Mercoledì 26 febbraio
Introduzione
Pomeriggio: Figlio di Dio per decisione del Padre
(Mt 3, 13-17)
Giovedì 27 febbraio
Mistico: difensore e annunciatore del primato assoluto di Dio
Mattino: Figlio amato, figlio provato
Figlio amato, figlio messo alla prova (Mt 4,1-11)
Pomeriggio: Con Dio e il regno come unica causa
Dio e il suo regno come unica causa (Mt 4,12-17)
Venerdì 28 febbraio
Profeta: costruttore e restauratore della vita fraterna
Lodi: Costruttore e restautore della vita fraterna
Mattino: Costruire comunità, ascoltando Gesù
Fare fraternità ascoltando Gesù (Mc 3,29-21.31-35)
Pomeriggio: Rifare la fraternità,
Rifare la fraternità mediante la correzione e il perdono (Mt 18,15-20.21-35)
Sabato 1 marzo
Servo: compassionevoli con i bisognosi e loro custodi
Lodi: Compassionevole con i bisognosi e loro guardiano
Mattino: Testimoni e amministratori
Testimoni e amministratori della misericordia di Gesù (Mc 6,30-44)
Pomeriggio: Prendersi cura del piccolo
Curare i piccoli per godere delle cure di Dio Padre (Mt 18,1-5.6-9.10.12-14)
Domenica 2 marzo
Conclusione
Lodi: La madre di Gesù
Mattino: La madre di Gesù
Maria, Ausiliatrice e Madre (Gv 2,1-12)
Introduzione agli Esercizi Spirituali
1. Il motivo di base
“Questa è volontà di Dio, la vostra santificazione” (1 Ts 4,3). Così Paolo scrisse da Corinto ai tessalonicesi l’anno 51, un anno cioè dopo la loro conversione. Padre attento e affettuoso (1Ts 2,11-12), l’apostolo temeva per la loro perseveranza, poiché, appena fondata la comunità, aveva dovuto lasciarla a causa dell’ostilità della colonia ebraica. “Dio non ci ha chiamati all’impurità, ma alla santificazione. Perció – concludeva – chi disprezza queste norme non disprezza un uomo, ma Dio stesso” (1 Ts 4,8). 1 Tes, prima lettera dell’apostolo e, perciò, la prima opera scritta del NT, è testimone che, dagli inizi del cristianesimo, la santità era presentata come volere di Dio e come vocazione dei suoi. (cfr. Lv 19,2).
Nella prima delle lettere circolari di don Bosco ai Salesiani, “piccoli capolavori di spiritualità”[1], Don Bosco confessava di sentire il bisogno di parlare “ai miei figli con frequenza” poiché la Congregazione “sarà forse fra non molto definitivamente approvata”. “Comincerò adunque a dire qualche cosa intorno allo scopo generale della Società… Primo oggetto della nostra Società è la santificazione dei suoi membri. Perciò ognuno nella sua entrata si spogli di ogni altro pensiero, di ogni altra sollecitudine”.[2] Non siamo, dunque, nati per fare il bene, ma, primo et per se, per farci buoni…, facendo del bene.
“Cari salesiani, siate santi” è stato il tema della prima lettera che don Chávez ci ha inviato, “al alba del suo servizio”. Oltre a far suo l’invito pressante del beato Giovanni Paolo II[3], il Rettor Maggiore voleva espressamente far “diventare la santità programma di vita e di governo”, giacché la santità è “il compito essenziale della nostra vita… Raggiunto questo, tutto è raggiunto; fallito questo, tutto è perduto”.[4]
È una coincidenza che gli inizi del NT, della Congregazione e del rettorato di don Chávez siano stati contrassegnati dall’appello alla santità personale? Non lo credo affatto. “Assunzione (accoglienza) prima di essere ascensione (sforzo),”[5] la santità è sempre dono gratuito. Dio ci da quello che ci esige; e ci lo da, prima di chiederlo, come diede a Maria lo Spirito prima di farla madre. Ma che sia dono non lo fa né superfluo né elettivo. “Essere santi non è un lusso, è necessario per la salvezza del mondo. È questo che il Signore chiede a noi”, ha ricordato papa Francesco ai nuovi cardinali domenica scorsa.[6] Dobbiamo, dunque, a Dio e al mondo, ai giovani con preferenza, la nostra santità.
2. Il tema da sviluppare
Al tramonto del suo rettorato, Don Chávez, quando ha indetto questo Capitolo ci proponeva la radicalità evangelica, “una dimensione fondamentale della nostra vita”, come il nostro specifico cammino verso la santità. Infatti, “essa coinvolge tutto il nostro essere, concernendo le sue componenti vitali: la sequela di Cristo e la ricerca di Dio, la vita fraterna in comunità, la missione”.[7]
Per facilitare questo compito nel fronteggiare “le sfide attuali e future della vita consacrata salesiana e della missione in tutta la Congregazione”, il Rettor Maggiore ha sentito il bisogno di abbozzare “il profilo del nuovo salesiano”,[8] che concretizza il cammino pedagogico verso la santità salesiana. Il nuovo, e santo, salesiano è mistico, “perché, come scrive il Rettor Maggiore, si ha incontrato personalmente Cristo Gesù e, come Lui e accanto a Lui, vive testimoniando il primato assoluto di Dio. Il salesiano si fa profeta se vive e lavora insieme al fratello che Dio gli ha donato e con cui condivide vocazione e missione. Il salesiano si converte in servo dei giovani, quando per lui loro diventano, come furono per don Bosco, unica ragione per vivere e la causa della sua consegna a Dio”.
Mistico, profeta e servo, questi tre tratti caratteristici saranno l’obietto delle nostre riflessioni, il motivo della nostra preghiera durante i tre giorni di Esercizi Spirituali.
Ÿ Fissando il nostro sguardo in Cristo Gesù, contempleremo la sua inequivoca, e sofferta, identificazione con Dio, la sua volontà paterna e la sua causa (il regno), imparando a obbedirlo “pur essendo suo Figlio” (Eb 5,8).
Ÿ Ascoltando la sua parola, sapremmo che la nostra vita fraterna nasce non dal nostro bisogno ma dal trovarsi attorno a Lui ascoltandolo, lasciando di essere abituali compagni per diventare dei familiari intimi. Una vita comune nata dall’ascolto di Gesù dovrà per forza crescere, alimentarsi e difendersi con preciso adempimento delle sue istruzioni; chiamati da Lui a vivere da fratelli, dovremmo vivere come Lui ci insegna.
