Opera di importanza capitale, risalente ai primi anni settanta, per la comprensione della mentalità di don Bosco e del suo progetto operativo globale; insieme è rievocazione, riflessione e proiezione nel futuro. Edizione critica a cura di Antonio Da Silva Ferreira ISS, Fonti, Serie prima, 4. Roma - LAS 1991. Edizione divulgativa... Fonti, Serie prima, 5, LAS 1992.
MEMORIE DELL'ORATORIO DAL 1815 AL 1835 ESCLUSIVAMENTE PEI SOCI SALESIANI
Più volte fui esortato di mandare agli scritti le memorie concernenti l'Oratorio di S. Francesco di Sales, e sebbene non potessi rifiutarmi all'autorità di chi mi consigliava, tuttavia non ho mai potuto risolvermi ad occuparmene specialmente perché doveva troppo sovente parlare di me stesso. Ora si aggiunse il comando di persona di somma autorità, cui non è permesso di porre indugio di sorta, perciò mi fo qui ad esporre le cose minute confidenziali che possono servire di lume o tornar di utilità a quella istituzione che la divina Provvidenza si degnò affidare alla Società di S. Francesco di Sales. Debbo anzi tutto premettere che io scrivo pe' miei carissimi figli Salesiani con proibizione di dare pubblicità a queste cose sia prima sia dopo la mia morte.
A che dunque potrà servire questo lavoro? Servirà di norma a superare le difficoltà future, prendendo lezione dal passato; servirà a far conoscere come Dio abbia egli stesso guidato ogni cosa in ogni tempo; servirà ai miei figli di ameno trattenimento, quando potranno leggere le cose cui prese parte il loro padre, e le leggeranno assai più volentieri quando, chiamato da Dio a rendere conto delle mie azioni, non sarò più tra loro.
Avvenendo d'incontrare fatti esposti forse con troppa compiacenza e forse con apparenza di vanagloria, datemene compatimento. E' un padre che gode di parlare delle cose sue a' suoi amati figli, i quali godono pure nel sapere le piccole avventure di chi li ha cotanto amati, e che nelle cose piccole e grandi si è sempre adoperato di operare a loro vantaggio spirituale e temporale.
Io espongo queste memorie ripartite in decadi ossia in periodi di dieci anni, perché in ogni tale spazio succedette un notabile e sensibile sviluppo della nostra istituzione.
Quando poi, o figli miei, leggerete queste memorie dopo la mia morte; ricordatevi che avete avuto un padre affezionato; il quale prima di abbandonare il mondo ha lasciate queste memorie come pegno della paterna affezione; e ricordandovene pregate Dio pel riposo eterno dell'anima mia.
Il giorno consacrato a Maria Assunta in Cielo fu quello della mia nascita l'anno 1815 in Murialdo Borgata di Castelnuovo d'Asti. Il nome di mia madre era Margherita Occhiena di Capriglio, Francesco quello di mio padre. Erano contadini, che col lavoro e colla parsimonia si guadagnavano onestamente il pane della vita. Il mio buon padre quasi unicamente col suo sudore procacciava sostentamento alla nonna settuagenaria, travagliata da vari acciacchi; a tre fanciulli, di cui maggiore era Antonio, figlio del primo letto; il secondo Giuseppe, il più giovane Gioanni, che sono io, più a due servitori di campagna.
Io non toccava ancora i due anni, quando Dio misericordioso ci colpi con grave sciagura. L'amato genitore, pieno di robustezza, sul fiore della età, animatissimo per dare educazione cristiana alla figliuolanza, un giorno, venuto dal lavoro a casa tutto molle di sudore incautamente andò nella sotterranea e fredda cantina. Per la traspirazione soppressa[,] in sulla sera si manifesto una violenta febbre foriera di non leggera costipazione. Tornò inutile ogni cura e fra pochi giorni si trovò all'estremo di vita. Munito di tutti i conforti della religione raccomandando a mia madre la confidenza in Dio, cessava di vivere nella buona età di anni 34, il 12 maggio 1817.
Non so che ne sia stato di me in quella luttuosa occorrenza; soltanto mi ricordo ed e il primo fatto della vita di cui tengo memoria, che tutti uscivano dalla camera del defunto, ed io ci voleva assolutamente rimanere. - Vieni, Giovanni, vieni meco, ripeteva l'addolorata genitrice. - Se non viene papà, non ci voglio andare, risposi. 'Povero figlio, ripiglio mia madre, vieni meco, tu non hai più padre. - Ciò detto ruppe in forte pianto, mi prese per mano e mi trasse altrove, mentre io piangeva perché Ella piangeva. Giacché in quella età non poteva certamente comprendere quanto grande infortunio fosse la perdita del padre.
Questo fatto mise tutta la famiglia nella costernazione. Erano cinque persone da mantenere; i raccolti dell'annata, unica nostra risorsa, andarono falliti per una terribile siccità; i commestibili giunsero a prezzi favolosi. Il frumento si pagò fino a f. 25 l'emina; il gran turco o la meliga fr. 16. Parecchi testimoni contemporanei mi assicurano, che i mendicanti chiedevano con premura un po' di crusca da mettere nella bollitura dei ceci o dei fagiuoli per farsene nutrimento. Si trovarono persone morte ne' prati colla bocca piena d'erba, con cui avevano tentato di acquetare la rabbiosa fame.
Mia madre mi conto più volte, che diede alimento alla famiglia, finché ne ebbe; di poi porse una somma di danaro ad un vicino, di nome Bernardo Cavallo, affinché andasse in cerca di che nutrirsi. Quell'amico andò in vari mercati e non potè nulla provvedere anche a prezzi esorbitanti. Giunse quegli dopo due giorni e giunse aspettatissimo in sulla sera; ma all'annunzio che nulla aveva seco, se non danaro, il terrore invase la mente di tutti; giacché in quel giorno avendo ognuno ricevuto scarsissimo nutrimento, temevansi funeste conseguenze della fame in quella notte. Mia madre senza sgomentarsi andò dai vicini per farsi imprestare qualche commestibile e non trovò chi fosse in grado di venirle in aiuto. Mio marito, prese a parlare, morendo dissemi di avere confidenza in Dio. Venite adunque, inginocchiamoci e preghiamo. Dopo breve preghiera si alzò e disse: - Nei casi estremi si devono usare mezzi estremi. - Quindi coll'aiuto del nominato Cavallo andò alla stalla, uccise un vitello e facendone cuocere una parte con tutta fretta potè con quella sfamare la sfinita famiglia. Pei giorni seguenti si potè poi provvedere con cereali, che, a carissimo prezzo, poterono farsi venire di lontani paesi.
Ognuno può immaginare quanto abbia dovuto soffrire e faticare mia madre in quella calamitosa annata. Ma con un lavoro indefesso, con una economia costante, con una speculazione nelle cose più minute, e con qualche aiuto veramente provvidenziale si potè passare quella crisi annonaria. Questi fatti mi furono più volte raccontati da mia Madre e confermati dai vicini parenti ed amici.
Passata quella terribile penuria, e ritornate le cose domestiche in migliore stato, venne fatta proposta di un convenientissimo collocamento a mia Madre; ma Ella rispose tostamente: - Dio mi ha dato un marito e me lo ha tolto; morendo egli mi affido tre figli, ed io sarei madre crudele, se li abbandonassi nel momento in cui hanno maggior bisogno di me.'Le fu replicato che i suoi figli sarebbero stati affidati ad un buon tutore, che ne avrebbe avuto grande cura.'Il tutore, rispose la generosa donna, è un amico, io sono la madre de' miei figli; non li abbandonerò giammai, quando anche mi si volesse dare tutto l'oro del mondo.
Sua massima cura fu di istruire i suoi figli nella religione, avviarli all'ubbidienza ed occuparli in cose compatibili a quella età. Finché era piccolino mi insegnò Ella stessa le preghiere; appena divenuto capace di associarmi co' miei fratelli, mi faceva mettere con loro ginocchioni mattino e sera e tutti insieme recitavamo le preghiere in comune colla terza parte del Rosario. Mi ricordo che Ella stessa mi preparò alla prima confessione, mi accompagnò in chiesa; cominciò a confessarsi ella stessa, mi raccomandò, al confessore, dopo mi aiuto a fare il ringraziamento. Ella continuo a prestarmi tale assistenza fino a tanto che mi giudicò capace di fare degnamente da solo la confessione.
