Casa Madre, tutta stretta intorno alla chiesa madre.

Ma Don Bosco nelle cose che intraprendeva portava ordinariamente la maggiore ampiezza di vedute possibile. Costruendo la chiesa di Maria Ausiliatrice non mirò solo all'Oratorio, non si limitò alla Congregazione, ma allargò il suo sguardo a tutto l'orbe, intendendo fare di essa chiesa un santuario mariano, in cui fosse la Madre dí Dio universalmente glorificata. Per questo egli rivolse i suoi appelli a tutto il mondo, e il mondo non fu. sordo ai reiterati inviti. Se non che bisogna pur confessare che la Vergine stessa non solo mostrò il suo gradimento, ma venne potentemente in aiuto, dispensando a larga mano grazie e favori e anche prodigi a quanti concorressero a fabbricare, decorare e arredare il. sacro edificio. Don Bosco alla vigilia di dar cominciamento ai lavori, aveva detto al eh. Albera (1): — Io non ho un soldo, non so dove prenderò il denaro, ma questo non importa. Se Dio la vuole, la chiesa si farà. — E allorché i lavori volgevano al termine, scrisse (2): 4 Ogni giorno cose una più strepitosa dell’altra di Maria Ausiliatrice per la chiesa. Ci vorrebbero volumi ». Ond’è che non può parere effetto di enfasi oratoria l’essersi proclamato dal pergamo durante le feste della consacrazione: Aedificavit siti domum Maria.
Maria edificò la sua casa e non l’abbandonò dopo averla edificata. Ne è luminosa prova il non essersi essiccata mai più la fonte delle sue grazie fatta scaturire nel santuario; il che spiega l’estendersi della divozione a Maria Ausiliatrice ‘in ogni angolo. . della terra. La regale effigie dipinta nel grande quadro del. Lorenzoni non ha cessato mai né di essere riprodotta su tela o modellata in plastica per migliaia di altari, cappelle e chiese, né ‘di venir incisa su milioni di medaglie o-stampata a. milioni di copie su immagini da far correre per le mani dei fedeli, né di essere tirata in tutte le dimensioni sulla pietra litografica per uso di quadri domestici. Sono tutti richiami del santuario torinese. Inoltre la festa del 24 maggio ebbe ed ha sempre, vastissima risonanza lungi da Torino, come ebbe ed ha sempre infinite imitazioni con fervido consenso popolare. Non parlo poi dei pellegrinaggi, che edificano cosi frequentemente con le loro pie manifestazioni gli assidui frequentatori del santuario. Rispondeva quindi a un bisogno l’istituire ivi quell’Associazione dei divoti di Maria Ausiliatrice, che, ramificandosi per ogni dove (3), tenesse unite al centro le legioni dei fedeli desiderosi di partecipare più abbondantemente alla copia dei benefici spirituali, di cui qui è la perenne sorgente. E poiché nessuno ignorava a chi fosse dovuta una così larga divulgazione del culto di Maria Ausiliatrice, ecco che il popolo, intuitivo e semplificatore, ha chiamato Maria Ausiliatrice la Madonna di Don Bosco.

1.Lemoyne. Mem. Biogr., vol. VII, pag. 334.

2.Lettera al Cav. Oreglia a Roma, 11 febbraio 1868.

3. Con Decreto 5 aprile 1870 l'Associazione fu eretta in Arciconfraternita con facoltà di aggregare a sè altre Confraternite dello stesso nome nell'Archidiocesi di Torino; poi un Breve del 2 mano 1877 estese quella facoltà a tutte le diocesi del Piemonte in perpetuo. II 25 giugno 1889, facoltà di aggregare le Associazioni canonicamente erette nelle chiese sale sian pubbliche e private; idem ts, gennaio 1894 per le chiese non salesiane; idem 23 febbraio i896 per le chiese delle Figlie di M. A.

Chiesa veramente miracolosa questa di Malia Ausiliatrice: miracolosa, per essere stata mostrata molto tempo prima al Santo nel suo luogo e nella sua forma; miracolosa nell'erezione, perché a Don Bosco, povero e padre di poveri, solo mezzi provvidenziali permisero di innalzarla; miracolosa per il fiume di grazie che non ha cessato mai di scaturire da lei come da fonte inesauribile; miracolosa infine per i sontuosi restauri, cominciati mezzo secolo dopo la morte del Fondatore e condotti a termine in modo che a descriverlo parrebbe favola. Allorquando infatti parve giusto rendere al santuario il decoro che conveniva a sì venerando monumento della bontà di Maria, bastò pubblicare la notizia, perchè, come se fossimo tornati al tempo dell'erezione, affluissero contributi da ogni parte, espressione non solo d'intensa pietà filiale, ma molto spesso anche di viva gratitudine per insigni favori ottenuti. E bene stanno oggi quivi in posto d'onore le reliquie del Santo, che la vita spese in glorificare senza posa la sua e nostra celeste Patrona.

Scriveva Don Bosco nel 1877 . Il ricorso a Maria Ausiliatrice si va aumentando ogni dì più tra il popolo fedele e porge motivo a pronunciare che tempo verrà, in cui ogni buon cristiano, insieme con la divozione al Santissimo Sacramento e al Sacro Cuore di Gesù, si farà un vanto di professare una divozione tenerissima a Maria Ausiliatrice ». Questa constatazione, fatta nove anni dopo l'apertura della chiesa al culto, va messa in relazione con due affermazioni del 1862, quando il Santo cominciava appena à rivelare nell'intimità il segreto dell'impresa (2). Nel dicembre di quell'anno, guardando la chiesa di S. Francesco, disse al chierico Paolo Albera: — La nostra chiesa è troppo piccola. Ne fabbricheremo un'altra più bella, più grande, che sia magnifica. — Fu giustamente osservato che con quel plurale " fabbricheremo ", detto a un suo successore, egli parve andare oltre all'opera propria, impegnandovi anche coloro che sarebbero venuti dopo di lui. Se infatti i due primi aggettivi stavano bene applicati alla forma primitiva del sacro edificio, il terzo doveva avere la sua piena attuazione molto tempo dopo, in questi nostri anni. Poco appresso, toccando dello stesso argomento con il chierico Anfossi, uscì nelle seguenti espressioni: — La chiesa sarà molto ampia. Qui verranno molti a invocare la potenza di Maria Vergine. — Ancor più chiaramente queste parole sanno di profezia. Ampiezza e sontuosità della chiesa, ondate di fedeli affollantisi al santuario, mondiale divozione a Maria Ausiliatrice: ecco tre presagi che oggi possiamo dire tutti avverati. Quanto all'universalità del culto, ne sentimmo l'eco in altissimi documenti degli ultimi Sommi Pontefici, compreso l'attuale Pio XII nella sua prima Enciclica; essi infatti sollecitarono il mondo cattolico a invocare nelle gravi necessità dei tempi che corrono, il possente aiuto di Maria, invocata sotto il titolo di Aiuto dei Cristiani.

  1. La Nuvoletta del Carmelo, pag. 5. " Letture Cattoliche", maggio 1877.
  2. Memorie Biografiche, vol. VII, pgg 333 e 373.

CAPO X La facoltà di concedere le dimissorie per sacre ordinazioni.

Una delle cose che premevano maggiormente a Don Bosco era di ottenere dalla Santa Sede la facoltà di concedere a' suoi chierici le dimissorie Mulo mensae communis. In mancanza di questo titolo ci voleva il patrimonio ecclesiastico, consistente in una rendita annua di 240 lire. Ai più di essi le famiglie, versando in povertà, non erano in grado di costituirlo; perciò il Santo apriva pratiche presso il Ministero dei Culti, presso il Regio Economato, presso l'Opera Pia di S. Paolo, presso la Curia arcivescovile oppure interessava i suoi benefattori e perfino il Re. Ecco un saggio di tali ricorsi: è una lettera da lui indirizzata a Vittorio Emanuele II Sacra Reale Maestà,
Tra i giovani accolti nella casa detta Oratorio di S. Francesco di Sales trovarsi due chierici che per la loro condotta morale e per la speciale attitudine alle scienze vennero destinati allo studio ed in breve compiuto il corso ginnasiale e liceale pervennero al so anno di Teologia che presentemente percorrono.

Essendo essi privi affatto di beni di fortuna, procurarono di corrispondere alla carità loro usata col più vivo zelo, col fare i catechismi, assistere i loro compagni, insegnare nelle scuole diurne e nelle serali. Ora avrebbero età, studio e le altre qualità necessarie per essere ammessi agli ordini sacri: ma loro manca il patrimonio ecclesiastico, nè hanno parenti che loro lo possano provvedere.

Per questo motivo il sottoscritto ricorre umilmente alla clemenza di V. S. M. supplicandola affinché si degni di prenderli in benigna considerazione e loro accordare sovra la Cassa dell'Economato la pensione ecclesiastica, almeno finché non possano essere altrimenti provveduti. Questo atto insigne di beneficenza tornerebbe eziandio di grande aiuto a questa casa, al cui vantaggio essi impiegano tutte le loro .fatiche.

Tutti unanimi ripongono piena fiducia nella bontà sovrana già molte volte esperimentata: e assicurandola che invocheranno. ogni giorno le benedizioni del Cielo sovra l'augusta di lei persona e sopra tutta la reale famiglia, a nome dì tutti colla più sentita gratitudine si protesta
Di V. S. R. M.

Obbl.mo e Umil.mo supplicante
Torino, 1866.                    Sac. Bosco GIOVANNI.

Queste pratiche poi si complicavano con le difficoltà sollevate da Vescovi, che ricusavano di ordinare i candidati proposti da Don Bosco. Tutto ciò finiva con produrre cattiva iinpressione sui chierici, obbligandoli a subire lunghe dilazioni e stancandone a volte la pazienza sino al punto da spingerli ad abbandonare la Congregazione, che giudicavano incapace di provvedere alla loro sorte. Si comprende perciò quanto Don Bosco sospirasse di poter avere mano libera in tale faccenda. Si attaccò a un amminicolo che il decreto di lode sembrava porgergli. Questo decreto, nominando il Superiore e dettando norme per la successione, non costituiva la Società in corpo morale? E se così fosse, le ordinazioni non, si sarebbero potute dare a nome della Congregazione, anziché a nome dell'Ordinario? Oppure, sussistendo il dubbio, non sarebbe da chiedere che fosse risolto in favore del Superiore?
Don Manacorda, che conosceva il desiderio di Don Bosco, volle nel 1865 fare un tentativo. Sapendo che alcune Congregazioni di voti semplici avevano il privilegio delle dimissorie, udito il parere di valenti teologi, stese in nome di Don Bosco una supplica, che il 28 febbraio inviò al Card. Quaglia. La domanda era fondata sUl fatto che col decreto del 23 luglio 1864 la Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari aveva creato Don Bosco Superiore generale e ad vita" quindi ad instar Ordinarii della nuova Società da lui fondata. La risposta fu data il 20 marzo seguente con la formola Non expedire e con l'aggiunta: Sciat Orator Institutunt subiici iurisditfioHi Ordinariorum. Era dunque un no assoluto.

L'anno dopo si presentò una propizia occasione per ritentare. Il Governo italiano, insediato a Firenze, avendo mandato a Roma una missione speciale per trattare col Papa la nomina di Vescovi a molte sedi vacanti, pregò Don Bosco di fare da intermediario fra Sua Santità e il Comm. Tonello, incaricato dal Ministero. Don Bosco aderì tanto più volentieri perchè a Roma sperava di poter fare qualche nuovo passo per affrettare la definitiva approvazione della sua Società o per ottenere almeno la facoltà di rilasciare le dimissorie a' suoi chierici. Nella trattazione pertanto di detti affari col Papa intercalava opportunamente il tema della Società. Il Papa ascoltava sempre con benevolenza; ma quanto alle dimissorie volle che tutto si facesse con la procedura ordinaria, cioè per il tramite della Congregazione dei Ve scovi e Regolari.

Presentò dunque alla Sacra Congregazione il testo delle Regole tradotte in latino, come gli era stato prescritto l'altra volta, e insieme un memoriale sulla faccenda delle ordinazioni. Riguardo alle Regole, presentì che forti obbiezioni gli si sarebbero mosse circa il voto di povertà. Agli occhi di taluni voto di povertà e possesso di propri beni avevano tutta l'aria di una contraddizione in terminis. L'articolo discusso era il secondo del capo quarto: Quicumque Societatent ingressus fuerit, civilia iura, etiam editis votis, non amittit, ideoque rerum suarum proprietatem servat idemque Med in aliena borsa succedere. Sed, quamdiu in Societate permanserit, non potest lacultates suas admisistrare, nisi ea ragione et mensura, qua Rector in Domino bene iudicaverit. Secondo questo articolo, .i Soci conservano la proprietà dei loro beni e la capacità di acquistarne altri per titolo legittimo, ma non li possono liberamente amministrare.

Quanto alle ordinazioni, le cose restarono nello statu quo. Una buona ragione c'era. Quel privilegio non si soleva concedere se non a Congregazioni già approvate dalla Santa Sede, mentre la Santa Sede aveva solamente lodato la Società Salesiana. Tuttavia a Roma si pensava che le particolari circostanze concorrenti nel caso del nuovo Istituto avrebbero forse inclinato il Santo Padre a fare un'eccezione e che a tal uopo sarebbe giovata una commendatizia dell'Arcivescovo di Torino, da poco nominato; trattavasi infatti specialmente di un suo diritto (i). Bisogna però anche tener presente che allora a Roma si tendeva ad allargare piuttosto che a restringere il potere dei Vescovi sulle Congregazioni religiose. Anzi, fra le materie da discutersi nel prossimo Concilio Vaticano c'era anche il quesito se fosse spediente l'approvazione di nuovi Ordini religiosi o non piuttosto la fusione di quelli aventi un medesimo scopo (2). Bra dunque opportuno attendere che dalla Curia di Torino venissero offici favorevoli (3). Don Bosco aspettava tranquillo il momento della Provvidenza.

Nuovo Arcivescovo di Torino era Mons. Alessandro Ottaviano dei Conti Riccardi di Netro, promosso dalla sede vescovile di Savona. Amicissimo di Don Bosco, carezzava il disegno di affidargli la direzione dei piccoli seminari di Giaveno e di Bra e del seminario di Chieri; ma quando in un confidenziale colloquio intese dalle sue labbra che egli aveva dato principio a una Società religiosa, cascò dalle nuvole. Fino a quel giorno si era immaginato che l'Istituzione di Don Bosco fosse diocesana e che perciò da lui dipendesse; rapprenderne invece lo scopo mondiale e la conseguente esenzione dall'immediata sua dipendenza lo afflisse moltissimo. Il Santo, affinché egli conoscesse il vero stato delle cose, gl'inviò nel giugno del z867 un memoriale, in cui esponeva il fine, l'origine e la condizione della Società Salesiana, specificando in una nota a parte le pratiche fatte per ottenerne l'approvazione definitiva o per avere almeno la facoltà provvisoria di far ordinare titulo melme communis.
Queste nubi minacciose non turbavano la serenità del Santo. A dispetto di tutte le difficoltà egli intravvedeva non lontana la bramata approvazione, e l'avvicinarsi di sì lieto avvenimento gli faceva sentire più vivo il bisogno di prepararvi bene i suoi figli.

(1) Lettera a Don Bosco del Card. Patrizi, 29 marzo 1867 e di Mons. Berardi. a aprile 1867.
(2) Lettera di Mons. Fratejacci a Don Bosco Roma to luglio 1867.
(3) Lettera del medesimo, 8 aprile 1867.

Con questo scopo il 24 maggio scrisse per i Salesiani una lettera circolare a fine di chiarire sempre meglio quale intento si dovesse prefiggere chiunque volesse entrare o vivere nella Società. Eccone la 'parte sostanziale.

Primo oggetto della nostra Società è la santificazione dei- suoi membri. Perciò ogmino nella sua entrata si spogli di ogni altro pensiero, di ogni altra sollecitudine. Chi ci entrasse per godere una vita tranquilla, aver comodità a proseguire gli studi, liberarsi dai comandi dei genitori od esimersi dall'obbedienza di qualche superiore egli avrebbe un fine storto e non sarebbe più quel sapere me del Salvatore, giacché seguirebbe la propria utilità temporale, non il bene dell'anima. Gli Apostoli furono lodati dal Salvatore e venne loro promesso un regno eterno, non perché abbandonarono il mondo, ma perchè abbandonandolo si professavano pronti a seguirlo nelle tribolazioni, come avvenne di fatto, consumando la loro vita nelle fatiche, nella penitenza e nei patimenti. sostenendo infine il martirio per la fede.

Nemmeno con buon fine entra o rimane nella Società chi è persuaso di essere necessario alla medesima. Ognuno se lo imprima bene in niente e nel cuore cominciando dal Superiore Generale fino all'ultimo dei soci, aduno è necessario nella Società. Dio solo ne deve essere il Capo, il padrone, assolutamente necessario. Perciò i membri di essa devono rivolgersi al loro capo, al loro vero padrone, al rimuneratore, a Dio, e per amore di lui ognuno deve farsi inscrivere nella Società, per amore di Lui lavorare, ubbidire, abbandonare quanto si possedeva al mondo per poter dire in fin di vita al Salvatore, che abbiamo scelto per modello: Ecce nos reliquimus omnia ea seccai sumus te: quid i ergo eril nobis?
Mentre noi diciamo che ognuno deve entrare in Società guidato dal solo desiderio di servire a Dio con maggiore perfezione e di fare del bene a se stesso, s'intende fare a se stesso il vero bene, il bene spirituale ed eterno. Chi si cerca una vita comoda, una vita agiata, non entra con buon fine nella nostra Società. Noi mettiamo per base la parola del Salvatore che dice: e Chi vuoi essere mio discepolo, vada a vendere quanto possiede nel mondo, lo dia ai poveri e mi segua s. Ma dove andare per seguirlo, se non aveva un palmo di terra ove riposare lo stanco suo capo? e Chi vuol farsi mio discepolo, dice il Salvatore. mi segua colla preghiera, colla penitenza e specialmente rinneghi se stesso, tolga la croce delle quotidiane tribolazioni e mi segua a. Ma fino a quando seguirlo? Fino alla morte e, se fosse mestieri, anche ad una morte di croce.

Ciò è quanto nella nostra Società fa colui che logora le sue forze nel sacro ministero, nell'insegnamento od altro esercizio sacerdotale, fino ad una morte anche violenta di carcere, di esilio, di ferro, di acqua, di fuoco, fino a tanto che dopo aver patito ed esser morto con Gestì Cristo sopra la terra, possa andare a godere con Lui in Cielo.

Entrato un socio con queste buone disposizioni, deve mostrarsi senza pretese ed accogliere con piacere qualsiasi ufficio gli possa essere affidato. Insegnamento, studio, lavoro, predicazione, confessione in chiesa, fuori di chiesa, le più basse occupazioni devono assumersi con ilarità e prontezza d'animo, perché Dio non guarda la qualità dell'impiego, ma guarda il fine di chi lo copre. Quindi tutti gli uffici sono egualmente nobili, perché egualmente meritori agli occhi di Dio.

Miei cari figliuoli, abbiate fiducia nei vostri Superiori; essi devono rendere stretto conto a Dio delle vostre opere: perciò essi studiano la vostra capacità, le vostre propensioni e ne dispongono in modo compatibile colle vostre forze, ma sempre come loro sembra di maggior gloria di Dío e vantaggio delle anime.

In giugno Mons. Ghilardi, Vescovo di Mondovì, recatosi a Roma, molto si adoperò presso Cardinali e Prelati in favore di Don Bosco. Egli portò pure a Mons. Berardi una lettera del Santo, che, rallegrandosi di voci corse sul suo prossimo Cardinalato, ribadiva l'argomento dell'approvazione e delle ordinazioni; ma Monsignore, che tanto bene gli voleva, non potè rispondergli se non che avrebbe dato schiarimenti a chi si occupasse autorevolmente a sciogliere le difficoltà inerenti al grave negozio (x).

Nello stesso mese sí celebrava a Roma il diciottesimo centenario del martirio di S. Pietro. Don Bosco mandò a rappresentare la sua persona e tutta la Congregazione dinanzi al Papa i due sacerdoti Don Angelo Savio e Don Giovanni Cagliero, latori anche di una sua lettera filiale al Vicario di Gesù Cristo. In questa supplicava così il Santo Padre: « Se mai in questa singolare e straordinaria solennità fosse permesso di domandare a Vostra Santità un favore di cosa sommamente desiderata, come si fa ad un Sovrano, io mi sarei ardito di rinnovare col più grande rispetto la domanda che Vostra Santità si degni di dare la sua sanzione alle Costituzioni della Congregazione dí S. Francesco di Sales, con tutte quelle correzioni, variazioni, aggiunte, che Vostra Santità giudicasse tornare a maggior gloria di Dio e a vantaggio delle anime a. Pio IX gli rispose il 22 luglio con un Breve, nel quale sull'argomento così si esprimeva: e Per quel che spetta poi alle Costituzioni di cotesta Società di S. Francesco di Sales, già ti è noto essere stato questo affare affidato alla nostra Congregazione dei Vescovi e Regolari, della cui opera ed aiuto Noi siamo soliti servirci nel trattare simili negozi ».

e) Lettera a Don Bosco, it8 giugno :867.

Da Roma persone amiche consigliavano a Don Bosco di desistere dal chiedere il privilegio circa gli ordinandi per non esporsi al pericolo di veder pregiudicato per sempre l'affare, qualora gli toccasse una negativa in forma solenne (1).

I chierici dunque dovevano continuare a essere ordinati come tutti gli altri. Monsignore Arcivescovo, che considerava come suol tutti i chierici nati nell'archidiocesi, agì di conseguenza, disponendo di servirsene secondo il bisogno. E il bisogno di clero era realmente grande, sicchè non faccia meraviglia se egli cercava di trarre partito da• tutto per moltiplicare i sacerdoti suoi. Posto questo, era naturale che si preoccupasse della formazione di coloro, che avrebbe incorporati al clero diocesano. Ora tre cose disapprovava nell'Oratorio: l'impiegare i chierici in insegnamenti e assistenze che li distraevano dagli studi; il poco spirito ecclesiastico che credeva dominare nell'ambiente, giudicato perciò disadatto a giovani da cui Don Bosco ricavava buon numero di chierici per sè e per i seminari; l'insufficienza dell'istruzione ivi impartita. Emanò pertanto una disposizione generale, in forza della quale tutti i chierici autorizzati a vivere fuori .del seminario vi dovessero entrare almeno un anno prima di ricevere le sacre ordinazioni. Ne veniva poi da sè che i novelli sacerdoti passassero in seguito al Convitto Ecclesiastico. Monsignore volle notificare egli stesso a Don Bosco la disposizione data, osservandogli (2): 4 Questa misuri le riuscirà gravosa, ma tornerà di vantaggio alla Chiesa e alla sua Comunità».

Per Don Bosco fu davvero un fulmine a del sereno. Nei chierici produsse due effetti immediati. Quelli che non volevano fermarsi con lui é altri che ne avevano l'intenzione, ma' che sí lasciarono sobillare da persone influenti, lo abbandonarono; i già professi o desiderosi di fare la professione ondeggiarono in penosa incertezza del loro avvenire. Sembrò agli uomini di poca fede il principio della fine.

(1) Lettera di Mous. Pratejacci a Don Bosco, to luglio 1867.
(2) Lettera ti settembre 1867.

Tuttavia l'Arcivescovo, messo di fronte all'eventualità di veder minare l'opera degli Oratori, sembra che scendesse ad un accomodamento; infatti in una lettera scritta da Don Bosco al Rettore del seminario nella riapertura dell'anno scolastico si leggono queste parole (i): « Per norma dí lei le dico che la lettera circolare dí Mons. Vescovo fu letteralmente da me eseguita, e della. diocesi di Torino non ci sono chierici nè qui, nè a Lanzo, nè a Mirabello, ad eccezione di quelli che intendono di far parte della Società di S. Francesco di Sales, per cui la prelodata Eccellenza sua ha fatto una eccezione nella circolare a me indirizzata ». Questo per altro non impedì ritardi e dinieghi di ordinazioni a chierici salesiani e tanto meno pressioni dall'alto perchè uscissero dall'Oratorio.

La carità di Don Bosco, sempre grande, diveniva inesauribile, quando fossero da agevolare vocazioni ecclesiastiche. I chierici vissuti nell'Oratorio erano per la massima parte poveri; onde avvenne che non pochi, essendo privi di mezzi per pagare la pensione in seminario, tornarono da Don Bosco, raccomandandosi alla sua generosità. Egli aperse loro le braccia, ma chiese che potessero frequentare le scuole del seminario; la qual cosa fu concessa, a patto che per essere ordinati ottemperassero alla nota disposizione.

Un aiuto provvidenziale Don Bosco ricevette dal nuovo Vescovo di Casale Mons. Ferrè. Si ricordi che il collegio di Mirabello si trovava nella sua diocesi. Orbene quell'insigne benefattore di Don Bosco approvò con suo decreto del 19 gennaio 1868 la Società di San Francesco di Sales come Congregazione diocesana secondo le Costituzioni a lui comunicate, concedendo in pari tempo al Superiore tutte le facoltà e privilegi riputati necessari od opportuni, fra cui naturalmente quello di presentare al Vescovo locale ordinandi residenti in case salesiane della diocesi.

(i) Lettera 9 novembre 1867.

Questo fatto fu di grande consolazione a Don Bosco (1). I Vescovi Galletti di Alba e Gastaldi di Saluzzo si congratularono vivamente con lui di quel decreto; anzi Monsignor Gastaldi vide in tale approvazione come una scintilla, che avrebbe sollevato un grande incendio, distruggitore di tutti gli ostacoli (2). I due benevoli Prelati fecero di più: s'interposero presso l'Arcivescovo, esortandolo a concedere facilmente le ordinazioni ai chierici dell'Oratorio. Ma l'unica via per uscire da sì spiacevole situazione era accelerare l'approvazione definitiva della Società.