Ÿ Accompagnandolo da vicino, impareremmo da Lui la compassione per il popolo e mettendo a sua disposizione le nostre scarse riserve, Lui farà il miracolo di sfamare la gente e di evangelizzare il loro, e il nostro, cuore. Immedesimati con Lui accetteremo diventare piccoli per avere cura dei più piccoli e diventare, come loro, grandi nel regno dei cieli.
3. Un metodo da seguire
Gli esercizi spirituali, a dire di Sant’Ignazio, sono più preghiera/desiderio e contemplazione/consolazione che riflessioni personali o discorsi altrui. L’obiettivo è “preparare e disporre l'anima a liberarsi da tutte le affezioni disordinate e, dopo averle eliminate, a cercare e trovare la volontà di Dio nell'organizzazione della propria vita in ordine alla salvezza dell'anima.” (E.S. 1). Osservate bene, prego, la sequenza: prima, identificare il disordine in cui viviamo, per rimuoverlo; poi, ricercare la volontà di Dio, per riorganizzare la propria vita.
Il contenuto della preghiera è la propria vita, quella che si sta conducendo nel presente, nella sua complessità, con le sue ambiguità, con le sue luci e le sue ombre. La preghiera, negli Esercizi Spirituali, è specificatamente personale. Non si prega per chiedere perdono o per voglia di migliorare; non sono i desideri di conversione quelli che mantengono la preghiera: quello che dipende da me non è un cambiamento realizzato con uno sforzo di volontà, ma la supplica! (io posso solo supplicare che Dio mi converta, non posso convertirmi da solo, in modo volontaristico). Si prega per riordinare la propria vita, e guardandola come Dio la vede (contemplazione), per volerla come Dio la vuole (la scelta).
La preghiera personale, l’esercizio fondamentale se non unico, dovrebbe durare “un’ora intera, e piuttosto di più che di meno. Infatti il demonio cerca in tutti i modi di far abbreviare l'ora.” (E.S. 12). E, più decisivo, dovrà “suscitare gli affetti” (E.S. 3), commuovere, scuotere, in modo che quando “l’esercitante non riceve nell’anima alcuna mozione spirituale…, e nemmeno è agitato da alcuno spirito, deve informarsi accuratamente se fa gli esercizi nei tempi stabiliti e come li fa” (E.S. 6). Se non capita niente, o appena niente, non si sta facendo niente o appena…
Ancora due annotazioni importanti. “Giova molto che chi fa gli esercizi li intraprenda con animo aperto e generoso verso il suo Creatore e Signore, mettendogli a disposizione tutta la propria volontà e libertà, in modo che la divina maestà possa disporre di lui e di quanto possiede secondo la sua santissima volontà.” (E. S. 5). Dio no si lascerà vincere in generosità: ci darà sempre di più, e meglio, di quanto noi saremmo stati capaci di consegnarGli. A questo primo suggerimento sull’atteggiamento basico dell’esercitante verso il suo Dio, si aggiunge un consiglio pratico su come realizzare la preghiera: “dove troverò quello che voglio, lì mi fermerò, senza aver fretta di passare oltre, finché non ne sia pienamente soddisfatto” (E. S. 76). Non è necessario, ne consigliabile, ‘finire’ il tema proposto per la preghiera; non si persegue la completezza nella realizzazione dell’esercizio, ma la sua profondità: quando la Parola tocca il mio cuore, chiede pure tutto il mio tempo.
4. “Principio e fondamento”
Sant’Ignazio fa iniziare sempre i suoi Esercizi fissando in Dio, principio e fondamento di tutto il creato, l’attenzione, e il cuore, di chi fa gli esercizi. Si tratta di entrare in noi stessi per scoprire, facendoci coscienti di quello che siamo e viviamo (l’universo della nostra esistenza), di quanto ci occupa e ci preoccupa (l’universo del nostro agire), quello che desideriamo raggiungere o di cui siamo privi (l’universo dei nostri affetti).
Questo pomeriggio vi invito a mettervi sotto lo sguardo di Dio, tanto giusto quanto comprensivo, per vederci come Lui ci vede. Anzi, vorremmo che Lui ci veda così come ha visto Gesù, cioè come figli benamati; e si dichiari, come ha fatto con Gesù, nostro Padre. Il racconto del battessimo di Gesù secondo Matteo ci offre un chiaro itinerario per arrivare a essere come Dio ci vuole e, permettere così a Dio, che sia per noi quello che vuole.
1º. Il Gesù che sarà proclamato da Dio suo figlio amato “venne al Giordano da Giovanni per farsi battezzare da lui” (Mt 3,13): Dio ha dichiarato figlio a chi si è collocato tra i peccatori che anelavano convertirsi a Dio. Tra i malfattori Dio trovò suo figlio! Il nostro peccato, se riconosciuto, non è impedimento per diventare figli di Dio.
2. Gesù ha voluto essere battezzato superando la resistenza del Battista “per compiere ogni giustizia” (Mt 3,15). Non si lascia intimidire da quanto pensino gli altri, compresi i migliori, ma cerca solo quello che importa a Dio, la giustizia.
3º. Immediatamente dopo il battesimo, Dio si dichiara Padre amante e identifica Gesù come Figlio amato (Mt 3,17). Gesù non ha fatto nulla ancora – nulla si è raccontato su di lui nel vangelo – per meritare tale riconoscimento: non è figlio per quel che ha realizzato, né per quanto si accinge a realizzare. E’ figlio prima di farlo e per farlo.
Come Cristo stesso, il cristiano non s’identifica con quanto vuole fare o diventare in vita sua, ma piuttosto si riconosce e accetta dono immeritato del Dio vivente. La sua esistenza, il suo più autentico profilo, dunque, gli viene dato. Non potrà mai né definirlo lui né conquistarlo con le sue forze. Prima Dio ci vuole e siamo; poi ci dice come, e quanto, ci vuole. Identificarsi con quanto ha detto, e vuole, Dio nei nostri confronti porta a saperci figli suoi come il Figlio.
Juan J. Bartolomé
[2] G. Bosco, Epistolario. Introduzione, testi critiche e note a cura di F. Motto. II, Roma, LAS, 1996, 385-386.
[3] Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti al Capitolo Generale, in “L’Osservatore Romano” (13 aprile 2002), 5.
[4] P. Chávez, «Cari Salesiani, siate santi!»: ACG 379 (2002) 5.11.
[5] L. J. Suenens, Lo Spirito nostra speranza, Roma, Paoline, 2001, 88.
