UN MESSAGGIO DI SPERANZA
ACS 353
Roma, 1 Luglio 1995
L’ultima lettera circolare del Rettor Maggiore, don Egidio Viganò,
è rimasta incompiuta. L’aveva pensata e preparata durante il tempo della malattia,
come riflessione - avvalorata dall’esperienza - sul valore della sofferenza
nella vita del salesiano, ma non è riuscito che a stenderne un’ampia introduzione.
Viene pubblicata con la presentazione fatta dal Vicario, don Juan Vecchi,
nel n. 353 degli ACS.
Il 23 giugno c.a.,
il nostro Rettor Maggiore don Egidio Viganò, 7º successore di Don Bosco, è
tornato alla casa del Padre. Si è spento alla Casa Generalizia, assistito
dai fratelli don Angelo e don Francesco, confortato dalla preghiera e dall’affetto
di confratelli e consorelle e circondato dai segni di stima di numerosi amici.
Il Santo Padre gli aveva fatto giungere personalmente per telefono la sua
parola di conforto e la sua benedizione.
Le esequie hanno messo
in evidenza la riconoscenza dei confratelli e membri della Famiglia Salesiana
a don Viganò per il suo instancabile servizio di orientamento e animazione.
Hanno rivelato la stima di cui godeva negli ambienti ecclesiali e civili per
la sua preparazione teologica e la disponibilità alla collaborazione.
Soprattutto hanno messo
in luce la comunione che la Congregazione ha saputo creare nel mondo attraverso
le sue comunità e opere. Sono arrivati da tutto il mondo numerosi fax, telegrammi
e lettere di condoglianze e commenti sulla personalità e l’opera di don Viganò,
firmati da alte personalità e anche da gente semplice.
Ringrazio qui con i
sentimenti più cordiali gli Ispettori, le comunità salesiane e i confratelli
singoli che hanno voluto far giungere la loro partecipazione.
Commemorazioni si sono
svolte anche in vari e numerosi luoghi dove sono presenti i Salesiani, con
la partecipazione di autorità e popolo. Di particolare significato è quella
che ha voluto dedicarle la città di Sondrio, sua terra natale, venerdì 30
giugno. Ad essa presero parte il Vicario del Rettor Maggiore e diversi Consiglieri
generali.
L’eredità che ci lascia,
in continuità con i precedenti Rettori Maggiori e Capitoli Generali, costituisce
un inestimabile tesoro di famiglia. Gli oratori che si sono succeduti ne hanno
sottolineato gli aspetti più rilevanti. Gli amici e la stampa hanno ricordato
il suo contributo alla riflessione pastorale del post-Concilio e le imprese
educative che ha ispirato. È prematuro tentare un bilancio più completo, anche
ai fini di sola meditazione. Lo si farà prossimamente nella lettera mortuaria
già in preparazione. E ci servirà per la relazione sullo Stato della Congregazione
al prossimo Capitolo Generale.
Sembra invece più consono
agli avvenimenti farvi conoscere le ultime pagine scritte da don Egidio. Durante
la malattia spesso manifestava il desiderio di consegnare ai confratelli una
meditazione sulla sofferenza come momento privilegiato della carità pastorale.
Il Venerdì Santo aveva inviato un messaggio in cui diceva: «Cari tutti della Famiglia
Salesiana nel mondo, mi sento specialmente unito a voi in questo sacro giorno
di mistero e di sacrificio. È da settimane che sono in clinica e mai avevo
provato l’esperienza del Venerdì Santo come giorno straordinario del carisma
di Don Bosco. Sommergersi nel mistero dell’amore di Cristo, sopraffatti dalle
sofferenze della carne: non si scopre un momento più proprio per stare con
i giovani, per animare confratelli e consorelle, per intensificare la Famiglia
Salesiana. Ciò che vi posso offrire è assai poco, ma lo offro in questo clima
di venerdì di missione e di passione. Vi ringrazio per le numerose preghiere
e porgo ad ognuno, con affetto fraterno, i più cordiali auguri pasquali. Chiediamo
a don Rua di farci sentire la sua “metà” con Don Bosco. Nel Signore Vincitore».
Si trattava ora
di sviluppare questo messaggio. Avrebbe avuto il tono e il pregio dell’esperienza
personale.
Noi l’abbiamo incoraggiato,
consapevoli del valore di tale riflessione, maturata nelle circostanze che
ci sono note. I giorni di degenza nell’infermeria della UPS, quando sembrava
che si avviasse verso un certo ristabilimento, chiese le annotazioni raccolte
precedentemente. Si proponeva di svilupparle e dare forma definitiva alla
sua lettera-messaggio.
Ma le forze non lo
ressero. Il riapparire dei disturbi, con il conseguente ulteriore indebolimento
generale, gli impedì di entrare in pieno nell’argomento.