(1) Il 12 aprile o868 egli scriveva alla Contessa Canori: “ Vescovo di Casale è tutto benevolo per le nostre case e ci fa tutto il bene che può; è questa la più grande consolazione che in questi momenti io possa avere “.

(2) Verbali dell'annua conferenza di S. Francesco di Sales, 3 febbraio x868.

CAPO XI Commendatizie per l'approvazione della Società.

Nei primi mesi del 1868 S. Giovanni Bosco si adoperò a tutto potere per procurarsi in buon numero Commendatizie dí Vescovi allo scopo di ottenere definitivamente l'approvazione pontificia della Società Salesiana. Nelle lettere con cui le domandava, accludeva pure un limpido cenno informativo di questa, fino dalle sue origini.

Questa Società nel suo principio era un semplice catechismo che fi Sac. Bosco Giovanni, col consenso e consiglio del Teol. Luigi Guala e Cafasso Giuseppe, ambidue di sempre gloriosa memoria, cominciava in apposito locale annesso alla chiesa di S. Francesco d'Assisi. Lo scopo era di raccogliere i giovanetti più poveri ed abbandonati e trattenerli nei giorni festivi in esercizi di pietà, in cantici sacri ed anche in piacevoli ricreazioni. Si avevano specialmente di mira quelli che uscivano dalle carceri, che trovavansi esposti a maggiori pericoli. La prova riuscì soddisfacente, ed un vistoso numero di giovani interveniva quanto comportava la capacità del luogo.

L'anno 1844 il sac. Bosco andò alla direzione spirituale dell'Ospedaletto di S. Filomena presso al Rifugio, ed allora col consenso dell'Arcivescovo si consacrò al divin culto una parte di quell'edifizio che servi qualche tempo per le sacre funzioni. Per due anni l'Oratorio non potè stabilirsi in località fissa: ma nel 1846 si prese a pigione, di poi si comperò il sito dove in progresso di tempo venne edificata l'attuale chiesa e casa detta Oratorio di S. Francesco di Sales. Quivi l'Arcivescovo Fransoni, di cara e felice memoria, intervenne più volte per amministrare il sacramento della Cresima e per fare altre sacre funzioni: dava eziandio facoltà di fare tridui, novene, ammettere a ricevere la Cresima, la S. Comunione, che valesse anche per l'adempimento del precetto pasquale. Pel gran numero di giovanetti che intervenivano l'Arcivescovo acconsenti e consigliò l'apertura di un novello Oratorio a Porta Nuova, dedicato a S. Luigi, nel 1847: altro in Van-chiglia nel 1849: e finalmente quello di S. Giuseppe a S. Salvarlo nel 1859. in questi locali furono poco per volta introdotte le scuole domenicali, di poi serali ed anche diurne. Fra i giovani che intervenivano, se ne incontravano parecchi cui non si poteva provvedere senza somministrare ricovero, vitto, vestito. Di qui nacque la casa di S. Francesco di Sales, dove sono raccolti circa 800 fanciulli.

La tristezza dei tempi e la diminuzione delle vocazioni persuasero di coltivare giovani, di ninna o di scarsa fortuna, per lo stato ecclesiastico: di qui la categoria degli studenti nella casa di Torino, nel collegio convitto di Lanzo e nel piccolo seminario di Mirabello, dove hanno istruzione religiosa e scientifica oltre ad altri quattrocento giovanetti, di cui maggior parte aspiranti allo stato ecclesiastico.

Il Superiore di questi Oratorii in certo modo fu sempre l'Arcivescovo, dal cui parere e consiglio ogni cosa dipendeva. Per altro i sacerdoti che occupavano di tutto proposito il sacro loro ministero negli Oratorii, solevano riconoscere il sacerdote Bosco per loro superiore, senza legami di voti, ma colla semplice promessa di occuparsi in quelle cose che egli avesse giudicato a maggior gloria di Dio.

Mons. Arcivescovo Fransoni raccomandò più volte che si studiasse qualche mezzo per assicurare l'esistenza degli Oratorii dopo la morte dell'esponente. L'anno 1852 il Superiore ecclesiastico, di moto proprio, approvava in genere le regole che si osservavano negli Oratorii (1). costituiva il sacerdote Bosco capo di essi, compartendogli tutte le facoltà necessarie ed opportune per queste istituzioni.

Le calamità dei tempi obbligando l'Arcivescovo a risiedere fuori di diocesi, pure questi non cessava di raccomandare una istituzione che assicurasse la conservazione dello spirito e della pratica degli oratorii. Nel /858 consigliava il sac. Bosco di recarsi a Roma per aver lumi speciali dal Sommo Pontefice sul modo di concepire una istituzione religiosa in faccia alla Chiesa, ma che i suoi membri fossero altrettanti liberi cittadini davanti alle leggi civili.

Il Sommo Pontefice accolse con bontà e con grande premura l'ideata istituzione, e stabili le basi, aiutò a sviluppare i singoli articoli e, coll'aiuto del Card. Gaude, l'antico regolamento della Società fu portato al tenore della copia chesi unisce. Il medesimo Pio IX con parecchie sue lettere particolari dava avvisi e consigli perchè ogni cosa riuscisse bene, e chiese egli stesso che le Regole fossero presentate alla Santa Sede per l'apostolica sanzione, appena fossero state per qualche tempo messe in pratica. L'Arcivescovo Fransoni lesse in Lione il Regolamento, poi scrisse una lettera in cui notava alcune cose, di cui si tenne esatto conto. Inviava di poi le Costituzioni, raccomandando al suo Vicario Generale che facesse quanto occorreva per venire ad una regolare approvazione delle medesime. La morte del compianto pastore interruppe ogni pratica a questo proposito. Mons. Vicario Generale Capitolare giudicò meglio di attendere il novello Arcivescovo per l'opportuna approvazione e intanto fece una splendida Commendatizia, che unita a quelle di altri Vescovi, fu inviata a Roma l'anno 1864.

(1) Queste regole sono pubblicate nel vol. V delle /k/em. Biogr., pgg. 93-x08.

Il Santo Padre accolse ogni cosa con paterna premura, mandò le Costituzioni, l'analogo Memoriale e le Commendatizie dei Vescovi alla Congregazione dei Vescovi e Regolari. Pochi mesi dopo l'autorevole Congregazione emanava un decreto, di cui si unisce copia, col quale collodava e commendava le Costituzioni e si riserbava, de more solito, a tempo più opportuno il dare l'apostolica sanzione ai singoli articoli. Ma attese le speciali circostanze dei tempi veniva costituita la Società nella persona del Rettore generale, che doveva durare a vita e passare nel successore, che doveva in carica durare dodici anni.

Cosi questa Società sarebbe in genere approvata: ora la Santa Sede sta attendendo per verificare se la Società corrisponda al suo scopo per venir di poi alla definitiva approvazione.

A questa esposizione sintetica, uguale per tutti i Vescovi, faceva seguire osservazioni particolari, che servissero loro a'confortare le rispettive suppliche con argomenti desunti da circostanze locali o personali, come di giovani loro diocesani educati nell'Oratorio o di qui passati nei loro seminari. Risposero inviando le proprie Commendatizie gli Ordinari di Casale, Alba, Saluzzo, Aosta, Novara, Torino, Fermo, Genova, Pisa, Vigevano, Alessandria, Parma, Reggio Emilia, Ancona, Guastalla, Lucca, Albenga, Mondovi, Asti e i Vicari Capitolati di Acqui e di Susa.

Di Mons. Gastaldi, Vescovo di Saluzzo, ne esistono due, una in latino con la data dell'xx luglio x867 e l'altra in italiano del. 6 giugno x868. Entrambe convengono in un giudizio, che è pure una valida testimonianza, così espresso nella seconda: «Il sottoscritto dichiara, che esso vide formarsi e crescere questa Società, ne vide le Regole, ne vide il risultato. Vide che con l'osservanza di queste Regole si mantenne costantemente in essa lo spirito di obbedienza, sottomissione, umiltà, pietà, concordia, pace e carità. Trovò mai sempre nei membri formanti questa Società,. come una sola mente ed un cuore solo. Vide come per miracolo sorgere in seno alla medesima una chiesa colossale che forma la meraviglia di chi la esamina, e che per la spesa di oltre un mezzo milione di lire sostenuta da poveri sacerdoti nulla tenenti, è conte un portento, il quale prova che Iddio benedice questa Società ».

Gli Ordinari di Novara, Alessandria, Lucca e Susa testificano del bene che loro diocesani ricevono nelle case di Don Bosco, dei frutti consolanti che nei medesimi hanno riscontrati e delle vocazioni sacerdotali dal Santo regalate alle loro diocesi.

Di particolare autorità vanno rivestite tre testimonianze. La prima è del Card. Antonucci, Arcivescovo di Ancona, già Nunzio Apostolico presso la Corte Reale di Torino dal x844 al 1852. Egli, ricordando di aver veduto con i propri occhi le umili origini e i rapidi sviluppi dell'opera degli Oratori, dice: « Era per me allora una delizia il visitare quei grandi e ameni giardini chiamati Oratori festivi. Con la più viva soddisfazione io li stimai sempre una vera arca di salvezza per tanti giovani poveri e abbandonati, che, raccolti dallo zelo instancabile del Direttore e de' suoi collaboratori, al mattino delle feste udivano la Messa, ricevevano í Sacramenti e ascoltavano la parola di Dio, e nel pomeriggio dopo le pratiche religiose si ricreavano, abbandonandosi allegramente a svariati giochi e trastulli ». La seconda testimonianza è del Card. De Angelis, Arcivescovo di Fermo, che, condotto prigione a Torino durante i rivolgimenti politici del x86o, era stato relegato per sei anni nella casa dei Lazzaristi, dove aveva stretto relazione con Don Bosco, solito a visitarlo senza temere le ire dei malevoli. Ora egli scrive: « Prima di partire da Torino nel novembre x866, recatici a visitare il menzionato Oratorio, ci rallegrammo assai nel Signore vedendo co' nostri occhi il bel numero di giovanetti quivi educati, ritolti all'ozio e alla miseria dalla feconda carità del degno sacerdote, che n'è capo e direttore supremo ». Terza viene la testimonianza di Mons. Rota, Vescovo di Guastalla, che, esiliato a Torino nel x866, aveva gradito l'ospitalità offertagli con suo pericolo da Don Bosco. Allora dunque attestava: 4 Dimorammo presso di lui e nella comunità de' suoi pii sacerdoti per sei mesi, quanti ne durò il nostro esilio, godendovi tranquillità e pace, circondati di tutte le premure possibili. Così potemmo formarci una idea più esatta della sua persona e della Società da lui fondata. Perciò quello che stiamo per dichiarare, lo affermiamo non per sentito a dire, ma per nostra esperienza personale ». Descriveva poi la vita dell'Oratorio, concludendo con l'as..Prire di aver trovato quivi realizzato l'ideale che egli aveva in mente di una Congregazione religiosa fatta per i nuovi tempi.

Non mancarono per altro le dissonanze. Notevole fu quella di Mons. Moreno, Vescovo d'Ivrea, che molta lode si acquistò di buon governo. Egli aveva avuto con Don Bosco una lunga controversia sull'amministrazione delle Letture Cattoliche. La contestazione, grazie alla magnanimità di Don Bosco, si era chiusa con un onorevole compromesso. Il Santo gli aveva scritto il X5 aprile i868: « Prego V. E. Rev.ma a dimenticare per un momento alcuni dispiaceri passati, cagionati da motivi materiali, e di osservare se giudica bene per la maggior gloria di Dio di secondare la mia dimanda. L'affare di cui si tratta è quello stesso di cui ho un tempo parlato con V. E. e le mando copia delle cose principali affinchè veda l'oggetto per cui le scrivo. La Società di San Francesco di Sales è già stata collaudata dalla Santa Sede, ed ora mi sarebbe di sommo giovamento una Commendatizia dei Vescovi della nostra Provincia Ecclesiastica, in cui ciascuno scrivesse quello che giudica meglio di commendare, affinchè sia ottenuta la definitiva approvazione. Io pertanto fo rispettosa, ma calda preghiera all'E. V. affinchè, come favore speciale. voglia unire anche la sua Commendatizia da mandarsi alla Congregazione dei Vescovi e Regolari. Se mai per qualunque suo prudenziale motivo, che sempre rispetterò, non giudicasse di accondiscendere a questa mia dimanda, la pregherei solamente ad usarmi la cortesia di farmi scrivere a sua comodità una parola per mia norma ». Trascorso già un mese senza che giungesse risposta, il Santo cortesemente insistette; ma ebbe il dolore di non ricevere riscontro.

Il Vescovo di Pinerolo rispose, ma annunciando a Don Bosco il suo rifiuto, di cui manifestò al Card. Quaglia il motivo. L'aveva allarmato quello che le Regole dicevano riguardo *alla educazione ed istruzione dei chierici e al formare dell'Oratorio un seminario di sacerdoti per Torino e le altre diocesi ». Su di che dichiarava: « Quand'anche questi giovani da consacrarsi al sacerdozio potessero essere educati alle più schiette ed alle più belle virtù del sacerdozio, quand'anche potessero progredire debitamente negli studi, io guardo all'obbligo che ha il Vescovo di attendere egli e per mezzo di persone scelte da lui, e che pub mutare ad ogni occorrenza, all'educazione del suo clero, e di prendere ad ogni uopo le necessarie informazioni, e di provvedere con esatta cognizione di causa cosa all'accettazione come all'allontanamento degl'individui, all'indugiare o no la sacra Ordinazione, ed a emettere le necessarie provvidenze ». Per ciò pur «lodando in tutto il resto la carità esercitata dall'operoso sacerdote Don Bosco nello accogliere ed istruire tanti e tanti infelici », non potè «sottoscrivere al voto di mettere anche nelle sue mani la educazione del giovane clero ». In tutto questo egli sup-. poneva permanente la condizione di chierici che convivevano nell'Oratorio frammisti ai giovani, mentr'era uno stato di cose provvidenziale, sì, ma transitorio, finchè cioè i tempi fossero cambiati e i seminari tornati in piena efficienza. D'altra parte Don Bosco non intese mai fare dell'Oratorio un seminario, ma semplicemente un vivaio di vocazioni ecclesiastiche.

Più serio fu il caso dell'Arcivescovo di Torino. Consegnò egli a. Don Bosco una Commendatizia, nella quale s'intravvedevano alcune riserve, chiarite poi in tre documenti diretti al Card. Quaglia. Il primo era una lettera, dalla quale risulta che la sua approvazione si riferiva alla Società « quando non si proponeva altro scopo che raccogliere e catechizzare i ragazzi ed avviarli a qualche arte o mestiere » e che, implorandone la erezione in Congregazione religiosa, subordinava questa domanda ad « una savia revisione e correzione delle Costituzioni da farsi dalla Santa Sede »; poichè avrebbe creduto di tradire il suo dovere di Vescovo facendosi patrocinatore di una Congregazione, che, ove fosse approvata tal quale si proponeva, non sarebbe potuta riescire che «a gravissimo danno della Chiesa, della Diocesi e del Clero ». Onde suggeriva che prima di dare qualunque approvazione la Congregazione dei Vescovi e Regolari mandasse sul luogo « qualche persona estranea, pia, dotta, sperimentata, e pratica dì educazione della gioventù» ad «esaminare le cose e riferirne ». E soggiungeva: «Questa ispezione fatta all'insaputa di tutti potrebbe forse rivelare molti inconvenienti che sfuggono alle mie osservazioni e illuminare la Sacra Congregazione che potrebbe così con maggior cognizione di causa emendare e rifare le Costituzioni, adattandole ai bisogni delle 'Costituzioni medesime e dei tempi nei quali viviamo e. Intanto presentava nel secondo documento nove osservazioni principali, dalle quali rimandava a una serie di appunti (e questo era il terzo documento) segnati in margine al testo latino delle Regole, stampate nel x864. Con uno sguardo d'insieme Don Lemoyne (i) giudicava nel seguente modo il contenuto di questo incartamento: «Mancanza di conoscenza del vero stato delle cose, sospetti sulle intenzioni di Don Bosco, pregiudizi, timori di pericoli che non esistevano, false interpretazioni di articoli, esigenze che pel momento non si potevano soddisfare, giudizi azzardati avevano dettate quelle osservazioni. L'Arcivescovo però non agiva per mal animo, ma per i ragguagli inesatti e i commenti di certi dottori antiquati e ostili a Don Bosco e.

Questo avveniva nella prima quindicina dì marzo del z868. Per il novembre seguente l'Arcivescovo aveva indetto una riunione de' suoi suffraganei per prendere accordi sulle cose da proporsi al Concilio Vaticano e per trattare di affari riguardanti le loro diocesi. Don Bosco pensò di profittare dell'occasione per ottenere un'apprwazione collettiva dell'Episcopato che governava la provincia ecclesiastica di Torino. Fattane quindi parola con l'Arcivescovo, inoltrò all'assemblea questa supplica semplice e umile in cui, riassunta, rifà la storia dell'Opera, espone lo stato delle cose, previene alcune obiezioni ed esprime i suoi desiderata.
Eccellenze Reverendissime,
Nella persuasione che le Eccellenze Loro Reverendissime vogliano con bontà ascoltare le deboli loie espressioni, mi fo tosto a accennare lo scopo mio che riguarda alla Istituzione, detta comunemente Oratorio di S. Francesco di Sales. Credo che le EE. LL. abbiano già avuto la degnazione di prendere parte a qualche sacra funzione, o almeno visitati o altrimenti beneficati í poveri giovanetti che soglionai radunare in locali, detti Oratorii Festivi ed Ospizii della Gioventù.
(i) Mem. Biogr., vol. IX, pag.101
Affinchè si potessero qui avere catechisti, maestri ed assistenti fu iniziata una specie di Congregazione, di cui è cenno nella Notali brevis, della quale mi sono fatto lecito di inviare copia a ciascuna delle Loro EE. Ogni cosa procedette sempre sotto alla guida e col consiglio di Mons. Fransoni, di felice memoria. Questo benemerito compianto prelato instava costantemente che fosse studiato un mezzo per dare forma stabile a questa Istituzione, da poter esistere dopo la morte dello scrivente. Con tratto di singolare clemenza a tale fine Egli mi costituiva Direttore Capo degli Oratorii
Inoltre, con Lettera Commendatizia, l'anno 1858 mi inviò a Roma. Il Santo Padre ponderata bene ogni cosa conchiudeva con queste parole: e Affinchè tale Istituzione possa sussistere con qualche buon risultato dopo il vostro decesso è necessaria una qualche Congregazione; ma in modo che i Membri dí essa siano veri Religiosi in faccia alla Chiesa, e siano altrettanti liberi cittadini davanti alle leggi civili e.

In altre posteriori udienze il medesimo Santo Padre mi espose il piano di un Regolamento, che io procurai di estendere e formarne tredici capitoli divisi in tanti brevi articoli.

Tale Regolamento fu presentato al sopra lodato Mons. Fransoni, che riscontrandomi diceva averlo letto e fatto leggere da persona pratica, e lo rinviava con qualche riflesso pratico che tosto fu introdotto nelle progettate Costituzioni.

Dopo cinque anni di prova, colla Commendatizia del Superiore Ecclesiastico di questa Archidiocesi e di altri benemeriti, presentava alla Santa Sede queste Costituzioni, perchè servissero di base ad una Congregazione col nome di Società di S. Francesco di Sales.
La Sacra Congregazione de' Vescovi e Regolari, dopo averle esaminate, emanava il Decreto con cui lodava e commendava questa Società come Congregazione di voti semplici, differendo però a tempo più opportuno la definitiva approvazione dei singoli articoli.

Intanto, come per garanzia della esistenza della Società, costituiva il Superiore a vita e dava nonna sulla elezione del Successore.

A questo Decreto erano annesse tredici animadversioni, che furono tutte accomodate nelle Costituzioni. Fra le altre quella che i voti dovessero essere riservati alla Santa Sede.

Le Costituzioni, di cui ebbi l'onore di presentare copia alle Loro Eccellenze, sono quelle lodate e commendate nel citato Decreto colla inserzione delle fatte osservazioni.

Sul principio dell'anno corrente il Vescovo di Casale approvava questa Congregazione come Diocesana col Decreto e coi favori, di cui mí sono eziandio fatto lecito di offerire copia alle Eccellenze Loro.

In questo stato di cose, vedendo ogni giorno più avvicinarsi il fine di mia vita, nel timore che non lievi inconvenienti siano per avvenire a questa Istituzione, qualora io morissi prima che Essa fosse definitivamente approvata, ho di nuovo umiliato alla Santità. di Pio Papa IX le Costituzioni colle Commendatizie di oltre a venti Vescovi, tra cui mi gode l'animo poter annoverare le Eccellenze Loro.

Il Santo Padre ebbe la degnazione di farmi scrivere dal Segretario della prelodata Congregazione de' Vescovi e Regolari che non àvvi difficoltà intorno alla definitiva approvazione delle Costituzioni: ma mi nota essersi fatte delle osservazioni da alcuni Vescovi della Provincia Ecclesiastica di Torino intorno ai chierici che intendessero di far parte di questa Congregazione.

Ora, essendosi data la propizia occasione che pel bene della Diocesi le RE. Loro si sono qua raccolte a Congresso, io mi sono determinato di esporre Loro lo stato di questa Istituzione e dì pregarle quanto so e posso dì volermi coadiuvare e consigliare intorno ad alcuni punti di maggior importanza.

1° Se posso sperare un voto favorevole, siccome è notato nella Notitia brevis di cui sopra, cioè: Episcopi Proeinciac Eccksiasticae Taurinensis definitivam approbationem Societatis Sanai Franasti Salesii postulant.
Credo che a ciò non osti il quesito che si dice fatto dalla Santa Sede pel futuro Concilio Ecumenico: e Se convenga approvare nuove istituzioni religiose e: perciocchè trattasi soltanto di compiere un'opera lodata e commendata dal Santo Padre: il cui Superiore e Successore sono regolarmente stabiliti, e che fra gli argomenti di sua esistenza ha già la definitiva diocesana approvazione del Vescovo di Casale.

2° Posto questo voto favorevole, stabilisce una formola da presentare alla Santa Sede con cui, salva la giurisdizione dei Vescovi, si dica come il Superiore di questa Congregazione possa amministrare, regolare gli individui che appartengono a varie case esistenti ín diverse diocesi. Per l'accettazione, istruzione degli individui e per la presentazione dei medesimi ai Sacri Ordini si seguono le consuetudini praticate nei nostri paesi nelle Congregazioni finora approvate. Le ultime sono gli Oblati di Maria e l'Istituto della Carità (V. Statuto N. 8 ad x2). Qui si noti che secondo le Costituzioni di questa Congregazione i membri si possono considerare come altrettanti sacerdoti ad nutum Episcopi in tutto ciò che riguarda il Sacro Ministero. E parimenti bene di notare che per membri della Congregazione non si intendono i giovanetti accolti per fare i loro studi secondari, nemmeno i chierici caritatevolmente accolti o altrimenti raccomandati dai Vescovi alle nostre case. Essi sono totalmente ad nuturn proprii Episcopi. Io intendo solamente di parlare di quelli che sono regolarmente inscritti nella Congregazione ed hanno già emessi i voti, i quali, secondo il prescritto della Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari, sarebbero riservati alla Santa Sede.

Si osservi eziandio che per via ordinaria questi chierici sono giovanetti poveri che fin dalle scuole elementari si dovettero provvedere di vitto, libri, vestito per tutto il tempo de' loro studi. Non pochi di essi appartengono a paesi remoti, come sarebbe Milano, Genova, Sicilia. Inghilterra e America. I quali, mentre sono liberi di fare quando che sia ritorno ai proprii Vescovi, si può dire che loro torna impossibile di frequentare scuole o Seminarli Diocesani.

Non ignoro l'osservazione scritta da taluno alla prelodata Congregazione dei Vescovi e Regolari, dicendo; Quei chierici non studiano abbastanza. Per l'avvenire si avrà massima cura che non abbiasi a far questo rimprovero. In quanto però al passato bisogna distinguere i chierici ricoverati, o inviati fra noi per prova,

dai chierici della Congregazione. Dei primi non posso essere responsabile, perchè dimorano in modo anormale e transitoriamente nello stabilimento. Dei chierici che di fatto sono membri della Congregazione credo che non sia così.

Potrei accennare quelli che cuoprono cariche nelle Diocesi, come sono coadiutori, parrochi, vicarii foranei, professori neì medesimi Seminarii diocesani. Ma credo che basterà quanto può asserire S. E. Rev.ma il nostro Veueratissimo Arcivescovo, il quale, se giudicasse, potrebbe verificare gli esami di tutti quelli che appartengono a questa Congregazione nello spazio di vent'anni, e non troverebbe un voto scadente.

Altra difficoltà suol farsi nel caso che qualcheduno uscisse di Congregazione. Osservo che questi casi dí uscita possono accadere per qualunque Congregazione religiosa. I Vescovi li avrebbero esaminati De soienftia ei inoribus prima di conferir loro l'Ordinazione. E nel caso di uscita dalla Congregazione, il Vescovo Ordinante li potrebbe accogliere o non accogliere in sua diocesi secondo che giudica tal cosa opportuna.

In fine, omettendo ogni riflesso ed ogni osservazione, io faccio alle EE. LL. la seguente rispettosa ma calda preghiera.

Le nostre case di educazione, le scuole e gli Oratorii Festivi furono instituiti a benefizio dei giovanetti più poveri e pericolanti delle varie Diocesi. Ognuna delle EE. LL. ha avuto e forse ha tuttora chierici e poveri fanciulli diocesani che godono di questa Istituzione. Sono perciò intimamente persuaso essere Loro comune desiderio che tale Istituzione continui.