Intanto io era giunto al nono anno di età; mia madre desiderava di mandarmi a scuola, ma era assai impacciato, per la distanza, giacché dal paese di Castelnuovo eravi la distanza di cinque chilometri. Recarmi in collegio si opponeva il fratello Antonio. Si prese un temperamento. Il tempo d'inverno frequentava la scuola del vicino paesello di Capriglio, dove potei imparare gli elementi di lettura e scrittura. Il mio maestro era un sacerdote di molta pietà a nome Giuseppe Delacqua, il quale mi usò molti riguardi, occupandosi assai volentieri della mia istruzione e più ancora della mia educazione cristiana. Nell'estate poi appagava mio fratello lavorando la campagna.
A quell'età ho fatto un sogno, che mi rimase profondamente impresso nella mente per tutta la vita. Nel sonno mi parve di essere vicino a casa in un cortile assai spazioso, dove stava raccolta una moltitudine di fanciulli, che si trastullavano. Alcuni ridevano, altri giuocavano, non pochi bestemmiavano. All'udire quelle bestemmie mi sono subito lanciato in mezzo di loro adoperando pugni e parole per farli tacere. In quel momento apparve un uomo venerando in virile età nobilmente vestito. Un manto bianco gli copriva tutta la persona; ma la sua faccia era così luminosa, che io non poteva rimirarlo. Egli mi chiamò per nome e mi ordinò di pormi alla testa di que' fanciulli aggiugnendo queste parole: - Non colle percosse ma colla mansuetudine e colla carità dovrai guadagnare questi tuoi amici. Mettiti adunque immediatamente a fare loro un'istruzione sulla bruttezza del peccato e sulla preziosità della virtù.
Confuso e spaventato soggiunsi che io era un povero ed ignorante fanciullo incapace di parlare di religione a que' giovanetti. In quel momento que' ragazzi cessando dalle risse, dagli schiamazzi e dalle bestemmie, si raccolsero tutti intorno a colui, che parlava.
Quasi senza sapere che mi dicessi, - Chi siete voi, soggiunsi, che mi comandate cosa impossibile? Appunto perché tali cose ti sembrano impossibili, devi renderle possibili coll'ubbidienza e coll'acquisto della scienza. - Dove, con quali mezzi potrò acquistare la scienza? - Io ti darò la maestra sotto alla cui disciplina puoi diventare sapiente, e senza cui ogni sapienza diviene stoltezza.
- Ma chi siete voi, che parlate in questo modo?
- Io sono il figlio di colei, che tua madre ti ammaestro di salutar tre volte al giorno.
- Mia madre mi dice di non associarmi con quelli che non conosco, senza suo permesso; perciò ditemi il vostro nome.
- Il mio nome dimandalo a Mia Madre. In quel momento vidi accanto di lui una donna di maestoso aspetto, vestita di un manto, che risplendeva da tutte parti, come se ogni punto di quello fosse una fulgidissima stella. Scorgendomi ognor più confuso nelle mie dimande e risposte, mi accenno di avvicinarmi a Lei, che presomi con bontà per mano, e guarda, mi disse. Guardando mi accorsi che quei fanciulli erano tutti fuggiti, ed in loro vece vidi una moltitudine di capretti, di cani, di gatti, orsi e di parecchi altri animali. - Ecco il tuo campo, ecco dove devi lavorare. Renditi umile, forte, robusto; e ciò che in questo momento vedi succedere di questi animali, tu dovrai farlo pei figli miei.
Volsi allora lo sguardo ed ecco invece di animali feroci apparvero altrettanti mansueti agnelli, che tutti saltellando correvano attorno belando come per fare festa a quell'uomo e a quella signora.
A quel punto, sempre nel sonno, mi misi a piangere, e pregai quello a voler parlare in modo da capire, perciocché io non sapeva quale cosa si volesse significare.
Allora Ella mi pose la mano sul capo dicendomi: A suo tempo tutto comprenderai.
Ciò detto un rumore mi sveglio.
Io rimasi sbalordito. Sembravami di avere le mani che facessero male pei pugni che aveva dato, che la faccia mi duolesse per gli schiaffi ricevuti; di poi quel personaggio, quella donna, le cose dette e le cose udite mi occuparono talmente la mente, che per quella notte non mi fu possibile prendere sonno.
Al mattino ho tosto con premura raccontato quel sogno prima a' miei fratelli, che si misero a ridere, poi a mia madre ed alla nonna. Ognuno dava al medesimo la sua interpretazione. Il fratello Giuseppe diceva: Tu diventerai guardiano di capre, di pecore o di altri animali. Mia madre: Chi sa che non abbi a diventar prete. Antonio con secco accento: Forse sarai capo di briganti. Ma la nonna, che sapeva assai di teologia, era del tutto inalfabeta, diede sentenza definitiva dicendo: Non bisogna badare ai sogni.
Io era del parere di mia nonna, tuttavia non mi fu mai possibile di togliermi quel sogno dalla mente. Le cose che esporrò in appresso daranno a ciò qualche significato. Io ho sempre taciuto ogni cosa; i miei parenti non ne fecero caso. Ma quando, nel 1858, andai a Roma per trattar col Papa della congregazione salesiana, egli si fece minutamente raccontare tutte le cose che avessero anche solo apparenza di soprannaturali. Raccontai allora per la prima volta il sogno fatto in età di nove in dieci anni. Il Papa mi comandò di scriverlo nel suo senso letterale, minuto e lasciarlo per incoraggiamento ai figli della congregazione, che formava lo scopo di quella gita a Roma.
Voi mi avete più volte dimandato a quale età abbia cominciato ad occuparmi dei fanciulli. All'età di 10 anni io facevo quello che era compatibile alla mia età e che era una specie di Oratorio festivo. Ascoltate: Era ancora piccolino assai e studiava già il carattere dei compagni miei. E fissando taluno in faccia per lo più ne scorgeva i progetti che quello aveva in cuore. Per questo in mezzo a' miei coetanei era molto amato e molto temuto. Ognuno mi voleva per giudice o per amico. Dal mio canto faceva del bene a chi poteva, ma del male a nissuno. I compagni poi mi amavano assai, affinché in caso di rissa prendessi di loro difesa. Perciocché sebbene fossi più piccolo di statura aveva forza e coraggio da incutere timore ai compagni di assai maggiore età: a segno che nascendo brighe, quistioni, risse di qualunque genere, io diveniva arbitro dei litiganti ed ognuno accettava di buon grado la sentenza che fossi per proferire.
Ma ciò che li raccoglieva intorno a me, e li allettava fino alla follia, erano i racconti che loro faceva. Gli esempi uditi nelle prediche o nei catechismi; la lettura dei Reali di Francia, del Guerino Meschino, di Bertoldo, Bertoldino, mi somministravano molta materia. Appena i miei compagni mi vedevano, correvano affollati per farsi esporre qualche cosa da colui / che a stento cominciava capire quello che leggeva. A costoro si aggiunsero parecchi adulti, e talvolta nell'andare o venire da Castelnuovo; talora in un campo, in un prato io era circondato da centinaia di persone accorse per ascoltare un povero fanciullo, che fuori di un po' di memoria, era digiuno nella scienza, ma che tra loro compariva un gran dottore. Monoculus rex in regno caecorum.
Nelle stagioni invernali poi tutti mi volevano nella stalla per farsi raccontare qualche storiella. Colà raccoglievasi gente di ogni età e condizione, e tutti godevano di poter passare la serata di cinque ed anche sei ore ascoltando immobili il lettore dei Reali di Francia, che il povero oratore esponeva ritto sopra una panca, affinché fosse da tutti udito e veduto. Siccome però dicevasi che venivano ad ascoltare la predica, così prima e dopo i miei racconti facevamo tutti il segno della santa Croce colla recita dell'Ave Maria. 1826.
Nella bella stagione, specialmente ne' giorni festivi si radunavano quelli del vicinato e non pochi forestieri. Qui la cosa prendeva aspetto assai più serio. Io dava a tutti un trattenimento con alcuni giuocarelli che io stesso aveva da altri imparato. Spesso sui mercati e sulle fiere vi erano ciarlatani e saltimbanchi, che io andava a vedere. Osservando attentamente ogni più piccola loro prodezza, me ne andava di poi a casa e mi esercitava fino a tanto che avessi imparato a fare altrettanto. Immaginatevi le scosse, gli urti, gli stramazzoni, i capitomboli cui ad ogni momento andava soggetto. Pure lo credereste? Ad undici anni io faceva i giuochi dei bussolotti, il salto mortale, la rondinella, camminava sulle mani, camminava, saltava e danzava sulla corda, come un saltimbanco di professione. /
Da quello che si faceva un giorno festivo comprenderete quanto io faceva negli altri.