Abbiamo trovato sul
suo tavolo sei pagine vergate a mano. Non si tratta nemmeno di un primo punto,
ma sono solo indicazioni di motivi da imbastire. Appaiono quelli che gli erano
cari: Gesù Buon Pastore che dà la vita per i suoi e perciò viene da Dio risuscitato,
la carità pastorale, la grazia di unità, il “da mihi animas”, la contemplazione
salesiana.
Ho pensato insieme
agli altri membri del Consiglio che, anche se in stato germinale, tali pagine
costituivano quasi un testamento sui generis, comprensibile e prezioso per
coloro che hanno conosciuto don Egidio direttamente o attraverso la lettura
dei suoi scritti.
Continuate a raccomandarlo
al Signore.
* * *
Cari confratelli,
vi vedo impegnati nella
preparazione del prossimo CG24: sarà un altro balzo in avanti per la vitalità
del carisma di Don Bosco. Concentriamo la preghiera, i sacrifici e la riflessione
per una crescita in fedeltà alle origini e ai tempi. Nei mesi scorsi ho sperimentato
personalmente che cosa comporti di nuovo nella nostra vita lo stato di malattia
nell’incipiente anzianità. È una specie di «inculturazione» nella sofferenza
che apre un’ottica distinta, ma inseparabile e penetrante, sull’identità della
propria vocazione e sugli aspetti più vitali del proprio carisma.
Per illuminare salesianamente
questa peculiare esperienza ho voluto andare a rileggere quanto sappiamo degli
ultimi quattro anni di vita di Don Bosco: la sua vecchiaia segnata da tante
sofferenze, dal 1884 all’inizio del 1888, ossia dai 69 ai 72 anni. Quando
egli compì i 70 anni la sua debolezza e il decadimento erano tali che un medico
esclamò: È come se ne compisse 100! Mi sono trovato davanti a un «Fondatore»
che non demordeva dalle sue più alte responsabilità di portatore di un carisma
concreto affidato a lui. Alla proposta del papa Leone XIII di trovarsi un
successore, preferì quella di un vicario con diritto a successione, curando
così dal vertice, pur nella sofferenza, vari aspetti vitali per tutta la Congregazione.
È impressionante la
descrizione del suo stato di salute: dalla vista alle gambe, dai polmoni alle
deficienze in vari organi vitali. Ma non si è rinchiuso in una infermeria
per curare se stesso, bensì ha dimostrato coraggio spirituale e persino temerarietà
nell’affrontare viaggi spossanti, nonostante la proibizione dei medici e le
resistenze dei confratelli. Andò prima in Francia (marzo ’84), poi a Roma
(aprile-maggio), poi il lungo viaggio a Barcellona (aprile-maggio ’86), poi
ancora a Milano (settembre ’86) e infine a Roma per la consacrazione del santuario
del Sacro Cuore.
Ciò che più colpisce
in questa maniera di affrontare la sofferenza è senz’altro il dono di sé per
la cura della vasta opera avviata. A prima vista appaiono urgenti preoccupazioni
finanziarie (per il tempio del Sacro Cuore a Roma, per l’impresa missionaria,
per i bisogni dei giovani poveri delle sue opere, per non lasciar pesare debiti
sul suo successore); ma c’è tutto un altro versante che lo preoccupava: l’affare
dei «privilegi» per la Congregazione, l’autenticità del Sistema Preventivo
(la famosa lettera da Roma), l’impegno missionario, la fedeltà al Papa e la
difesa del suo magistero, il testamento da lasciare ai confratelli, i sogni
sull’avvenire della Congregazione. Egli rimase sempre la testa e il cuore
della sua opera: primeggiava in lui la responsabilità del «Fondatore», avvalorata
dal calvario per cui stava passando: la luce della croce sull’autenticità
del carisma.
Da parte mia, meditando
tale testimonianza eccezionale del nostro caro Fondatore e Padre, ho pensato
di concentrare la riflessione e la capacità di orientamento su un tema centrale
del nostro spirito che ha bisogno di sempre maggior approfondimento, soprattutto
dopo la celebrazione del recente Sinodo sulla Vita consacrata.
Mentre Don Bosco tornava
dal lungo viaggio di Barcellona, in una sosta al seminario di Grénoble, il
Superiore del seminario nel discorso di accoglienza gli disse tra l’altro:
«Nessuno meglio di lei sa quanto la sofferenza sia santificante». E Don Bosco
commentò con acutezza: «No, monsignore Rettore, non è la sofferenza che santifica,
ma la pazienza!».