Dal canto mio desidero ardentemente di essere in buona relazione ed in piena sommissione ai Vescovi, specialmente della provincia di Torino: perciò prego e supplico le EE. LI,. a volermi aiutare e coll'opera e col consiglio, affinchè questa Istituzione sia consolidata con morale garanzia di esistenza dopo il mio decesso, cioè sia definitivamente approvata dalla Santa Sede.

Le ringrazio di tutto cuore della bontà nell'ascoltare questa umile relazione, e pregando ìl Signore Iddio che tutte Le conservi lungamente pel bene della Chiesa, colla massima gratitudine ho l'alto onore di potermi professare
Delle LL. EE.

Ummo Supplicante
SAC. BOSCO GIOVANNI.

Erano convenuti i Vescovi di Alba, Asti, Cuneo, Ivrea, Mondovì, Pinerolo, Saluzzo e i Vicari Capitolari di Acqui, Possano e Susa. Al Vescovo d'Ivrea aveva giudicato bene di scriverne personalmente nella speranza di dissipare ogni malinteso o almeno di provocare uno scambio d'idee, che aprisse la via a spiegazioni. Gli diceva: «Il nostro veneratissimo Arcivescovo, da me pregato, si è assunto di leggere una breve relazione sullo stato attuale degli Oratori per la povera gioventù e sulla Congregazione
di S. Francesco di Sales. La E. V. che li ha sempre protetti in passato, mi fa sperare una parola in favore e a tale oggetto le mando qui alcuni stampati relativi. Potrei sperare che V. E. dando un benigno compatimento sul passato, venga a fare una visita alla chiesa nuova di Maria Ausiliatrice? Ad ogni modo la prego di gradire i sentimenti della sincera mia gratitudine ». Ma Monsignore si astenne dal rispondergli.

La supplica fu letta in seno all'adunanza. Mons. Ghilardi, Vescovo di Mondovì, si levò per il primo a dichiararsi favorevole; a lui tennero dietro altri Vescovi. Ne nacque un po' di discussione, che il Vescovo d'Ivrea troncò dicendo: — Abbiamo qui il Metropolitano. Egli decida. — L'Arcivescovo, osservato che c'erano troppe altre cose da trattare, mise da parte il foglio e non se ne parlò più. Dopo, il segretario ne scrisse d'ufficio a Don Bosco nei termini con cui si suole esprimere un cortese rifiuto. Don Lemoyne narra (i) che il Santo,• quando lesse la lettera, esclamò: — Pazienza! Sia tutto per amor di Dio e della Santa Vergine. Vedremo di aggiustare le cose a Roma.

(1)      L. cit. Pag. 424.

CAPO XII Come Don Bosco ottenne a Roma l'approvazione della Società.

14e ripulse non iscoraggiarono il Servo di Dio. Infatti riprese subito la corrispondenza con coloro che lo potevano aiutare, finchè, persuaso che gli schiarimenti dati di presenza avrebbero giovato più delle spiegazioni mandate per lettera, decise di recarsi a Roma. Persone autorevoli e a lui affezionate gli sconsigliavano quel viaggio, perchè a parer loro non avrebbe conchiuso nulla. «Egli però (scrive Don Rua nella cronaca dell'Oratorio sotto il 7 marzo x869, cioè dopo il suo ritorno) confidato in Maria Ausiliatrice, rispettando i loro consigli, non tralasciò di fare quanto parevagli dal Signore suggerito ».

Partì l'8 gennaio. 1.4a sera innanzi dopo le orazioni aveva detto a tutta la comunità: e Voleva partire di nascosto, ma da ieri a quest'oggi si divulgò talmente la nuova della mia partenza, che, andando oggi per Torino, una persona mi diceva: — Aspetti, ho una commissione da lasciarle! — E voi, o miei cari giovani, volete sapere dove vado? Vado a Roma, perchè ho affari di molta importanza, e vado per voi; per far danari, se posso, e poi per un'altra cosa che vi dirò a suo tempo, e ne sarete molto contenti, perchè sarà di grande utilità all'Oratorio ». Infine aveva raccomandato caldamente di recitare ogni giorno fino al 7 marzo un Pater ed una Salve secondo le sue intenzioni.

Nel di della sua partenza Mons. Gastaldi scrisse un'importante lettera al Card. Quaglia, Prefetto della Congregazione dei Vescovi e Religiosi, al quale spettava dirigere il corso della pratica. Gli diceva:
Recasi a Roma il Molto Rev. Sig. Don Giovanni Bosco sacerdote torinese, il quale fino dal 1845 in circa apri in Torino un Oratorio per educarvi cristianamente la gioventù, il quale fu benedetto dalla Provvidenza così, che ora conta da 800 ragazzi incirca quivi conviventi insieme, oltre a parecchie centinaia che vi vengono solo nei dì festivi. La magnifica chiesa dedicata a Maria SS. Ausiliatrice che fu eretta dallo stesso sacerdote presso a questo Oratorio coll'enorme spesa di oltre un mezzo milione di franchi, e tre altri Oratorii festivi per raccogliervi la gioventù la quale vi accorre nelle domeniche e feste in un numero presso a a000 individui, e due collegi convitti aperti e mantenuti per lo stesso scopo a Lanzo Torinese e a Mirabello, diocesi di Casale, e frequentati cosi che il locale non basta per soddisfare alle domande, dimostrano chiaro che l'opera di questo sacerdote è protetta dalla mano di Dio, e che arreca giovamento alla religione.

Ella è cosa patente di per sè, che quest'opera per conservarsi e procedere abbisogna di molti coadiutori, i quali non possono convivere insieme ed essere uniti da un medesimo scopo ed essere animati dallo zelo e spirito di sacrifizio richiesto alla medesima, senza che essi siano legati insieme da voti religiosi e formino una Società religiosa.

Per questo il predetto Thin Bosco fin da principio venne formandosi dei chierici e dei sacerdoti, ai quali comunicò il suo spirito, e coll'aiuto dei quali venne reggendo e conducendo a buono le sue Istituzioni: e questi chierici e sacerdoti cominciano già. a comporre la Società, che avrà da rendere durevole l'opera così bene avviata.

Il sottoscritto vide nascere e crescere questa Società, ne conobbe come ne conosce ogni individuo, e non può altro che parlarne con elogi e desiderarne lo stabilimento in modo sicuro.

A tal fine è al tutto necessario, che quest'opera ottenga dalla Santa Sede Apostolica quella sanzione senza della quale essa non potrà mai avere stabilità. /l Sig. Don Bosco presentò già alla S. Sede le Regole della sua nascente Società e supplicò la medesima a concedergli le grazie ed esenzioni necessarie ad ogni. Società Religiosa.

Ed il sottoscritto raccomanda caldamente a V. S. questo desiderio del Sig. Don Bosco e la prega di assisterlo, affinchè egli impetri dalla S. Sede quanto gli è necessario per avere bene formata e costituita la sua Società; la quale fuor d'ogni dubbio promuoverà come ha promosso e promuove la cosa più urgente che sia nei giorni presenti, cioè la cristiana educazione della gioventù.

Trattenutosi parecchi giorni a Firenze, dove l'aveva chiamato da parte del Re il Ministro dell'Interno, arrivò a Roma la mattina del z5. Cominciò anzitutto a tastare il terreno; ma dovette accorgersi che dei Prelati ben pochi avrebbero secondato i suoi disegni. Le lettere contrarie alla Società avevano fatto breccia. La Sacra Congregazione, che per transenna si era già occupata delle Regole, volle appurare meglio come stessero le cose a Torino; quindi incaricò il Segretario Mons. Svegliati di chiedere un ragguaglio al Teol. Margotti, Direttore dell'Unita Cattolica. Questi rispose facendo due osservazioni. La prima concerneva gli studi. « L'istruzione ecclesiastica, scriveva, nell'Oratorio di Don Bosco è per ogni parte commendevolissima. I suoi chierici ad una profonda pietà uniscono una soda dottrina, ed anche da questo lato l'Oratorio di Don Bosco ha reso e rende segnalati servigi alla Chiesa in genere ed in ispecie alla diocesi di Torino ». Per altro non avrebbe voluto un insegnamento indipendente dall'Arcivescovo, perchè questo avrebbe potuto « produrre gravi conseguenze e generare due partiti non solo nel clero giovane, ma anche negli attempati sacerdoti » con deplorevoli effetti. Perciò insisteva: « L'Oratorio di Don Bosco merita ogni favore, ma il principio d'indipendenza, ripeto, sarebbe un germe fatale di scissure e di scismi. Raccomandare l'Oratorio all'Arcivescovo, cosicchè da lui ottenesse ciò di cui abbisogna per sempre più prosperare, ecco il partito giudicato migliore da persone pratiche, che hanno in vista soltanto la gloria di Dio ed i vantaggi della Chiesa ».

Si noti che il Margotti era affezionato quant'altri mai a Don Bosco. Ecco perchè il Santo, quando prese visione di questo documento, comprese che solo un miracolo avrebbe potuto cambiare gli animi. Don Lemoyne riferisce queste sue parole, da lui raccolte (i): «Si prendevano le nostre povere Regole e ad ogni parola si trovava una difficoltà insormontabile. Coloro che avrebbero potuto fare di più in mio favore, erano quelli che più risolutamente si manifestavano di parere contrario. Io però confidando nella Madonna e nelle preghiere che si facevano nell'Oratorio, aveva speranza che tutto sarebbe superato ». E nell'Oratorio si pregava molto. Don Rua nella citata cronaca scrisse: « Nel tempo che Don Bosco dimorò nell'eterna città i giovani dell'Oratorio non mancarono mai di recitare le preghiere prescritte. Anzi aggiunsero corone di comunioni, per cui molti s'incaricarono di fare in giorno di propria scelta la santa comunione per lui, in modo che ogni giorno della settimana ve ne fosse un certo numero a compiere tale ufficio di riconoscenza verso il loro buon padre ».

(i) Mem. Biogr., vol. IX, pag. 499
Tante preghiere non furono vane; il prodigioso intervento del Cielo auspicato da Don Bosco si verificò in forma evidente e più d'una volta. La prima volta fu in casa del non più semplicemente Monsignore, ma allora Cardinale Berardi. Aveva egli gravemente infermo un nipotino di undici anni, unico rampollo di nobile e ricca famiglia: la febbre tifoidea lo consumava a vista d'occhio ed era considerato come perduto. Lo zio volle a ogni costo che Don Bosco lo visitasse. Il Santo vi si recò solo dopo molte insistenze e quando entrò in quella casa, tutti lo supplicavano addirittura di guarire l'infermo. Egli, quasi da quell'orecchio non sentisse, spiegò al Cardinale come fosse venuto a Roma, perché lo aiutasse a ottenere dal Santo Padre l'approvazione della sua Società. Il Cardinale promise, ma a patto che gli risanasse il fanciullo. Don Bosco, raccomandato ai presenti di avere fede in Maria Ausiliatrice e recitate alcune preghiere presso il letto del malato, lo benedisse, e consigliò di fare una novena. « Il parlare di novena al letto dí uno quasi spedito da tutti, è cosa che allarga poco il cuore », scrisse allora Mons. Manacorda, il quale però soggiungeva: « Il giorno dopo il fanciullo era libero dalla febbre, e al compirsi della novella usciva di casa sano e salvo » (i). Sua Eminenza, fuori di sè dalla gioia, andò a raccontare ogni cosa al Papa, raccomandandogli con gran calore la Società.

Poco dopo accadde un'altra guarigione in condizioni straordinarie. Don Bosco aveva dal Governo italiano una misteriosa missione da compiersi presso la Segreteria di Stato; dovette quindi conferire col Card. Antonelli, che reggeva quel dicastero pontificio. Anche questo Porporato la pensava come coloro che giudicavano impossibile approvare la Società, sia per la condizione dei tempi, sía per la forma del voto di povertà. Don Bosco lo trovò inchiodato da più giorni sopra una poltrona, per-che torturato dalla podagra. Il Papa stesso andava da lui, data la sua impossibilità di fare un passo. Il Santo, condotto il discorso sulla Società, lo pregò di raccomandarla al Santo Padre; ma il Cardinale tentennava il capo. Allora Don Bosco, quasi ispirato dall'alto, affermò categoricamente che, se prometteva di andare l'indomani dal Papa per questo motivo, si sarebbe sentito meglio. L'illustre infermo, martoriato da' suoi dolori, finì con promettere. Ed ecco che la mattina appresso, cessati realmente i lancinanti assalti del male, si recò all'udienza e narrò il caso.

(i) Lettera a Don Bonetti, 3i gennaio 11369.

Dio aiutava il suo servo; ma questi non tralasciava di aiutarsi. Stando a Torino aveva chiesto consigli e aiuti a membri altolocati di Ordini religiosi, ma tutti si erano schermiti. A Roma trovò un fido consigliere nel Signor Borgogno, Procuratore generale dei I,azzaristi, che gli diede ottimi suggerimenti, gli favorì copia delle sue Regole, gl'indicò documenti, gl'insegnò come servirsene, lo iniziò poi a procedure, che conosce bene soltanto chi è ben addentro nelle segrete cose. Ebbe in tal modo una bussola, con cui orientarsi. Visitò persone 4ialluenti, discusse, chiarì. Colloqui della massima importanza si svolsero col Cardinal Quaglia e col Segretario Svegliati, entrambi sfavorevoli all'approvazione. Un curioso documento ci rivela quale fosse la sostanza precisa di quelle conferenze. A in una stampa del 1878, destinata a vincere le opposizioni, quando era in esame la definitiva approvazione delle Regole. Essendosi allora riaffacciate le medesime difficoltà del 1869, Don Bosco espose in forma dialogica le dispute avute allora col Cardinale Prefetto dei Vescovi e Regolari, col Segretario della stessa Congregazione e con altri. Nelle Domande fa intendere le obbiezioni mossegli e nelle Risposte riassume le sue spiegazioni (i).

(i) Cenno storico sulla Congregazione di S. Francesco di Sales a relalitei schiarinzenti. Tip. Poliglotta di Propaganda, 1878. Pag. to. t un opuscolo di appena 20 pagine.

D. In questa società cercate il bene del prossimo o quello de' soci?
R. Lo scopo di questa Società è il bene spirituale dei soci mediante l'esercizio della carità verso il prossimo e specialmente verso alla povera gioventù. D. Quale cosa osservate particolarmente nell'accettazione dei soci?
R, Nell'accettazione dei soci si bada in modo speciale alla virtù dei medesimi: perciocchè la nostra Congregazione non è destinata ad accogliere convertiti, che desiderino di attendere alla preghiera, alla penitenza, alla ritiratezza, ma di accogliere individui di vita costumata, fondati nella virtù e nella religione, i quali vogliano dedicarsi al bene della gioventù soprattutto dei fanciulli più poveri e pericolanti. Per questa ragione finora abbiamo accettati soltanto giovanetti da più anni conosciuti e vissuti nelle nostre case con vita sotto ad ogni rapporto esemplare.

D. Avete il noviziato?
R. Abbiamo il noviziato, ma le pubbliche leggi, i luoghi dove viviamo, non permettono di avere una casa separata, che serva esclusivamente a questo scopo. Il Noviziato, che noi chiamiamo tempo di prova, si fa in un tratto della casa principale che è in Torino.

D. In che cosa consiste questa prova?
R. Questa prova dividesi in tre periodi di tempo. La prima è degli aspiranti, e deve precedere il Noviziato. La seconda è il Noviziato propriamente detto, che dura non meno di un anno. La terza prova è quella dei voti triennali. Finora abbiamo accettati soltanto quelli che nelle nostre case passarono quattro, cinque ed anche sette anni con vita edificante, tanto nello studio, quanto negli esercizii di cristiana pietà. Ciò posto l'aspirante è ammesso alla seconda prova, cioè alla pratica esatta delle regole della società, almeno per un anno, talvolta per due ed anche di più.

D. In quali pratiche religiose si esercitano i Novizii?
R. I Novizii si esercitano regolarmente nello studio e nella pratica delle Regole della Congregazione. Ogni mattino, preghiera vocale, meditazione, terza parte del Rosario e più volte alla settimana fanno la Santa Comunione. Lungo la giornata hanno lettura spirituale, visita al SS. Sacramento con lettura di materia ascetica, esame di coscienza, e comunione spirituale. Ogni sera dell'anno, all'ora stabilita si raccolgono in Chiesa, cantano una lode sacra, di poi sí legge la vita del santo dí quella giornata: e dopo il canto delle Litanie Lauretane assistono alla benedizione col SS. Sacramento. Oltre a queste cose speciali, i novizii prendono eziandio parte a tutte le pratiche di pietà comuni agli altri giovani della casa, quali sono preghiere comuni mattino e sera con apposito sermoncino, sacre funzioni dei giorni festivi cioè; due messe, Mattutino e lodi della B. V., spiegazione del Vangelo al mattino: dopo mezzodì assistono, oppure fanno il catechismo ai fanciulli: intervengono all'istruzione comune, predica, ai Vespri, alla benedizione: e simili.

D. Con quale frequenza si accostano alla confessione?
R. Secondo le nostre regole si accostano ogni settimana alla Santa Confessione, presso ai Confessori dal superiore assegnati.

D. Quali speciali istruzioni ascetiche date ai provandi?
R. Oltre a quanto fu sopra esposto, ogni settimana il maestro dei provandi fa loro una conferenza morale sulle virtù da praticarsi e sui difetti da fuggirsi, prendendo per lo più per argomento qualche articolo delle costituzioni.

D. In quali altre cose sono occupati?
R. In questo tempo i Novizii sono occupati anche a fare il Catechismo ogni qual volta ne sia di bisogno, ad assistere i fanciulli dello stabilimento, e talora anche a fare qualche scuola diurna o serale, a preparare i più ignoranti alla Cresima, alla Comunione, a servire la Santa Messa e simili. In ciò consiste la parte più importante della prova. Chi non avesse attitudine a questo genere di occupazioni, non sarebbe accettato nella Congregazione.

D. Quali ne sono i risultati?
R. I risultati morali finora furono assai soddisfacenti. Quelli che riescono a queste prove divengono buonì soci, prendono affezione al lavoro, avversione all'ozio, e le occupazioni divenendo per loro come necessarie si prestano volentieri ad ogni momento in quello che può tornare alla maggior gloria di Dio. Quelli poi che non hanno attitudine a questo genere di vita, si lasciano liberi di secondare altrimenti la loro vocazione.

D. Che regola tenete nello studio?
R. Niuno è accettato come chierico nella Congregazione, se non ha con buon successo compiuto il corso ginnasiale, ossia la retorica. Ammessi poi alla filosofia sono tutti radunati nella casa di Torino e si applicano a questa scienza non meno di due anni. Quelli che debbono prepararsi ad esami pubblici fanno il liceo di. tre anni. Dico pubblici esami, perchè l'insegnamento pubblico e privato, essendo regolato da pubbliche leggi, che escludono dall'insegnamento tutti quelli i quali non hanno un titolo legale, è forza, che i nostri maestri debbansi munire di una patente o di un pubblico diploma.

D. Avete idonei professori pei socii della Congregazione?
R. Fra i molti che subiscono i pubblici esami, ne abbiamo in numero sufficiente. Qualora poi ne sia mestieri, siamo assai bene aiutati da alcuni nostri allievi, già fatti pubblici insegnanti, che molto di buon grado vengono a prestare l'opera loro, ogni volta ne sono richiesti.

D. Come fate nella Teologia?
R. Per la Teologia abbiamo i corsi regolarmente stabiliti nell'Oratorio di S. Francesco di Sales.

D. Quali parti di scienza sono specialmente coltivate?
R. Abbiamo lo studio regolare di Ermeneutica Biblica, Storia Ecclesiastica, Teologia morale, dogmatica e speculativa.

D. Chi avete per professori?
R. Per professori abbiamo parecchi membri della Società, che con lode hanno conseguito il dottorato in questa facoltà con pubblici esami. Finora abbiamo sempre avuto uno dei più celebri professori del Seminario Arcivescovile che venne e viene tuttora puntualmente a dare lezioni lungo l'anno, e a suo tempo dirige gli esami. Esso appartiene alla Congregazione come esterno.

D. Quali autori usate? E quanti anni di corso?
R. In generale il nostro maestro è . Tommaso d'Aquino: e ne' corsi ci atteniamo alle opere di S. Alfonso, secondo i trattati di Monsignor Scavini per la morale: quelli del Padre Perrone per la dogmatica e la speculativa. Il nostro corso Teologico è di cinque anni. Quando vi fosse l'età con qualche grave ragione si presentano agli ordini anche al quarto anno, ma si continua a fare il quinto anno di Teologia dopo il Sacerdozio.

D. Come fate per lo studio di morale?
R. Per lo studio di morale abbiamo il corso regolare in Congregazione. Ma prima di presentarsi a subir l'esame finale di Confessione, oltre al quinquennio, frequentano ancora due anni le conferenze, che, sotto all'immediata direzione dell'Arcivescovo, si tengono nel Convitto Ecclesiastico...

D. Si dice che voi occupate anche in altre cose i vostri Chierici. È vero?
R. I nostri chierici, non di regola ordinaria, ma quando si deve fare qualche prova, o per particolare bisogno, sono occupati ad assistere nello studio, dove essi parimente possono studiare: sono occupati ad assistere nei dormitorii, nella ricreazione, nel tempo di passeggio, di chiesa e simili: ma ciò fanno soltanto in tempo libero, senza che loro s'impedisca nè la scuola, nè Io studio. In caso poi di necessità alcuni sono anche temporaneamente applicati nelle scuole diurne e nelle scuole serali. Ma queste varie occupazioni si addicono al loro stato ed è lo scopo fondamentale della nostra società. A questo riguardo è bene di notare, che queste occupazioni preparano i socii a lavorare pel bene delle anime: lavorano, ma il lavoro è regolare, in modo che rimane tempo sufficientissimo per attendere agli studi ed alla pietà. Anzi l'esperienza di trentatré anni ci ammaestra che queste assidue occupazioni sono un baluardo inespugnabile della moralità. Ed ho osservato che i più occupati ed i più laboriosi ricordano vie meglio l'antica loro condizione, godono molta sanità, si conservano più virtuosi, e, fatti Sacerdoti, riportano copioso frutto nel sacro Ministero.

D. Non sarebbe meglio che i vostri chierici andassero in seminario?
R. Fino a tanto che non si potè fare diversamente, i nostri Chierici frequentarono le scuole del Seminario. Ma, appena fu possibile, anche con grandi sacrifizií, si dovette provvedere altrimeiti. I trattati sono diversi da quelli della nostra Congregazione, e spesso sono cangiati, giacché ogni professore detta ed usa il suo proprio trattato. Inoltre i giorni e le ore stabilite per l'insegnamento in Seminario non coincidono coll'orario della nostra Casa. Dovrebbero percorrere oltre a sei chilometri al giorno tra andata e ritorno: il che importa tempo assai. notabile. A questo si aggiunge che per recarsi in Seminario devono passare nei siti più popolati e più frequentati della città, dove le strane fogge di vestire e di parlare, i saltimbanchi, i giornali, i libri, le fotografie oscene, e non di rado gli scherzi ed il disprezzo, comprometterebbero, come di fatto è più volte avvenuto, la moralità e la stessa vocazione degli allievi.

Intanto i fatti narratigli dai due Cardinali avevano commosso Pio IX, che, desideroso di vedere Don Bosco, gli fissò l'udienza per il 23. Buona parte del colloquio versò intorno agli affari della Società. I sentimenti del Santo Padre furono oltremodo. incoraggianti. Egli stesso gl'insegnò la maniera di sciogliere le difficoltà; anzi gli diede norme per agire poi con tranquilla coscienza, quando venisse a trovarsi in certe contingenze. Scoglio assai arduo rimaneva il punto delle ordinazioni. Vi solevano essere due categorie di ordinandi, quelli cioè venuti nelle case salesiane prima dei quattordici anni e gli altri venuti dopo. Dei primi i rispettivi Vescovi non avevano alcuna conoscenza, sicchè, volendosi informare della loro condizione e condotta, dovevano ricorrere a Don Bosco e ai Salesiani, che li avevano avuti per quattro o cinque anni sotto gli occhi. Tornava dunque inutile chiedere le testimoniali ai loro Vescovi per immetterli nella Società e poscia agli ordini sacri. Il Papa ne convenne e approvò che tali giovani potessero essere accettati nella Congregazione senza testimoniali e quindi ammessi alle ordinazioni. Quanto ai secondi, consigliò di fare speciale domanda alla Santa Sede per un determinato numero di candidati, ogni volta che bisognasse. Qui il Papa osservò: «Facciamo un passo per volta; chi va piano, va sano. Quando le cose vanno bene, la Santa Sede suole aggiungere e non mai togliere ». Con questo escludeva la concessione della facoltà generale di rilasciare le dimissorie.

Un'altra questione era pendente. Nel 1848 la Santa Sede aveva emanato una serie di decreti, contenuti nelle due Costituzioni Apostoliche Romani Pontifices e Regulari diseiplinae e concernenti le accettazioni al noviziato e l'ammissione ai voti. La piena osservanza di tali leggi supponeva Congregazioni religiose perfettamente costituite e organizzate, mentre la nostra Società era appena in via di 'formazione. Anche qui il Papa dimostrò una larghezza adeguata alle circostanze; infatti disse a Don Bosco di cominciar ad. eseguire quel tanto che poteva e per il resto gli accordò le facoltà occorrenti, dispensandolo intanto dalla pubblica lettura dei decreti a mensa, com'era prescritto di fare due volte all'anno.

Il giorno dopo l'udienza Don Bosco scrisse a Don Rua: «cose vanno assai bene, ma vi sono gravi difficoltà da superare; ma ringraziamo il Signore, abbiamo grandi motivi di essere contenti. Per ora continuate a pregare 5.