[6] Cfr. http://www.vatican.va/holy_father/francesco/homilies/2014/documents/papa-francesco_20140223_omelia-nuovi-cardinali_it.html
[7] Chávez, ««Testimoni della radicalità evangelica». Chiamati a vivere in fedeltà il progetto apostolico di Don Bosco. «Lavoro e temperanza», ACG 413 (2012) 8.22. La corsiva è mia.
[8] Chávez, «Testimoni», 19.
________________
Mistico.
Difensore e annunciatore del primato assoluto di Dio
Oggi facciamo motivo di preghiera il primo tratto del “profilo del nuovo salesiano”: essere mistico porta al salesiano a vivere la sua vocazione con una dedizione totale e in permanente conversione, sotto la supremazia incondizionata di Dio. Centreremo la nostra attenzione, il nostro cuore, sulla persona di Gesù, testimone e modello di fedeltà al Dio che lo aveva dichiarato figlio e la cui causa, il regno, assunse come occupazione esclusiva. Un solo Dio, il Padre, una sola causa, il regno.
Vogliamo ricalcare la passione di Gesù per Dio e per i suoi interessi come chiave per la comprensione della sua persona e della sua opera. La totale identificazione con Dio e con la sua causa lo confermò come il figlio prediletto e lo rese il suo migliore evangelizzatore. Non si tratta di compiti diversi, ma Gesù dovette differenziarne l’esecuzione: prima di dedicarsi a predicare Dio e il suo regno, Gesù dovette provare a se stesso che si accettava come Dio lo voleva, figlio suo.
1. Figlio prediletto, figlio tentato
Non aveva ancora cominciato il ministero pubblico, che avrebbe avuto il regno di Dio come compito (Mtb 4,17; Mc 1,15), quando Gesù ricevette lo Spirito e Dio gli si dichiarò suo Padre amoroso (Mt 3,17; Mc 1,11; Lc 3,22): non aveva ancora operato come apostolo e già era stato proclamato figlio. Ma prima di mettersi a lavorare come predicatore del Regno, dovrà superare la tentazione: il figlio amato di Dio deve scegliere liberamente vivere come figlio.
Il fatto che la tentazione faccia seguito alla filiazione divina, e si incentri su di essa, non è meno illustrativo del modo in cui avvenne l’insidia. Il tentatore non oserà negare quel che Dio ha dichiarato; esprime un dubbio, che comunica al figlio di Dio. Cercando che questi faccia suo il dubbio, lo motiva con attese logiche. Gesù dovrà optare per Dio, senza altro appoggio e certezza che la Parola di Dio. Di essa si alimentano i figli di Dio.
Il tentatore – occorre rendersene conto – ha concentrato il suo attacco non sulla missione di Gesù ma sulla sua filiazione divina; non su quel che veniva a fare ma su quel che gli avevano detto che era. In realtà, tentando Gesù, Satana attenta a Dio. Solo quando il figlio di Dio si afferra alla volontà di Dio potrà inaugurare la propria vittoria sul Maligno predicando il Regno.
2. Essendo portavoce di Dio, deve identificarsi con la sua causa
Gesù supera la tentazione perché preferisce identificarsi con Dio, essere come Egli lo vuole (Mt 4,3-11). In seguito può apparire in pubblico abbracciando ora la causa di Dio, il suo regno sulla terra. L’annunciatore di Dio ha saputo opporsi personalmente a Satana e ne è uscito vincitore. C’è da meravigliarsi se Gesù farà il suo primo annuncio del regno espellendo demoni e liberando dal male (Mt 4,24; cfr. Mc 1,21-28)?
Essendosi identificato con Dio, può diventarne il portavoce. Consapevole di esserne figlio, è al corrente dei suoi progetti (cfr. Gv 3,45; 5,19; 7,29). Li annuncia, perché li conosce (cfr. Gv 8,28.55). Dirà agli altri quel che conosce per vissuto personale: il vangelo predicato è espressione pubblica della sua fede, la confessione della sua fedeltà a tutta prova ( cfr. Gv 5,17.19). E’ stato presentato da Dio come il suo figlio amato (Mt 3,17); ora presenta se stesso come suo predicatore. Il vangelo del regno è la sua carta d’identità. Nella tentazione si è identificato come figlio di Dio, nella missione si identifica con quanto desidera suo Padre: regnare su Israele (Mt 4,17). E’ un fatto che bisogna riconoscersi come figli di Dio per parlare di Dio Padre.
Non deve, poi, passare sotto silenzio che, dopo aver annunciato per la prima volta il regno (Mt 4,17), Gesù per prima cosa ordina a due coppie di fratelli di seguirlo (Mt 4,18-22). Aveva una sola causa, Dio e il suo regno, ma non volle perseguirla da solo. Colui che annuncia un Dio vicino, non solo deve avvicinare i suoi uditori, dev’essere accompagnato da seguaci. Il discepolato è il primo frutto di una vera evangelizzazione.
Obiettivi del giorno
Sant’ Ignazio non chiama predicatore, nemmeno direttore, a chi li dirige, ma parla semplicemente di “chi da gli esercizi”. Dare “esercizi” suppone, in primo luogo, proporre i temi per la preghiera del modo più breve possibile; ma implica pure fissare con chiarezza gli obiettivi che l’esercizio dovrebbe raggiungere.
Traguardo fondamentale di questo primo giorno è rendersene conto del livello di identificazione con Dio con cui viviamo nostra vita consacrata salesiana, dando nome concreto alle cause che in noi causano distacco, tradimenti persino, da Dio (dis-ordine) e cercare i mezzi che si riporteranno a dare a Dio il primato nella nostra vita (ri-organizzazione).
Lo faremo in due tappe. Durante la mattina, ci domanderemo se ci accettiamo a noi stessi come Dio ci vuole, suoi figli, e se lo vogliamo come Lui vuole essere per noi, nostro Padre. In questione è la nostra relazione con Dio, la sua accoglienza nella nostra vita. Dovremmo identificare le nostre personali ‘tentazioni’ che – tentazioni dei figli di Dio – avranno come cause la nostra debolezza, indotta o naturale, il mettere la Parola a nostro servizio, o la brama di essere come Lui senza essere di Lui. Ci deve consolare il poter considerare la tentazione come esperienza spirituale, come cammino pedagogico voluto dal Padre.
