COME RILEGGERE OGGI
IL CARISMA DEL FONDATORE
ACS 352
Roma, 8 febbraio 1995
Introduzione. - Un’esperienza vissuta. - Due convinzioni di base.
- I cammini da seguire. - La rielaborazione delle Costituzioni. - Lo spirito
del Fondatore. - Dalla «missione» alla riscoperta del «carisma». - La durata
e gli attori della rilettura. - Punti nevralgici nel processo di discernimento.
- Urgenza di concretezza metodologica. - Animazione e governo. - Una visita
dello Spirito del Signore. - Abbiamo una «carta d’identità» valida e aggiornata.
Lettera
pubblicata in ACG n. 352
Introduzione – a Valdocco –
della Causa
di beatificazione e canonizzazione
di Mamma Margherita
Cari confratelli,
oggi finalmente è iniziato
a Torino nella basilica di Maria Ausiliatrice, in forma solenne, il processo
ufficiale di beatificazione e canonizzazione di Mamma Margherita; proprio
lì a Valdocco dove ella ha testimoniato — si può dire eroicamente per ben
dieci anni — la sua generosa collaborazione con il figlio Giovanni per dar
vita al provvidenziale carisma salesiano dell’Opera degli oratori. Lo sa il
nostro Padre e Fondatore quanto ciò sia costato alla mamma e quanto ella stessa
abbia apportato alla riuscita, allo stile, all’ambiente di famiglia, allo
spirito di bontà e sacrificio, che caratterizzano ancora oggi tutta l’istituzione
salesiana di Don Bosco. Ringraziamo il Signore e preghiamo perché la causa
possa procedere positivamente e con rapidità.
Ebbene, in occasione
di una data tanto significativa vi offro la riflessione su un argomento che
mi è stato richiesto per il 20º Convegno dell’Istituto di Teologia della Vita
Religiosa «Claretianum» qui a Roma il 16 dicembre 1994. Mi assegnarono il
delicato e importante tema La rilettura fondazionale fatta dai Salesiani.
Lo svolgimento non è stato pensato direttamente per noi, ma in un certo senso
ci può risultare più utile pensarlo insieme agli altri consacrati.
Nel presentare a voi
i contenuti di questa mia conversazione, intendo invitarvi a fare una attenta
considerazione di sintesi storico-carismatica che serva a illuminare salesianamente
i cammini di rinnovamento che stiamo percorrendo dopo il Concilio Vaticano
II.
Un’esperienza vissuta
L’ottica di questa
mia relazione è sostanzialmente quella di una specie di cronistoria ripensata.
Il tema del «come rileggere oggi» il carisma viene sviluppato con una ottica
«di fatto», non tanto per indicare il «come» si debba fare, quanto piuttosto
per indicare ciò che il nostro Istituto ha fatto. È un’esperienza che io ho
vissuto personalmente dal Concilio Vaticano II fino ad oggi.
L’esperienza vissuta
non è una tesi da difendere, ma una realtà di vita — confortata da decenni
di sperimentazione — che può anche offrire dei suggerimenti (in parte collaudati)
per saper rileggere sempre meglio le proprie origini spirituali.
Due convinzioni di base
La rilettura del carisma
del nostro Fondatore ci tiene impegnati ormai da ben trent’anni. Due grandi
fari di luce ci hanno aiutato in questo impegno: il primo è il Concilio
Ecumenico Vaticano II, il secondo è il cambio epocale di quest’ora
di accelerazione della storia.
Siamo partiti dalla
convinzione che il Concilio è stato una visita storica dello Spirito
Santo alla Chiesa di Cristo per una nuova ora della sua missione nel mondo:
il più grande evento pastorale del secolo XX in vista di un autentico rinnovamento.
In esso c’erano da attingere luci e orientamenti anche per il rinnovamento
della vita religiosa. Si trattava di centrarsi sui punti strategici del grande
messaggio conciliare, approfondirli, assumerli e applicarli alla rilettura
del nostro carisma.