Ai Becchi avvi un prato, dove allora esistevano diverse piante, di cui tuttora sussiste un pero martinello, che in quel tempo mi era di molto aiuto. A questo albero attaccava una fune, che andava a rannodarsi ad un altro a qualche distanza; di poi un tavolino colla bisaccia; indi un tappeto a terra per farvi sopra i salti. Quando ogni cosa era preparata ed ognuno stava ansioso di ammirare novità, allora li invitava tutti a recitare la terza parte del Rosario, dopo cui si cantava una lode sacra. Finito questo montava sopra una sedia, faceva la predica, o meglio ripeteva quanto mi ricordava della spiegazione del vangelo udita al mattino in chiesa; oppure raccontava fatti od esempi uditi o letti in qualche libro. Terminata la predica si faceva breve preghiera, e tosto si dava principio ai trattenimenti. In quel momento voi avreste veduto[,] come vi dissi, l'oratore divenire un ciarlatano di professione. Fare la rondinella, il salto mortale, camminare sulle mani col corpo in alto; poi cingermi la bisaccia, mangiare gli scudi per andarli a ripigliare sulla punta del naso dell'uno o dell'altro; poi moltiplicare le palle, le uova, cangiare l'acqua in vino, uccidere e fare in pezzi un pollo e poi farlo risuscitare e cantare meglio di prima, erano gli ordinarii trattenimenti. Sulla corda poi camminava come per un sentiero; saltava, danzava, mi appendeva ora per un piede, ora per due; talora con ambe le mani, talora con una sola. Dopo alcune ore di questa ricreazione quando io era ben stanco, cessava ogni trastullo, facevasi breve preghiera ed ognuno se ne andava pe' fatti suoi.
Da queste radunanze erano esclusi tutti quelli che avessero bestemmiato, fatto cattivi discorsi, o avessero rifiutato di prendere parte alle / pratiche religiose.
Qui voi mi farete una dimanda: Per andare alle fiere, ai mercati, ad assistere i ciarlatani, provvedere quanto occorreva per quei divertimenti, erano necessarii danari, e questi dove si prendevano? A questo io poteva provvedere in più modi. Tutti i soldi che mia madre od altri mi davano per minuti piaceri o per ghiottoneria; le piccole mancie, i regali, tutto era posto in serbo per questo bisogno. Di più io era peritissimo ad uccellare colla trappola, colla gabbia, col vischio, coi lacci; pratichissimo delle nidiate. Fatta raccolta sufficiente di questi oggetti io sapeva venderli assai bene. I funghi, l'erba tintoria, il treppio erano eziandio per me sorgente di danaro.
Voi qui mi dimanderete: E la madre mia era contenta che tenessi una vita cotanto dissipata e spendessi il tempo a fare il ciarlatano? Vi dirò che mia madre mi voleva molto bene; ed io le aveva confidenza illimitata, e senza il suo consenso non avrei mosso un piede. Ella sapeva tutto, osservava tutto e mi lasciava fare. Anzi, occorrendomi qualche cosa me la somministrava assai volentieri. Gli stessi miei compagni e in generale tutti gli spettatori mi davano con piacere quanto mi fosse stato necessario per procacciare loro quegli ambiti passatempi.
Io era all'età di anni undici quando fui ammesso alla prima comunione. Sapevo tutto il piccolo catechismo, ma per lo più niuno era ammesso alla comunione se non ai dodici anni. Io poi per la lontananza dalla chiesa, era sconosciuto al parroco, e doveva quasi esclusivamente limitarmi alla istruzione religiosa della buona genitrice. Desiderando pero di non lasciarmi andare più avanti nell'età senza farmi praticare quel grande atto di nostra santa religione, si adopero Ella stessa a prepararmi come meglio poteva e sapeva. Lungo la quaresima mi invio ogni giorno al catechismo, di poi fui esaminato, promosso e si era fissato il giorno in cui tutti i fanciulli dovevano fare pasqua.
In mezzo alla moltitudine era impossibile di evitare la dissipazione. Mia madre studio di assistermi più giorni; mi aveva condotto tre volte a confessarmi lungo la quaresima. Giovanni mio, disse ripetutamente, Dio ti prepara un gran dono; ma procura prepararti bene, di confessarti, di non tacer alcuna cosa in confessione. Confessa tutto, sii pentito di tutto, e prometti a Dio di farti più buono in avvenire. Tutto promisi; se poi sia stato fedele, Dio lo sa. A casa mi faceva pregare, leggere un buon libro, dandomi que' consigli che una madre industriosa sa trovare opportuni pe' suoi figliuoli.
Quel mattino non mi lascio parlare con nissuno, mi accompagnò alla sacra mensa e fece meco la preparazione ed il ringraziamento, che il Vicario Foraneo, di nome Sismondi, con molto zelo faceva a tutti con voce alta ed alternata. In quella giornata non volle che mi occupassi in alcun lavoro materiale, ma tutta l'adoperassi a leggere e a pregare.- Fra le molte cose mia madre mi ripetà più volte queste parole: O caro figlio, fu questo per te un gran giorno. Sono persuasa che Dio abbia veramente preso possesso del tuo cuore. Ora promettigli di fare quanto puoi per conservarti buono sino alla fine della vita. Per l'avvenire va sovente a comunicarti, ma guardati bene dal fare dei sacrilegi. Di' sempre tutto in confessione; sii sempre ubbidiente, va volentieri al catechismo ed alle prediche; ma per amor del Signore fuggi come la peste coloro che fanno cattivi discorsi.
Ritenni e procurai di praticare gli avvisi della pia genitrice; e mi pare che da quel giorno vi sia stato qualche miglioramento nella mia vita, specialmente nella ubbidienza e nella sottomissione agli altri, al che provava prima grande ripugnanza, volendo sempre fare i miei fanciulleschi riflessi a chi mi comandava o mi dava buoni consigli.
Una cosa che mi dava grave pensiero era il difetto di una chiesa o cappella dove andare a cantare, a pregare co' miei compagni. Per ascoltare una predica oppure un catechismo, bisognava fare la via di circa dieci chilometri, tra andata e ritorno, o a Castelnuovo o nel paese vicino di Buttigliera. Questo era il motivo per cui si veniva volentieri ad ascoltare le prediche del saltimbanco.
In quell'anno (1826) una solenne missione che ebbe luogo nel paese di Buttigliera, mi porse opportunità di ascoltare parecchie prediche. La rinomanza dei predicatori traeva gente da tutte parti. Io pure ci andava con molti altri. Fatta una istruzione ed una meditazione in sulla sera, lasciavansi liberi gli uditori di recarsi alle case loro.
Una di quelle sere di aprile, mi recava a casa in mezzo alla moltitudine, e tra noi eravi un certo D. Calosso di Chieri, uomo assai pio, il quale sebbene curvo dagli anni faceva quel lungo tratto di via per recarsi ad ascoltare i missionari. Desso era cappellano di Murialdo. Il vedere un fanciullo di piccola statura, col capo scoperto, capelli irti ed inanellati camminare in gran silenzio in mezzo agli altri trasse sopra di me il suo sguardo e prese a parlarmi così:
- Figlio mio, donde vieni? sei forse andato anche tu alla missione?
- Si, signore, sono andato alla predica dei Missionari.
- Che cosa avrai tu mai potuto capire! Forse tua Mamma ti avrebbe fatta qualche predica più opportuna, non è vero?
- E' vero, mia Madre mi fa sovente delle buone prediche; ma vado anche assai volentieri ad ascoltare quelle dei missionari e mi sembra di averle capite.
Se tu sai dirmi quattro parole delle prediche di quest'oggi io ti do quattro soldi.
Mi dica soltanto se desidera, che io le dica della prima o della seconda predica. 350
- Come più ti piace, purché tu mi dica quattro parole. Ti ricordi di che cosa si tratto nella prima predica?
- Nella prima predica si parlo della necessita di darsi a Dio per tempo e non differire la conversione.
- E che cosa fu detto in quella predica? soggiunse il venerando vecchio alquanto maravigliato.
- Me ne ricordo assai bene e se vuole gliela recito tutta.
E senza altro attendere cominciai ad esporre l'esordio, poi i tre punti, cioè che colui il quale differisce la sua conversione corre gran pericolo che gli manchi il tempo, la grazia o la volontà.
Egli mi lasciò continuare per oltre mezz'ora in mezzo alla moltitudine; di poi si fece ad interrogarmi così? 'Come è tuo nome, i tuoi parenti, hai fatto molte scuole?
- Il mio nome è Gioanni, mio Padre morì quando io era ancor bambino. Mia Madre è vedova con cinque creature da mantenere. Ho imparato a leggere e un poco a scrivere.
- Non hai studiato il donato o la gramatica?
- Non so che cosa siano.
- Ameresti di studiare?
- Assai, assai.
- Che cosa t'impedisce?
- Mio fratello Antonio.
- Perché Antonio non vuole lasciarti studiare?
- Perché non avendo egli voluto andare a scuola, dice che non vuole che altri perda tempo a studiare come egli l'ha perduto, ma se io ci potessi andare, si che studierei e non perderei tempo.