Nel pomeriggio, contemplando Gesù evangelista del regno, ci domanderemo quale sono le cause che portiamo avanti, che dando senso alla nostra vita da consacrati. Qualsiasi altro progetto che non sia il progetto di Dio è suo antagonista, un nostro signore che non ci salva. È preciso identificarlo e ripudiarlo. Sta in gioco il nostro essere più radicale, l’essere figli di Dio. Il figlio non ha altra causa che il regno dei cieli.
Maria che contemplava nel suo cuore quanto accadeva intorno a se e dentro di se sia vostra guida e compagna nella giornata.
_______________
Testimoni della radicalità evangelica
Figlio amato, figlio provato
(Mt 4,1-11)
Della vita pubblica di Gesù, iniziata con la proclamazione che il regno di Dio stava per arrivare (Mt 4,17), Matteo ricorda due momenti, collocati strategicamente, in cui Gesù deve lottare per mantenersi figlio del suo Dio, prima contro il tentatore (Mt 4,1-11) e più tardi contro se stesso, in agonia solitaria (Mt 26,36-46).
All’inizio del suo ministero, Gesù deve difendere tre volte la sua condizione filiale, solo nel deserto, solo con la propria necessità, di fronte all’assalto tenace del tentatore. Alla fine della sua vita Gesù si dedica, nella preghiera, a difendersi dal Padre e a liberarsi dal suo volere come ultimo tentativo di salvare la vita. Sentì la tentazione di disertare da suo Padre, abiurando dalla proclamata filiazione, quando poté scegliere, nel deserto, cammini che non gli indicava la Parola e quando dovette scegliere, nel Getsemani, tra continuare a vivere o perdere tutto, meno il suo essere figlio di Dio. Ebbene, non ci risulta sintomatico il fatto che Gesù abbia vinto la prima prova ricorrendo alla Parola (Mt 4,4.7.10) e la seconda, e definitiva, non abbandonando la preghiera (Mt 26,36.39.42.44)?
Ci fermiamo sul primo episodio, quello delle tentazioni. La grazia della filiazione, appena concessa, diventa per lui immediatamente un compito da accettare liberamente, a costo di tante, e tanto incresciose, rinunce.
Matteo ha redatto con la sua solita chiarezza l’episodio. Comincia con Gesù condotto fino al diavolo (Mt 4,1-3) e termina quando il diavolo lascia il posto agli angeli che vengono a servire (Mt 4,11). Tutta la scena presenta Gesù che affronta il tentatore: nessun altro assiste alla tentazione…, né al tentato! La solitudine del figlio tentato è assoluta.
La tentazione avviene in tre assalti, che vengono narrati in modo conciso e simmetrico:
a) Il tentatore prende sempre l’iniziativa (Mt 4,3.5.8). La tentazione non sorge in nessun momento come frutto della situazione di Gesù: non è effetto della sua fame, né conseguenza delle sue carenze. È indotta da fuori, ma lo sorprende in un momento di chiara debolezza. Senza esserne la causa, la sua impotenza è il ‘brodo di coltura’ della tentazione, che diventa in questo modo reale e pericolosa.
b) Gesù reagisce invariabilmente citando Dio, appoggiandosi sulla Parola scritta (Mt 4,4.6.10). Essa gli serve da discernimento per aver successo nella prova e come guida della sua opzione personale. Rifugiandosi nella voce nota – scritta – di Dio, riesce a intravedere il volere nascosto del Padre. Prestare ascolto alla Parola lo salva dall’ascoltare altre voci.
c) Il tentatore cambia continuamente la proposta. Ripete il tentativo, ma cambia i motivi: offrirà beni sempre più grandi, più appetibili (Mt 4,3.4.9). Non si tenta con il male; e se in realtà è male, si presenterà “sotto apparenza di bene”. Bisogna osservare una certa progressione nei motivi su cui si basa la proposta diabolica: dal mettere in discussione la propria vita, data la fame prolungata, si passa a discutere l’assistenza divina in un momento di urgenza, per finire poi proponendo tout a court di rinunciare a Dio. Superata una tentazione, ne arriva un’altra peggiore, da superare. Solo aggrappati alla volontà espressa di Dio diventano invincibili i suoi figli.
2. Alcuni rilievi
La prima cosa che dovette fare Gesù come figlio di Dio fu confermare la propria filiazione, sottomettendosi alla tentazione. La prova fa seguito immediatamente alla grazia: ne è la ratificazione. Come preparazione idonea alla sua missione evangelizzatrice, Gesù deve fare propria la grazia data, lottando per conservarla.
La tentazione, prova dello Spirito!
Gesù, già figlio di Dio ma non ancora predicatore del Regno, si trova solo e debole, dopo il digiuno prolungato. La solitudine di un Gesù affamato di fronte al diavolo sarebbe una situazione esecrabile se non fosse stata provocata dallo Spirito. È stato lo Spirito che ha lasciato nelle mani del diavolo il figlio di Dio (Mt 4,1)!
Un prolungato digiuno lo aveva indebolito per l’incontro col suo tentatore. La prova sopravviene a Gesù dopo aver fatto il bene (!), ma quando ha meno forze, senza che ci sia al suo fianco qualcuno che lo aiuti. E’ un fatto che i figli di Dio si trovano in grave necessità, perché non abbiano altro bisogno se non quello del loro Dio (Es 16.17.32; 34,28). E’ questa la pedagogia divina (Eb 12,5-8).
Anche se ripetuta, la tentazione è fondamentalmente una, come unico è il tentatore. Il diavolo pretende che Gesù abiuri dalla sua condizione filiale, proclamata pubblicamente nel battesimo. La tentazione per il cristiano, indipendentemente dalle circostanze che la concretizzano o dai motivi che la possano giustificare, mette sempre in discussione il legame personale con Dio. Considerandolo bene, si tratta di un attacco a Dio Padre nel suo figlio. Possono variare i motivi di tentazione, ciò che non cambia è, alla fin fine, quel che rimane sempre ipotecato: la filiazione divina.
La Parola come scudo e alimento
Il primo assalto diabolico (Mt 4,3-4) presuppone una situazione di penuria e fa leva su questo. Un figlio di Dio che si rispetti, suggerisce il tentatore, potrebbe benissimo trarre alimento dalle pietre pur di non trovarsi nel bisogno. Se è veramente figlio, perché non ci prova?
In fondo la tentazione poggia su un concetto del divino a cui siamo molto abituati: Dio, e chi gli appartiene, non deve soffrire mancanze né avere delle necessità. A cosa serve avere Dio, se ci manca il necessario? Cosa si può aspettare da un Dio che non vale per liberarci dalla fame? Non è qualcosa di suicida confidare in un Dio che sembra indifferente alla nostra sopravvivenza?