In particolare, alla
luce di quanto detto nella Lumen gentium, si è cercato di applicare
ciò che chiedeva il decreto Perfectae caritatis al n. 2: l’«accommodata
renovatio» con le sue due componenti, il «ritorno alle fonti» e l’«adattamento
alle mutate condizioni dei tempi».
La complementarità
dei due criteri doveva evitare la minaccia di fissismo, di sclerosi e di formalismo,
e allo stesso tempo evitare la rottura con le origini.
L’applicazione di questi
due criteri, semplici e chiari nell’enunciato, si è però dimostrata abbastanza
complessa nella prassi.
Il cambio epocale,
già descritto con acuta percezione prospettica nella Costituzione conciliare
Gaudium et spes, si era presentato con vigore soprattutto in alcune
zone occidentali dove opera con numerose presenze il nostro Istituto. Si affrontava
una crescente problematica di novità culturali che influivano fortemente sulla
missione specifica dell’Istituto e anche, almeno in parte, sullo stile di
vita religiosa. D’altra parte si notavano già delle spinte in avanti di dubbia
autenticità che potevano far deviare o svuotare un sano processo di rinnovamento.
La novità culturale
non poteva essere esclusa e disconosciuta, ma si doveva confrontare con la
novità evangelica inerente a un vero carisma. E questo apriva un orizzonte
di lavoro assai vasto e delicato. Fu allora che si formulò la famosa espressione:
«Con Don Bosco e con i tempi, e non con i tempi di Don Bosco!».
L’aver avuto chiara
coscienza di questa ineludibile sfida spinse i responsabili dell’Istituto
a dare straordinaria importanza al Capitolo Generale Speciale voluto dalla
Sede Apostolica. Ci si è impegnati a prepararlo con una serietà veramente
inedita attraverso la partecipazione di tutte le Province e di tutti i confratelli.
Si organizzarono delle équipes di specialisti per una analisi assai dettagliata
dei temi vitali da affrontare e si predispose anche un abbozzo di rielaborazione
delle stesse Costituzioni. Furono redatti con cura un insieme di ben 20 volumetti
ad uso dei capitolari. Si pensava a una grave responsabilità quasi di «rifondazione»:
ciò che Don Bosco aveva fatto «personalmente» avrebbe dovuto essere ripensato
e rielaborato, in un certo senso, «comunitariamente», in rapporto alle esigenze
del cambio epocale e in piena fedeltà alle origini.
Ha aiutato molto, insieme
agli studi storici, un’analisi seria, anche se sintetica, delle interpellanze
dei cambiamenti culturali (la secolarizzazione, la socializzazione, la personalizzazione,
la liberazione, l’inculturazione, l’accelerazione della storia, la promozione
della donna, ecc.).
Mai si era fatto un
lavoro così vasto e realista.
I cammini da seguire
La rilettura fondazionale
non poteva essere semplicemente uno studio, più o meno scientifico, delle
fonti, ma un discernimento spirituale fatto da discepoli impegnati dal di
dentro nella stessa esperienza vocazionale.
È la considerazione
di chi sa cogliere l’anima del proprio Istituto, la sua intenzionalità, i
suoi dinamismi, il suo modo di seguire Cristo e di lavorare nella Chiesa,
e di amare i giovani nel mondo così come sono. Il ritorno alle fonti non doveva
essere una passeggiata archeologica attraverso documenti antichi, ma la rivisitazione
dei momenti di fondazione e del cuore del Fondatore, nella sua esperienza
originale di discepolo del Signore. Doveva essere una rilettura organica e
dinamica che implicasse autocoscienza di comunione con il Fondatore, mediante
l’esperienza collettiva di tutto un Istituto che attraverso il tempo ne ha
condiviso lo spirito e la missione. Bisognava saper armonizzare, con un dosaggio
appropriato, sia il momento storico, sia quello teologale, sia quello cairologico.