Queste " gravi difficoltà " provenivano dalla Congregazione dei Vescovi e Regolari, che ha il sacro dovere di tutelare l'osservanza delle leggi ecclesiastiche anche in materia di diritto dei religiosi. là vero che la volontà del Papa fa legge nella Chiesa; ma il Papa nei casi particolari non suole sostituirsi a' suoi organi ufficiali, che sono appunto le Congregazioni Romane. Egli pertanto sì limitava a raccomandare che si contentasse Don Bosco in tutto quello che si poteva. Tenace propugnatore del summum ius era stato sempre il Segretario Svegliati, al quale toccava poi formulare il voto. Vari Cardinali insinuarono a Don Bosco di guadagnarlo alla sua causa. Don Bosco stabili di fargli una visita non più in ufficio, ma in casa. Lo trovò in grave affanno, perchè si sentiva addosso sintomi troppo evidenti di fiera polm:mite. La tosse gli rompeva i fianchi. Pur vedendolo in sì triste stato, Don Bosco ebbe il coraggio non solo di pregarlo che appianasse le difficoltà contrarie all'approvazione della Società, ma anche d'insistere, perchè andasse presto presto dal Papa per interporsi in suo favore. Si raccomandasse a Maria Ausiliatrice promettendo di cosi fare, sí recasse l'indomani all'udienza, e la guarigione sarebbe sicura. Tanta asseveranza impressionò -Monsignore, cbe non ignorava i due fatti precedenti; tuttavia non sapeva se dovesse prestargli fede. Finalmente l'amore della vita vinse le esitazioni, e promise. La mattina dopo, niente più brividi, niente tosse. Si presentò al Santo Padre, gli descrisse l'incontro e venne via risoluto di secondare le intenzioni del Papa, checché ne pensassero altri. Verso sera rese la visita a Don Bosco, rinnovandogli le più larghe assicurazioni. Scrive Don Lemoyne (i): «Le grazie di Maria Ausiliatrice ai Cardinali Berardi e Antonelli e a Mons. Svegliati avevano conciliati a Don Bosco gli avversari, rinfervorati gli amici tiepidi, confermato nella sua risoluzione il Sommo Pontefice, che vedeva nel Venerabile il messo di Dio, l'esecutore de' suoi disegni e l'operatore de' suoi portenti».

(i) Mem. Meg,.  vol. IX, pag. saz.
Ciò nonostante ancora il 3 febbraio Don Bosco scrisse a Don Rue:. «Le ferie di carnovale hanno interrotte le mie imprese; venerdì 19 ogni cosa sarà in movimento. Forse gravi difficoltà in tutto; ma si possono dire tutte appianate con esito molto superiore alla nostra aspettazione. Ma silenzio e preghiera ». Le presagite difficoltà toccarono veramente il colino nelle prime settimane di quaresima, allorchè in parecchie Congregazioni ordinarie i Cardinali esaminavano di proposito le Regole della Società e le osservazioni di alcuni Vescovi. Monsignor Svegliati mise innanzi il pensiero del Papa. Don Bosco veniva chiamato a dare spiegazioni. Furono per lui settimane di passione. Visite non sempre facili, discussioni prolungate e accascianti, pratiche delicate, insomma una tensione continua di spirito da stancarlo oltre ogni dire. Un giorno il Card. Monaco La Valletta dopo una seduta, desiderando di averlo seco, lo invitò, a salire nella sua carrozza; ma egli si scusò umilmente per il gran bisogno che sentiva di respirare all'aperto, e per l'impossibilità di tenere qualsiasi conversazione. Il Padre Verda domenicano, che l'aveva accompagnato da Firenze a Roma e che allora coglieva ogni occasione per essergli utile, lo descrisse che a volte, allontanatosi quasi fuggendo dalla città, si aggirava solo soletto per luoghi romiti, bisognoso di aria libera e di riposante quiete campestre. Doveva essere ben affaticato quel povero cervello!
Essendogli noto che il 19 febbraio la Sacra Congregazione avrebbe conchiuso il suo esame e deliberato sull'affare, ordinò all'Oratorio che in tutto quel giorno gruppi di giovani si succedessero per turno a pregare dinanzi a Gesù Sacramentato. Studenti e artigiani sacrificarono anche buona parte delle loro ricreazioni, standosene in chiesa. Ed ecco che finalmente alla sera del giorno aspettato e temuto il Servo di Dio ebbe la gioia di sapere che la Sacra Congregazione aveva approvato la Società e che il Santo Padre aveva ratificato quell'approvazione. Nella sera medesima fu ricevuto in udienza dal Papa, che lo esortò a fare sollecitamente le pratiche per ottenere anche l'approvazione delle Regole. — Io sono informato di.tutto, gli disse; conosco il vostro scopo e vi sosterrò in ogni maniera. Ma io sono vecchio, da un momento all'altro posso mancare, e chi sa chi verrà eletto Papa dopo di me e come si prolungheranno le cose. — Gli diede infine norme pratiche per far penetrare sempre più nella Società lo spirito veramente religioso. La contentezza di quella sera compensò il Santo di tutti i travagli passati.

Don Bosco si trattenne ancora una diecina di giorni a Roma per ultimare diversi negozi. Tutti vedevano la sua grande soddisfazione e parecchi ne scrissero a Torino. Basti una sola citazione, che è della Marchesa Panny Amati di Villarios in una lettera del 23 febbraio a Don Rua: « Don Bosco, grazie a Dio, sta bene, ed è molto contento. Egli è da tutti desiderato e gode la stima universale, ammirabile sempre per quella calma che non può venire che dal cielo. Quantunque si sia poco goduto in quest'anno, l'assicuro che lo vediamo partire con dispiacere e da questo arguisco quale deve essere la loro consolazione, sentendo il suo prossimo ritorno ». Egli poi informava Don Rua tre giorni dopo: e Io sono piuttosto stanco di mente e di corpo; perciò avrei vero bisogno che al mio arrivo non si facesse alcuna dimostrazione. Niente più che se venissi dalla città di Torino: ciò mi sarebbe di non piccolo sollievo ». Ma Don Bosco era troppo amato nell'Oratorio, perchè dopo un'assenza di due mesi e dopo le recenti trepidazioni non vi si volesse festeggiare il suo ritorno e partecipare alla sua contentezza. Infatti l'Oreglia scriveva a Roma dopo il suo arrivo (i): « Nell'Oratorio paiono diventati tutti matti. Chi canta, chi suona, chi grida, tutti così allegri che più nessuno sta nella pelle. Neanche le campane stanno quiete un momento, per cui obblighiamo anche i lontani a rallegrarsi con noi. Don Bosco è arrivato, e quindi non è più possibile tener quieti, non solo i ragazzi, ma anche i grandi n.

Egli aveva lasciato Roma il 2 marzo. Quel mattino gli era stato. consegnato un plico recante i suggelli della Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari, perchè lo rimettesse all'Arcivescovo di Torino. Vi si conteneva il decreto di approvazione della Società e una lettera per Mons. Riccardi. Ecco la versione del deCreto.

(i) Lettera alla Madre Gale& Presidente delle nobili Oblate di Tot (le Specchi. Torino 8 marzo 1869.

La salute delle anime, affidata alla cura del Santissimo Signor Nostro Papa Pio IX dal Principe dei Pastori, lo rende di continuo vigilante per non tralasciare nulla d'intentato; affinché la Sacrosanta Fede Cattolica, senza la quale è impossibile piacere a Dio, fiorisca sempre e si dilati in ogni parte delta terra. Egli perciò guarda con particolare benevolenza apostolica specialmente quegli ecclesiastici, che riuniti in società, si prendono cura della gioventù, le infondono lo spirito d'intelletto e di pietà e con ogni zelo e sforzo si adoperano a produrre copiosi frutti di virtù e di bontà nella vigna del Signore. Non appena la Santità Sua conobbe annoverarsi fra tali Società la Pia Congregazione di Ecclesiastici, eretta in Torino dal sacerdote Giovanni Bosco sotto il titolo di S. Francesco di Sales, la onorò con un decreto di apostolica lode il xo luglio 1864. Ma il suddetto Fondatore, venuto ttstè a Roma, insistette presso la Santa Sede, perché sí degnasse approvare la prefata Congregazione e le relative Costituzioni. Il Sommo Pontefice pertanto, nell'udienza avuta dal sottoscritto Mons. Segretario di questa Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari, in data 19 febbraio 1869, attese le Lettere Comniendatizie dí molti Vescovi, approvò e confermò la detta Congregazione come Società di voti semplici sotto il governo del Superiore Generale, salva la giurisdizione degli Ordinari a tenore dei sacri Canoni e delle Costituzioni apostoliche, come in forza del presente Decreto la approva e conferma, differita a tempo più opportuno l'approvazione delle Costituzioni, le quali dovranno correggersi conforme alle osservazioni per ordine di Sua Santità già altra volta comunicate, tranne la quarta, che dovrà modificarsi nel modo seguente: La Santità Stia, benignamente annuendo alle preghiere del sacerdote Giovanni Bosco concesse al medesimo, come a Superiore Generale della Pia Congregazione, la facoltà, valevole soltanto per tutto il decennio prossimo venturo, di rilasciare le lettere dimissoriali per ricevere la Tonsura e gli Ordini Maggiori e Minori, agli alunni, che prima dei quattordici anni furono accolti in qualche collegio o ccnvitto della medesima Congregazione o vi saranno accolti in avvenire, e che a suo tempo diedero o daranno il nome alla prefata. Pia Congregazione: ma con questa condizione che, se per qualsiasi motivo vengano licenziati dalla Pia Congregazione, debbano rimanere sospesi dall'esercizio degli Ordini ricevuti, finché, provvisti dì sufficiente patrimonio ecclesiastico, qualora siano in sacris, non trovino un Vescovo che benignamente li accolga.

Nonostante qualunque disposizione in contrario.

Dato a Roma, dalla Segreteria della Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari, addì Io marzo x869.

S. SVEGLIATI, segretario. A. Card. QUAGLIA, Prefetto.

Al decreto andava unita la nota seguente della Sacra Congregazione all'Arcivescovo di Torino.

3 marzo 1869.

La Santità di Nostro Signore, essendosi degnata di approvare l'Istituto fondato in cotesta città dal benemerito sacerdote Don Giovanni Bosco, come la S. V. rileverà dall'annesso decreto, ha ordinato contemporaneamente che i chierici alunni del suddetto Istituto continuino a frequentare le scuole di S. Teologia del Seminario Arcivescovile fino a nuova disposizione della S. Sede, sebbene il: Superiore possa ai medesimi rilasciare le lettere dimissoriali per la sacra ordinazione, qualora siano entrati nell'indicato Istituto prima dì aver compiuto l'anno. decimoquarto di loro età. E ciò in considerazione che prima della detta età può. anche omettersi la fede di stato libero.

' L'Istituto in parola, estendendo i suoi vantaggi morali principalmente alla città e diocesi di Torino, non può non interessare Io zelo della S. V. a mostrargli ogni impegno, onde maggiormente raggiunga lo scopo per cui venne fondato. E sebbene la cosa si raccomandi per se stessa, tuttavia questa Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari, che ha la tutela e la sorveglianza di tali pie fondazioni, non può dispensarsi dal fare ogni premura alla S. V. onde continui a. coprire della di lei protezione un'opera così buona, nata sotto la invocazione di S. Francesco di Sales. Con tale lusinga le auguro dal Signore ogni più estesa feliciti., ecc.

Nella solita conferenza di S. Francesco di Sales, la cui festa era stata rimandata al 7 marzo, Don Bosco parlò del grande avvenimento ai Direttori, a tutti i Soci ed agli aspiranti riuniti. Del suo discorso ci è pervenuto. un diffuso riassunto. Dopo l'esordio prese a dire:
Questa nostra Società finora andava avanti cosi senza avere un fondamento sicuro di esistenza; aveva Regole, ma non essendo approvate si restringevano a legare individui attorno ad una persona per uno scopo determinato. e quindi, morto Don Bosco, poteva forse anche morire la sua Società. Pin dall'anno 5864 la Società fu lodata, e Don Bosco ne era stato costituito capo, ma nulla di più: poi nel r867 fu da parecchi Vescovi commendata e raccomandata. Ma ora si trattava di venire ad una conclusione definitiva, o di approvazione o di scioglimento. La vita nostra era precaria e ad ogni occasione i Vescovi potevano richiamare i loro chierici, perchè soggetti alla loro giurisdizione: ed allora la Società restava sciolta di fatto. Perciò era d'uopo che i membri fossero quindi liberi e affrancati dalla giurisdizione vescovile. Perciò pensai di andare a Roma. Si frapponevano immensi ostacoli. Il Consiglio diocesano richiesto di un modulo, che salvasse ad un tempo l'autorità vescovile e l'esistenza della Società, aveva lasciato la cosa in ponte. Molti Vescovi ed altre persone, per altro piissime e di più a me favorevoli, mi volevano persuadere essere inutile la mia andata, perchè non sarei riuscito a far approvare le mie Regole e per conseguenia la Società; tanto più che a Roma si doveva pensare al Concilio Ecumenico. Adducevano gran numero di ragioni e di insuperabili difficoltà. Da Roma mi scrivevano e mi davano anche avvisi, coi quali mi si assicurava essere cosa affatto inutile e tempo perduto l'andare là, perchè non mi si sarebbe mai concesso quello che domandava, ed essere impossibile l'approvazione delle Regole.

Io pensai allora; — Tutto mi è contrario: eppure il cuore mi dice che, se vado a Roma, il Signore, nelle mani del quale sta il cuore degli uomini, mi vorrà aiutare. Dunque andrò a Roma. — E pieno di fiducia partii. Era intimamente persuaso che la Madonna mi avrebbe aiutato e ogni cosa avrebbe disposto in mio favore: e niuno mi avrebbe tolto questa persuasione. Rispettava i consigli dei miei amici, ma non voleva tralasciare di fare quanto mi pareva essermi suggerito dal Signore. Partii dunque confidando unicamente nel Signore e nella Madonna.

Narrò quindi per filo e per segno le laboriose pratiche, l'intervento della Madonna, la benevolenza dimostratagli ripetute volte dal Papa: tutte cose che noi conosciamo. Infine, avendo pregato il Santo Padre di dirgli qualche cosa da ridire ai Soci, espose i consigli da lui ricevuti per loro. Il Papa aveva detto:
Estote prudentes sicut serpentes el simptices sicut columbae. Nello spirito e nell'unione osservate e imitate i Gesuiti. Essi in primo luogo non manifestano a nessuno ciò che riguarda l'ordinamento e l'andamento interno delle loro case. Quindi non dànno appiglio alla gente di metter lingua nei loro affari. Chi è che possa dire ciò che i Gesuiti fanno, trattano, dispongono nelle loro Case? Così voi parlate della vostra Società meno che potete: se siete interrogati, poche parole e poi cambiate argomento: e dovendone parlare, ditene sempre bene. Nessuno conosca ciò che fate nell'interno; chi vada, chi venga, quali ordini diano i Superiori, se vi saranno cambiamenti di personale, e via discorrendo. Tenete celati tutti i difetti della Comunità. Se qualche cosa avvenga che possa in qualche modo macchiare o diminuire il nome o la riputazione della Società, fate che rimanga sepolta ad ogni estraneo.

20 In secondo luogo non sentirete mai un Padre della Compagnia parlare meno favorevolmente di uno dei loro. Anzi è sempre con grandi elogi che rispondono a chi entra con loro in discorso di qualsivoglia loro confratello. La carità è ingegnosa nel trovar sempre argomento di lode. Allo stesso modo sanno sostenere e far conoscere i pregi dí quanto fra loro si dà alle stampe o, comunque sia, operasi a vantaggio della Chiesa, dei popoli, delle missioni, e della gioventù; uno per tutti e tutti per uno, ecco la loro insegna. Così voi difendetevi a vicenda in ogni circostanza; non si palesino le miserie di un membro della Società, per quanti
difetti egli abbia. Ogni membro sia disposto a sacrificare se stesso per salvare il corpo; e a vicenda animatevi al bene.

3° Ricordate che non il numero fa una Casa, ma lo spirito. Vi sia un solo spirito per raggiungere un unico fine: quindi vi sarà Società, quando siate anche due o tre soltanto, ma questi buoni. I molti e cattivi imbrogliano. Guardatevi dal ricevere con troppa facilità un individuo senza averlo ben provato >iella vostra Società. Chi vuole entrare nella Società si metta prima a qualche cimento per vedere se regge. Se lo vedeste dubbioso, non lo ricevete.

4° La vostra Congregazione fiorirà se si osserveranno le Regole, fino a che non vi entreranno dei nobili, o deiricchi, perchè con essi incominceranno ad introdursi le agiatezze, le parzialità e quindi la rilassatezza. Procurate di attenervi sempre ai poveri figli del popolo. Non fallite il vostro scopo primiero e la vostra società l'abbia sempre sott'occhio; non aspiri a cose maggiori. Meglio far bene su queste sue prime basi, che opti'« in un'altra sfera che non è la sua. Educate i giovani poveri, non mai abbiate collegi pei ricchi e pei nobili. Intanto che vi occuperete della gioventù povera e degli orfanelli, sempre collo scopo di dare membri al clero, la vostra Società andrà avanti bene: ma se vi occuperete per metter su collegi ed istituti dì nobili, allora la Società degenererà. Tenete le modiche pensioni. Non accrescetele mai. Non prendete ad amministrare case ricche. State celati, nascondetevi per non essere veduti. Se educherete i poveri, se sarete poveri, se non farete chiasso, nessuno avrà invidia di voi, nessuno vi cercherà, vi lasceranno tranquilli e farete del bene. Tutti i collegi colpiti oggigiorno, lo furono perchè, parlando molto di loro, accesero gelosia. rate parlare dí voi il meno che sia possibile; e poi se starete alle vostre Regole, non mancherete a questa prudenza.

5° Se qualcheduno possiede qualche ricchezza, ritocchi il suo testamento tutti gli anni, e il Superiore sappia colui che si vuol lasciare erede, perchè possa anch'esso disporre. Così sarete cautelati e non sorgeranno contestazioni o perdite. Principalmente quando i beni son lasciati all'individuo, per la casa.

6°Io stimo che sia in condizione migliore una Casa religiosa dove si prega poco, ma si lavora molto, di un'altra nella quale si facciano molte preghiere e si lavori niente o poco.

La conclusione della lunga parlata fu questa: e Abbiamo ottenuto esenzioni e privilegi, ma noi saremo sempre obbedientissimi ai Vescovi ed ai parroci, e non ci serviremo delle nostre facoltà, se non esauriti che siano tutti gli altri mezzi, anche di umile deferenza. Del resto ne sia di cuore ringraziato Iddio e faccia ora Egli che la nostra Congregazione si purifichi nel suo intero corpo e ne' suoi membri e che possa apportare degni frutti a sua gloria e al bene delle anime ».

Non poteva non dire qualche cosa anche ai giovani, ansiosi pur essi di sapere. Parlò nella " buona notte " dell'8. Disse loro che l'Oratorio non era più sostenuta dall'aria, ma che esisteva una Congregazione, la quale ne formava il sostegno. Si compiacque con essi che le loro preghiere fossero state esaudite; avere infatti il Signore mutato in un momento il cuore di tutti. Narrò per sommi capi e in tono faceto le cose fatte a Roma e terminò annunciando che Don Francesia avrebbe il giorno dopo raccontato il resto. Le sue parole destarono un vivissimo entusiasmo.

L'8 fu una data degna di memoria, perchè venne spedita in quel giorno la prima dimissoria di sacre ordinazioni; era per il ch. Giuseppe Monateri, del collegio di Mirabello. Don Bosco volle darne solennemente la notizia aì chierici in una speciale conferenza, spiegando come il loro compagno si sarebbe presentato a ricevere gli ordini sacri senz'altro titolo che di appartenere alla Società di S. Francesco di Sales. Importava molto chiarire ad essi il grande mutamento avvenuto nella Società, sia per confermare i dubbiosi che per incoraggiare tutti quelli di buona volontà,
Finora, disse, la nostra Società non aveva Regole ben determinate. Andavamo avanti, senza aver bene precisati i nostri obblighi. Non essendovi ancora approvazione da parte della Chiesa, la Società era come in aria e poteva da un giorno all'altro rovinare: stavamo in forse, se questa nostra casa fosse per seguitare nel suo scopo, o potesse esser chiusa senza più, e quindi non potendosi stabilire nulla di certo, era inevitabile un po' di rilassatezza. Miei cari, in questo momento la cosa non è più cosi. La nostra Congregazione è approvata; siamo vincolati gli uni cogli altri. Io sono legato a voi, voi siete legati a me, e tutti insieme siamo legati a Dio. La Chiesa ha parlato, Dio ha accettato i nostri servigi, noi siamo tenuti ad osservare le nostre promesse. Non siamo più persone private, ma formiamo una Società, un corpo visibile: godiamo dei privilegi; tutto il mondo ci osserva e la Chiesa ha diritto all'opera nostra. Bisogna dunque che d'ora innanzi ogni parte del nostro regolamento sia eseguita puntualmente.

Non voglio già che tutto ad un tratto cambiamo faccia all'Oratorio: questo produrrebbe disordini e dall'altra parte sarebbe impossibile. Una cosa dopo l'altra, procureremo di fare tutto. Son molte cose da. stabilire e da rifare, perciò ho bisogno di parlarvi più di frequente per venirvele spiegando. Questa sera vi dico poche cose, ma da ritenersi, perchè sono come le basi della nostra Società.

Noi siamo quelli che dobbiamo fondare questi principi su ferme basi, affinché quei che verranno dopo, non abbiano che a seguirci. Ricordiamoci sempre che noi abbiamo eletto dí vivere in Società. O gruma bonum et pani inno:dir»; habitare fraires in uni"! Oh come è bello e dolce il vivere come fratelli in società/ È bello il vivere uniti col vincolo di un amore fratellevole, confortandosi a vicenda nella prosperità e nelle strettezze, nel contento e nelle afflizioni, prestandosi mutuo soccorso di opere e di consiglio: è bello vivere liberi da ogni terreno impaccio, camminando diritto verso il cielo sotto la guida del Superiore. Ma se vogliamo che questi beni ci derivino dalla nostra Società, è d'uopo che ad essa abbiamo sempre rivolto il nostro sguardo, perchè viva e prosperi. E perché sia cosa dolce questo abitare insieme, bisogna togliere ogni invidia, ogni gelosia; bisogna amarci come fratelli, sopportarci gli uni gli altri, aiutarci, soccorrerci, stimarci, compatirci. Ciascuno deve guardarsi attentamente dal dir male della Congregazione, anzi deve procurare di farla stimare da tutti. Noi abbiamo scelto di abitare in unum. Ore cosa vuol dire questo abitare in unum? Vuol dire in unum locum, in 1081018 spiritutn, in unum agendi finem. Eccolo in poche parole.

Dobbiamo prima di tutto, ed è questa la prima condizione di una Società religiosa, abitare in unum, di corpo.

Una Congregazione religiosa deve, come un corpo umano, constare del capo e delle membra, le une subordinate alle altre, tutte poi subordinate al capo. Supponete che si esponga un capo spiccato dal busto: è vero che questo capo sarà bello e artistico: ma da sé senza il busto è una cosa mostruosa. Cosl io non posso fare senza di voi che formate il corpo. Così le membra non possono stare senza il capo. Un sol capo si richiede, poichè essendo come un corpo, se a questo corpo si sovrappongono due o più teste, egli diventa un mostro e non vi è più uniformità. Adunque un sol capo colle sue membra corrispondenti. Le membra poi subalterne al capo, le une devono avere un officio proprio differente da quello delle altre, ciascuno compiere diverse funzioni secondo la diversa sua condizione. Così per es. se le braccia dicessero; — Noi vogliamo fare da noi; vogliamo fare quello che piace a noi: vogliamo fare da testa; — farebbero ridere. Così se lo stomaco dicesse:• — Io voglio camminare; — Ma no, gli si risponderebbe: tu per mezzo della bocca devi ricevere il cibo che ti porgono le mani. — Così le gambe; — Noi vogliamo mangiare! — Ma no: voi dovete portare il corpo da un luogo all'altro —           una Società come la nostra prosperi è necessario che sia bene organizzata: vi sia cioè chi comandi e chi obbedisca, chi faccia una cosa e chi ne faccia un'altra secondo la propria capacità. Né chi ubbidisce deve invidiare la sorte di chi comanda: né chi lavora la sorte di chi studia, o simili: perchè tanto gli uni come gli altri sono necessari, ed ove tutti studiassero, tutti comandassero, non vi potrebbe più esistere varietà. Supponete che nel corpo vi fosse tutto occhio, o tutto orecchie, o tutto mani ecc. vi sarebbe ancora un corpo vivente? No, ma un mostro. Se tutto il corpo fosse piedi, chi gli servirebbe di guida? Siccome adunque ogni membro deve avere il suo ufficio che gli è proprio, così ciascheduno individuo della Congregazione deve fare quel che gli vien comandato e non altro.

Quindi nella nostra Società vi deve essere chi predica, chi confessa, chi studia, chi insegna, chi provvede ai bisogni materiali e chi ai morali. Ciò posto, si richiede obbedienza al capo, che metterà uno ad un officio e l'altro ad un altro. E questo è conte il perno su cui si regge tutta la nostra Società, perehè se manca l'obbedienza, tutto sarà disordine. Se invece regna l'obbedienza, allora si formerà un corpo solo e un'anima sola per amare e servire il Signore.