- Per qual motivo desidereresti studiare?
- Per abbracciare lo stato ecclesiastico.
- E per qual motivo vorresti abbracciare questo stato?
- Per avvicinarmi, parlare, istruire nella religione tanti miei compagni, che non sono cattivi, ma diventano tali, perché niuno di loro ha cura.
Questo mio schietto e direi audace parlare fece grande impressione sopra quel santo sacerdote, che mentre io parlava non mi tolse mai di dosso lo sguardo. Venuti intanto ad un punto di strada, dove era mestieri separarci, mi lasciò con queste parole: Sta di buon animo; io penserò a te e al tuo studio. Domenica vieni con tua Madre a vedermi e conchiuderemo tutto.
La seguente domenica ci andai di fatto con mia Madre e si convenne, che egli stesso mi avrebbe fatto scuola, una volta al giorno, impiegando il rimanente della giornata a lavorare in campagna per appagare il fratello Antonio. Questi si contentò facilmente, perché ciò dovevasi cominciare dopo l'estate, quando i lavori campestri non danno più gran pensiero.
Io mi sono tosto messo nelle mani di D. Calosso, che soltanto da alcuni mesi era venuto a quella cappellania. Gli feci conoscere tutto me stesso. Ogni parola, ogni pensiero, ogni azione eragli prontamente manifestata. Ciò gli piacque assai, perché in simile guisa con fondamento potevami regolare nello spirituale e nel temporale.
Conobbi allora che voglia dire avere una guida stabile, di un fedele amico dell'anima, di cui fino a quel tempo era stato privo. Fra le altre cose mi proibì tosto una penitenza, che io era solito di fare, non adattata alla mia età e condizione. M'incoraggò a frequentar la confessione e la comunione, e mi ammaestrò intorno al modo di fare ogni giorno una breve meditazione o meglio un po' di lettura spirituale. Tutto il tempo che poteva nei giorni festivi lo passava presso di lui. Ne' giorni feriali, per quanto poteva, andava servirgli la santa messa. Da quell'epoca ho cominciato a gustare che cosa sia vita spirituale, giacché prima agiva piuttosto materialmente e come macchina che fa una cosa, senza saperne la ragione.
Alla metà di settembre ho cominciato regolarmente lo studio della grammatica italiana, che in breve ho potuto compiere e praticare con opportune composizioni. A Natale ho dato mano al donato, a Pasqua diedi principio alle traduzioni dal latino in italiano e vicendevolmente. In tutto quel tempo non ho mai cessato dai soliti trattenimenti festivi nel prato, o nella stalla d'inverno. Ogni fatto, ogni detto e posso dire ogni parola del maestro serviva a trattenere i miei uditori.
Io mi reputava felice di essere giunto al compimento de' miei desiderii, quando nuova tribolazione, anzi un grave infortunio tronco il filo delle mie speranze.
Fino a tanto che durò l'inverno e che i lavori contadineschi non richiedevano alcuna premura il fratello Antonio mi dava tempo di applicarmi alle cose di scuola. Ma venuta la primavera, cominciò a lagnarsi dicendo che esso doveva logorarsi la vita in pesanti fatiche mentre io perdeva il tempo facendo il signorino. Dopo vive discussioni con me e con mia madre, per conservare la pace in famiglia si conchiuse, che io sarei andato al mattino per tempo a scuola e il rimanente del giorno avrei impiegato in lavori materiali. Ma come studiare le lezioni? Come fare le traduzioni?
Ascoltate: L'andata ed il ritorno di scuola porgevami un po' di tempo a studiare. Giunto poi a casa, prendeva la zappa da una mano, dall'altra la gramatica; e durante la strada studiava Qui quae quod, qualora e messo etc. fino al luogo del lavoro; colà, dando un compassionevole sguardo alla gramatica, mettevala in un angolo e mi accingeva a zappare, a sarchiare o raccogliere erba cogli altri secondo il bisogno.
L'ora poi in cui gli altri solevano fare merenda io mi ritirava in disparte, e con una mano teneva la pagnottella mangiando, coll'altra teneva il libro studiando. La medesima operazione faceva ritornando a casa. L'ora del desinare, della cena, qualche furto al riposo era l'unico tempo che mi rimaneva pe' miei doveri in iscritto.
Malgrado tanto lavoro e tanta buona volontà il fratello Antonio non era soddisfatto. Un giorno con mia madre, di poi con mio fratello Giuseppe, in tono imperativo disse: E abbastanza fatto. Voglio finirla con questa gramatica. Io sono venuto grande e grosso e non ho mai veduto questi libri. Dominato in quel momento dall'afflizione e dalla rabbia, risposi quello che non avrei dovuto.
Tu parli male, gli dissi: Non sai che il nostro asino e più grosso di te e non andò mai a scuola? Vuoi tu divenire simile a lui? A quelle parole saltò sulle furie, e soltanto colle gambe, che mi servivano assai bene, potei fuggire e scampare da una pioggia di busse e di scappellotti.
Mia madre era afflittissima; io piangevo; il cappellano addolorato. Quel degno ministro di Dio informato dei guai avvenuti in mia famiglia, mi chiamò un giorno e mi disse: Gioanni mio, tu hai messo in me la tua confidenza, e non voglio che ciò sia invano. Lascia adunque un fratello crudele e vieni con me ed avrai un padre amoroso.
Comunicai tosto a mia madre quella caritatevole profferta, e fu una festa in famiglia. Al mese di aprile cominciai a fare vita col cappellano, andando soltanto la sera a casa per dormire.
Niuno può immaginare la grande mia contentezza. D. Calosso per me era divenuto un idolo. L'amava più che padre, pregava per lui, lo serviva volentieri in tutte le cose. Era poi sommo piacere di faticare per lui, e direi dare la vita in cosa di suo gradimento. Io faceva tanto progresso in un giorno col cappellano, quanto non avrei fatto a casa in una settimana. Quell'uomo di Dio mi portava tanta affezione che più volte ebbe a dirmi: Non darti pena pel tuo avvenire; finché vivrò, non ti lascierò mancare niente; se muoio ti provvederò parimenti.
Gli affari miei procedevano con indicibile prosperità: Io mi chiamava pienamente felice, né cosa alcuna rimanevami a desiderare, quando un disastro troncò il corso a tutte le mie speranze.
Un mattino di aprile 1828 D. Calosso mi inviò presso a' miei parenti per una commissione; era appena giunto a casa allorché una persona correndo ansante mi accenna di correre immediatamente da D. Calosso, colpito da grave malanno, e, dimandava di me. Non corsi, ma volai accanto al mio benefattore, che fatalmente trovai a letto senza parola. Era stato assalito da un colpo apopletico. Mi conobbe, voleva parlare, ma non poteva più articolare parola. Mi diede la chiave del danaro, facendo segno di non darla ad alcuno. Ma dopo due giorni di agonia il povero D. Calosso mandava l'anima in seno al Creatore, con lui moriva ogni mia speranza. Ho sempre pregato e finché avrò vita non mancherò di fare ogni mattina preghiere per questo mio insigne benefattore.
Vennero gli eredi di D. Calosso, e loro consegnai chiave ed ogni altra cosa.
In quell'anno la divina provvidenza mi fece incontrare un novello benefattore: D. Caffasso Giuseppe di Castelnuovo d'Asti.
Era la seconda Domenica di ottobre (1827) e dagli abitanti di Murialdo si festeggiava la Maternità di Maria SS., che era la Solennità principale fra quegli abitanti. Ognuno era in faccende per le cose di casa, o di chiesa, mentre altri erano spettatori o prendevano parte a giuochi o a trastulli diversi.
Un solo io vidi lungi da ogni spettacolo; ed era un chierico, piccolo nella persona, occhi scintillanti, aria affabile, volto angelico. Egli era appoggiato alla porta della Chiesa. Io ne fui come rapito dal suo sembiante, e sebbene io toccassi soltanto l'età di dodici anni, tuttavia mosso dal desiderio di parlargli, mi avvicinai e gli indirizzai queste parole: Signor abate, desiderate di vedere qualche spettacolo della nostra festa? Io vi condurrò di buon grado ove desiderate.
Egli mi fe' grazioso cenno di avvicinarmi, e prese ad interrogarmi sulla mia età, sullo studio, se io era già stato promosso alla Santa Comunione, con che frequenza andava a confessarmi, ove andava al Catechismo e simili. Io rimasi come incantato a quelle edificanti maniere di parlare; risposi volentieri ad ogni domanda; di poi quasi per ringraziarlo della sua affabilità, ripetei l'offerta di accompagnarlo a visitare qualche spettacolo o qualche novità.