Gesù, citando un testo in cui si ricordava a Israele che la fame, sofferta nel deserto, era stata prova di una pedagogia paterna (Dt 8,2-6), risponde che per vivere non ha bisogno del pane, sempre necessario in tempo di fame, ma di tutto quel che Dio vuole dire. Figlio di Dio non è chi non patisce necessità, bensì chi si alimenta della parola di Dio. Saziare la fame non costituisce una priorità da figli di Dio, che vivono sicuri di essere tali e hanno fame della volontà del Padre.
La vicinanza del Padre, messa in discussione
Il secondo assalto (Mt 4,5-6) è situato nel tempio di Gerusalemme, luogo privilegiato della presenza di Dio tra il suo popolo. Questo scenario rende più verosimile la tentazione. Lì, anche se solo, Gesù può sentirsi più protetto da Dio. Ma, proprio per questo, rende più logico il dubbio: a cosa serve la vicinanza di Dio se i suoi figli non riescono ad sopravvivere?
La strategia del tentatore è sottile, e tremenda. Respinto dalla forza della Parola (Mt 4,4), si serve della parola di Dio per tentare il figlio di Dio (Mt 4,6): quel che Dio ha detto si può usare come motivo per abbandonare Dio! Si può tergiversare la Parola per andare contro Dio: la Scrittura si può addurre come motivo di resistenza a fare la sua volontà. Malizia suprema: il maligno si fa scudo di Dio per tentare il figlio.
Gesù risponde citando un testo che impone il servizio esclusivo di Dio (Dt 6,16), come se non fosse lui ad essere tentato… Nella prova del figlio si vede messo in discussione anche il Padre. Il fedele che supera la tentazione non rende forse vittorioso il suo Dio? Difendere i diritti di Dio è il cammino che hanno i figli per sfuggire alla tentazione. Si libera da essa non colui che si libera da Dio, ma chi sceglie, come Gesù, solo Dio.
Per un figlio è adorabile solo suo Padre
Il terzo assalto è quello definitivo (Mt 4,8-10). Il tentatore, lungi dal darsi per vinto, diventa più arrogante dopo il ripetuto fallimento. E’ un dato non trascurabile. Ritorna alla carica; ora, senza tergiversazioni, brutalmente. Mostra a Gesù il mondo e la sua gloria e glielo offre…, se gli rende culto. Solo il diavolo, nella sua sfrontatezza, può arrivare a tanto: si maschera da Dio, si presenta divino, seduttore, di fronte al figlio di Dio! Non potendo truccare la scelta contraria a Dio con la Parola di Dio, svela la sua intenzione più intima: pretende di essere servito come solo Dio merita. Questa volta si basa solo sulla propria parola; no può infatti fondarsi su nessuna parola di Dio.
Per la prima volta, e con autorità inusitata, Gesù comanda al tentatore di ritirarsi. La lotta è corpo a corpo, senza intermediari. Si oppongono due volontà, quella del Padre (Mt 3,17: “Questi è il mio Figlio”), quella dell’anti-Padre (Mt 4,10: “se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai”). Ambedue reclamano totale obbedienza al figlio. Ma – a ben vedere – mentre il volere del Padre afferma Gesù come figlio amato, quel che si propone il diavolo è di trasformarlo in servo. Dio ama suo figlio perché sì; il nemico, per sé. Sempre. Resta così svelata la natura – la malizia – di ogni tentazione. Il caduto in tentazione diventa servo. È diversa la nostra esperienza?
Il testo citato in seguito da Gesù (Dt 5,9; cfr. 6,13), parte integrante del decalogo (cfr. Dt 5,6-21), rende inutili successive tentazioni. Non c’è prova che non possa superare colui che ritiene degno di adorazione solo Dio: prestare culto all’unico Dio che affascina, libera dal coltivare piccoli dei, per quanto divertenti possano essere. Solo chi sente una passione unica ed esclusiva per Dio è libero da grandi passioni e da piccole diversioni. Solo lui assomiglierà al Figlio di Dio.
[Ricordare il lavoro spirituale già accennato, cfr. Primo giorno. Presentazione, pag. 2].
I vangeli non dicono se Maria ha sofferto tentazioni. Sappiamo però che lei ha perso suo figlio adolescente nel tempio. Chiediamole di accompagnarci durante la nostra preghiera. Che ci aiuti ad affrontare le nostre tentazioni con la forza della Parola che lei accolse e che, se lo abbandoniamo, possiamo ricuperare Dio, come lei riuscì a farlo nel tempio.
__________________
Con Dio e il regno come unica causa
(Mt 4,12-17)
Questa mattina abbiamo contemplato come Gesù ha superato la tentazione (Mt 4,3-11). Ha provato essere figlio di Dio, può diventare suo rappresentante. La prima cosa che farà Gesù in pubblico, o meglio, quel che deve fare in primo luogo, è dare una buona notizia: Dio e il suo volere stanno per venire. La causa di Dio, il vangelo del regno, è la carta di presentazione di Gesù. Si identifica con ciò che desidera suo Padre: regnare sul suo popolo (Mt 4,17). Questo è il tema della nostra preghiera.
1. Il racconto evangelico
Matteo narra l’inizio del ministero pubblico di Gesù con sobrietà. Evidentemente, non gli interessa tracciare una biografia del suo personaggio, bensì di identificarlo con la causa di Dio, essendo stato già identificato con Dio. La sequenza è significativa: prima Dio, poi, il suo progetto.
Dopo aver menzionato la genealogia (Mt 1,1-7), la nascita a Betlemme (Mt 1,18-2,12) e l’infanzia in Egitto (Mt 2,13-22), Matteo lo dichiara nazareno (Mt 2,23). Come Luca (Lc 3,1-20), fa che Gesù vada da Giovanni per farsi battezzare nel Giordano (Mt 3,13; Lc 3,21). Solo quando il Battista è gettato in carcere, ritorna Gesù in Galilea e comincia il suo ministero facendo dell’annuncio del vangelo di Dio la sua unica occupazione. Da notare che non sia stato precisato a chi si dirige la sua proclamazione. Le sue prime parole sembrano non avere ascoltatori definiti: quel che importa al cronista non è il pubblico ma il messaggio.