Quindi ciascuno sia obbediente: nessuno pensi di fare questo, di fare quello. Nessuno dica: — Io vorrei aver questo o quell'altro impiego: — ma stia pronto a compiere qualunque parte gli sia affidata, stia, dove il Superiore lo colloca, ad attendere esattamente al suo officio: ognuno di voi badi bene di avvezzarsi a vedere nella volontà del Superiore la volontà di Dio. Ciascuno si occupi e lavori quanto Io permette la sanità propria e capacità. Uno riuscirà un buon predicatore, e costui faccia bene e con zelo il suo uffizio: un altro buon professore o maestro, e costui faccia scuola e insegni. Un altro buon spenditore, e costui spenda: per contrario un altro potrà fare il buon cuoco, ebbene si eserciti nella sua professione; un altro lo scopatore, ed anche egli compia il suo dovere. Alcuno talvolta dirà di perdere il suo tempo ad esercitare quell'ufficio, non essere quella la sua inclinazione, di sentirsi dí far più bene altrove. No: ciascuno si assoggetti a ciò che gli si affida, disimpegni quell'affare, e poi vada avanti tranquillo. E il frutto? Il frutto, ecco la grande utilità del vivere in comune, il frutto è sempre eguale per tutti, tanto per uno che esercita un uffizio alto, come per colui che esercita il più umile; cosicchè tanto avrà di merito colui che predica, colui che confessa, che insegna, che studia, come colui che lavora in cucina, lava i piatti o che scopa. Nella Società il bene di uno resta diviso fra tutti, come anche il male in certo qual modo resta male di tutti. Perciò qualunque impiego uno abbia, lo adempia. Ciascuno avanti a Dio avrà eguale il merito per l'obbedienza. Ma notate: se si fa il bene, si ha il merito eguale innanzi a Dio; se si fa il male, tutta la Congregazione ne perde. Si lavora in comune e si gode in comune. Dunque vi sia unità di corpo.

In secondo luogo vi deve essere unità di spirito e di volere. Qual è lo spirito che deve animare questo corpo? Miei cari, è la carità. Vi sia carità nel tollerarci e correggerci gli uni gli altri: mai lagnarci l'uno dell'altro: carità nel sostenerci; carità specialmente nel mai sparlare dei membri del corpo. Questa è una cosa essenzialissima alla nostra Società: perché se vogliamo fare del bene nel mondo è d'uopo che siamo uniti fra noi e godiamo l'altrui riputazione. Questo sarebbe il più gran male che possa essere nella Società. Quindi mai più si vedano di quei crocchi di chierici e di altre persone che tagliano i panni addosso a questo o a quello: tanto più poi quando questo si faccia contro qualche superiore. Difendiamoci a vicenda; crediamo nostro l'onore ed il bene della Società; ed abbiamo per fermo che non è un buon membro quello che non è disposto a sacrificare se stesso per salvare il corpo.

Ciascuno sia sempre pronto a dividere il suo piacere col piacere degli altri, ed anche sia disposto ad assumersi la parte di dolore di un altro: di maniera che se uno ricevesse un gran favore, e questo sia anche di contento per i suoi confratelli. Sarà uno afflitto? Studino i suoi confratelli di alleviargli le pene. Quando poi alcuno venisse a trascorrere in qualche mancanza, costui si corregga, si compatisca, ma non si disprezzi mai alcuno per difetti, o fisici, o morali. Amiamoci sempre come veri fratelli, perocchè fratres dice Davide.

Finalmente vi deve essere unità di ubbidienza. In ogni corpo vi deve essere una mente che regga i suoi movimenti, e tanto più attivo ed operoso sarà il corpo, quanto più le membra sono pronte ad ogni suo cenno. Così nella nostra Società sarà necessario che alcuno comandi e tutti gli altri ubbidiscano. Accadrà talvolta che chi comanda sia il meno degno; si dovrà perciò negargli ubbidienza? No, perché cosi facendo il corpo resta disorganizzato, e però inetto ad ogni operazione. Si abbia sempre presente che il Superiore è il rappresentante di Dio, e chi ubbidisce a Lui, ubbidisce a Dio medesimo. Che importa ch'egli sia in molte cose inferiore a me? Sarà più meritoria la mia sommissione. D'altra parte si pensi che il comandare è un peso enorme, e quel povero superiore ben volentieri se ne sgraverebbe, qualora non l'obbligasse a ritenerlo il vostro bene medesimo. Per la qual cosa procurate d'alleggerirglielo col mostrarvi pronti all'ubbidienza e sopratutto accettate di buon animo qualunque suo comando ed ammonizione, perchè egli fa uno sforzo per comandarvi; e quando vedesse che le sue parole vi sdegnano e vi inquietano, forse non oserebbe ammonirvi altre volte, e allora il male sarebbe vostro e suo. Se noi, considerandoci come membri di questo corpo, che è la nostra Società, ci acconceremo a qualunque funzione cì tocchi fare, se questo corpo sarà animato dallo spirito di carità, e guidato dall'ubbidienza, avrà in sè il principio della propria sussistenza, e l'energia a operare grandi cose a gloria di Dio, al bene del prossimo, ed a salute dei suoi membri.

Non vuolsi però con ciò intendere che uno sia obbligato ad indossare pesi che non possa portare. Ciascheduno, quando non sì sentisse di fare quel tale uffizio che gli è stato affidato, ne parli e gli sarà tolto. Quello solo che si richiede si è che ognuno sia disposto a fare ciò che può quando gli venisse imposto, dimodochè se anche un prete fosse in necessità di lavare i piatti, lo faccia, tanto più che abbiamo qui l'esempio di parecchi che lasciarono di fare scuola per lavorare in cucina.

Dobbiamo eziandio avere sempre di mira lo scopo della Società, che è l'educazione morale e scientifica déi poveri giovani abbandonati, con quei mezzi che la Divina Provvidenza ci manda.

Inoltre, ricordando il paragone del corpo, se il capo deve dirigere tutte le membra, vi sono alcune membra che subordinatamente ai capo presiedono, e dirigono i movimenti e gli uffizi di altre membra. Qui intendo di dire come questa Società consti di un Capitolo Superiore, i cui membri tengono le veci di Don Bosco, e ai quali si deve obbedire come allo stesso Don Bosco.

E, affinché ognuno sappia come regolarsi, è necessario che si conosca anche chi sono coloro a cui egli deve obbedire. Prefetto s'intende che è Don Rue; Direttore per le cose scientifiche Don Francesia e così gli altri che già si conoscono. In questo modo si viene a formare l'unum.
Ora che prende piede la nostra Congregazione, è necessario che sovente ci raduniamo per spiegare le cose più essenziali, e poi le altre di mano in mano che avremo tempo. I privilegi poi concessi alla nostra Congregazione possono già fin d'ora giovarci, e fra pochi giorni manderemo due degli addetti a prendere gli ordini con nessun altro titolo, se non quello di membri della Società di S. Francesco di Sales.

Questo in generale: in particolare vi do due consigli. Si guardi bene dal rompere questa unità. Ho già osservato una cosa che non mi fa troppo piacere. Questa cosa è il vedere come vi siano sempre quei due, tre, quattro, o cinque confratelli là riuniti insieme, sempre gli stessi e quasi sempre separati dagli altri. Non so che cosa facciano: non voglio dubitar male, col dire che parlino meno bene, s'intende secondo il nostro scopo. Che cosa è questo far corpo a parte? Aver forse interessi diversi da quelli dei compagni? Dunque desidero, e voi procurate di tenervi sempre in mezzo ai giovani in tempo di ricreazione, discorrere, divertirvi con loro, dar dei buoni consigli. Vigilanza. Quando non potete intrattenervi nei loro divertimenti, almeno assisteteli, girate le parti pid remote della casa e procurate di impedire il male. Non potete credere il bene che si può fare col salire una scala, passare per un corridoio, fare un giro di qua e di là per il cortile.

In secondo luogo si abbia cura di far sempre tutti i giorni quella visita al SS. Sacramento, che è prescritta dalle nostre Regole. Così, santificando prima noi stessi, procureremo di santificare gli altri. Quante grazie riceverete per voi, per quelli che sono affidati alle vostre cure!
Del resto sappiate che, d'ora in avanti, quando si avrà da mandare qualche chierico a prendere le ordinazioni, il Superiore è obbligato in coscienza a giudicare se l'individuo ha la pietà e la scienza voluta.

In ultimo vi dirò essere necessario che confidiamo nella Divina Provvidenza. Se poi passato si andò avanti e non ci mancò niente, dalle prove del passato dobbiamo sperar bene per l'avvenire.

Don Bosco, andando a Roma, meditava d'istituire un'Associazione dei divoti di Maria Ausiliatrice nella chiesa a lei dedicata con l'intento precipuo di promuovere la divozione alla Madre di Dio ed al Santissimo Sacramento dell'altare. Aveva quindi fatto istanza al Papa di voler aprire per i futuri associati i tesori della Chiesa. Il Papa, accolta benignamente la supplica, con Breve del 16 marzo 1869 concesse una serie d'indulgenze plenarie e parziali a quanti vi avrebbero dato il nome. Il Breve lo raggiunse a Torino, dove l'Arcivescovo il 18 aprile approvò gli statuti presentatigli dal Santo e dichiarò canonicamente eretta la pia Associazione nel santuario di Maria Ausiliatrice
(i) in memoria del fatto, Don Bosco pubblicò nelle Letture Cattoliche il numero di maggio intitolato: Pia Associazione dei divoti. di Maria Ausiliatrice canonicamente eretta nella Chiesa a Lei dedicata in Torino, con ragguaglio storico su guasto titolo. Le indulgenze speciali erano concesse per dieci anni solamente; ma con altro Breve dell'o marzo t870 furono confermate in perpetuo. Un terzo Breve del 5 aprile eresse in Arcicoufrsternita la Pia Associazione.

VII aprile 1869 il mondo cattolico festeggiò il 500 anniversario della prima Messa di Pio IX. Per la circostanza Don Bosco mandò a Roma l'Oreglia, latore di un Album. Bra questo un bel fascicolo di grande formato in 48 pagine. Conteneva un'iscrizione latina che serviva di dedica, un indirizzo dei giovani e le firme di 32 sacerdoti, 73 chierici e 343o ragazzi fra alunni ed oratoriani. Questo devoto omaggio fu presentato al Papa, che mostrò di gradirlo assai. Sul finire di giugno Don Bosco ebbe la consolazione di ricevere in risposta un affettuoso Breve con la data del 23, vigilia di S. Giovanni Battista, nel qual giorno si soleva festeggiare l'onomastico del santo Fondatore.

T molti segni di fede e di devozione che tu ci hai dati, tendevano senza dubbio a farci conoscere il tuo grande attaccamento alla Sede Apostolica e alla nostra persona. Anzi essi ci facevano palese come tu studiosamente ti adoperi per infondere in altri l'amore che nutri verso questa Cattedra Suprema e per avere in questo tuo affetto filale molti seguaci. Orbene di ciò un'altra splendida prova noi l'avemmo nell'affettuosissima lettera che ci hai inviata in tuo nome e in nome degli Oratorii e degli Istituti da te dipendenti, quando commemorammo il cinquantesimo anniversario della nostra prima Messa. t superfluo dirti che ci sono tornate gratissime tali testimonianze di devota congratulazione e perciò ci farai pago un nostro vivo desiderio, se lo comunicherai da parte nostra ai sacerdoti, agli alunni e agli altri giovani, dei quali hai cura. Anzi potrai aggiungere che noi nel celebrare la santa Messa li abbiamo, come desideravano, ricordati al Signore nelle nostre preghiere, raccomandando particolarmente tutti quelli che a lor volta avrebbero pregato per noi, Del resto essi avranno tutta la nostra riconoscenza, se continueranno a pregare, come faranno, per la conversione di coloro che deviariyno dal retto sentiero, affinchè tutti conoscano ed amino il Padre Celeste e il suo Inviato, Gesù Cristo, del quale, benchè immeritevoli, facciamo in terra le veci. Intanto, qual segno della nostra particolare benevolenza e auspice della grazia divina, impartiamo con sommo affetto a te e ai suddetti amati figli, affidati alle tue cure, l'Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso S. Pietro, il 23 giugno x869, anno 240 del nostro Pontificato.
Pio PP. IX.

Al Diletto tiglio Don Giovanni Bosco, Torino.

Questo fatto si potrebbe considerare come l'epilogo di quanto si è narrato nel presente capo, se non fosse accaduto un incidente dì origine sospetta, del quale conviene pure far parola. In giugno il Procuratore Generale del Re in Torino, 4 da varie parti assicurato » che Don Bosco aveva ottenuto dalla Santa Sede un Breve che dichiarava il suo Istituto esente dalla giurisdizione dell'Ordinario Diocesano e che l'aveva posto senz'altro in esecuzione, gli minacciò un procedimento penale per aver violato le disposizioni che regolavano il regio exequatur (i). In questo il Santo non aveva operato alla cieca, ma si era consultato con persona competente, forse col Rattazzi, se dovesse presentare siffatta provvisione al regio exequatur, avendone in risposta che  no, perchè a Congregazioni ecclesiastiche, ì cui individui conservavano i diritti civili, non occorrevano approvazioni governative. Inoltre il decreto pontificio non esentava la nuova Società dalla giurisdizione dell'Ordinario, essendovi formalmente inclusa la clausula salva Ordinariorum iurisdictione (2). Le sue ragioni non furono accolte (3). Allora egli, fatte le debite riserve, pregò il Magistrato di sottoporre il decreto, ove lo giudicasse proprio necessario, al regio exequatur in conformità alle vigenti leggi (4). Il Procuratore gli richiese il testo del Breve papale (5) e inviò la sua relazione al Ministero,
Il Ministro dì. Grazia, Giustizia e Culti investi della cosa la Sezione competente del Consiglio di Stato, rimettendo al Presidente Generale una relazione fatta da lui preparare. Il relatore, esposti i precedenti, cioè le pratiche corse fra Don Bosco e l'Arcivescovo, fra Don Bosco e la Santa Sede, condensava in questo periodo il suo giudizio: *Il Don Bosco fu rivestito di giurisdizione quasi vescovile sui componenti la sua Società, in detrimento della giurisdizione dell'Ordinario Diocesano, creando così una condizione di cose nuova, in pregiudizio degli ordinamenti giurisdizionali del Regno, in fatto ecclesiastico, e contraria assolutamente all'art. r40 delle istruzioni emanate dal Pontefice Benedetto XIV per la esecuzione del Concordato conchiuso col
(1) Lettera del Proc. Gen. a Don Bosco, Torino 8 giugno 1869.

(2) Lettera di Don Bosco al Proc. Gen., Torino 10 giugno 1869.

  1. Lettera del Proc. a Don Bosco, Torino 13 giugno 1869.
  2. Lettera dí Don Bosco al Proc., Torino 16 giugno 1869.
  3. Lettera delProc. a Don Bosco, Torino a agosto 1869.

Papa Benedetto XIII, istruzione e concordato tuttora vigenti nel Regno ». Egli opinava pertanto che fosse da rigettare la domanda di exequatur (x). E il Consiglio di Stato, atteso che l'autorizzazione per un decennio di rilasciare le lettere dimissoriali concedeva a Don Bosco una facoltà esclusivamente propria degli Ordinarii, sottraendo alla legittima giurisdizione di questi gli alunni dei collegi e convitti della Congregazione di San Francesco di Sales, nell'adunanza dell'8 ottobre fu d'avviso che il chiesto regio exequatur non fosse da concedere. Perciò il 23 novembre l'istanza tornò a Don Bosco con questa nota del Procuratore Generale: «Non si fa luogo al chiesto exequatur ».
Il brutto fu che il Procuratore non restituì più l'originale dei decreto che approvava la Società Salesiana. Veramente a Don Bosco non importava nulla il diniego dell'exequatur; ma il Procuratore avrebbe potuto accampare altre pretese. Invece, essendosi interposta una persona di molta autorità, forse il medesimo Rattazzi, egli cessò dall'azione, sicchè il Santo tirò innanzi senza che gli fosse più contestato dall'autorità civile l'uso del privilegio accordatogli dalla Santa Sede.

L'approvazione definitiva, mentre segnava una data importantissima nella storia della nostra Società, influì pure salutarmente sui Soci, che si sentirono più stimolati all'osservanza delle Regole per rispondere sempre meglio allo scopo della loro vocazione. Il santo Fondatore in una circolare del 15 agosto faceva loro animo scrivendo: «Noi abbiamo una grande impresa tra mano. Dio è con noi ».

(I) Firenze, 3 ottobre r869.

CAPO XIII Comincia il periodo di assestamento definitivo.

Da qui in avanti non bisognerà dimenticare la libertà che Pio IX vivae votis oracolo accordò a Don Bosco di fare come poteva, normalizzando le cose di mano in mano che le circostanze glielo permetterebbero: elasticità di azione dura a comprendersi da chi fosse ligio soltanto alla tradizione, ma ovvia per chi intuiva le difficoltà di ben assestare un'organizzazione religiosa nata per rispondere ad esigenze di tempi così mutati. Questo capo riunirà alcuni atti che ebbero particolare relazione con il nuovo stato di cose addotto dall'approvazione della Società.

Era naturale che il santo Fondatore, profittando delle buone disposizioni formatesi negli animi dei Soci per i fatti che dimostravano in quanta e quale considerazione la Società fosse tenuta dalla Santa Sede, pigliasse motivo da tutto per animarli a mostrarsi degni di si grande onore con l'osservanza fedele delle Regole. Ne è documento la citata circolare dell'Assunta, dov'egli inculca di proposito un punto della massima importanza nella vita di famiglia, che doveva caratterizzare la sua istituzione: voglio dire la confidenza fra Superiori e inferiori. I primi perciò si tenessero in contatto con i loro subalterni, sicchè questi potessero con tutta libertà esporre i propri bisogni e domandarne gli opportuni consigli, e fossero anche in grado di ben conoscere le condizioni dei confratelli per provvedere in tempo alle loro necessità e prendere le deliberazioni atte a facilitare la regolarità dei sinboli e il bene della Società iutiera. Venendo poi al concreto, disponeva che si desse principio a tre pratiche. In primo luogo i Direttori facessero ai Soci due conferenze mensili, una sulle Regole e l'altra sopra argomenti morali, ma in modo pratico e acconcio ai presenti. In secondo luogo una volta al mese ogni socio facesse il suo rendiconto al superiore, esponendogli quanto giudicasse vantaggioso al bene dell'anima sua, manifestando dubbi e chiedendo consigli; dal canto suo il Direttore con paterna carità ascoltasse ogni cosa informandosi della sanità, degli uffici, dell'osservanza religiosa, degli studi o del lavoro e incoraggiasse, illuminasse, infondesse tranquillità di coscienza e pace di cuore. In terzo luogo i Direttori inviassero al Rettor Maggiore un'esatta relazione mensile sullo stato morale e sanitario dei propri confratelli, con un cenno sull'andamento materiale delle loro case. Chiudeva la lettera un richiamo ai prossimi esercizi spirituali di Trofarello nel mese di settembre. Don Bosco aveva ben ragione di ripromettersi molto dalla pratica delle sue tre raccomandazioni.

Le disposizioni contenute nel decreto del 1° marzo per l'ammissione agli ordini sacri diedero origine a due atti di natura assai diversa. In uno s'andò alla liscia. C'erano undici chierici professi entrati nell'Oratorio dopo l'età di quattordici anni. Dai loro Vescovi non sarebbero stati riconosciuti, perchè ad essi non constava nè della loro carriera chiericale nè degli studi fatti, e quand'anche ciò fosse constato, forse non avrebbero tenuto conto del loro corso scolastico. Per questi motivi Don Bosco supplicò il Santo Padre che volesse concedergli la facoltà per una volta sola di. dar loro le dimissorie, benchè non si verificasse nel caso la condizione richiesta a tale effetto, cioè l'ingresso in un istituto salesiano prima dei quattordici anni. Fra quei chierici figuravano nomi noti e cari: Belmonte, Bertello, Berto, Bodrato, Daghero, Guidazio. La supplica fu benevolmente accolta dal Santo Padre.

Nell'altro caso la faccenda si complicò non poco. Il diacono Giuseppe Cagliero, cugino di Don Giovanni, era bensì entrato nell'Oratorio prima d'aver compiuto il quattordicesimo anno, ma non aveva ancora fatto i voti. Avvicinandosi il tempo dell'ordì. nazione sacerdotale, Don Bosco lo mandò dall'Arcivescovo pei pregarlo di volervelo ammettere. Monsignore gli rispose che l'avrebbe ordinato, se promettesse di passare nel clero diocesano. L'altro, di carattere impulsivo, rispose bruscamente di no. L'Arcivescovo tentò di persuaderlo a uscire dall'Oratorio, ma quegli tenne duro. Voleva poi l'Arcivescovo che gli scrivesse o gli dettasse i nomi di tutti gli appartenenti alla Congregazione; ma il diacono si chiuse nel più assoluto mutismo. — Se è così, andate! — gl'ingiunse l'Arcivescovo. Il Cagliero, tornato all'Oratorio, riferì ogni cosa a Don Bosco, che ne rimase doppiamente amareggiato e per la negativa di Monsignore e per il modo tenuto dal diacono; onde scrisse all'istante una compitissima lettera di scusa per conto di quest'ultimo, che la copiò e firmò, dichiarando nei seguenti termini la propria volontà: « Dico adunque essere mia intenzione e deliberazione di appartenere alla Congregazione di S. Francesco di Sales. Venni qui da giovanetto e, se non avessi avuto qui aiuti morali e materiali, certamente io non avrei potuto percorrere la carriera degli studi. Quindi affezione grande a quel luogo e a quelle persone da cui ricevei il pane della scienza e della moralità. Don Bosco mi lasciò sempre libero ed io, sebbene appartenessi di corpo e di spirito alla mentovata Congregazione, tuttavia non mi ero mai definitivamente pronunciato, come intendo di fare col presente mio povero scritto e.

Così si espresse il 6 novembre. Il 12 fece la sua professione, il giorno dopo fu trasferito a Mirabello, e di lì a poco il Vescovo di Casale Mons. Ferrè, che aveva approvato la Società come Istituto diocesano, gli conferì il presbiterato. L'Arcivescovo, saputolo, ne mosse lagnanza, impugnando la liceità dell'ordinazione e dichiarando incorsi nelle pene canoniche Don Bosco con la perdita dell'ufficio e del grado e della voce attiva e passiva, l'ordinato con la sospensione, e l'ordinante con provvedimento da determinarsi (i).

  1. Lettera a Don Bosco, Torino 26 novembre 1869

Si può facilmente immaginare con che prontezza e umiltà cercasse il Santo di giustificare la sua condotta, fondandosi sopra una dichiarazione della Sacra Congregazione del Concilio, citata da Benedetto XIV nel De Ordinatione Regularium (i). Don Bosco non tralasciava di dire che prima di mandare il diacono dall'Arcivescovo vi era andato egli stesso più volte a fine di parlargliene, ma senz'aver mai potuto avvicinarlo. Tuttavia, prescindendo dal lato giuridico dell'affare, supplicava: « Malgrado questa mia buona volontà e persuasione, se mai non avessi raccolto il vero senso di quanto ho sopra esposto, io mi raccomando a volermi dare benigno compatimento, assicurandola che questa sua volontà per l'avvenire sarà fedelmente eseguita. Anzi, colle parole del prelodato Pontefice, io la supplico per la misericordia del Signore e per quella carità dello Spirito Santo, che ognuno stringe nell'unità di fede a coltivare la vigna del Signore, a voler passar sopra a quanto possa averle recato dispiacere in 'questo affare. Ella sa che da trent'anni, nella mia pochezza, fo quel che posso per questa Diocesi. Molti chierici, vicecurati e parroci della Diocesi, furono nostri allievi. Non ho mai dimmi-dato nè stipendi nè impieghi. L'unica mercede che ho sempre dimandata e che con tutta l'umiltà del cuore dimando, si è compatimento e consiglio nelle cose che V. E. giudicasse tornare alla maggior gloria di Dio » (2).

L'Arcivescovo replicò da Roma, dov'era andato per il Concilio. Pur dicendosi persuaso che il fatto fosse stato «effetto, non di animo cattivo, ma d'ignoranza », contestava alcune affermazioni di Don Bosco e insisteva sul dovere di ricorrere a Roma per l'assoluzione (3). Allora Don Bosco si rivolse per consiglio al canonico Fissore, futuro Arcivescovo di Vercelli, esponendo: io che Benedetto XIV biasima bensì il Superiore, il quale
(1) Congregatio Concilii ennsuit (27 febbraio 1747) superiores regutares posse suo subdito ifidom regulari, qui praeditus quaotalibus requisitis ordines susoipere .voluerit, litteras dimissorias concedere, ad Episcopum tatua Diocesanum, nampe Olivo monasterii in cuius familia ab iis, ad ,vios partine', regularis positus sit.
(2) Lettera 28 novembre 1869.

(3) Lettera 8 dicembre 1869.

 

falsis de causis facesse cambiare domicilio al suo suddito per l'ordinazione e poi lo richiamasse tosto alla casa di prima, ma non fa parola di pene; 20 che nel caso le ragioni erano gravissime; 30 che, se un Superiore può disporre de' suoi sudditi, deve poter far loro cambiare domicilio anche per l'ordinazione, quando vi fosse grave causa (1). Il Canonico gli diede subito un appuntamento (2). Che cosa vi si sia concertato, non sappiamo; ma è certo che la questione non ebbe altro seguito. Il Santo, recatosi a Roma nel gennaio del 187o, si affrettò a ossequiare l'Arcivescovo, che, pur mostrando qualche freddezza, lo trattò con perfetta cortesia.

Simili contrasti non ci debbono fare soverchia impressione. Scrive un autorevole maestro di ascetica (3): u Senza volere, spesso senza sapere, noi ci urtiamo a vicenda; ciò è dovuto alla nostra condizione stessa di creature umane [...]. La storia dei Santi è piena di questi disaccordi, di questi malintesi, di questi dissensi che derivano dal temperamento, dal carattere, dalle tendenze dello spirito, dall'educazione, dal particolare ideale di ognuno ».