Mio caro amico, egli ripigliò, gli spettacoli dei preti sono le funzioni di Chiesa; quanto più esse sono divotamente celebrate, tanto più grati ci riescono i nostri spettacoli. Le nostre novità sono le pratiche della religione che sono sempre nuove e percio da frequentarsi con assiduità; io attendo solo che si apra la Chiesa per poter entrare.
Mi feci animo a continuare il discorso, e soggiunsi: è vero quanto mi dite; ma v'è tempo per tutto; tempo di andare in Chiesa, e tempo per ricrearci.
Egli si pose a ridere, e conchiuse con queste memorande parole, che furono come il programma delle azioni di tutta la sua vita: Colui che abbraccia lo Stato Ecclesiastico si vende al Signore; e di quanto avvi nel mondo, nulla deve più stargli a cuore se non quello che può tornare a maggior gloria di Dio e a vantaggio delle anime.
Allora tutto maravigliato, volli sapere il nome di quel Chierico, le cui parole e il cui contegno cotanto manifestavano lo Spirito del Signore. Seppi che egli era il chierico Giuseppe Cafasso, studente del 1º anno di Teologia, di cui più volte aveva già udito parlare come di uno specchio di virtù.
La morte di D. Calosso fu per me un disastro irreparabile. Io piangeva inconsolabile il benefattore defunto. Se era sveglio pensava a lui, se dormiva sognava di lui, le cose andarono tanto oltre, che mia madre, temendo di mia sanità, mandommi alcun tempo con mio nonno in Capriglio.
A quel tempo feci altro sogno secondo il quale io era acremente biasimato perché aveva riposta la mia speranza negli uomini e non nella bontà del Padre Celeste.
Intanto ero sempre accompagnato dal pensiero di progredire negli studi. Io vedeva parecchi buoni preti che lavoravano nel sacro ministero, ma non poteva con loro contrarre alcuna famigliarità.
Mi avvenne spesso di incontrare per via il mio prevosto col suo viceparroco. Li salutava di lontano, più vicino faceva eziandio un inchino. Ma essi in modo grave e cortese restituivano il saluto continuando il loro cammino. Più volte piangendo diceva tra me, ed anche con altri: Se io fossi prete, vorrei fare diversamente; vorrei avvicinarmi ai fanciulli, vorrei dire loro delle buone parole, dare dei buoni consigli. Quanto sarei felice, se potessi discorrere un poco col mio prevosto. Questo conforto l'ebbi con D. Calosso; che nol possa più avere?
Mia madre scorgendomi tuttora afflitto per le difficoltà, che si frapponevano a' miei studi, e disperando di ottenere il consenso di Antonio, che già oltrepassava i vent'anni, delibero di venire alla divisione dei beni paterni. Eravi grave difficoltà perocché io e Giuseppe essendo minori di età, dovevansi compiere molte incombenze, e sottostare a gravi spese. Nulla di meno si venne a quella deliberazione. Così la nostra famiglia fu ridotta a mia madre, a mio fratello Giuseppe, che volle vivere meco indiviso. Mia nonna era morta alcuni anni prima.
È vero che con quella divisione mi si toglieva un macigno dallo stomaco, e mi si dava piena libertà di proseguire gli studi; ma per ottemperare alle formalità delle leggi, ci vollero più mesi, ed io potei soltanto andare alle pubbliche scuole di Castelnuovo circa al Natale di quell'anno 1828, quando correva l'anno decimoterzo di mia età.
Gli studi fatti in privato, l'entrare in una scuola pubblica con maestro nuovo, furono per me uno sconcerto; che dovetti quasi cominciare la gramatica italiana per farmi poi strada alla latina. Per qualche tempo andava da casa ogni giorno a scuola in paese, ma nel crudo inverno mi era quasi impossibile. Tra due andate e due ritorni formavansi venti chilometri di cammino al giorno. Fui pertanto messo in pensione con un onest'uomo di nome Roberto Gioanni di professione sarto, e buon dilettante di canto gregoriano e di musica vocale. E poiché la voce mi favoriva alquanto mi diedi con tutto cuore all'arte musicale e in pochi mesi potei montare sull'orchestra e fare parti obbligate con buon successo. Di più desiderando di occupare la ricreazione in qualche cosa, mi posi a cucire da sarto. In brevissimo tempo divenni capace di fare i bottoni, gli orli, le cuciture semplici e doppie. Appresi pure a tagliare le mutande, i corpetti, i calzoni, i farsetti; e mi pareva di essere divenuto un valente capo sarto.
Il mio padrone mirandomi così progredire nel suo mestiere mi fece delle proposte assai vantaggiose, affinché mi fermassi definitivamente con lui ad esercitarlo. Ma diverse erano le mie vedute: desiderava di avanzarmi negli studi. Perciò mentre per evitare l'ozio mi occupava di molte cose faceva ogni sforzo per raggiungere lo scopo principale.
In quell'anno ho incorso qualche pericolo dalla parte di alcuni compagni. Volevano condurmi a giuocare in tempo di scuola, e siccome io adduceva la ragione di non aver danaro, mi suggerirono il modo di farmene rubando al mio padrone; oppure a mia madre. Un compagno per animarmi a ciò diceva: Mio caro, è tempo di svegliarti, bisogna imparare a vivere nel mondo. Chi tiene gli occhi bendati non vede dove cammina. Orsò provvediti del danaro e godrai anche tu i piaceri de' tuoi compagni.
Mi ricordo che ho fatto questa risposta: Io non posso comprendere ciò che volete dire; ma dalle vostre parole sembra che mi vogliate consigliare a giuocare, a rubare. Ma tu non dici ogni giorno nelle preghiere, settimo non rubare? E poi chi ruba è ladro e i ladri fanno trista fine. Altronde mia madre mi vuole molto bene, e se le dimando danaro per cose lecite me lo da, senza suo permesso non ho mai fatto niente, nemmeno voglio cominciare adesso a disubbidirla. Se i tuoi compagni fanno questo mestiere sono perversi. Se poi nol fanno e lo consigliano ad altri, sono bricconi e scellerati.
Questo discorso andò dall'uno all'altro, e niuno più osò farmi di quelle indegne proposte. Anzi questa risposta andò all'orecchio del professore, che di poi mi divenne assai più affezionato; si seppe anche da molti parenti di giovanetti signori, che perciò esortavano i loro figliuoli venissero meco. In questa guisa io potei con facilità farmi una scelta di amici, che mi amavano, e mi ubbidivano come quelli di Murialdo.
Le cose mie prendevano cosi ottima piega allorché novello incidente le venne a disturbare. Il Sig. D. Virano, mio professore, fu nominato parroco di Mondonio diocesi d'Asti. Laonde all'aprile di quell'anno 1830 l'amato nostro maestro andava al possesso della sua parrocchia; ed era supplito da uno che, incapace di tenere la disciplina, mando quasi al vento quanto nei precedenti mesi aveva imparato.
Dopo la perdita di tanto tempo finalmente fu presa la risoluzione di recarmi a Chieri ove applicarmi seriamente allo studio. Era l'anno 1830. Per chi e allevato tra boschi, e appena ha veduto qualche paesello di provincia prova grande impressione di ogni piccola novità. La mia pensione era in casa di una compatriotta, Lucia Matta, vedova con un solo figlio, che si recava in quella città per assisterlo e vegliarlo.
La prima persona che conobbi fu il sacerdote D. Eustachio Valimberti di cara ed onorata memoria. Egli mi diede molti buoni avvisi sul modo di tenermi lontano dai pericoli; mi invitava a servirgli la messa, e ciò gli porgeva occasione di darmi sempre qualche buon suggerimento. Egli stesso mi condusse dal prefetto delle scuole, mi pose in conoscenza cogli altri miei professori. Siccome gli studi fatti fino allora erano un po' di tutto, che riuscivano quasi a niente, così fui consigliato a mettermi nella sesta classe, che oggidì corrisponderebbe alla classe preparatoria alla la Ginnasiale.
Il maestro di allora, T. Pugnetti, anch'esso di cara memoria, mi usò molta carità: Mi accudiva nella scuola, mi invitava a casa sua e mosso a compassione dalla mia età e dalla buona volontà nulla risparmiava di quanto poteva giovarmi.
Ma la mia età, e la mia corporatura mi faceva comparire come un alto pilastro in mezzo ai piccoli compagni. Ansioso di togliermi da quella posizione, dopo due mesi di sesta classe, avendone raggiunto il primo posto, venni ammesso all'esame e promosso alla classe quinta. Entrai volentieri nella classe novella, perché i condiscepoli erano più grandicelli, e poi aveva a professore la cara persona di D. Valimberti. Passati altri due mesi essendo eziandio più volte riuscito il primo della classe, fui per via eccezionale ammesso ad altro esame e quindi ammesso alla quarta, che corrisponde alla 2a Ginnasiale.