Matteo annota solamente che Gesù ritorna in Galilea, da dove procedeva (Mt 4,12). La Galilea è il luogo dove deve sempre cominciare la evangelizzazione e, di conseguenza, dove deve andare colui che evangelizza. L’evangelizzatore si deve al luogo dove lo attende il vangelo. Non importa da dove viene; quel che conta è dove deve andare (cfr. Mt 28,16-20). Gesù non rimane nel deserto, come Giovanni (Mt 3,1). Lascia Nazaret, sua patria di adozione, per stabilirsi in un villaggio che gode di migliori comunicazioni, Cafarnao (Mt 4,13). Questo cambio di residenza non è una semplice decisione tattica, di comodo, bensì la realizzazione del progetto divino. Si compie così la profezia: una grande luce brilla in una regione di ombre, per un popolo che vive nelle tenebre (cfr. Is 9,1). Dove appare un evangelizzatore, la luce vince le tenebre. Dove viene annunziato il vangelo, si compiono le promesse di Dio.
Il Dio che annuncia vuol essere vicino agli uomini. Il suo araldo non può rimanere staccato da loro. Senza attardarsi cercherà i suoi ascoltatori dove essi sogliono trovarsi, tra occupazioni e infermità (Mt 4,23-24; 9,35), sui monti (Mt 5,1; 8,1) o vicino al mare (Mt 4,18, a casa (Mt 8,14), in campagna (Mt 12,1) o, al sabato, nella sinagoga (Mt 12,9-10). Non può parlare di presenza di Dio, proprio perché non è così evidente, senza annunciarla avvicinandosi. E perciò Gesù esce dall’anonimato e si introduce tra gli uomini in cerca di ascoltatori. Non può predicare un Dio che cerca la vicinanza del suo popolo restando lontano da esso. E’ il vangelo al cui servizio si è dedicato che lo obbliga a ‘collocarsi’ tra i suoi ascoltatori. Non vorrà proclamare il volere di Dio, se non da una posizione di comprensione (Mt 9,2) e di misericordia (Mt 8,2-3; 14,14) verso chi lo ascolta. Se Dio è impegnato a venire, non vi è tempo da perdere né motivo che giustifichi ritardi. Vive pressato da un Dio che ha fretta di regnare. Non c’è tempo per ritardi o diversioni, quando Dio è imminente.
2. Alcuni rilievi
Tutti i gruppi religiosi contemporanei di Gesù, al di là del loro divergenze, condividevano la fede in una manifestazione finale del regno di Dio: il Signore, un giorno, si sarebbe imposto come sovrano del mondo e della storia. I fedeli ne anelavano la sua venuta. Non la potevano accelerare né riusciranno a ritardarla. Se sperano in un avvenire migliore è perché sono convinti di stare vivendo una situazione catastrofica, a cui si è giunti per inadempienza della volontà di Dio.
L’attesa del regno di Dio coincide, quindi, con la sicurezza che Dio sta per intervenire, facendo giustizia a quanti hanno cercato di vivere secondo il suo volere. Chi sa che il giudizio sovrano sta per arrivare si occupa di predisporre la conversione dal proprio peccato. E fa questo non solo deplorando le mancanze passate ma, soprattutto, impegnandosi a compiere con maggior zelo la volontà di Dio. La radicalizzazione dell’obbedienza a Dio è conseguenza dell’imminente attesa del suo regno.
Che Dio regni, la causa di Gesù
Diversamente dal Battista che continua insistentemente ad affermare che l’imminenza del regno di Dio mette in pericolo la salvezza personale, se non si producono frutti di giustizia, Gesù annuncia la presenza del regno di Dio nella sua persona e col suo operato. Mentre nel Battista predomina l’annuncio di un giudizio in cui Dio si pronuncerà secondo le opere di penitenza compiute, Gesù sottolinea l’universalità di una salvezza che, per pura iniziativa di Dio, è offerta a chiunque l’accetti. A volte sembra che ci siano nella chiesa più seguaci del Battista che discepoli di Gesù…
Di qui l’importanza che riveste che la sua predicazione del regno di Dio vada accompagnata da segni efficaci della sua presenza. Se la salvezza arriva al malato e all’indemoniato, all’emarginato o al disprezzato, al lontano o al peccatore, non si potrà dubitare della sua presenza, né della sua gratuità, né del suo universalismo. Non sarà l’obbedienza alla legge ma l’amore all’uomo bisognoso, il modo di fare regnare Dio.
Tutto l’agire di Gesù, scandaloso perché inatteso, si spiega con la sua comprensione del regno di Dio: nessun privilegio, ereditato dalle promesse o ottenuto con le opere dell’obbedienza, prevale davanti a un Dio che fa giustizia solo a chi non si considera già a posto. Tutto il resto, sabato, legge, offerta, preghiera, tradizioni, famiglia, possedimenti, patria… è il meno. Solo Dio conta…, quando regna.
Un avvenire che è già cominciato
Il regno di Dio non è solo promessa di futuro, è già possibilità attuale, perché deve realizzarsi secondo ciò che si attende. Le primizie del regno di Dio sono così piccole che possono passare inosservate. Oppure possono essere ignorate di proposito. Ma se le loro dimensioni possono essere modeste, non sono tali le esigenze. Le parabole della crescita nascosta ma efficace (Mt 13,4-9.18-23.31-32) riflettono questa convinzione di Gesù: quel che oggi è impercettibile, quel che lotta ancora per nascere, ha il vita e futuro assicurati. Solo quel che non è stato seminato non potrà fiorire in seguito. Per quanto sembri invisibile, Dio sta già operando, ed è già il suo stesso avvenire. Per questo la predicazione del regno di Dio, già attivo anche se ancora invisibile, esige fede e provoca speranza. Gesù insegnerà ai suoi discepoli a chiedere la venuta di un regno che è già cominciato (Mt 6,10). La attesa si fa più ardente perché i semi sono stati ormai piantati: chi attende il Dio re, non dispera.
Gesù preferisce un Dio a cui si accede all’interno della propria storia, nella propria terra. Ma, precisamente perché proclama la sovranità assoluta di Dio, non si lancia a riformare la società del suo tempo. Non gli importa tanto il dominio dei romani sul suo popolo quanto il fatto che non domini solamente Dio. Gesù non tralascia di mettere in discussione nessuno degli ambiti in cui si realizza la vita dell’uomo: la famiglia, la proprietà, il culto, i rapporti interpersonali, la politica. Perché su tutti gli ambiti in cui vive l’uomo, Dio mantiene una pretesa di servizio esclusivo. Ma il Dio di Gesù si fa presente solo a chi lo serve.