In questa espressione
c’è una profondità spirituale che fa emergere l’identità del vero spirito
salesiano, centrata sulla carità pastorale. È certamente bella la nota
espressione contemplativus in actione, ma non esprime la totalità del
segreto dello spirito di Don Bosco. In lui malato appare radioso il motto
scelto per identificarne il segreto: da mihi animas. È un dono di sé
per la salvezza dei giovani che vivifica tutta l’esistenza: quella dell’attività
e quella della pazienza. È il vero respiro dell’anima salesiana, come ha lasciato
scritto don Rinaldi. Nell’impotenza fisica del nostro Padre emerge potente
e chiaro l’atteggiamento permanente e totalizzante del da mihi animas: «Io
per voi studio, per voi lavoro, per voi vivo, per voi sono disposto anche
a dare la vita».1 Giustamente don Rua constatava: «Non diede passo, non pronunciò
parola, non mise mano ad impresa che non avesse di mira la salvezza della
gioventù... Realmente non ebbe a cuore altro che le anime».2
L’osservazione di Don
Bosco sull’importanza della pazienza ci avvia, dunque, a individuare il vero
significato della carità pastorale.
E qui è giocoforza
riferire la nostra riflessione al mistero stesso di Cristo, al suo cuore,
agli eventi della sua vita.
Più che parlare di
carità pastorale, come soggetto di riflessione astratta, vogliamo rivolgerci
alla testimonianza esistenziale di Gesù Cristo come Buon Pastore, ossia
con l’ottica viva di un dato storico che è all’origine di tutta la vocazione
cristiana e che noi dobbiamo percepire e approfondire per la più radicale
identità del nostro spirito.
Si tratta di una riflessione
di stampo esplicitamente cristiano, che non parte da concetti anche sublimi,
ma dal realismo della storia: persone, eventi, dati di fatto.
Non dimentichiamo mai
che la fede cristiana ci concentra sempre nella storia; ci lega ad una realtà
vissuta che preesiste alle elaborazioni concettuali e anche alle stesse strutture
sacramentali.
Per capire la carità
pastorale bisogna sentire in primo luogo i palpiti del cuore del Buon Pastore
nella sua esistenza terrena, così come per capire l’Eucaristia bisogna rifarsi
prima agli eventi storici del Calvario.
C’è, dunque, un vero
salto qualitativo di alto realismo per le nostre riflessioni. La spiegazione
delle considerazioni concettuali e del significato oggettivo di tutto l’ordine
sacramentale, la si deve trovare chiara e oggettiva in una realtà storica
preesistente.
Il Sinodo sulla Vita
consacrata ci ha offerto la predella per questo benefico salto. Infatti se
la Vita consacrata è costitutiva della natura della Chiesa, dobbiamo rifarci
al mistero di Cristo in se stesso per spiegarne l’origine e l’identità.
Possiamo sintetizzare
tale considerazione affermando con sicurezza che Gesù Cristo è il fondatore
della Vita consacrata e l’iniziatore della Pastorale della Nuova Alleanza.
Sono due aspetti in
Lui inseparabili, espressi nella più intensa grazia di unità che si
possa immaginare.
Ricordiamo quanto afferma
Giovanni Paolo II nell’esortazione apostolica Pastores dabo vobis:
«“Lo Spirito del Signore è sopra di me” (Lc 4,18). Lo Spirito non sta semplicemente
“sopra” il Messia, ma lo “riempie”, lo penetra, lo raggiunge nel suo essere
ed operare. Lo Spirito, infatti, è il principio della “consacrazione” e della
“missione” del Messia: “per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha
mandato per annunciare ai poveri un lieto messaggio...” (Lc 4,18). In forza
dello Spirito, Gesù appartiene totalmente ed esclusivamente a Dio, partecipa
all’infinita santità di Dio che lo chiama, lo elegge e lo manda. Così lo Spirito
del Signore si rivela fonte di santità e appello alla santificazione».3
È qui che troviamo
la rivelazione-chiave su ciò che è la carità pastorale nella sua prima sorgente,
la vocazione fondamentale di Gesù di essere il Buon Pastore: Egli è risorto
come il Pastore buono che ha dato la vita per le sue pecorelle.4
«Il contenuto essenziale
della carità pastorale è il dono di sé, il totale dono di sé
alla Chiesa».5
Nel cuore di Gesù troviamo
che la consacrazione è legata organicamente e vitalmente alla pastorale.
Nel suo ministero pubblico
Gesù si preoccupò di formare una schiera d’impegnati per il Regno, scegliendo
i Dodici per un servizio di carità pastorale, dando loro una potestà di animazione
e capacità d’influsso perché crescesse in vigoria la grazia di unità tra consacrazione
e missione.
È importante sottolineare
che tra consacrazione e ministero apostolico c’è, nella realtà storica preesistente
alla struttura sacramentale, un senso vitale per cui non c’è un consacrato
che non sia in unione organica con il ministero apostolico, e viceversa: il
ministero apostolico è pienamente al servizio dei consacrati.
Se nel Sinodo i Vescovi,
al parlare dei consacrati, hanno ripetuto più volte de re nostra agitur,
anche i consacrati, parlando del ministero apostolico, dovranno ripetere con
gioiosa convinzione de re nostra agitur.
D. Egidio Viganò
NOTE
LETTERA 64
1 cf. Cost 14
2 cf. Cost 21
3 Pastores dabo vobis 19
4 Messale Romano, antifona alla IV domenica di Pasqua
5 Pastores dabo vobis 23