In questa classe era professore Cima Giuseppe; uomo severo per la disciplina. Al vedersi un allievo alto e grosso al par di lui, comparire in sua scuola a metà dell'anno scherzando disse in piena scuola: Costui o che è una grossa talpa, o che è un gran talento. Che ne dite? Tutto sbalordito da quella severa presenza: Qualche cosa di mezzo, risposi, e un povero giovane, che ha buona volontà di fare il suo dovere e progredire negli studi.
Piacquero quelle parole, e con insolita affabilità soggiunse:
Se avete buona volontà, voi siete in buone mani, io non vi lascierà inoperoso. Fatevi animo, e se incontrerete difficoltà, ditemele tosto ed io ve le appianerà.
Lo ringraziai di tutto cuore.
Era da due mesi in questa classe quando un piccolo incidente fece parlare alquanto di me. Un giorno il professore spiegava la vita di Agesilao scritta da Cornelio Nipote. In quel giorno non aveva meco il libro e per celare al maestro la mia dimenticanza tenevami davanti il Donato aperto. Se ne accorsero i compagni. Uno comincio, l'altro continuo a ridere a segno che la scuola era in disordine.
Che c'è, disse il precettore, che c'è, mi si dica sull'istante. E siccome l'occhio di tutti stava rivolto verso me, egli mi comandò di fare la costruzione e ripetere la stessa sua spiegazione. Mi alzai allora in piedi, e tenendo tuttora il Donato tra mano ripetei a memoria il testo, la costruzione e la spiegazione. I compagni quasi istintamente mandando voci di ammirazione batterono le mani. Non è a dire a quale furia si lasciasse portare il professore; perché quella era la prima volta, che, secondo lui, non poteva tener la disciplina. Mi diede uno scappellotto, che scansai piegando il capo; poi tenendo la mano sul mio Donato si fece dai vicini esporre la cagione di quel disordine. Dissero questi: Bosco ebbe sempre davanti a se il Donato, ed ha letto e spiegato come se tra mano avesse avuto il libro di Cornelio.
Il professore prese di fatto il Donato, mi fece ancora continuare due periodi e poi mi disse: Per la vostra felice memoria vi perdono la dimenticanza che avete fatto. Siete fortunato, procurate soltanto di servirvene in bene.
Sul finire di quell'anno scolastico (1830-1831) fui con buoni voti promosso alla terza gramatica ossia terza Ginnasiale.
In queste prime quattro classi ho dovuto imparare a mio conto a trattare coi compagni. Io aveva fatto tre categorie di compagni: Buoni, indifferenti, cattivi. Questi ultimi evitarli assolutamente e sempre appena conosciuti; cogli indifferenti trattenermi per cortesia e per bisogno; coi buoni contrarre famigliarità, quando se ne incontrassero che fossero veramente tali. Siccome in questa città io non conosceva alcuno, così io mi sono fatto una legge di famigliarizzare con nissuno. Tuttavia ho dovuto lottare non poco con quelli, che io per bene non conosceva. Taluni volevano guidarmi ad un teatrino, altri a fare una partita al giuoco, quell'altro ad andare a nuoto. Taluno anche a rubacchiare frutta nei giardini o nella campagna.
Un cotale fu così sfacciato, che mi consiglio a rubare alla mia padrona di casa un oggetto di valore a fine di procacciarci dei confetti. Io mi sono liberato da questa caterva di tristi col fuggire rigorosamente la loro compagnia, di mano in mano mi veniva dato di poterli scoprire. Generalmente poi diceva a tutti per buona risposta che mia madre avevami affidato alla mia padrona di casa, e che per l'amore che a quella io portava non voleva andare in nissun luogo, ne fare cosa alcuna senza il consenso della medesima buona Lucia.
Questa mia ferma ubbidienza alla buona Lucia mi tornò anche utile temporalmente, perciocché con gran piacere mi affidò il suo unico figlio (I)
(1) Matta Gio. Batt.a di Castelnuovo d'Asti già molti anni sindaco di sua patria, ora neg. in drogheria nel medesimo paese.
di carattere molto vivace, amantissimo dei trastulli, pochissimo dello studio. Ella mi incaricò eziandio di fargli la ripetizione sebbene fosse di classe superiore alla mia.
Io me ne occupai come di un fratello. Colle buone, con piccoli regali, con trattenimenti domestici, e più conducendolo alle pratiche religiose me lo resi assai docile, ubbidiente e studioso a segno che dopo sei mesi era divenuto abbastanza buono e diligente da contentare il suo professore ed ottenere posti d'onore nella sua classe. La madre ne fu lieta assai e per premio mi condonò intiera la mensile pensione.
Siccome poi i compagni, che volevano tirarmi ai disordini, erano i più trascurati nei doveri, così essi cominciarono a far ricorso a me, perché facessi la carità scolastica prestando o dettando loro il tema di scuola. Spiacque tal cosa al professore, perché quella falsa benevolenza, fomentava la loro pigrizia, e ne fui severamente proibito. Allora mi appigliai ad una via meno rovinosa, vale a dire a spiegare le difficoltà, ed anche aiutare quelli cui fosse mestieri. Con questo mezzo faceva piacere a tutti, e mi preparava la benevolenza e l'affezione dei compagni. Cominciarono quelli a venire per ricreazione, poi per ascoltare racconti, e per fare il tema scolastico e finalmente venivano senza nemmeno cercarne il motivo come già quei di Murialdo e di Castelnuovo. Per dare un nome a quelle riunioni solevamo chiamarle Società dell'Allegria; nome che assai bene si conveniva, perciocche era obbligo stretto a ciascuno di cercare que' libri, introdurre que' discorsi, e trastulli che avessero potuto contribuire a stare allegri; pel contrario era proibito ogni cosa che cagionasse malinconia specialmente le cose contrarie alla legge del Signore. Chi pertanto avesse bestemmiato o nominato il nome di Dio invano, o fatto cattivi discorsi era immediatamente allontanato dalla società. Trovatomi così alla testa di una moltitudine di compagni di comune accordo fu posto per base:
1º Ogni membro della Società dell'Allegria deve evitare ogni discorso, ogni azione che disdica ad un buon cristiano;
2º Esattezza nell'adempimento dei doveri scolastici e dei doveri religiosi. Queste cose contribuirono a procacciarmi stima, e nel 1832 io era venerato da' miei colleghi come capitano di un piccolo esercito. Da tutte parti io era cercato per dare trattenimenti, assistere allievi nelle case private ed anche per fare scuola o ripetizione a domicilio. Con questo mezzo la divina provvidenza mi metteva in grado di provvedermi quanto erami necessario per abiti, oggetti di scuola ed altro senza cagionare alcun disturbo alla mia famiglia.
Fra coloro che componevano la Società dell'Allegria ne ho potuto rinvenire alcuni veramente esemplari. Fra costoro meritano essere nominati Garigliano Guglielmo di Poirino e Braje Paolo di Chieri. Essi partecipavano volentieri alla onesta ricreazione, ma in modo che la prima cosa a compiersi fossero sempre i doveri di scuola. Amavano ambidue la ritiratezza e la pietà, e mi davano costantemente buoni consigli. Tutte le feste dopo la congregazione del collegio, andavamo alla chiesa di S. Antonio dove i Gesuiti facevano uno stupendo catechismo, in cui raccontavansi parecchi esempi che tuttora ricordo.
Lungo la settimana poi la Società dell'Allegria si raccoglieva in casa di uno de' soci per parlare di religione. A questa radunanza interveniva liberamente chi voleva. Garigliano e Braje erano dei più puntuali. Ci trattenevamo alquanto in amena ricreazione, in pie conferenze, letture religiose, in preghiere, nel darci buoni consigli, e nel notarci quei difetti personali, che taluno avesse osservato, o ne avesse da altri udito a parlare. Senza che per allora il sapessi mettevamo in pratica quel sublime avviso: Beato chi ha un monitore. E quello di Pitagora: Se non avete un amico che vi corregga i difetti, pagate un nemico che vi renda questo servizio.
Oltre a questi amichevoli trattenimenti andavamo ad ascoltare le prediche, spesso a confessarci e a fare la santa comunione. Qui e bene che vi ricordi come di que' tempi la religione faceva parte fondamentale dell'educazione. Un professore che eziandio celiando avesse pronunziato una parola lubrica, o irreligiosa era immediatamente dismesso dalla carica. Se facevasi così dei professori immaginatevi quanta severità si usasse verso gli allievi indisciplinati o scandalosi! La mattina dei giorni feriali s'ascoltava la santa messa; al principio della scuola si recitava divotamente l'Actiones coll'Ave Maria. Dopo dicevasi l'Agimus coll'Ave Maria.