Per incamminarsi verso
una tale rilettura è stato necessario percorrere cammini complementari e interdipendenti,
cercando in ognuno di essi uno specifico apporto. I principali cammini seguiti
sono stati:
a. Il cammino storico: il carisma è un’esperienza vissuta e non
una teoria astratta. Si è fatto, perciò, uno studio serio delle fonti che
si riferiscono alla persona del Fondatore e alla fondazione stessa: il contesto
culturale e sociale e il suo influsso sul Fondatore; la sua vita e le sue
opere; le persone che hanno influito su di lui e con cui ebbe speciali contatti;
gli scritti, ecc.
b. Il cammino esperienziale: nella rilettura fondazionale acquista
rilievo e concretezza l’esperienza vissuta dalla vasta comunità dei discepoli,
i valori che questi hanno incarnato a partire dalla consapevolezza e dalla
responsabilità della stessa vocazione. Il cammino di fedeltà costituisce una
specie di «sensus fidelium» congregazionale. Se viene a mancare l’esperienza
perseverante e fedele dei seguaci del Fondatore, si rischia
— di essere soggetti a mutazioni continue dell’identità, cercando
una modernizzazione forzata del carisma secondo la moda del tempo, confondendo
ciò che è caduco con ciò che è essenziale;
— di spiazzare il Fondatore con il pretesto che i suoi scopi
e fini non sono più attuali.
c. Il cammino dei segni dei tempi: il cammino «storico» e quello
«esperienziale» permettono di avvicinarsi con maggior sensibilità e tranquillità
anche all’apporto dei segni dei tempi. Come ho già detto, ignorarli sarebbe
condannare il carisma a rimanere rinchiuso — contro natura — in un museo.
Se da una parte i segni dei tempi esigono approfondimenti e adattamenti da
parte dell’Istituto, dall’altra permettono una comprensione nuova e di vera
attualità del dono dello Spirito. Aiutano a percepire fino a quali orizzonti
il Signore spinge la sua Chiesa e i suoi carismi.
d. Il cammino spirituale: è un cammino che non esclude nessuno
degli anteriori, ma che li unifica e li incorpora a partire da un atteggiamento
e un’ottica fondamentali: il discernimento della volontà del Signore, l’obbedienza
alle sue chiamate lungo il divenire della storia. Solo persone «spirituali»,
che coltivano cioè una speciale docilità allo Spirito, possono percorrere
questo cammino. Esso permette di oltrepassare il contesto socioculturale vissuto
dal Fondatore, per far emergere nell’oggi le sue intenzioni evangeliche con
le sue intuizioni fondanti, in modo tale da poterle realizzare nel contesto
attuale e nei nuovi tempi, e trasformarle in «cultura» di attualità.
La rielaborazione delle Costituzioni
Nella nostra rilettura
fondazionale ha svolto un ruolo importante di concretezza e di guida dei lavori
l’impegno di rielaborare a fondo il testo costituzionale. Al principio ci
furono delle resistenze per vari motivi; ed anche in seguito, a lavoro già
avviato, qualcuno pensava che bastasse ritoccare qua e là le Costituzioni
anteriori. È risultata una decisione molto saggia l’audacia di imbarcarsi
a ripensare e rielaborare tutto in fedeltà.
Evidentemente il delicato
lavoro è stato impostato secondo i nuovi orientamenti conciliari.1
Si doveva lavorare per arrivare a un «Codice fondamentale» in cui descrivere
autenticamente l’identità, i valori evangelici, l’indole propria, la dimensione
ecclesiale, le sane tradizioni, e anche le indispensabili norme giuridiche
necessarie per assicurare il carattere, i fini e i mezzi dell’Istituto.
A differenza della
normativa anteriore, l’Ecclesiae Sanctae ha voluto che le Costituzioni
rinnovate divenissero ricche di principi evangelici, teologici ed ecclesiali;
non però come un aggregato artificiale introdotto dall’esterno e ad un livello
teorico, ma piuttosto come percezioni ed esplicitazioni emananti dal vissuto
stesso del Fondatore e dall’interno del suo progetto di vita. Esse dovevano
contenere la sintesi integrale di un progetto originale di vita consacrata,
indicando i principi sostanziali con cui il Fondatore vuole che i suoi siano
discepoli di Cristo con un determinato senso ecclesiale.