Dono gratificante e immeritato
Dato che il regno di Dio è la realizzazione di un progetto divino, non deve essere confuso e tanto meno ridotto alla soddisfazione dell’ansia di felicità dell’uomo. Un Dio che ci stesse tutto quanto nel cuore dell’uomo o che fosse a immagine delle necessità umane e compendio dei desideri umani, non è il Dio di Gesù. Ma è convinzione di Gesù che Dio, regnando, darà piena soddisfazione ai bisogni del cuore umano. Il regno di Dio non è salario dovuto. Nella predicazione di Gesù non c’è posto per il ‘merito’, anche se l’obbedienza a Dio richiede sforzo. Per quanto atteso, e necessario, Dio è sempre gratuito e sorprendente.
La malvagità imperante può alimentare l’attesa di Dio, ma quando Egli giunge non si limita a risanarla. Trattandosi di un progetto divino, il Regno di Dio supera qualsiasi realizzazione umana, anche quelle che i buoni cristiani, ubbidendo a Dio, cercano di realizzare nella storia. La chiesa non è ancora il regno, anche se attraverso il suo ministero dovrebbero già apparire chiari indizi della presenza di Dio nel mondo. Il regno di Dio è il modo di Dio di essere Dio per noi: interessato alla nostra felicità e impegnato a rendercela possibile. Per avere il regno di Dio come compito bisogna avere Dio come unico Signore nel proprio cuore. Non è la speranza di essere accolto quel che spinge Dio ad avvicinarsi. Viene perché così vuole, viene da chi vuole. Ma per venire dev’essere voluto e atteso.
Dio vuole regnare, questa è la buona notizia
L’annuncio del suo arrivo alimenta, quindi, l’attesa e il desiderio. Ma mette pure in rilievo, allo stesso tempo, la sua assenza. Non si annuncia uno che è presente. Non si attende una persona che è già arrivata. Il messaggio di Gesù è una buona notizia per chi è dispiaciuto dell’assenza di Dio in cui vive. Il vuoto di Dio, lì dove si avverte e dispiace, indica mancanza di obbedienza dei sudditi, svela indisposizione ad accoglierlo come Dio. Non è, quindi, che Dio si sia ritirato da dove si nota la sua assenza. E’ che non gli si è permesso ancora di arrivare fin lì. Per ventura di colui che ne sente la mancanza, Egli viene solo là dove non si trova ancora.
Per questo anche i più sprovvisti tra gli uomini, i peccatori e gli emarginati, possono vivere con gioia in mezzo alla loro disgrazia. Non è che la loro situazione sia buona, ma, proprio per questo, Dio è in cammino verso di loro. E questo sì è buona notizia. L’annuncio di Gesù causa, allora, gioia in chi lo ascolta. Convertirsi al regno di Dio comporta necessariamente la gioia di vivere, mentre lo si attende. La gioia è la forma di vita dell’evangelizzato, e la tristezza, il segno evidente di uno stato di ‘dis-evangelizzazione’.
Arrendersi a questo Dio, è questa la fede che salva
Annunciando Dio vicino, Gesù non si limita a causare gioia, chiede accettazione, fede. La fede – “fondamento di ciò che si spera” (Eb 11,1) – diventa insopportabile senza la speranza, non avrebbe base né contenuto. Fede è consenso nei confronti di chi sta per venire, assenso a quanto sperato. Più che ossequio ragionevole, è un’avventura che si è disposti a correre, insicurezza che si assume. Dio viene prima della nostra fede, la precede e la rende possibile; non lo creiamo noi (ci mancherebbe altro!), crediamo in Lui. La fede è as-senso (credere, etimologicamente è cor-dare) verso il Dio che si aspetta, con-versione verso colui che ancora non è presente nel mio mondo, ma sta venendo ad esso.
Il credente, per questo, non dispera mai, perché sa che Dio e il suo regno, dove non ci sono, stanno per arrivare. Per chi si fida di Gesù, Dio è sempre il suo avvenire immediato. E se Dio non viene che lì dove non c’è, chi lo sa e lo attende sa di essere già amato da Colui che ancora deve venire e non è ancora con lui. La speranza è il modo di maturazione di una fede che si sperimenta come sicurezza di essere oggetto dell’amore nientemeno che di un Dio di cui ancora si sente la mancanza.
Chi attende Dio per mettersi al suo servizio, non si permette nessun’altra occupazione che non sia l’attesa febbrile del suo Signore. Per mettersi a desiderare il suo Signore, non c’è bisogno che il credente sia già completamente buono. Basterà che lo addolori la sua assenza e che viva bramandone la venuta. I buoni hanno già perso una volta Dio perché erano tropposoddisfatti di essere tali (Mt 9,11-13; Lc 15,1.25-32) Vale la pena credere di non aver bisogno di Dio? Non è forse il modo, efficace e sottile, in cui lo stiamo perdendo?
Il regno di Dio, culla del discepolato
Un ultimo, e breve rilievo. La tradizione sinottica è unanime nel collocare l’inizio del discepolato (Mc 1,16-20; Mt 4,18-22; Lc 5,1-11) immediatamente dopo aver presentato Gesù che predica il regno (Mc 1,14-15; Mt 4,17). Non è semplice casualità: il regno di Dio, cuore di quanto Gesù deve dire, precede l’invito a seguirlo.
Come prima istituzione che nasce dalla predicazione del regno, il discepolato di Gesù ha la sua origine e causa nella missione personale di Gesù. La sua coscienza di apostolo del Dio vicino gli impone la vicinanza agli uomini; ad essi si dirigerà se sono lontani; con essi vivrà, se sono suoi eletti. Pertanto, non è discepolo chi vuole e si propone di essere tale, ma chi è voluto da Gesù e ne riceve l’invito. Il seguace di Gesù, così come il suo signore e attraverso di lui, è al servizio del regno di Dio. Che Dio che sia in cammino, è il motivo dell’esistenza del discepolato, così come sono il motivo dell’esistenza personale di Gesù (Mt 9,9-13). La persona chiamata condivide con Colui che l’ha scelta non solo la vita ma anche il sua causa.
[Ricordare il lavoro spirituale già accennato, cfr. Primo giorno. Presentazione, pag. 2].
I quattro vangeli appena parlano di Maria durante la narrazione del ministero pubblico di Gesù. Ma lei divenne madre perché accolse come figlio Gesù, il progetto salvifico di Dio. Preghiamo si dica come accogliere Dio e la sua causa e ci aiuti a che siano quello che erano per Gesù, suo figlio, nostro Padre e nostro regno.