Ne' giorni festivi poi gli allievi erano tutti raccolti nella chiesa della congregazione. Mentre i giovani entravano si faceva lettura spirituale, cui seguiva il canto dell'uffizio della Madonna; di poi la messa, quindi la spiegazione del Vangelo. La sera catechismo, vespro, istruzione. Ciascuno doveva accostarsi ai santi sacramenti e per impedire trascuratezza di questi importanti doveri, erano obbligati a portare una volta al mese il biglietto di confessione. Chi non avesse adempito questo dovere non era più ammesso agli esami della fine dell'anno, sebbene fosse dei migliori nello studio. Questa severa disciplina produceva maravigliosi effetti. Si passavano anche più anni senza che fosse udita una bestemmia o cattivo discorso. Gli allievi erano docili e rispettosi tanto nel tempo di scuola, quanto nelle proprie famiglie. E spesso avveniva che in classi numerosissime alla fine dell'anno erano tutti promossi a classe superiore. Nella terza, Umanità e Retorica i miei condiscepoli furono sempre tutti promossi.
La più fortunata mia avventura fu la scelta di un confessore stabile nella persona del teologo Maloria canonico della collegiata di Chieri. Egli mi accolse sempre con grande bontà ogni volta che andava da lui. Anzi mi incoraggiava a confessarmi e comunicarmi colla maggior frequenza. Era cosa assai rara a trovare chi incoraggiasse alla frequenza dei sacramenti. Non mi ricordo che alcuno de' miei maestri mi abbia tal cosa consigliata. Chi andava a confessarsi e a comunicarsi più d'una volta al mese era giudicato dei più virtuosi; e molti confessori nol permettevano. Io però mi credo debitore a questo mio confessore se non fui dai compagni strascinato a certi disordini che gli inesperti giovanetti hanno purtroppo a lamentare nei grandi collegi.
In questi due anni non ho mai dimenticato i miei amici di Morialdo. Mi tenni sempre con loro in relazione e di quando in quando nel giovedì faceva loro qualche visita. Nelle ferie autunnali appena sapevano della mia venuta correvano ad incontrarmi a molta distanza e facevano sempre una festa speciale. Fu pure tra essi introdotta la Società dell'Allegria, cui venivano aggregati coloro che lungo l'anno si erano segnalati nella morale condotta; e all'opposto si cancellavano dal catalogo quelli che si fossero regolati male, specialmente se avessero bestemmiato o fatto cattivi discorsi.
Compiuti i primi corsi di Ginnasio, abbiamo avuto una visita del Magistrato della Riforma nella persona dell'avvocato Prof. D. Giuseppe Gazzani, uomo di molto merito. Egli mi usò molta benevolenza, ed io ho conservato gratitudine e buona memoria di lui, a segno che fummo di poi sempre in istretta ed amichevole relazione. Quell'onesto sacerdote vive tuttora in Moltedo Superiore presso di Oneglia sua patria, e fra le molte opere di carita ha fondato un posto gratuito nel nostro collegio di Alassio per un giovinetto, che desideri studiare per lo stato ecclesiastico.
Quegli esami si diedero con molto rigore, tuttavia i miei condiscepoli in numero di quarantacinque furono tutti promossi alla classe superiore, che corrisponde alla nostra quarta Ginnasiale. Io ho corso un gran pericolo di essere rimandato per avere dato copia del lavoro ad altri. Se fui promosso ne sono debitore alla protezione del venerando mio professore P. Giusiana domenicano, che mi ottenne un nuovo tema, il quale essendomi riuscito bene fui con pieni voti promosso.
Era allora lodevole consuetudine che in ogni corso almeno uno a titolo di premio venisse dal municipio dispensato dal minervale di f. 12. Per ottenere questo favore era mestieri riportare i pieni voti negli esami, e pieni voti nella morale condotta. Io sono sempre stato favorito dalla sorte ed in ogni corso fui sempre dispensato da quel pagamento.
In quell'anno ho perduto uno de' miei più cari compagni. Il giovane Braje Paolo, mio caro ed intimo amico, dopo lunga malattia, vero modello di pietà, di rassegnazione, di viva fede, moriva il giorno anno andando così a raggiungere S. Luigi, di cui si mostrò seguace fedele in tutta la vita. Tutto il collegio ne provò rincrescimento; i suoi compagni intervennero in corpo alla sua sepoltura. E non pochi per molto tempo solevano andare in giorno di vacanza a fare la S. Comunione, recitare l'uffizio della Madonna, o la terza parte del Rosario per l'anima dell'amico defunto. Dio però si degnò di compensare questa perdita con un altro compagno egualmente virtuoso ma assai più celebre per le opere sue. Fu questi Luigi Comollo, di cui fra breve dovrò parlare.
Terminava adunque l'anno di umanità e mi riuscì assai bene, a segno che i miei professori, specialmente il Dottor Pietro Banaudi mi consigliarono di chiedere l'esame per la filosofia, cui di fatto sono stato promosso; ma siccome amava lo studio di lettere, ho giudicato bene di continuare regolarmente le classi e fare la Retorica ossia quinta Ginnasiale l'anno 1833-4. Appunto in quell'anno cominciarono le mie relazioni col Comollo. La vita di questo prezioso compagno fu scritta a parte ed ognuno può leggerla a piacimento; qui noterò un fatto che me lo ha fatto conoscere in mezzo agli umanisti.
Si diceva adunque tra retorici che in quell'anno ci doveva venire un allievo santo, e si accennava essere quello il nipote del Prevosto di Cinzano, sacerdote attempato, ma assai rinomato per santità di vita. Io desiderava di conoscerlo, ma ignorava il nome. Un fatto me lo fece conoscere. Da quel tempo era già in uso il pericoloso giuoco della cavallina in tempo d'ingresso nella scuola. I più dissipati e meno amanti dello studio ne sono avidissimi e ordinariamente i più celebri.
Si mirava da alcuni giorni un modesto giovanetto sui quindici anni, che, giunto in collegio, prendeva posto e senza badare agli schiamazzi altrui si metteva a leggere o a studiare. Un compagno insolente gli va vicino, lo prende per un braccio, pretende che egli pure vada a giuocare la cavallina.
- Non so, rispondeva l'altro tutto umile e mortificato. Non so, non ho mai fatto questi giuochi.
- Io voglio che tu venga assolutamente, altrimenti ti fo venire a forza di calci e schiaffi.
- Puoi battermi a tuo talento, ma io non so, non posso, non voglio...
Il maleducato e cattivo condiscepolo il prese per un braccio, lo urtò e poi gli diede due schiaffi che fecero eco in tutta la scuola. A quella vista io mi sentii bollire il sangue nelle vene e attendeva che l'offeso ne facesse la dovuta vendetta; tanto più che l'oltraggiato era di molto superiore all'altro in forze ed età. Ma quale non fu la maraviglia, quando il buon giovanetto colla sua faccia rossa e quasi livida, dando un compassionevole sguardo al maligno compagno dissegli soltanto: Se questo basta per soddisfarti, vattene in pace, io ti ho già perdonato.
Quell'atto eroico ha destato in me il desiderio di saperne il nome, che era appunto Luigi Comollo nipote del Prevosto di Cinzano, di cui si erano uditi tanti encomii. Da quel tempo l'ebbi sempre per intimo amico e posso dire che da lui ho cominciato ad imparare a vivere da cristiano. Ho messa piena confidenza in lui, egli in me; l'uno aveva bisogno dell'altro. Io di aiuto spirituale, l'altro di aiuto corporale. Perciocché il Comollo per la sua grande timidità non osava nemmeno tentare la difesa contro agli insulti dei cattivi, mentre io da tutti i compagni, anche maggiori di età e di statura, era temuto pel mio coraggio e per la mia forza gagliarda. Ciò aveva un giorno fatto palese verso taluni che volevano disprezzare e percuotere il medesimo Comollo ed un altro di nome Candelo Antonio modello di bonomia. Io volli intervenire in loro favore, ma non si voleva badare. Vedendo un giorno quegli innocenti maltrattati, guai a voi, dissi ad alta voce, guai a chi fa ancora oltraggio a costoro.
Un numero notabile dei più alti e dei più sfacciati si misero in atteggiamento di comune difesa e di minaccia contro di me stesso, mentre due sonore ceffate cadono sulla faccia del Comollo. In quel momento io dimenticai me stesso ed eccitando in me non la ragione, ma la mia forza brutale, non capilandomi tra mano ne sedia ne bastone strinsi colle mani un condiscepolo alle spalle, e di lui mi valsi come di bastone a percuotere gli avversari. Quattro caddero stramazzoni a terra gli altri fuggirono gridando e dimandando pietà. Ma che? In quel momento entrò il professore nella scuola, e mirando braccia e gambe sventolare in alto in mezzo ad uno schiamazzo dell'altro mondo, si pose a gridare dando spalmate a destra e a sinistra. Il temporale stava per cadere sopra di me, ma fattasi raccontare la cagione di quel disordine, volle fosse rinnovata quella scena, o meglio sperimento di forza. Rise il professore, risero tutti gli allievi ed ognuno facendo maraviglia, non si badò più al castigo che mi era meritato.