In esse bisognava raggiungere
un’integrazione armonica tra l’ispirazione evangelica, la criteriologia apostolica
e la concretezza strutturale, mettendo in vista, più in là delle esigenze
istituzionali, l’esperienza storica di Spirito Santo vissuta dal Fondatore
e da lui trasmessa all’Istituto.
Don Bosco, nostro Fondatore,
si era sforzato al massimo di trasfondere la sua propria esperienza nelle
Costituzioni (nei limiti di ciò che si poteva fare allora), per lasciare un
«testamento vivo» che fosse come lo specchio che riflettesse i lineamenti
più caratteristici del suo volto spirituale e apostolico. A ragione egli stesso
aveva potuto affermare che «amare Don Bosco è amare le Costituzioni»; e quando
ne consegnò una copia a don Cagliero in partenza per la Patagonia come capo
della sua prima spedizione missionaria, esclamò con commossa persuasione:
«Ecco Don Bosco che viene con voi».
Giustamente, nella
rielaborazione delle Costituzioni, si è cercato di rimandare il più possibile
alla realtà spirituale del Fondatore, ai suoi scritti più carismatici, alla
sua esperienza collaudata, quale «modello» da cui deriva l’ottica genuina
e la chiave indispensabile di rilettura fondazionale.
Non è stato facile
questo lavoro; è durato oltre un decennio, ma costituisce di fatto la sintesi
più chiara e autorevole della nostra rilettura fondazionale. Il tutto è stato
arricchito da un autorevole commento, articolo per articolo, come valido sussidio
per la retta interpretazione delle Costituzioni. Inoltre si è elaborato un
libro del governo — in due volumi — uno per il Provinciale e un altro
per il Superiore locale — in vista del rinnovamento dell’esercizio dell’autorità.
Si è anche potuto redigere una appropriata Ratio institutionis per
la formazione iniziale e permanente dei confratelli.
Lo spirito del Fondatore
Nella rielaborazione
delle Costituzioni si è dato particolare rilievo alla strutturazione organica
di esse, in una visione globale e unitaria. Un progetto di vita non sopporta
spezzettamenti che nascondano o danneggino la portata di un disegno che è,
in se stesso, vitalmente organico. Ma per poter fare questo era necessario
per noi dilucidare due concetti posti alla base del tutto: quello di «consacrazione»
e quello di «missione» e i loro mutui rapporti. Si può dire che su questo
si scatenò una vera battaglia capitolare; essa non si risolvette tanto facilmente,
come vedremo, ma, alla fine, nella sua soluzione trovammo la chiave dell’organicità.
Intanto, come elemento
a sé stante e basilare (almeno per il lavoro da fare), si volle assicurare
la descrizione dei tratti più significativi del volto spirituale del Fondatore.
All’interno dei grandi valori evangelici comuni a tutti gli Istituti di vita
consacrata bisognava saper individuare lo stile quotidiano, gli atteggiamenti
personali e comunitari, le modalità di convivenza e di lavoro, ossia quel
clima e quell’atmosfera di casa che costituisce la fisionomia propria; certo,
anche in questo bisognava gerarchizzare le componenti perché si trattava di
una rilettura in profondità con un suo centro motore, che non doveva diventare
una teoria logica ma rimanere descrizione tipologica.
Nell’importante 1a
Parte del nuovo testo costituzionale si è collocato un capitolo tutto nuovo
di 12 articoli (dal 10 al 21) che condensano ciò che si è considerata la sostanza
dello «spirito di Don Bosco».
Il Vaticano II — come
abbiamo già detto — aveva invitato i religiosi a concentrare la loro attenzione
sulla figura del Fondatore, come espressione originale della pluriforme santità
e vita evangelica della Chiesa. Ogni Fondatore è nato da Essa ed è vissuto
per Essa.