___________________
Testimoni della radicalità evangelica
Con Gesù come modello
“Il rinnovamento profondo della vita consacrata parte dalla centralità della Parola di Dio,
e più concretamente del Vangelo, regola suprema per tutti voi…
. È il Vangelo vissuto quotidianamente l’elemento che dà fascino e bellezza alla vita consacrata
e vi presenta davanti al mondo come un’alternativa affidabile.
Di questo ha bisogno la società attuale, questo attende da voi la Chiesa: essere Vangelo vivente”.[1]
Il tema del CG27, «Testimoni della radicalità evangelica », “vuole aiutarci ad approfondire la nostra identità carismatica, rendendoci consapevoli della nostra chiamata a vivere in fedeltà il progetto apostolico di Don Bosco… La radicalità di vita rappresenta infatti la nervatura interiore di Don Bosco; essa ha sostenuto la sua instancabile operosità per la salvezza dei giovani e ha consentito il fiorire della Congregazione.”[2]
L’uso del termine radicale, e dei sostantivi derivati, radicalismo e radicalità, è relativamente recente nell’esegesi del Nuovo Testamento. Proveniente dal latino radix, radice, è passato dal lessico scientifico (medicina, filologia..) a quello politico (p. es., partito radicale) prima di introdursi nel linguaggio biblico, già iniziato il secolo XX. [3] Tanto in ambito sociopolitico come nell’ambito della teologia biblica, radicale si riferisce a quei comportamenti o atteggiamenti che, a causa dell’estrema durezza delle scelte che li guidano, il disaccordo sociale che denotano o le inusitate esigenze che impongono, si allontanano da ciò che si considera normale o ragionevole.
Anche se nella Bibbia, tanto nell’AT come nel NT, si presentano esempi notori di radicalismo, in parole ed in opere, non si usa mai questo termine. Esempio notevole di radicalità è il Gesù dei vangeli; in particolare nella tradizione sinottica, la sua predicazione e il suo comportamento personale abbondano di esigenze di un radicalismo inusitato, che richiedono comportamenti estremi (Mt 5,27-30), persino stravaganti (Mt 5,23-26; 18,1-5), impossibili da assumere (Mc 9,43-47; Mt 19,10-12.25-26), caso mai si considerassero praticabili (Mt 5,46-48).
Nel segno della radicalità evangelica si rilevano, in concreto, quelle frasi di Gesù ed alcuni elementi della sua prassi che, formulati spesso con una incredibile, a tratti persino scandalosa, intransigenza (p. es., Mt 5,29-30; Mc 10.23-25), propongono, o meglio impongono, in certe circostanze, decisioni (Mt 5,44.46-47; 10,34-37) e rotture così poco ordinarie (Mt 8,19-22) che diventano impossibili da accogliere (Mt 5,48; Lc 6,36). L’assoluta priorità di Gesù e della sua causa, che devono essere preferiti a qualsiasi altro bene (Mt 6,33), si tratti di ricchezze (Mc 10,17-33; Mt 6,19-34; Lc 14,33), di famiglia (Mt 8,21-22; 10,34-35) e persino della propria vita (Mc 9,34-37; 13,9.11-13; 24,9); l’eccezionalità dell’amore dovuto al fratello e l’impossibilità di fare del male a chicchessia, compresi i nemici (Mt 5,21-48)
L’estrema durezza di queste esigenze, che Gesù richiede a coloro che lo seguono (Mc 1,16-20; 2,13-14; 6,7-13; 9,35; 10,3-4; Mt 8,19-20), provano che “non è venuto a portare la pace, ma la spada” (Mt 10,34-36) e che il regno dei cieli, la cui porta è stretta (Lc 13,2324) è una conquista adatta solo a “violenti” (cfr. Mt 11,12). L’eccezionalità di alcune delle sue esigenze è tale che Gesù stesso riconosce che sono molti gli invitati ma pochi gli eletti (Mt 22,14); che sarebbe migliore se tutti calcolassero le proprie forze prima di dichiararsi disposti ad accettarle (Lc 14,28-32).
Bisogna aggiungere – e ciò le rende ancora più incomprensibili – che Gesù non rivolge queste richieste ad alcuni pochi, bensì a tutti i discepoli: il radicalismo non è una opzione facoltativa nella sequela di Gesù, alla portata di alcuni pochi coraggiosi, ma è norma di vita per chiunque voglia seguirlo. La sequela può essere opzionale, ma se si accetta, dev’essere sempre radicale (Mt 16,24-26; Mc 9,34-38; Lc 9,23-26).
Quindi, il concetto di radicalità evangelica dev’essere collocato e compreso nell’insieme di tutte le esigenze assolute e, quasi sempre, paradossali, che nel NT reggono l’esistenza del credente.[4] Nell’attualità esso è visto, e favorito, come una descrizione appropriata della vita consacrata.[5] Il fatto è che, per quanto si riconosca che il cristiano dev’essere disposto, se la situazione concreta lo esige, a testimoniare tale radicalità evangelica, [6] la vita religiosa vuole rendere abituale l’eccezionale e sceglie di vivere l’esistenza cristiana con la radicalità come norma istituzionalizzata in una regola di vita.[7] “E’ un fatto che tutte le grandi famiglie religiose nacquero in un clima di radicalismo evangelico… Non cercavano […] se non una sola cosa: abbracciare fino alle ultime conseguenze il vangelo di Gesù”.[8]
Per noi salesiani, afferma il Rettor Maggiore, “la testimonianza personale e comunitaria della radicalità evangelica non è un aspetto che si affianchi agli altri, quanto piuttosto una dimensione fondamentale della nostra vita”. “Non si può limitare alla pratica dei consigli evangelici. Essa coinvolge tutto il nostro essere, concernendo le sue componenti vitali: la sequela di Cristo e la ricerca di Dio, la vita fraterna in comunità, la missione”.[9] In concreto, “per fronteggiare le sfide attuali e future della vita consacrata salesiana e della missione in tutta la Congregazione, emerge la necessità di tratteggiare il profilo del nuovo salesiano”,[10] che è chiamato ad essere: mistico, riconoscendo il primato assoluto di Dio; profeta, vivendo della fraternità evangelica e per essa; servo, consacrandosi all’accompagnamento e alla cura dei più bisognosi.
In questi esercizi spirituali ci concentreremo su Gesù Cristo, “il Salvatore annunciato nel vangelo, nostra regola vivente” (Cost. 196), la “norma fondamentale e suprema”[11] della vita consacrata. Contemplandolo comprenderemo meglio questi tre lineamenti del “profilo del nuovo salesiano&rdquo