Scadevano nel /869 dalle loro cariche i Capitolari, che secondo le Regole duravano in ufficio tre anni. Don Bosco il x o dicembre radunò tutti i membri della Società, aflinchè si facessero le elezioni. Spettando a lui la nomina del Prefetto generale e del Direttore spirituale, confermò Prefetto Don Michele Rua e designò all'altro ufficio Don Giovanni Cagliero. Si passò quindi a eleggere i rimanenti. Secondo le Regole, avevano diritto al voto solamente i professi perpetui; ma le Regole nulla dicevano circa l'eleggibilità dei professi temporanei. Per quella volta si lasciò .impregiudicata la questione. Dei professi perpetui erano presenti quattordici. Uscirono dallo scrutinio Don Angelo Savio Economo, e Don Carlo Ghivarello, Don Celestino Durando, Don Paolo Albera Consiglieri. Vedremo fra breve perché non compaia più il nome di Don Francesia.

(1) Lettera 28 dicembre 1869.
(2) Lettera 19 dicembre 1869.

(3) Don CLUMBA MARNION, Cristo ideale dal monaco. La rinuncia a se stesso, parte 3'.

Prima dell'elezione era stato chiesto se non dovessero eleggersi due Economi, uno per la Società e l'altro per l'Oratorio, essendo impossibile che uno solo bastasse a tutto. Don Bosco aveva parlato così, cóme risulta da una relazione: « Quando diciamo Economo della Società, non dobbiamo mai confonderlo con l'Economo della casa, poiché può stare benissimo l'Economo della casa distinto dall'Economo della Congregazione. Quindi, quando diciamo Economo della Società, cioè colui che si elegge nel Capitolo, non lo dobbiamo confondere con l'Economo della casa. L'Economo della casa è come un Viceconomo od un aiutante, come il Prefetto ha un aiutante nel Viceprefetto ». A fare da aiutante dell'Economo nell'Oratorio Don Bosco aveva chiamato recentemente da Lanzo Don Antonio Sala. Fatta la proclamazione degli eletti, Don Bosco disse:
Ora ecco rieletto il nostro Capitolo, il quale deve sempre rappresentare i Superiori della Società. E questo non è solo una cosa cosi combinata fra noi, ma in tutte le Società religiose vi è sempre questo Capitolo, il quale è molto distinto dagli altri ed è facile conoscerne i membri. Cosi sono i Domenicani, ì Barnabiti, e in tanti altri Ordini: ed in queste Congregazioni il Capitolo ha perfino la tavola separata, cosa che col tempo combineremo anche noi.

Questi poi che sono eletti devono pensare che la carica che hanno, richiede pazienza e sacrificio, e non si promette loro nessun premio, eccetto quello che ci darà il Signore.

Quello che non posso dissimularvi si è che siamo in una via tutta piena di spine, e avremo a soffrire molto per causa degli uomini e per tante altre cause. Noi siamo quelli che primi dobbiamo pvgvare su queste spine, essendo in sul principio della Società: ma dobbiamo consolarci, perché non siamo soli, avendo da una parte il nostro Divin Salvatore, dall'altra la Santissima Vergine. Essi camminano con noi, ci insegnano la via, ci consolano e ci sorreggono.

Quello poi che il Signore ha voluto pia di tutto far conoscere si è che dopo le spine vi saranno le rose e in abbondanza. Egli ci promette grandi aiuti, molte benedizioni spirituali e temporali. Ci vedremo anche molto prosperati ed egli ci manderà anche quello che ci abbisogna pel temporale in abbondanza, purché si faccia sempre servire tutto a sua maggior gloria.

Ciò che mi consola, e lo dico anche con un po' di compiacenza, si è che quest'anno vedo che la nostra Congregazione è molto bene avviata e tutti sono impegnati perchè le cose vadano bene. Pare che la nostra condizione sia molto migliore dell'anno scorso. Voglio che anche prima dell'anno si stampi una scheda o catalogo, in cui sarà scritto il nome di tutti quelli che compongono la nostra Congregazione, e cosi ciascheduno, tenendo presso di sè questa scheda o catalogo, potrà facilmente conoscere tutti quelli che sono nella Società. Questo schema lo terrà ciascuno presso di sè, senza che si faccia correre nelle mani altrui.

Desidero pure che in calce a questa lista si lasci uno spazio, dove in fine dell'anno si scriveran quelli che il Signore chiamò all'eternità in quell'anno stesso. Ogni anno si metterà poi in disparte uno dí questi cataloghi e si aggiungerà una monografia di quelli che passarono all'altra vita. In questa monografia si accenneranno le virtù principali, in cui si segnalò il defunto. In questo modo si potrà per esempio dopo ottant'anni, conoscere gli individui della Società, l'aumento o la diminuzione della medesima. La scheda sì rinnoverà ogni anno. Ogni casa avrà anche un catalogo particolare, in cui si troveranno notati tutti quelli che in allora si troveranno in quella.

Comparve dunque nel 1870 il primo Catalogo generale della Società. Vi precedeva l'elenco di tutti i Soci in ordine alfabetico e seguiva quello delle case con il relativo personale. I Soci sommavano a roz, dei quali 28 professi perpetui, 33 professi triennali e 41 ascritti. Vi erano pure 22 aspiranti, ma non furono registrati.

Nel Catalogo non è indicato il Maestro degli ascritti o novizi, nè vi comparirà fino al 1878. Don Bosco nel 1869 incaricò Don Rua di tale ufficio, esercitato prima da lui stesso; ma non gliene diede il titolo per i prudenziali motivi detti altrove: non era ancora venuto il tempo di svolgere nell'Oratorio alla luce del sole la vita della Congregazione. Don Rua ci si mise con l'inappuntabile*diligenza, che usava in tutte le sue occupazioni. Cominciava ad esaminare gli aspiranti, quando facevano la domanda di rimanere con Don Bosco, scandagliando il perché vi si fossero indotti; poi, quand'erano ammessi, teneva loro frequenti conferenze e ogni quindici giorni impreteribilmente li chiamava a sè uno per uno, facendo lor fare minuti rendiconti. Non tralasciava neppure di sottoporli a prove particolari, secondochè ne vedesse l'opportunità. Finalmente li invigilava, li ammoniva e presentava loro in se stesso l'esempio vivente del perfetto Salesiano, animato dal vero spirito di Don Bosco.

Quale fosse nel suo insieme lo stato religioso e materiale della Società, lo rileviamo dal resoconto presentato alla Santa Sede sul principio del 1870. Era una relazione firmata anche da tutti i Capitolari. In essa il Santo riferiva prima sopra le singole case con la cronistoria dell'Oratorio, poi sul numero dei Soci, sulle condizioni finanziarie e morali e su alcune opere particolari. Le tre ultime parti erano così prospettate:
Condizioni finanziarie. — Questa società non ha alcun reddito fisso. I ricoverati nella casa di Valdocco vivono di sola beneficenza; nelle altre case àvvi una piccola pensione. Parecchi però sono gratuiti o sernigratuiti. L'amministrazione tanto delle chiese quanto delle case non è aggravata da alcun debito, ad eccezione dei debiti riguardanti alle opere in costruzione. Ivi si può calcolare che la spesa è pareggiata da alcuni crediti che sono in corso di esazione.

Condizioni morali. — Grazie alla bontà del Signore, lo stato morale di questa Congregazione è soddisfacente, le Regole sono osservate e lo spirito di pietà finora corrisponde all'aspettazione. In media si può dire che due terzi degli studenti domandano di abbracciare lo stato ecclesiastico.

Vi sono altre venticinque domande per apertura di nuove case. Ma il personale basta per le case ora esistenti e non di più.

Forse nel prossimo ottobre vi saranno gli individui per aprire un'altra casa nella città di Alassio, diocesi di Albenga. Ivi appare assai grave il bisogno. Le autorità civili ed ecclesiastiche concorrono in pieno accordo.

Opere particolari. — Secondo lo scopo della Congregazione, i Sacerdoti si prestano, per quanto è possibile, alla predicazione di esercizi spirituali, tridui, novene e a supplire ai Parroci in caso di necessità.

La stampa delle Lettere Cattoliche. Questa pubblicazione benedetta dal Santo Padre progredì prosperamente. Corre l'anno diciottesimo, e in media si diffusero ogni mese non meno di dodici mila libretti di cento e otto pagine caduuo.

La Biblioteca dei Classici Italiani, purgati pei uso della gioventù. Corre il 50 anno ed il numero degli associati fa sperare assai bene.

Si somministra il servizio religioso a tre case dí povere giovani pericolanti, che escono di prigiorie: a quella detta Laboratorio di S. Giuseppe, che ba per oggetto di raccogliere giovanette lungo la settimana per lavorare, il giorno festivo per le pratiche religiose: a quella detta dí S. Pio V, che è ricovero ed anche radunante festiva per le ragazze più pericolanti della città.

Quando il Card. Quaglia prese visione di questo resoconto. consegnatogli personalmente da Don Bosco, restò tanto sorpreso che gli disse: — La Società, seguitando ad andare avanti di questo passo, avrà di qui a cinquant'anni più di duemila membri! — Egli evidentemente credette di dire una cifra sbalorditiva; ma le condizioni dei tempi non permettevano migliori pronostici. La realtà fu che nel 192o i Salesiani arrivarono a 427o, senza computare 482 ascritti.
Fra le case il resoconto ne annoverava una aperta dopo la approvazione della Società: il collegio-convitto della Madonna del Popolo a Cherasco, nella diocesi di Alba. Don Bosco ebbe allora per la prima volta occasione di ottemperare alla settima delle osservazioni fatte da Roma sulle Regole nel 1864, quella concernente l'obbligo di chiedere alla Santa Sede e non al solo Ordinario l'autorizzazione di aprire nuove case. Per questo scopo il Santo mandò al benevolo Vescovo Galletti una memoria da inviare alla Santa Sede, pregandolo di accompagnarla con una sua lettera, in cui facesse notare che ogni cosa erasi compiuta col consenso suo e che egli ravvisava nell'opera la maggior gloria di Dio, « come nella mia pochezza confido che sia », soggiungeva il Santo (I). Oltrechè per l'apertura del collegio gli occorreva una speciale facoltà di occupare la casa e la chiesa parrocchiale appartenute ai Somaschi prima che avvenisse l'espulsione dei religiosi. Nella memoria, come nel contratto, Don Bosco aveva inclusa la dichiarazione che, in caso di ritorno dei detti Padri, egli si sarebbe ritirato. Il Vescovo appoggiò la doppia domanda e la Congregazione dei Vescovi e Regolari il rg novembre diede risposta favorevole.

Cherasco è la storica città che diede il nome a un trattato e ad un armistizio. Il convento e il tempio dei figli di S. Girolamo Emiliani avevano forme monumentali. Ai Salesiani il Vescovo affidò l'amministrazione della parrocchia e il Direttore Don Francesia ebbe agio di spiegare i suoi talenti oratori, affascinando la popolazione. Dal Municipio partirono le proposte e col Municipio fu stipulata la convenzione, perchè da quello dipendevano allora gli edifici; ma tutto procedette di pieno accordo fra le autorità ecclesiastica e civile. Come già a Lanzo, cosi a Cherasco, cosi altrove prima e poi, anche per molti casi in cui le pratiche
(i) Lettera 2 ottobre 1869.

non approdarono, si avverò questo fatto, che il potere laico prese le iniziative di chiamare Don Bosco e agì d'intesa col potere religioso. A ben valutare la portata di tali ravvicinamenti bisogna tenere conto dello spirito anticlericale e settario che a quei tempi imperversava nelle sfere dirigenti italiane (2). Don Bosco dunque avrebbe provveduto gl'insegnanti per le quattro classi elementari e per le cinque ginnasiali, a cui sarebbero stati ammessi con i convittori anche gli esterni. Con Don Francesia, dottore in lettere, componevano il personale Don Provera Prefetto, due altri preti e vari chierici, fra cui Bordone, Ottonello e Tamietti. Ma quel collegio non sortì lunga vita; poichè dopo soli tre anni lo si dovette abbandonare, come vedremo, per motivi d'igiene.

Ho accennato all'andata di Don Bosco a Roma sul principio del 187o. Vi stette dal 24 gennaio al 22 febbraio, molto adoprandosi presso certi Padri del Concilio in favore dell'infallibilità pontificia. Pio IX lo ricevette parecchie volte. In una di tali udienze il Papa, avendogli Don Bosco umiliato i volumi delle Letture Cattoliche e della Biblioteca dei classici italiani: — Bravo! — esclamò. — Si vede che la vostra non è solo una Congregazione di nome, ma anche di fatti. So che l'anno scorso avete avuto nemici e oppositori e che voi li avete superati. Quelli che l'anno passato erano vostri nemici, quest'anno sono contumaci alla voce del Papa. Conosco da questo che la vostra è opera santa e la loro diabolica. — In un'altra udienza gli confidò che nel Concilio un Vescovo, approvato e applaudito da tutti, aveva parlato a lungo della necessità di una Società religiosa, i cui membri fossero legati in faccia alla Chiesa e liberi cittadini in faccia al civile; che il Vescovo di Parma aveva annunciato esistere già una tale Società, e molto fiorente, ed essere quella dei Salesiani, e che era stato incaricato il Vescovo dí Mondovi di darne minuto ed esatto ragguaglio. Di qui avvenne che, come
(2) In una lettera a Mons. Svegliati (zo agosto :87o) Don Bosco scriveva: *Al giorno d'oggi abbiamo quaranta domande di Munielpii, che vorrebbero apertura di scuole sotto la direzione libera della nostra Congregazione. Veda che ritorno alle idee antiche! e.

narrò poi Don Bosco in una conferenza, diversi Vescovi andassero a scongiurarlo di aprire case nelle loro diocesi. « Ma io non ho promesso cosa alcuna, soggiunse egli, non per mancanza di mezzi materiali, ma per scarsità di persone ». In quella conferenza, vedendo l'entusiasmo degli ascoltatori, terminò con dire: « Noi, lasciando da parte lodi, adulazioni e meraviglie altrui, guardiamo le cose sotto l'aspetto più chiaro e vero. Rallegriamoci che il Signore ci tenga così la sua mano sopra, ma mettiamoci anche con maggior impegno a osservare le Regole della Società, procurando di dar loro il peso che meritano ».

CAPO XIV Due collegi e un ospizio in Liguria. (Alassio, Varazze, Sampierdarena).

Queste tre fondazioni furono compiute nello spazio di due anni, cioè fra l'autunno del 1870 e l'autunno del 1872; ma non furono le sole, come vedremo nel capo seguente. Per i due collegi Don Bosco trattò con i Municipi: In tali casi veniva formulata fra le due parti una convenzione, il cui tipo fondamentale si mantenne sempre unifOrrne. La prima era stata redatta nel 1865 per un collegio da aprirsi a Cavour, ma poi non aperto; la seconda e la terza per i collegi di Lanzo e dí Cherasco. Seguirono quindi altre fino alla morte di Don Bosco; anzi sulla stessa falsariga si continuarono a modellare anche in appresso i contratti conchiusi con enti morali. C,omponevansi per lo più di circa quattordici articoli, in cui si definivano esattamente i reciproci obblighi finanziari, scolastici e morali. Duravano cinque anni; il quinquènnio s'intendeva rinnovato, ove da una delle parti non fosse data disdetta avanti che spirasse il primo anno. Don Bosco s'impegnava a far impartire l'insegnamento secondo i programmi stabiliti dal Governo per le pubbliche scuole, provvedendo maestri patentati per le classi elementari e professori idonei per il ginnasio, talora anche per il corso tecnico, d'accordo con le autorità scolastiche. Quanto alla disciplina e all'istruzione religiosa i Municipi dichiaravano di rimettersi alla prudenza di Don Bosco; al qual proposito egli a volte faceva inserire anche un cenno sulla cooperazione del parroco locale.

Degli immobili Don Bosco aveva in questi e simili casi soltanto l'uso; ma accadeva che tosto o tardi le circostanze lo obbligassero ora a farne acquisto per atto di compera, ora ad abbandonare gli edifici altrui e costruirsene di nuovi là accanto.

Di fronte a continue spese ordinarie e straordinarie come risolveva Don Bosco il problema economico? Non aveva cespiti di entrata nè pensò mai a capitalizzare. Quanto danaro aveva, tanto ne spendeva, e ricevendo in eredità beni immobili, si affrettava a venderli per impiegarne tosto ì proventi. Diceva: Quando vedo che un'opera è necessaria, ritengo che Dio la voglia e vi metto mano senz'altro, sicuro che la sua Provvidenza non mi lascerà mancare i mezzi. — Infatti mancanza di mezzi non lo costrinse mai a troncare veruna delle sue imprese. I mezzi, se non venivano da se, li andava a cercare; ma al momento giusto li aveva a sua disposizione. Quindi nel 1874 potè scrivere (I): i Coll'aiuto di questa amorosa divina Provvidenza abbiamo potuto fondare chiese e case, fornirle di suppellettili, e provvedere agli allievi che entro vi sono. Parecchi fecero i loro studi, altri appresero quell'arte o mestiere che loro conveniva, e tutto ciò senza che sia mai mancata cosa alcuna per alloggiarci, nutrirci, vestirci, sia in tempo di sanità, sia nei casi di malattia *. Parole da doversi ripetere tanto più in seguito, durante il crescendo di 'fondazioni che lo accompagnò fino alla morte.

Riguardo alle proprietà fondiarie bisogna aggiungere che ne riteneva il puro necessario all'esistenza delle sue opere. Nei primissimi tempi, quando egli non godeva ancora fiducia pubblica, le faceva intestare al teologo Borel o a Don Cafasso; allorchè poi il suo credito fu stabilito, le intestava a se stesso o ai più fidi de' suoi collaboratori, e continuò cosi finchè non entrò in azione il sistema delle Società tontinarie (2).

(2) Nei pensieri che precedono le Regole.

(3) Queste Società si dicevano semplicemente TontIne, dal nome Lorenzo Tonti napolltano, che le creò in Francia nel 1653. Il primo contratto d'acquisto col patto ton-Urtarlo porta la data del 15 aprile reo. I Confratelli designati facevano l'acquisto in comune, stabilendo il patto tontinario che era fl seguente: e La proprietà degli immobili s'intende devoluta, fin d'ora, a quello solo fra gli acquisitoti che sarà a tutti gli altri superstite; invece l'usufrutto e godimento sono a favore di tutti gli acquisitori collettivamente, con diritto di accrescimento fino a che si verifichi la consolidazione della proprietà nell'ultimo superstite. Il che pure si dice dei miglioramenti, ampliazioni e restauri che pendente l'usufrutto venissero ad eseguirsi nella proprietà stessa e sue dipendenze, cosicché per nessuna causa e sotto verun pretesto non potranno gli eredi dei premorituri, invocare contro colui che risulterà il definitivo proprietario, il menomo diritto. Resta pure inteso fra i soci che nessuno di essi possa da solo fare innovazioni, permute, restauri od altra novità nei fondi comuni; bensì quando i soci componenti la maggioranza siero d'accordo fra loro, potranno, anche contradicendo gli altri, fare innovazioni ecc. ed anche nuove convenzioni con altri soci, ammettendoli a far parte della società con tutti i diritti espressi nel presente *.

Nelle fondazioni liguri la precedenza spetta per ragione di tempo e d'importanza al collegio di Alassio. L'idea prima di Don Bosco era stata di aprire in Liguria e precisamente ad Alassio un ospizio per ragazzi poveri e abbandonati; le numerose domande di ricovero che gli pervenivano dalla Riviera ligure, gli avevano fatto comprendere la necessità di una tale opera là sul posto. Vi avrebbe dunque istituito una scuola di arti e mestieri. Locale opportuno gli sembrava un convento detto di Santa Maria degli Angeli, dimora già dei Minori Riformati e allora proprietà del Demanio. Don Bosco intendeva comperare l'edificio e il terreno annesso. Il Municipio plaudi al disegno; l'Intendenza di Finanza non si opponeva all'acquisto, ma a patto che l'alienazione avvenisse per asta pubblica, come voleva la legge. Il Vescovo Siboni di Albenga,, nella qual diocesi è Alassio, e l'influente Parroco Della Valle che caldeggiavano da tempo l'impresa, si offersero a favorirne in tutto e per tutto l'attuazione.

Se non che nell'attesa Don Bosco modificò il suo piano. Vide egli che una scuola professionale e casa di beneficenza avrebbe trovato sede più acconcia presso una grande città, sia per avere facilmente ordinazioni di lavoro senza suscitare gelosie locali, sia per ottenere sufficienti sussidi della carità pubblica e privata. Guardò dunque a Genova e scartata per Alassio l'idea dell'ospizio, decise di mettervi un ginnasio. Il Municipio ne fu ancor più contento. Recatosi il Santo colà nel maggio del 287o, si accordò senza difficoltà con la Giunta sulle condizioni da lui proposte in base a un contratto, che venne firmato a tamburo battente da ambe le parti.

Giunta l'approvazione della Deputazione Provinciale e del Consiglio Scolastico, Don Bosco si procacciò pure la debita. licenza dal Regio Provveditore agli Studi, facendo per allora domanda di aprire accanto al convitto solamente il corso elementare completo e la prima ginnasiale. Presentò insieme la nota del personale dirigente e insegnante, con a capo Don Francesco Cerruti, Dottore in lettere. Anche questa approvazione venne; venne pure dalla Santa Sede la licenza di acquistare il convento.

Intanto si aspettava che fosse indetto; a pubblica gara, l'incanto. La pubblicazione fu fatta nell'agosto seguente. Don Bosco pregò un canonico alassino di presentarvisi, dichiarando che egli concorreva a nome dì un terzo, del quale a suo tempo_ avrebbe palesato il nome. Il canonico aderì tanto più di buon grado, perchè sapeva dí un cotale che avrebbe tentato l'acquisto per convertire la chiesa in teatro. Don Bosco mandò come suo procuratore l'Economo Generale Don Savio. L'incanto ebbe luogo il 12 settembre. Lo stabile fu aggiudicato al canonico per la somma complessiva di lire venticinquemila, che Don Savio sborsò senza indugio, ponendo poi subito mano a riattare il convento ed a rifornirlo dei mobili e utensili necessari per l'accettazione dei convittori e per l'inaugurazione delle scuole. Vennero spediti programmi per tutta la Riviera, sicché sul finire di ottobre i Salesiani poterono prendere possesso della casa e accingersi all'opera. Fu ammirata la rapidità con cui Don Bosco trattò, conchiuse ed esegui.

Formavano la comunità quindici persone. Il Capitolo si componeva di tre sacerdoti e tre chierici. Con due altri chierici professi vi erano sette ascritti, che dovevano fare là il loro noviziato sotto la guida del Direttore, cioè cinque chierici e due cciadiutori. Come nell'Oratorio i novizi esplicavano qualche attività fra i giovani, così praticavasi nelle case, dove si trovassero novizi. Questa maniera di fare il noviziato lavorando tanto riuniti nell'Oratorio che sparsi altrove, entrava nell'ordine di quelle libertà, a cui Don Bosco si riteneva autorizzato dalla parola di Pio IX, come ho detto sopra. Il secondo sacerdote era Don Francesco Bodrato Prefetto e il terzo Don Giovanni Garino Catechista. Quest'ultimo, entrato giovinetto nell'Oratorio, non tardò a segnalarsi per il suo amore agli studi classici; le sue pubblicazioni, specialmente la tanto pregiata e diffusa Grammatica greca, ne attestano l'ingegno e il buon gusto.

Dopo il primo anno le migliori famiglie di Alassio instavano, perchè si desse principio anche al corso liceale. Don Bosco da qualche tempo carezzava il disegno di aprire un liceo. Il io gennaio z868 aveva scritto alla Contessa Canori: «Il pensiero di un liceo, di cui sentesi gravemente la necessità, per quest'anno dobbiamo sospenderlo ». La necessità riguardava le famiglie cattoliche, desiderose dì preservare i figli dai pericoli che allora correva la fede nei licei dello Stato. Abbandonato il progetto di aprirlo in una casa messa a sua disposizione da una signora torinese, pensava di adattare a. questo scopo un edificio presso l'Oratorio. «Si avrebbe diminuzione di spesa, scrisse il 12 aprile alla medesima Contessa; il personale sarebbe in un momento là e qui, ed ogni cosa si compierebbe sotto gli occhi miei ». Si vede che la cosa gli stava vivamente a cuore. Tuttavia fino all'autunno di tre anni dopo nulla aveva potuto concretare. Allora fu che Don Cerruti venne ad esporgli il desiderio degli Alassini. Lo fecero esitare un po' le gravi spese occorrenti, tanto più che il Municipio prometteva solamente il suo appoggio morale. Poi escogitò un espediente, proponendo che le famiglie di alunni della città, i quali avessero terminato quell'anno il ginnasio, offrissero al collegio una parte della somma che avrebbero dovuto spendere col metterei figli in pensione a Savona o a Genova per farvi il liceo. La proposta piacque e il liceo cominciò subito nell'anno scolastico x871-72 con la sola prima classe. Questo richiedette nuovo personale titolato,. che non si mostrò impari al bisogno. Infatti l'Unità Cattolica del 6 settembre 1872 aveva un articolo, nel quale, accennato alla soddisfazione dei parenti e al moltiplicarsi delle domande di ammissione al collegio, diceva lodevolissimo il risultato generale degli esami, specialmente nel liceo. Il favore del pubblico andò poi aumentando di anno in anno, sicchè quel collegio municipale divenne la gloria più bella di Alassio. Il merito risale a Don Cerruti, che lo resse per tre lustri. Contava appena ventisei anni, quando ne assunse la direzione. In corpo esile chiudeva un'anima adamantina. Il suo prestigio personale non tardò a farsi sentire nella città; si estese quindi a tutta la provincia e si affermò infine anche a Genova, dov'egli godette la stima e la fiducia di ragguardevoli personalità e famiglie. Le Autorità stesse, pur così aliene a quei tempi dal manifestare simpatia per gli ecclesiastici in genere e per le scuole deì preti in specie, l'ebbero sempre in alta considerazione. A farlo salire in rinomanza contribuirono soprattutto il sapiente ordinamento degli studi e il saggio regime disciplinare da lui mantenuti nel collegio. Don Bosco gli scrisse il 26 dicembre 1872, faceziando e incoraggiando: « Dei D. Cerruti ne abbiamo un solo ».
Il collegio non solo non fece dimenticare l'ospizio, ma non ne ritardò nemmeno la fondazione. Al disegno di Don Bosco venne provvidenzialmente incontro nel 1871 la Conferenza genovese di S. Vincenzo de' Paoli, sollecita di quei figli del popolo. Il Senatore Marchese Cataldi offriva in uso una sua villa situata a Marassi, di là dal Bisagno, a mezza strada fra la città e Staglieno. Le pratiche furono così sbrigative, che nell'ottobre dello stesso anno i Salesiani colà destinati erano già pronti per partire da Torino. 11 Direttore Don Paolo Albera e due chierici componevano il minuscolo Capitolo; tre ascritti coadiutori dovevano essere i maestri d'arte. L'arrivo e la presa di possesso riuscirono poco allegri. Alla stazione i nuovi venuti non trovarono anima viva che li aspettasse e insegnasse loro la strada; giunti poi alla meta, entrarono in una casa vuota e nuda. Senza perdersi d'animo s'ingegnarono a cercare• le cose di prima necessità; giunsero in seguito provvigioni e oggetti inviati dalla Conferenza vincenziana. I giovanetti non si fecero sospirare; i primi li mandò la Conferenza stessa. In breVe raggiunsero la quarantina, quanti la villa ne poteva contenere. S'improvvisarono tre laboratori di sarti, calzolai e falegnami. Ma non erano tutti artigiani. Don Bosco, inviando il programma ai Parroci, l'aveva accompagnato con una sua circolare, nella quale diceva loro: « Qualora poi conoscesse giovanetti la cui indole e attitudine allo studio presentasse qualche probabilità di vocazione allo stato ecclesiastico e ce li volesse indirizzare, l'assicuro che sarà usata viva sollecitudine, perchè siano coltivati nello studio e nella pietà e così le comuni speranze siero appagate ». Mise insieme per tal modo un piccolo nucleo di aspiranti al sacerdozio, ai quali si fece intraprendere un corso accelerato di latino. Nell'anno scolastico Don Bosco visitò due volte la casa.