Paolo VI lo ha ricordato
a tutti: «Il Concilio giustamente insiste sull’obbligo, per i religiosi e
le religiose, di essere fedeli allo spirito dei loro Fondatori, alle
loro intenzioni evangeliche, all’esempio della loro santità, cogliendo in
ciò uno dei principi del rinnovamento in corso ed uno dei criteri più sicuri
di quel che ciascun Istituto deve eventualmente intraprendere. Perché, se
la chiamata di Dio si rinnova e si differenzia secondo le circostanze mutevoli
di luogo e di tempo, essa richiede tuttavia degli orientamenti
costanti».2
Noi abbiamo usato la
terminologia di «spirito», piuttosto che quella di «spiritualità», per rimanere
più fedeli alla storicità e al vissuto del Fondatore come un «kairós» divenuto
modello; la «spiritualità», invece, suole far riferimento a concetti piuttosto
astratti.
Il lavoro realizzato
costituisce oggi certamente uno dei pregi della nostra rilettura fondazionale;
siamo convinti che sarebbe piaciuto a Don Bosco stesso che, parlando con umiltà
del testo costituzionale da lui redatto secondo le normative dell’epoca, diceva
che lo si poteva considerare come una «brutta copia» di ciò che lui stesso
desiderava, ma che essa sarebbe stata tradotta in «bella» dai suoi figli.
Il concentrare l’attenzione
sullo spirito del Fondatore significava privilegiare l’interiorità e gli atteggiamenti
del cuore, avere gli stessi sentimenti con cui lui ha ricopiato quelli di
Cristo.
Questo fa anche capire
il salto di qualità voluto dal Concilio nella concezione delle Costituzioni:
da un testo piuttosto normativo e giuridico, alla sintesi geniale e stimolante
dell’esperienza evangelica di un «capo-scuola» di santità e di apostolato.
Lo spirito del Fondatore
è certamente legato anche alla cultura del tempo, si manifesta in essa ma
la trascende, così da poter costituire un insieme di tratti spirituali incarnabili
in altre culture. Esso appartiene, perciò, alla trascendenza ed alla adattabilità
del carisma. La sua trasmissione, però, non si fa semplicemente con parole,
ma con una continuata tradizione di vita legata di fatto a un lungo e delicato
processo di sana inculturazione.
Dalla «missione» alla riscoperta del «carisma»
Ho già accennato al
dibattito capitolare circa le nozioni fondamentali di «consacrazione» e «missione».
L’approfondimento del mutuo rapporto tra questi due aspetti vitali è stato
al centro della nostra rilettura e ha costituito una base per la sintesi conclusiva.
Il Concilio ben interpretato ci ha condotti a una convergenza convinta e dinamica.
Quando si diede inizio
ai lavori del Capitolo Generale Speciale si era stabilita una commissione,
tra le altre, dedicata specificamente a studiare il «carisma del Fondatore».
Incontrò forti difficoltà e, dopo un certo spazio di tempo, fu disciolta.
Perché?
I motivi di fondo erano
di due specie, fra loro mutuamente in contrasto. Alcuni non volevano lo studio
del carisma perché avrebbe potuto aprire il futuro ad avventure arbitrarie;
altri, invece, non lo volevano perché avrebbe sacralizzato elementi culturali
e transitori del secolo scorso. La somma dei due gruppi ha prevalso numericamente;
non c’era ancora una mentalità sufficientemente illuminata al riguardo.
È utile anche ricordare
che nei documenti del Concilio non si usa mai l’espressione «carisma» del
Fondatore, anche se vengono indicati gli elementi caratteristici dell’indole
propria. Il primo uso ufficiale dell’espressione «carisma» del Fondatore lo
troviamo nell’Esortazione apostolica Evangelica testificatio di Paolo VI del 1971.3 Un chiarimento autorevole più specifico e una
descrizione più definita li ritroviamo poi nel documento Mutuae relationes
del 1978.4
D’altra parte si era
convinti che, in un’ora di rapidi cambiamenti, l’aspetto che più ne sentiva
le interpellanze era quello della «missione». Così, evidentemente, la missione
era al centro delle preoccupazioni di rilettura.
Ma, in che cosa consiste
la «missione»? Era troppo facile dimenticare la sua natura teologica per restringerla
all’ambito operativo delle attività. E così una mentalità di tipo «essenzialista»
affermava il primato ontologico della «consacrazione» che non pochi pensavano
dovesse precedere e guidare tutto il progetto.
Un problema non facile,
alimentato tra i capitolari da concezioni riduttive e improprie sia del concetto
di «consacrazione» che di «missione».
La strada che ci ha
aperto il senso autentico della rilettura del carisma è stata quella di capire
il significato voluto dai Padri conciliari nel famoso verbo «consecratur»
della Lumen gentium n. 44. È stato un lavoro lungo e dibattuto per
arrivare a far cambiare la mentalità circa il concetto di «consacrazione»
religiosa.
Prima la si identificava
con gli aspetti più tipici dell’interiorità (preghiera, voti) e si considerava
come suo soggetto agente il singolo religioso («io mi consacro»). Questo portava
a prescindere dal vero concetto di carisma e a mettere in seconda linea la
«missione» con le sue esigenze, quasi si trattasse solo dell’azione e delle
opere e non fosse teologicamente inerente alla consacrazione stessa. Tutto
ciò influiva evidentemente sul modo stesso di strutturare le Costituzioni.
Ci fu un dibattito assai sofferto per superare questo dualismo tra «consacrazione»
e «missione» che intaccava alla radice l’identità della nostra vocazione apostolica.
È servito molto quanto
afferma il Concilio nel n. 8 del Decreto Perfectae caritatis e, soprattutto,
la considerazione che è Dio l’agente attivo sia della consacrazione che della
missione. Così si è ripensato il significato della professione e se ne è rielaborata
la formula.
In particolare si è
approfondito il nesso teologico inseparabile tra «consacrazione» e «missione»,
dando un senso rinnovato a tutto il progetto dell’indole propria e aprendo
la possibilità di ripensare la struttura costituzionale. Questa visione della
nostra «consacrazione apostolica» è stata sintetizzata in un articolo delle
Costituzioni che dice: «La nostra vita di discepoli del Signore è una grazia
del Padre che ci consacra col dono del suo Spirito e ci invia
ad essere apostoli dei giovani. Con la professione religiosa offriamo
a Dio noi stessi per camminare al seguito di Cristo e lavorare con Lui alla
costruzione del Regno. La missione apostolica, la comunità fraterna e la
pratica dei consigli evangelici sono gli elementi inseparabili della nostra
consacrazione, vissuti in un unico movimento di carità verso Dio e
verso i fratelli. La missione dà a tutta la nostra esistenza il suo tono
concreto, specifica il compito che abbiamo nella Chiesa e determina il
posto che occupiamo tra le famiglie religiose».5
Si tratta, dunque,
di vivere un’esistenza cristiana che è simultaneamente consacrata e apostolica,
anzi che è apostolica perché consacrata. Il dono dello Spirito al professo
comporta in lui una grazia di unità che lo rende capace di una sintesi
vitale tra la pienezza della consacrazione e l’autenticità dell’operosità
apostolica. «Questo tipo di vita — affermò il Capitolo Generale Speciale —
non è qualcosa di fisso e prefabbricato, ma è un progetto in permanente costruzione.
La sua unità non è statica, ma è un’unità in tensione, e nella continua necessità
di equilibrio, di revisione, di conversione e di adattamento».6
E questa grazia di
unità, frutto della carità pastorale, è stata recentemente descritta anche
dal Santo Padre nell’Esortazione apostolica Pastores dabo
vobis.7 E lo stesso Giovanni Paolo II in una allocuzione fatta ai Capitolari
del nostro CG23 il 1