Ma, data l'angustia dei locali, l'opera in quelle condizioni sarebbe stata sempre rachitica. Si affacciavano due soluzioni: o ingrandire fabbricando o trasferirsi altrove. Il Santo si appigliò al secondo partito. Per consiglio dell'Arcivescovo Magnasco e col consenso della Santa Sede nell'agosto del 1872 acquistò in Sampierdarena un convento e una chiesa appartenuti, prima della soppressione napoleonica, ai Teatini. La chiesa, grandiosa costruzione del secolo XVI, era chiusa al culto e ridotta in uno stato da far pietà. Don Bosco la fece restaurare senza risparmio di spese e l'architetto Dufour la rese un gioiello. Il vetusto convento, rabberciato alla meglio, bastava appena per una cinquantina di allievi; ma Don. Bosco mirava a ben grandi sviluppi. Comprò quindi una proprietà attigua, che gli permise di allargarsi notevolmente; i suoi successori aggiunsero poi altro, sicchè l'edificio primitivo fu quasi quintuplicato. Vivente ancora il Fondatore, la chiesa, dedicata a S. Gaetano Thiene, divenne parrocchia, la prima delle tante parrocchie affidate col tempo alla Società. La casa, denominata da S. Vincenzo de' Paoli, dava già ricetto a trecento fra studenti e artigiani, che oggi toccano i cinquecento. È un Oratorio di Valdocco in piccolo.

Sampierdarena aveva bisogno di tale opera. Divenuto emporio di affari e di commercio, attirava speculatori d'ogni genere, che vi aprivano negozi, officine e manifatture. La buona popolazione d'un tempo andò sommersa nel mare magno dei sopravvenienti. Il peggio fu che vi s'intrusero alla chetichella Anglicani, Luterani, Calvinisti, increduli e indifferenti, e sott'acqua lavorava la Massoneria. Una parrocchia sola sosteneva la cura di venticinquemila anime con un'unica chiesa, capace sì e no. di mille persone. Scarso il clero, deserte le funzioni, istruzione religiosa pressochè nulla. I Genovesi chiamavano quella loro città suburbana una piccola Ginevra. Don Albera, spirito calmo e riflessivo, osservatore acuto, amante della soda cultura sacra, compitissimo nei modi, uomo di consiglio benchè anche lui appena ventiseienne, si fece tosto tutto a tutti, e tutti gli volevano bene. Nelle migliori famiglie di Genova era ricercato, nè ricorreva mai indarno alla carità dei facoltosi. Con i mezzi fornitigli dalla beneficenza rinnovò casa e chiesa, ingrandì l'ospizio, accrebbe di anno in anno il numero dei ricoverati. In pari tempo organizzò un oratorio festivo, vera arca di salvezza per tanta gioventù. Curando poi il decoro del culto, reso attraente con non mai udita musica e con rion mai vedute cerimonie, allettava le funzioni. Mediante una predicazione assidua e ben preparata spezzava abbondantemente il pane della divina parola. Così mentre l'ospizio coltivava vocazioni ecclesiastiche e preparava alla società onesti e operosi cittadini, l'attività sacerdotale del Direttore é de' suoi aiutanti, non esaurita dalle occupazioni interne, risvegliava la fede nel popolo, promoveva la pietà cristiana e neutralizzava l'azione funesta delle sètte. I Direttori che si succedettero dopo Don Albera, non facendo che seguire l'indirizzo da lui tracciato in quindici anni di governo, mantennero la fondazione di Sampierdarena in uno stato di crescente e feconda floridezza fino ai dì nostri.

Fra Savona e Genova è la graziosa e industre cittadina di Varazze. Nel 187o il Municipio aveva intrapreso la costruzione d'un edificio scolastico sopra un terreno già dei Cappuccini, con l'intendimento di farne un convitto e di aprirvi un corso classico e tecnico. La fama di Don Bosco e de' suoi istituti richiamò su di lui l'attenzione del Vicario Foraneo e del Sindaco, che di comune intesa lo pregarono di accettarne la direzione. Il Vescovo di Savona sosteneva la proposta. La riputazíone rapidamente acquistata dal vicino collegio di Alassio aggiunse un nuovo stimolo a rendere le insistenze più vive, sicchè il Santo compilò e inviò un suo progetto conforme a quelli formulati in simili circostanze. La Giunta municipale vi fece buon viso. Come ad Alassio, le tre classi tecniche sarebbero andate unite alle prime tre ginnasiali. Restando alcuni punti da discutere, Don Bosco, accompagnato dal suo Economo Generale, si recò a Varazze il 22 febbraio del 1871. L'accordo non incontrò difficoltà. Un mese dopo il Consiglio comunale deliberò ad unanimità di approvare in massima la convenzione. Reso che fu esecutivo dal Sottoprefetto del Circondario il deliberato, si redasse il definitivo capitolato ufficiale, alla cui compilazione mise mano anche un celebre giureconsulto del foro genovese, l'avvocato Maurizio; Don Bosco per altro vi si fece sentire con modificazioni sue, che vennero accettate, e il Consiglio Provinciale lo approvò in luglio. A titolo di saggio è bene riprodurlo.

1° Il Sacerdote Giovanni Bosco si obbliga d'aprire un Collegio-Convitto nella Città di Varazze e di somministrare l'istruzione classica, ginnasiale, tecnica ed elementare tanto ai giovanetti cittadini quanto ai forestieri che volessero approfittarne.

Nel caso di morte del Sac. Bosco gli eredi saranno obbligati ad osservare l'obbligazione assunta dal loro autore.

20 II Sac. Bosco provvederà i Maestri in numero sufficiente per gli insegnamenti sopra indicati, i quali dovranno essere approvati dalle Autorità scolastiche a termine dei vigenti Regolamenti.

30 L'istruzione sarà fatta secondo le discipline ed a termini dei programmi stabiliti dal Governo per le pubbliche scuole.

Il corso tecnico sarà fatto secondo il progetto governativo di fusione dei due corsi tecnico e ginnasiale, cioè: aritmetica, sistema metrico, geografia, lingua italiana, storia siano gli stessi come nel corso ginnasiale di modo che saranno esaurite anche dal corso tecnico col corso ginnasiale.

Per completare quello che è più essenziale nel corso tecnico vi saranno inoltre lezioni di francese e di disegno, cosicchè nel quinquennio classico siano pure esaurite le materie spettanti a questi rami del corso tecnico per modo che gli alunni, sia del ginnasio che del corso tecnico, vengano abilitati a subire l'esame per essere ammessi ai corsi superiori.

Ciò non esclude che il Sac. Bosco possa servirsi dei maestri stessi, tanto per un insegnamento che per l'altro, purché non avvengano inconvenienti a detrimento dell'istruzione e della disciplina.

4° Tutte le spese di suppellettili per il Convitto saranno a carico del Sac. Bosco: il Municipio per altro conte proprietario ed in conformità del prescritto dall'art. 1604 Codice civile italiano si obbliga:

  1. A tutte le riparazioni che sono necessarie all'uso ed alla conservazione dell'edificio e dei locali annessi. Per quanto però ridette le riparazioni di piccola manutenzione saranno a carico del Sac. Bosco per tutta la parte destinata al convitto.
  2. A provvedere e mantenere nelle scuole tanto elementari che ginnasiali e tecniche la suppellettile e l'altre cose necessarie delle quali conserverà la proprietà.

5° II Municipio si obbliga di pagare al Sac. Don Giovanni Bosco:

  1. La somma di lire italiane tre mila duecento (L. 3.200) per il personale delle scuole elementari.
  2. La somma di lire italiane otto mila ottocento (8.800) per il personale delle scuole ginnasiali e tecniche, oltre la cessione a di lui favore del provento ntinervale di cui è cenno qui sotto.

Tale somma di lire dodici mila (x2.00o) per parte del Sac. Bosco non sarà soggetta ad alcuna imposta o ritenuta municipale, provinciale o governativa. Il Municipio si riserva i sussidi che potesse ottenere tanto dalla Provincia che dal Governo come da qualunque siasi altra istituzione pia, essendochè se si è assunto di pagare la complessiva somma di lire italiane dodici mila, è in vista dei rimborsi che potrebbe in qualche parte ottenere col mezzo dei suindicati sussidi. 60 II Municipio si obbliga inoltre a corrispondere al Sac. Bosco un premio di lire dodici mila (12.000) per le spese sia di primo impianto chesuccessivo mantenimento del Convitto.

Questa somma sarà pagata all'apertura del Convitto per metà, e nell'anno successivo per l'altra metà.

7° Il presente contratto avrà la durata di cinque anni, e si intenderà rinnovato per altri anni cinque, ove da una delle parti non sia data disdetta prima dello spirare del primo anno.

Se poi il contratto fosse sciolto prima che si compisse il primo decennio, il Sac. Bosco dovrà restituire in danari od in mobilia come sopra la detta somma di lire italiane dodici mila (L. 12.000) divisa in dieci rate uguali, e ne rimborserà altrettante rate quanti saranno gli anni decorrenti fino al compimento del decennio: e ciò sia che avvenga per forza maggiore che per altra causa qualsiasi.
80 Il Municipio concede al Sac. Bosco, in senso di quanto si è già convenuto superiormente, l'uso del locale del cosi detto Collegio, costrutto recentemente per le scuole e per il convitto col cortile e giardino annesso.

90 Le Minervali non potranno essere maggiori di lire italiane trenta per le due rettoriche e di lire italiane ventiquattro per le grammatiche (i).

In quanto alle scuole tecniche i contraenti si rimettono al Regolamento in proposito.

(i) Ginnasio superiore e ginnasio inferiore.

Però gli alunni di Varazze godranno di una diminuzione del terzo.

Si riserva la Giunta Municipale dì esentare gli alunni che conosconsi veramente poveri e commendevoli per ingegno e buona condotta.

convittori del Collegio e tutti gli allievi delle classi elementari non potranno essere sottoposti a veruna minervale.

10° Sarà lecito a tutti gli alunni esterni di frequentare i singoli rami d'insegnamento che si darà ai convittori.

11° Neí provvedimenti che riguardano la moralità e l'istruzione religiosa, il Municipio si rimette alla prudenza del Sac. Bosco.

12° La Direzione, l'Amministrazione del Collegio-Convitto, nonchè la Direzione delle scuole tanto ginnasiali quanto tecniche come anche elementari è affidata al Sac. Bosco, colla dipendenza però dalle Autorità scolastiche a norma della Legge.

130 Le scuole saranno aperte al principio dell'anno scolastico 1871-72 secondo il Calendario scolastico.

14° n Municipio si riserva di approvare l'orario delle scuole che dovrà essere proposto da Don Bosco, come pure di mandare un suo incaricato ad assistere agli esami mensili, nonchè agli esami finali, quando lo, credesse conveniente.

______________________
Questa convenzione fu firmata dal Sindaco Mombello e da Don Bosco senza dilazione. Contemporaneamente Don Bosco dichiarò al Sindaco di Cherasco che lasciava quel collegio per motivi d'igiene e stabilì di trasferire a Varazze il personale ivi addetto, ma rafforzato. Intanto avanzò subito al Regio Provveditore la domanda di apertura del collegio, unendovi il programma relativo e la nota dei dirigenti e insegnanti e limitandosi anche qui per allora alle quattro classi elementari e alla prima ginnasiale e tecnica. Il Catechista vi era chiamato professore di religione ".

Il Capitolo della casa constava di quattro preti. Vi erano poi altri dieci Soci, cioè un diacono, sette chierici, fra cui Pietro Guidazio, e due coadiutori, più quattro ascritti, dei quali uno diacono e tre chierici, e due aspiranti già maturi d'età, uno anzi chierico e geometra. Anche per Varazze Don Bosco aveva pregato i parroci di mandare giovani desiderosi di abbracciare la carriera sacerdotale. 11 Direttore Don Francesia, che aveva fatta ottima prova a Cherasco, doveva brillare assai più nella nuova residenza. Parroci e rettori di chiese anche da Genova se lo disputavano per predicazioni solenni. La sua facondia viva, colorita, adatta agli uditori avvinceva le moltitudini. Scrittore nato, più che grande cultura, possedeva una vena inesauribile, scriresse in prosa o in verso, in italiano o in latino. Il Vallauri avrebbe voluto imbarcarlo nell'insegnamento superiore; ma egli, che non ambiva tanto, preferì restare umile e affezionato figlio di Don Bosco.

Una cosa che non può non colpire un osservatore profano è il vedere come Don Bosco assegnasse incarichi di responsabilità a soggetti ancora tanto giovani. Anche Don France; ia e Don Bonetti, quando cominciarono a dirigere collegi, avevano appena ventisette anni. Quando mai si era verificato un fatto simile? La ragione che non c'erano altri, non varrebbe a giustificare un tal procedere. Intanto diciamo subito che quei giovanissimi Direttori fecero egregiamente, com'è noto, la parte loro. Il segreto si deve cercare nella maniera della loro formazione e nell'assistenza di Don Bosco. Erano uomini cresciuti fin da piccoli nell'Oratorio, studiando e lavorando sotto l'occhio vigile e la disciplina paterna e pratica del Santo, che poi continuava ad aiutarli di consiglio in frequenti sue lettere e visite. Dalla sua scuola erano usciti soprattutto ben formati a quella pietà illuminata, forte e serena, che può ben supplire a difetto di età, ma che nessuna età potrebbe mai sostituire in chi attende alla cristiana educazione della gioventù.

CAPO XV Nelle case e opere del Piemonte durante il triennio scolastico 1870-73. (Oratorio, Lanzo, Mirabello, Valsalice).

Nel Piemonte la nostra attenzione si posa anzitutto sull'Oratorio, la " Casa Maggiore ", come è detto nei tre primi Cataloghi dei Soci, la " Casa Madre ", come la disse Don Bosco nella Conferenza generale di S. Francesco del 1871. Esula dai limiti di questo disegno storico una minuta rassegna de' suoi progressivi ampliamenti edilizi, lavoro del resto già fatto in misura esaurientissima (1). Quello che qui c'interessa è la sua vita.

Nei Cataloghi di questi anni il nome di Don Bosco figura due volte, cioè coi membri del Capitolo Superiore come Rettor Maggiore e .col personale dell'Oratorio come Direttore della casa; a mano a mano però che il primo ufficio assorbiva più della sua attività, egli cedeva or l'una or l'altra parte del secondo a Don Rua, Prefetto generale e insieme Prefetto dell'Oratorio. Onde nel /869 rimise a lui l'istruzione domenicale per tutta la comunità e la così detta lezione settimanale di Testamentino (2) ai chierici; inoltre lo associò a sè nel ministero delle confessioni e il più delle volte lasciava al medesimo il sermoncino della " buona notte ". Nel 1872, caduto sì gravemente ammalato a Varazze che per circa due mesi lo sfiorò ripetutamente l'ala della morte, chi sa che cosa sarebbe stato dell'Oratorio senza la mente, la virtù e l'autorità di Don Rua; lo stesso dicasi di altre sue prolungate assenze, quando andava a Roma. Don Rua nondimeno, non che credersi indispensabile, metteva sempre innanzi Don Bosco, presentandosi quale suo semplice portavoce, quale esecutore degli ordini e interprete dei desideri di lui; soltanto nelle misure che rivestivano qualche forma di odiosità, agiva per proprio conto, sicchè l'aureola di paternità, che circondava la fronte di Don Bosco, non avesse mai a restare menomamente offuscata. Poneva infine ogni studio in far regnare la disciplina con mezzi voluti dal santo Educatore, sebbene quelli :fossero riguardo a ciò anni difficili per l'Oratorio, sia perchè fra gli artigiani si trovavano non pochi giovani consegnati dalla 'Questura e da altre pubbliche Autorità, sia perchè non ancora tutto il personale insegnante e assistente era abbastanza• informato allo spirito genuino di Don Bosco.

(1) Don PEDELE GIRAUDI, L'Oratorio di Don Bosco. S. E. I.. Torino (z* ediz.).
(2) Cfr. sopra, pag. 29.

Per crescerne il prestigio Don Bosco nel 1872 gli diede il titolo di Vicedirettore dell'Oratorio, nominando Don Provera Prefetto della casa.. Allora con le altre attribuzioni gli affidò l'incarico di distribuire o cambiare il personale nelle varie case, il che richiedeva molta prudenza ed anche, diciamolo 'pure, una certa tattica, in un tempo nel quale la mentalità religiosa era per tanti ancora sul formarsi. Ecco perchè Don Bosco il x o ottobre 1872 gli scriveva esortandolo a usare ogni mezzo possibile, affinchè le cose si facessero spende, non coacie, e dicendogli di lasciar fare a lui nelle difficoltà di maggior rilievo; e il 19 ribadiva: « Fa' quanto puoi per accontentare dirigenti e insegnanti ».

Fioriva sempre accanto all'ospizio l'oratorio festivo. Il Santo, non potendosene più occupare personalmente, vi faceva soltanto brevi comparse. Dal i869 ne aveva affidato la direzione al giovanissimo sacerdote Don Giulio Barberis, anima candida, tutta di Dio e di Don Bosco, del quale sapeva far valere fra i giovani lo stragrande ascendente morale. Gli prestavano aiuto catechisti salesiani ed ex-allievi.

Di questi ex-allievi l'Oratorio, avendo ormai ventiquattro anni di esistenza, contava già un bel. numero. Sempre affezionati a Don Bosco per gratitudine e legati fra loro da lieti rìcordi, diedero origine nel 1870 senza saperlo a una vera istituzione. Intendo accennare all'Associazione degli ex-allievi, della quale si discorrerà più innanzi.

Dall'Oratorio passiamo a Lanzo. Affluivano così numerose a quel collegio le domande, che per non doverne respingere troppe vi si -agglomeravano allievi più che non avrebbe comportato. la capacità del locale, sicchè nelle camerate, nella sala di studio e nelle aule scolastiche i giovani stavano oltremodo stipati. Nel 1870 Don Bosco. propose al Municipio di ampliare a spese proprie l'edificio, obbligandosi a condizioni onerose per lui e vantaggiose all'amministrazione comunale; ma non potè venire a capo di nulla. Per allora dunque si contentò d'ingrandire, facendo adattamenti entro l'edificio e costruendovi sopra, nel che spese circa ventimila lire. Ma, volendo assolutamente dare al collegio stabilità e floridezza, deliberò di fabbricare ex novo. In simili casi non lo spaventava la spesa, perchè faceva assegnamento sulla Provvidenza—Acquistato nelle adiacenze il terreno, innalzò un grandioso fabbricato di tre piani, con vasti portici. e spazioso cortile. Il lavoro fu compiuto nel 1873 e gli alunni ascesero subito a circa trecento.

Anche il collegio o piccolo seminario di Mirabello aveva bisogno d'ingrandimenti; ma la lontananza dalla ferrovia e l'insalubre ubicazione della casa gli fecero sembrare preferibile una soluzione radicale, tanto più che il numero degli alunni da 18o era sceso a 115 per causa di malattie, la qual cosa, gettando un'ombra di sfiducia nelle famiglie, dava a temere un esodo maggiore (1). Esisteva a Borgo S. Martino, Comune poco distante da Mirabello, una villa con giardino, bosco e orto, il tutto facilmente trasformabile per impiantarvi un collegio. Il proprietario Marchese Scarampi, amico di Don Bosco, avesse o no qualche intenzione di sbarazzarsene, non 'resistette alla viva preghiera che il Santo gli faceva di vendergliela. Il contratto fu conchiuso nel luglio del 1870 e il trasferimento si eseguì in ottobre. Il Vescovo di Casale non esitò a riconoscere ancora l'istituto come suo piccolo seminario. Questo riconoscimento vescovile lo mise al riparo da un principio di vessazione, a cui l'autorità scolastica provinciale veniva sospinta da alcuni male intenzionati. Don Bosco visitò la casa il 2 marzo 187i, scrivendo poi da Torino il 5 al Direttore Don Bonetti: «Ho trovato ed ho lasciato le cose con grande mia soddisfazione ».

(1) Lettera di Don Bosco alla Contessa Callori, 3 agosto reo.

Per ben comprendere il valore e l'efficacia delle visite che Don Bosco soleva fare ai collegi anche un paio di volte all'anno, giova conoscere in che modo quelle si svolgessero. Egli ne mandava l'annuncio qualche tempo innanzi, affinché i Direttori avessero agio di ben disporre gli animi, sicché poi vi giungeva molto aspettato. Un festoso ricevimento gli dava il ben venuto. Dopo per prima cosa chiedeva se vi fossero ammalati e in caso affermativo si recava subito a visitarli. Ogni sera faceva il sermoncino della " buona notte ", allietando tutti con le sue amene trovate, invitando ai Sacramenti e toccando destramente quei tasti, sui quali gli sembrava opportuno mettere il dito. Ogni mattino sedeva alcune ore al confessionale, sempre assiepato di penitenti. Durante il giorno ascoltava i Soci, trattandoli con una bontà e affabilità che ne apriva i cuori alla confidenza. In sì familiari colloqui quante difficoltà appianate, quanti dubbi dissipati, quanti conforti e incoraggiamenti comunicati agli spiriti, ed anche quanti screzi attutiti, quanti desideri soddisfatti! Radunatili poi in ora propizia, teneva loro una conferenza intima, in cui col cuore alla mano li informava dei progressi della Congregazione e li incorava a lavorare con zelo ed a compiere allegramente i sacrifici imposti dalle circostanze. Nelle ricreazioni attraversava qualche volta il cortile, dove i giovani gli si stringevano attorno, avidi d'udirlo. Non si mancava mai di festeggiarne anche alla loro mensa la venuta. Nel refettorio dei Confratelli rallegrava i suoi figli con notizie, piacevolezze e storielle condite con una grazia, della quale egli solo possedeva il segreto. Per tal modo dalle sue visite portava seco una conoscenza delle condizioni e dei bisogni dí una casa, lasciando ivi del suo passaggio un'impressione profonda e durevole, da cui il Direttore poteva trarre lungamente partito in seguito.

Da tempo si era sentita in Piemonte la necessità di provvedere all'educazione e istruzione cristiana della gioventù appartenente alle classi più elevate della società. Famiglie nobili che non volevano venir meno alle tradizioni domestiche mandando i figli a scuole dove questi correvano pericolo di perdere la fede, li inviavano all'estero in collegi tenuti da religiosi. A Torino i Fratelli delle Scuole Cristiane avevano aperto un collegio per nobili; ma dal Governo era stato chiuso nel 1863. Allora sette ecclesiastici, costituitisi legalmente in società, ne apersero un altro sulla strada di Valsalice, in un palazzo che apparteneva ai medesimi Fratelli. I benemeriti fondatori condussero avanti l'opera provvidenziale attraverso a gravi peripezie, finché, ridotto ai minimi termini il numero dei convittori e cresciuto paurosamente l'ammontare dei debiti, si videro sull'orlo del fallimento. Le cose volgevano alla catastrofe, quando il novello Arcivescovo Gastaldi, facendo buon viso alla proposta di chi aveva l'alta direzione dell'istituto, invitò sul 1872 Don Bosco a salvare l'onore del clero, sottentrando lui nell'amministrazione e nel governo.

Don Bosco si trovò allora a un bivio: o non aderire al desiderio dell'Arcivescovo e indisporlo verso la Congregazione, o rinnegare un principio da lui più volte categoricamente affermato. Riferisce, per esempio, la cronaca dell'Oratorio sotto il 3. aprile 1864 che egli, sentendo alcuni de' suoi accennare all'eventualità di avere col tempo un collegio di nobili, troncò un tal discorso col dire: « Questo no, non sarà mai finché vivrò io! Per quanto dipende da me, non sarà mai! Se si trattasse di pigliare solo la amministrazione di simile collegio, allora sì, si prenderebbe; ma altrimenti, no. Questa sarebbe la nostra rovina ». Tale concetto era penetrato cosi addentro nell'animo de' suoi principali collaboratori, che, quando chiamò il Capitolo a votare sull'accettazione del collegio di Valsalice, tutti diedero palla nera. Ma l'Arcivescovo, avutane comunicazione, non solo insistette, ma usò un tono di comando. La convenienza pertanto di evitare un urto col nuovo Ordinario mosse il Santo a fare di necessità virtù. Esposto sotto questo aspetto il caso, fece ripetere la votazione, nella quale ì membri del Capitolo risposero tutti in senso affermativo.

Don Bosco, presa una deliberazione, metteva in pratica il quod vis lacere, lac cito. Il voto del Capitolo fu dato in marzo; nel mese seguente l'accettazione era già un fatto compiuto. Le modalità del trapasso protrassero le discussioni fino a tutto giugno; ma Don Bosco vi pose termine, passando sopra a non lievi sacrifici pecuniari. In luglio i giornali pubblicavano un suo programma, fatto già pervenire nelle mani di quanti potevano avervi interesse. L'Arcivescovo vi aveva aggiunto in fondo una calda raccomandazione, esprimendo la certezza che la tanto desiderata educazione cristiana dei giovani sarebbe stata perfetta sotto la direzione di Don Bosco.

Il nostro Santo vi nominò Direttore Don Francesco Dalmazzo, Dottore in lettere. Questi possedeva pure tutte quelle doti esteriori, che utilmente adornano un superiore in ambienti di tal natura. Venuto all'Oratorio da una distinta famiglia di Cavour, era orfano di padre e faceva già la quinta ginnasiale. Non si sarebbe potuto adattare a quella vita per lui troppo disagiata, se non fosse stato l'affetto che lo avvinse a Don Bosco, massime dal giorno in cui assistette alla famosa moltiplicazione dei pani: vide allora con i propri occhi come da un gran cesto contenente appena una ventina di pagnottelle ne fossero uscite per le mani di Don Bosco circa quattrocento senza che apparisse diminuita la. quantità di prima (i).

Per due anni stentò a ripopolare il collegio, non riuscendo a riunirvi più di venti giovani, benchè vi fossero i tre corsi elementare, ginnasiale e liceale. Ne impedirono la pronta risurrezione anche le maldicenze, che presero di mira Don Bosco e i suoi figli, quasi che per quello sapesse d'intollerabile presunzione l'occuparsi dí nobili, e questi non avessero attitudine a tale ufficio. Nonostante le passività, aggravate da settemila lire anime di fitto che doveva sborsare ai Fratelli, egli lasciò cantare, confidando nell'abilità del Direttore. Questi realmente si destreggiò cosi bene da portare gli alunni al centinaio. Era il massimo numero che si potesse desiderare. Il Santo alcuni anni dopo aperse trattative per la compera dello stabile, sborsando. la somma di centoventimila lire.
(i) Mem. Biogr., vol. VII, pag. 776.

Nel triennio di cui trattiamo, Don Bosco aveva sulle spalle l'erezione di due chiese in Torino, una a Ovest e l'altra a Est della stazione di Porta Nuova, la prima impostagli dalle circostanze e l'altra addossatasi da se. Di quella dirò subito tutto, di questa per ora solamente un po'.

La popolazione addensantesi di anno in anno nel borgo detto oggi di S. Secondo bramava la sua chiesa. Un comitato promotore costituitosi nel 1867 s'intese col Municipio, dal quale ottenne alcune agevolezze. La chiesa doveva essere dedicata a S. Secondo, Martire della legione tebea, del quale si venera il corpo nel duomo di Torino. C'era già il disegno, c'era il permesso edilizio, c'era anche il terreno donato dal Municipio, c'era infine la promessa d'un sussidio municipale di trentamila lire da erogarsi in tre rate, a cominciare da quando il sacro edificio toccasse il tetto; ma tutto questo, com'è evidente, non bastava per mettere mano ai lavori. Ci voleva un uomo che raccogliesse denari e stesse a capo dell'impresa. Finalmente nel 1871 non si vide altra via di uscita che raccomandarsi a Don Bosco. S'interposero personalità altolocate; Io stesso Vicario Capitolare Zappata gliene fece un obbligo di coscienza, chiamandolo in colpa se per causa sua tante anime non avessero modo di compiere i loro doveri religiosi. Don Bosco piegò la testa. Le pratiche burocratiche portarono via dell'altro tempo, sicchè l'autorizzazione a cominciare venne solo il 6 maggio 1872. Egli vi si accinse tosto con la massima alacrità, proponendosi di finire in tre anni.

Ma fece i suoi conti senza l'oste. Si lavorava da due mesi ed eransi già spese ventisettemila lire, quand'ecco giungere dal Sindaco l'intimazione di soprassedere. Che era avvenuto? Don. Bosco, oltrechè ai bisogni spirituali degli adulti, mirava anche a quelli della gioventù, per la quale voleva un oratorio festivo con cortile e scuole; quindi nel far eseguire il disegno approvato aveva spostato l'ubicazione della chiesa, innalzandola sul fianco anzichè nel mezzo del terreno assegnato, e questo allo scopo di procurarsi lo spazio necessario per le suddette costruzioni accessorie. Ma il Municipio, accampando considerazioni di estetica, esigeva che il tempio sorgesse nel centro senz'appendice di altro fabbricato qualsiasi. Don Bosco obbedì quanto alla sospensione dei lavori; ma non si stancò di correre e di ricorrere per sostenere le sue ragioni, spalleggiato dall'autorità di persone ragguardevoli. La questione stava per essere risolta in senso a lui favorevole, allorchè intese che il nuovo Arcivescovo erari offerto dì fabbricare egli stesso la chiesa secondo le vedute del Municipio. La sospensione durava già da due anni senza che nè Don Bosco fosse invitato a ritirarsi nè il Municipio avesse rivocato la concessione a lui fatta di fabbricare; tuttavia unicamente in ossequio al suo Superiore ecclesiastico non mosse lagnanza. L'Arcivescovo in una lettera pastorale del 21 novembre 1874 annunciò la ripresa, sperando di giungere al termine entro il 1875. S'andò invece fino al x882. Allora il nostro Santo diede un altro nobile esempio di disinteresse e di sommissione, disponendo che nella solenne consacrazione vi andassero dall'Oratorio la Schola cantorum e la banda strumentale.

L'altra chiesa costò a Don Bosco sacrifici, noie e pene senza fine; ma almeno la condusse a compimento. La eresse là dove dal 1847 manteneva l'oratorio festivo di S. Luigi, creato per paralizzare la propaganda dei Valdesi, che in quel nuovo e sontuoso quartiere minacciavano di piantare la roccaforte della loro setta. Vi avevano già eretto anche un vistoso tempio, mentre per una larghezza di circa tre chilometri migliaia di fedeli non trovavano una chiesa. Don Bosco stabilì di darla loro, dedicandola a S. Giovanni Evangelista per onorare Pio IX, che al fonte battesimale aveva ricevuto quel nome. « E opera ardita, in questi tempi, scrisse egli (i), ma è dì assoluta necessità e perciò spero che la carità dei buoni cattolici e la speciale assistenza di Dio non verranno meno ».
(i) Lettera al Comm. Dupraz, suo benefattore, 7 febbraio 1871.

Cominciò dunque a raccogliere i fondi nel 1870 per comprare vari pezzi di terreno sul luogo designato. Un tempo enorme andò perduto per un lembo di suolo, che era indispensabile, ma che il proprietario, un protestante fanatico, si ostinava a non cedere per qualsiasi prezzo. Tentate invano tutte le altre vie, Don Bosco invocò un decreto di esproprio per ragione di utilità pubblica; ma quante sbarre fra le ruote da parte di coloro che sotto sotto facevano gli interessi degli eretici! L'insidiosa lotta si protrasse oltre ogni credere; ma tutte le male arti s'infransero da ultimo contro la tenacia invitta dell'Uomo di Dio. Ne riparleremo a tempo e luogo.

Ora torniamo alla Casa Madre. Il 1873 segna un cambiamento importante nel suo regime interno. Scadendo di carica i quattro membri elettivi del Capitolo Superiore, cioè l'Economo e i tre Consiglieri, Don Bosco, convocati gli elettori il 12 gennaio, fece procedere all'elezione. Furono rieletti Don Savio, Don Provera, Don Durando e Don Ghivarello. Dopo annunciò l'innovazione. Fino allora il Capitolo Superiore era stato anche il Capitolo dell'Oratorio, nè veniva in testa ad alcuno che potesse mai essere diversamente; ma col prossimo anno scolastico l'Oratorio avrebbe avuto il suo Capitolo particolare, come tutte le altre case. Il Santo commentò così il provvedimento: « Questo ci suggerisce il numero ognor crescente dei Confratelli; nel che io vedo manifesta la protezione del cielo, prima col suggerire a molti l'idea di entrarvi, abbandonando parenti e ricchezze e speranze di onori e cariche lucrose e piene di gloria. Il Signore ci protegge poi ancora, facendo sì che coloro, i quali odiano e perseguitano le altre Società religiose, quei medesimi c'incoraggino coll'opera e ci procaccino anche mezzi ed armi, per dir così, contro di loro stessi (i) ». Poscia nella Conferenza generale di 8. Francesco spiegò quali sarebbero state in seguito le funzioni del Capitolo Superiore, cioè non più aver parte nella direzione di case particolari, ma occuparsi delle case in generale.

(i) Mem. Riogr.. vol. X, pag. 1062.

Tuttavia, come dicevo in principio, continuarono a portare Don Bosco il titolo di Direttore e Don Rua di Vicedirettore dell'Oratorio; ma dal 1875-76 sottentrò come Vicedirettore Don I,azzero fino al 1879-8o, quando il Santo prese a chiamarsi Rettore e Don Lazzero Direttore.

Per settembre venne indetta una seconda Conferenza generate dei Direttori e dei Prefetti. I Direttori discussero su certe Regole allo scopo di chiarirne bene il valore e la portata, fissando poi le loro conclusioni in una serie di note spiegatine divise in cinque articoli: Regole generali, amministrative, economiche, morali e scolastiche. I Prefetti alla loro volta in quattro sedute sviscerarono minutamente i doveri del proprio ufficio circa la cura del personale di servizio, le spese di ordinaria amministrazione, la disciplina dei giovani e particolarità diverse., (r). In un'adunanza comune finalmente furono richiamate alcune direttive sul preventivo esame degli scritti che i Confratelli volessero dare alle stampe, sulle relazioni dei Soci con gli esterni, sul non obbligare i Direttori a fare parti odiose, sul riserbare ad essi le informazioni ai parenti degli allievi e sulla pratica della povertà religiosa. Di queste ultime norme, che furono messe a verbale, Don Bosco volle poi che si mandasse copia autentica a tinti i Direttori e Prefetti, scrivendovi sotto la raccomandazione 'che si adoperassero a curarne l'osservanza.

Si comprende come tali convegni servissero mirabilmente a stringere i vincoli di unione fra i Soci e fra le case, non che a promuovere sempre più la regolarità della vita religiosa: due cose nelle quali conveniva allora accelerare il moto, perchè a Roma era allo studio l'approvazione delle Costituzioni.

(t) Mem. Biogr., vol. X, pag. 1112-22.

CAPO XVI Domanda di approvazione delle Regole.

Le Congregazioni religiose possono essere di diritto diocesano o di diritto pontificio. Le prime stanno soggette alla giurisdizione dei singoli Vescovi, nelle cui diocesi tengono case; le seconde dipendono direttamente dalla Santa Sede. Il decreto di lode reso dalla Santa Sede a una Congregazione basta perchè questa diventi di diritto pontificio; il decreto poi di approvazione dell'Istituto lodato ne rafforza vie più il vincolo della dipendenza da Roma:limitando maggiormente l'ingerenza vescovile sopra di esso. La Società Salesiana conseguì la lode nel 1864 e l'approvazione nel 1869. Ora l'approvazione di una Congregazione non importa senz'altro l'approvazione delle Regole o Costituzioni in specie, ma solo in genere, cioè quanto allo spirito. Occorre pertanto una terza serie di pratiche per ottenere che le Costituzioni siano a Roma partitamente esaminate, eventualmente modificate e da ultimo ufficialmente sancite. Questo atto costituisce il riconoscimento definitivo di un Istituto religioso. Don Bosco se ne cominciò a occupare nel 1872.

Ammaestrato dall'esperienza, egli sapeva quanto gli sarebbe per riuscire utile a tal fine il favore dell'Arcivescovo; perciò gioì quando seppe da Roma che a successore di Mons, Riccardi era stato scelto Mons. Gastaldí, Vescovo di Saluzzo, suo insigne benefattore. Dopo che il novello Pastore prese possesso dell'archicliocesi, Io interrogò se giudicasse potersi dare principio alle pratiche per arrivare alla definitiva approvazione della Società. Monsignore rispose di sì; anzi gli promise il suo appoggio.

Allora l'Uomo di Dio, prima d'ingolfarsi nell'affare, fece un passo più in alto, procurando d'informarsi se il Santo Padre avrebbe veduto bene la presentazione di una tale domanda. Si rivolse per questo al Card. Berardi, che dopo la prodigiosa guarigione del nipote, gli portava un affetto vivissimo e ci teneva a essere suo protettore. Il Cardinale ne interpellò in modo confidenziale Sua Santità, che accolse con benevolenza il divisamento; anzi il Santo Padre stesso suggerì di mettere in corso regolare la relativa supplica (i).

Dopo questi preliminari Don Bosco .si accinse a redigere il testo definitivo delle Costituzioni. Presa  per base la redazione latina stampata nel r867 (2), v'introdusse due specie di modificazioni. Le une finivano di conformarne il contenuto alle tredici osservazioni del 1864 (3). Egli aveva bene replicato su alcuni punti; ma la risposta fu di conformarvisi a pieno. Altre modificazioni rappresentavano il frutto dell'esperienza di quegli ultimi anni.

(1) Lottera del Cardinale a Don Bosco, 27 agosto 1872.
(2) Mem. Biogr., vol. VIII, pgg. .1058 e seg.
(3) Cfr. sopra, pgg. 65 e 67.

Mentre attendeva a questo paziente lavoro, spuntarono le prime difficoltà. Nel corso di una corrispondenza sulla questione delle ordinazioni. l'Arcivescovo dichiarò esplicitamente di non poter promuovere l'approvazione pontificia delle Costituzioni finché non esistesse un buon noviziato. Don Bosco per tutta risposta gli ripetè tre cose da lui già esposte a Pio IX. Primo, sulla qualità .dei soggetti atti a entrare nella Società Salesiana: « Io non intendo di fondare un Ordine religioso, dove si possono accogliere penitenti o convertiti che abbiano bisogno di essere formati al buon costume ed alla pietà; ma la mia intenzione si è di raccogliere giovanetti ed anche adulti di moralità assicurata, moralità provata per più anni, prima di essere accolti nella nostra Congregazione ». Secondo, sulla selezione e preparazione remota dei candidati: « Noi ci limitiamo a giovani educati, istruiti nelle nostre case: giovani già scelti ordinariamente da parroci, che, vedendoli risplendere nella virtù fra la mazza e la zappa, li raccomandano alle nostre case. Due terzi di questi inviati sono restituiti alle loro case. I ritenuti sono per quattro, cinque od anche sette anni esercitati nello studio e nella pietà, e di questi, pochi soltanto sono ammessi alla prova, anche dopo questo lungo tirocinio ». Terzo, sulla preparazione prossima dei prescelti: «Ammessi così alla prova, devono fare due anni qui in Torino, dove hanno ogni giorno lettura spirituale, meditazione, visita al Sacramento, esame di coscienza, ed ogni sera un breve sermoncino fatto da me, raramente da altri, e ciò a tutti in comune per gli aspiranti. Due volte per settimana si fa una conferenza espressamente per gli aspiranti, una volta per tutti quelli della Società». Allorchè Don Bosco aveva chiarito così a Pio De lo stato delle cose, il Papa aveva approvato il metodo, benedetto Io sforzo, promesso il suo aiuto e fatto stendere il decreto di approvazione della Società (i).

(i) Lettera all'Arcivescovo, 23 novembre 1872.

L'argomento del noviziato avrà poi offerto un tema dí discussione in alcuno dei colloqui che Don Bosco ebbe dopo con Monsignore intorno alle Regole, delle quali per Natale furono pronte le bozze. Vi precedeva una Brevis Notitia su le origini e lo stato della Società; seguivano poi vari documenti. Don Bosco avrebbe desiderato dí stampare in capo a questi documenti una Commendatizia dell'Arcivescovo; ma l'Arcivescovo non lo credette opportuno. Tuttavia consenti che alla fine della Notitia si ponesse una dichiarazione, che tradotta suona così: «Finalmente il benevolo nostro Arcivescovo di Torino, volendo aggiungere un nuovo segno di benevolenza ai molti e grandi già dati per l'innanzi, commendò altamente la Società Salesiana ed arricchì dei diritti parrocchiali la Casa Madre e l'annessa chiesa di Maria Ausiliatrice, confermando pure ed ampliando con decreto del 25 dicembre 1872 i privilegi concessi da' suoi predecessori ».

Le Regole gli erano già interamente note; tuttavia Don Bosco gl'inviò per delicatezza una copia delle bozze, nel restituire le quali Monsignore non nascose che egli avrebbe considerato sempre la Società Salesiana come soggetta all'autorità dell'Ordinario. Per ben comprendere il suo atteggiamento bisogna tener presente che Mons. Gastaldi aveva ereditato, per dir cosi, da Mons. Riccardi l'idea che la Congregazione dovesse restare opera diocesana. Ispirata più o meno a questo principio fu una specie di circolare da lui spedita ai Vescovi del Piemonte e agli altri che avevano istituti salesiani nelle loro diocesi, cioè a quelli di Genova, Savona e Albenga. In essa raccomandava loro quattro condizioni da porre nelle loro Commendatizie, qualora ne venissero richiesti: 10 Che nessun membro della Congregazione potesse essere promosso agli ordini sacri prima d'aver emesso i voti perpetui; 20 che le Regole del noviziato fossero tali da fare dei religiosi radicati nella virtù; 30 che nessuno degli ordinandi pretendesse di aver diritto a essere ordinato senza previo esame del Vescovo o de' suoi delegati; 40 che il Vescovo avesse diritto di visitare le chiese e gli oratori della Congregazione e d'indagare se tutto vi fosse secondo le leggi ecclesiastiche e se vi si adempiessero i legati pii.

Don Bosco, avuta nelle mani copia di questo documento, temette due cose: che nuove Commendatizie disfacessero il già fatto con le ventiquattro del 1868 e che Monsignore, essendo andato in quei giorni a Roma, dicesse verbalmente assai più ín senso contrario. Ciò posto, non sarebbe stato meglio per allora differire la presentazione della domanda? Male non ne poteva derivare, essendo la Congregazione approvata e potendo per dieci anni il Superiore dare le dimissorie. Pregò dunque Mons. Manacorda di sentire come la pensasse il Card. Berardi. Gli si rispose di andare avanti. Tuttavia per abbondare in prudenza sospese la stampa delle Costituzioni fino al ritorno dell'Arcivescovo, senza omettere però dí scrivere a parecchi Vescovi certamente favorevoli, che gli favorissero le loro Commendatizie da presentare alla Santa Sede insieme con l'istanza.

Quando l'Arcivescovo ritornò, egli era sulle mosse per partire alla volta di Roma. Andato a riverirlo e a offrirgli i suoi servigi nella città eterna, l'Arcivescovo, accoltolo cortesemente, gli porse una copia della sua Commendatizia, il cui originale era già stato da lui direttamente presentato alla Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari. L'introduzione ripeteva gli elogi espressi nella Commendatizia del r868 (i) con l'aggiunta di un cenno sui posteriori progressi della Congregazione; seguivano quindi le quattro condizioni formulate nella circolare ai Vescovi, più altre due, che cioè il Fondatore presentasse le Regole definitive e che alla Società venisse concesso quel tanto solamente di esenzione dalla giurisdizione vescovile che fosse necessario e sufficiente alla sua esistenza, rimanendo per tutto il resto in pieno vigore i diritti spettanti agli Ordinari diocesani. Questo punto colpi talmente Don Bosco, che gli, fece rinascere il pensiero di rimandare a tempo più opportuno l'inizio della pratica. Tuttavia si riserbò di deliberare, quando fosse a Roma.

(i) Cfr. sopra, pag. 315.

Parti il 18 febbraio 1873. Apprese, colà giunto, che ve l'aveva preceduto una lettera di Monsignore al Card. Caterini, Prefetto della Congregazione del Concilio. Il segretario particolare Don Berto che accompagnava il Santo, ci rese possibile conoscerne il tenore. La lettera cominciava così: « Il molto Rev. Don Giovanni Bosco da Castelnuovo, mio diocesano, fondatore di una Congregazione di ecclesiastici, la quale ottenne già un'approvazione provvisoria dalla S. Sede, mi domandò una Commendatizia che appoggiasse la domanda che intendeva presentare al Sommo Pontefice, acciò la sua Congregazione ottenesse un'approvazione definitiva. Io accondiscesi al desiderio espressomi e gli diedi la Commendatizia, di cui quindi unisco una copia originale, cioè da me sottoscritta: esponendo infine le cose che io giudico essere necessarie pel buon esito della Congregazione e la tranquillità a mantenersi col clero delle Diocesi, ove questa Congregazione sarà per estendersi. Queste condizioni non piacquero al fondatore della Congregazione, epperciò esso mi disse che per ora lascia le cose come sono, e non presenterà la sua domanda. Siccome a Roma si conosceva la intenzione del detto fondatore ed ora mutandosi questa, se ne cercherà probabilmente il perchè, per questo comunico a V. E. la detta Commendatizia, affinchè Ella esamini e proferisca il suo giudizio. » Ribadiva poi il suo pensiero sulla necessità di un noviziato in regola e sulle esigenze per le ordinazioni dei Soci, aggiungendo un'osservazione sulle manchevolezze negli studi che si facevano dagli aspiranti al sacerdozio.

I molti incoraggiamenti a proseguire nelle pratiche vinsero l'esitanza del Santo; lo stesso Mons. Vitelleschi, nuovo Segretario della Congregazione dei Vescovi e Regolari, lo aiutò a formulare la supplica da umiliarsi al Papa. Questa fu datata da Torino, benchè Don Bosco fosse ancora a Roma. Eccone la traduzione.

Beatissimo Padre,
La Società Salesiana, da Voi, Beatissimo Padre, con l'opera e il consiglio fondata, diretta e consolidata, implora dalla Vostra benignità nuovi favori. L'esistenza e la pratica quasi trentennali delle sue Costituzioni, le difficoltà e i gravi pericoli superati e il suo meraviglioso incremento sono altrettante prove che ci fanno vedere il dito di Dio, come affermano anche i Vescovi nelle loro Commendatizie.

Or dunque a compimento dell'opera due cose soprattutto mancano ancora: l'approvazione definitiva delle Costituzioni e la facoltà generale di rilasciare le dimissorie. Ecco i due favori che con le più umili e calde preghiere imploro.

E affinchè si scorga a colpo d'occhio lo stato della Congregazione si uniscono qui i seguenti allegati:
1° Una breve notizia o raccolta di documenti relativi a questa Congregazione.

20 Varie copie delle Costituzioni nell'ultima edizione.

3° Alcune dichiarazioni su piccole varianti, dall'esperienza mostrate utili allo sviluppo e al consolidamento della Congregazione.

Degnisi la bontà e benignità Vostra aggiungervi tutto quello che vi manca.

Mentre poniamo fiduciosi questo nostro grande affare nelle mani del Signore, tutti i Soci della Congregazione, che tutti si gloriano di essere Vostri figli, preghiamo di gran cuore Iddio,.che voglia compiere egli stesso e a Voi suggerire quanto è meglio agli occhi suoi.

Intanto, prostrato ai piedi della Santità Vostra, io più fortunato di tutti mi sottoscrivo supplicando,
Torino, 10 marzo 1873.               Umilissimo figlio
Sac. GLOVANNI Bosco Superiore Generale.
Le nuove Commendatizie da lui chieste a un certo numero di Vescovi, e che si dovevano unire alle ventiquattro dell'altra volta, lo raggiunsero a Roma. Erano tutte favorevoli; soltanto l'Arcivescovo di Genova teneva conto in parte delle osservazioni di Mons. Gastaldi, non senza però rilevare il bene che faceva l'ospizio di Sampierdarena. Quella di Mons. De Gaudenzi, Vescovo di Vigevano, era un inno alla santità di Don Bosco e alla grandezza delle sue Opere; e fin dagli esordi delle sue sante imprese » egli aveva in quello « ammirato un uomo suscitato dal Signore a gloria del cattolico sacerdozio, a bene dell'umanità ». Ma superò tutte le altre la Commendatizia di Mons. Manacorda, con-. sacrato Vescovo di Fossano. Nel perorare la causa di Don Bosco egli fece un'eloquente apologia dell'Uomo e della sua istituzione. Una parola speciale dedicò al noviziato. «Noviziato, diceva, meno palese degli altri, ma vero noviziato, qual sì conviene ed esige il bene dell'Istituto e delle anime. Poichè non vi è chi non vegga che il farlo apertamente, e quasi con pompa esteriore, sotto gli occhi dei distruggitori degli Ordini monastici, non sarebbe possibile senza metterne in pericolo l'esistenza. Per questo, noi, pazientemente, quanto ancora di più perfetto si desidererebbe, lo rimettiamo nelle mani di Dio, il quale, ridonata la pace alla Chiesa, fornirà tutti quei mezzi che son necessari alla totale perfezione dell'Opera sua ».

Il Papa, ailorchè Mons. Vitelleschi gli presentò le Commendatizie e gl'indicò i nomi dei Vescovi che le avevano scritte, volle che gli leggesse quella di' Mons. Manacorda. Seguita con attenzione la lettura, alla fine gli disse: — Dunque accontentatemi Don Bosco.