Ben altre lezioni mi dava il Comollo. Mio caro, dissemi appena potemmo parlare tra noi, la tua forza mi spaventa, ma credimi, Dio non te la diede per massacrare i compagni. Egli vuole che ci amiamo, ci perdoniamo, e che facciamo del bene a quelli che ci fanno del male.
Io ammirai la carità del collega, e mettendomi affatto nelle sue mani, mi lasciava guidare dove come egli voleva. D'accordo coll'amico Garigliano andavamo insieme a confessarci, comunicarci, fare la meditazione, la lettura spirituale, la visita al SS. Sacramento, a servire la S. Messa. Sapeva invitare con tanta bontà, dolcezza, e cortesia, che era impossibile rifiutarsi a' suoi inviti.
Mi ricordo che un giorno chiaccherando con un compagno passai davanti ad una chiesa senza scoprirmi il capo. L'altro mi disse tosto in modo assai garbato: Gioanni mio, tu sei così attento a discorrere cogli uomini, che dimentichi perfino la casa del Signore.
Dato così un cenno sulle cose di scuola riferirò alcuni fatti particolari che possono servire di amena ricreazione.
L'anno di umanità ho cangiato pensione sia per essere più vicino al mio professore, D. Banaudi, sia anche per accondiscendere ad un amico di famiglia di nome Pianta Gioanni, il quale andava in quell'anno ad aprire un caffè nella città di Chieri. Quella pensione era certamente assai pericolosa, ma essendo con buoni cristiani, e continuando le relazioni con esemplari compagni ho potuto andare avanti senza danno morale. Ma oltre ai doveri scolastici rimanendomi molto tempo libero, io soleva impiegarne una parte a leggere i classici italiani o latini, impiegava l'altra parte a fare liquori e confetture. Alla metà di quell'anno io ero in grado di preparare caffè, cioccolatte; conoscere le regole e le proporzioni per fare ogni genere di confetti, di liquori, di gelati e rinfreschi. Il mio principale cominciò per darmi la pensione gratuita, e considerando il vantaggio che avrei potuto recare al suo negozio, mi fece vantaggiose profferte purché lasciando le altre occupazioni mi fossi interamente dedicato a quel mestiere. Io però faceva quei lavori soltanto per divertimento e ricreazione, ma la mia intenzione era di continuare gli studi.
Il professore Banaudi era un vero modello degli insegnanti. Senza mai infliggere alcun castigo era riuscito a farsi temere ed amare da tutti i suoi allievi. Egli li amava tutti quai figli, ed essi l'amavano qual tenero padre.
Per dargli un segno di affezione fu deliberato di fargli un regalo pel suo Giorno Onomastico. A tale effetto ci siamo accordati di preparare composizioni poetiche, [e] in prosa, e provvedere alcuni doni che noi giudicavamo tornargli di speciale gradimento.
Quella festa riuscì splendida, il Maestro fu contento a più non dire, e per darci un segno della sua soddisfazione ci condusse a fare un pranzo in campagna. La giornata riuscì amenissima. Tra professore ed allievi eravi un cuor solo, ed ognuno studiava modi per esprimere la gioia dell'animo. Prima di rientrare nella città di Chieri il professore incontrò un forestiere con cui dovettesi accompagnare lasciandoci soli per un breve tratto di via. In quel momento si avvicinarono alcuni compagni di classi superiori, che ci invitarono ad un bagno in sito detto La Fontana Rossa distante circa un miglio da Chieri. Io con alcuni miei compagni ci siamo opposti ma inutilmente. Parecchi vennero meco a casa, altri vollero andare a nuotare. Trista deliberazione. Poche ore dopo il nostro arrivo a casa, giunge un compagno, poi un altro spaventati ed ansanti correndo per dirci: Oh se sapeste mai, se sapeste mai! Filippo N. quello che insistette tanto perché andassimo a nuotare, è rimasto morto.
- Come, tutti dimandavano, egli era così famoso a nuotare!
- Che volete mai, continuo l'altro, per incoraggiarci a sommergerci nell'acqua, confidando nella sua perizia, e non conoscendo i vortici della pericolosa Fontana Rossa, si gettò pel primo. Noi aspettavamo che ritornasse a ga[l]la, ma fummo delusi. Ci siamo messi a gridare, venne gente, si usarono molti mezzi e non fu senza pericolo altrui che dopo un'ora e mezzo si riuscì a trarne fuori il cadavere.
Tale infortunio cagionò a tutti profonda tristezza; né per quell'anno né per l'anno seguente (1834) non si è mai più udito a dire che alcuno abbia anche solo espresso il pensiero di andare a nuoto. Qualche tempo fa accadde di trovarmi con alcuno di quegli antichi amici, con cui ricordammo con vero dolore la disgrazia toccata all'infelice compagno nel gorgo della Fontana Rossa.
L'anno di umanità, dimorando nel caffè dell'amico Gioanni Pianta contrassi relazione con un giovanetto ebreo di nome Giona. Esso era sui diciotto anni, di bellissimo aspetto; cantava con una voce rara fra le più belle.
Giuocava assai bene al bigliardo, ed essendoci già conosciuti presso al libraio Elia, appena giungeva in bottega, dimandava tosto di me. [Io] gli portava grande affetto, egli poi era folle per amicizia verso di me. Ogni momento libero egli veniva a passarlo in mia camera; ci trattenevamo a cantare, a suonare il piano, a leggere, ascoltando volentieri mille storielle, che gli andava raccontando. Un giorno gli accadde un disordine con rissa, che poteva avere triste conseguenze, onde egli corse da me per avere consiglio. Se tu, o caro Giona, fossi cristiano, gli dissi, vorrei tosto condurti a confessarti; ma ciò non ti è possibile.
- Ma anche noi, se vogliamo, andiamo a confessarci.
- Andate a confessarvi, ma il vostro confessore non è tenuto al segreto, non ha potere di rimettervi i peccati, né può amministrare alcun sacramento.
- Se mi vuoi condurre, io andrò a confessarmi da un prete.
- Io ti potrei condurre, ma ci vuole molta preparazione.
- Quale?
- Sappi che la confessione rimette i peccati commessi dopo il battesimo; perciò se tu vuoi ricevere qualche sacramento bisogna che prima di ogni altra cosa tu riceva il battesimo.
- Che cosa dovrei fare per ricevere il battesimo?
- Istruirti nella cristiana religione, credere in Gesù Cristo vero Dio e vero Uomo. Fatto questo tu puoi ricevere il battesimo.
- Quale vantaggio mi darò poi il battesimo?
- Il battesimo ti scancella il peccato originale ed anche i peccati attuali, ti apre la strada a ricevere tutti gli altri sacramenti, ti fa insomma figliuolo di Dio ed erede del paradiso.
- Noi ebrei non possiamo salvarci?
- No, mio caro Giona, dopo la venuta di Gesù Cristo gli ebrei non possono più salvarsi senza credere in Lui.
- Se mia madre viene a sapere che io voglio farmi cristiano, guai a me!
- Non temere, Dio e padrone dei cuori, e se egli ti chiama a farti cristiano, farò in modo che tua madre si contenterà, o provvederà in qualche modo per l'anima tua.
- Ma tu che mi vuoi tanto bene, se fossi al mio posto, che faresti?
- Comincierei ad istruirmi nella cristiana religione, intanto Dio aprirà la via a quanto si dovrà fare in avvenire. A questo scopo prendi il piccolo catechismo, e comincia a studiarlo. Prega Dio che ti illumini, e che ti faccia conoscere la verità.
Da quel giorno cominciò ad essere affezionato alla fede cristiana. Veniva al caffè, e fatta appena una partita al bigliardo cercava tosto di me per discorrere di religione e del catechismo. Nello spazio di pochi mesi apprese a fare il segno della s. croce, il Pater, Ave Maria, Credo, ed altre verità principali della fede. Egli ne era contentissimo, ed ogni giorno diventava migliore nel parlare, e nell'operare.
Egli aveva perduto il padre da fanciullo, la madre di nome Rachele aveva già inteso qualche voce vaga, ma non sapeva ancora niente di positivo. La cosa si scoprò in questo modo: Un giorno nel fargli il letto ella trovò il catechismo, che suo figlio aveva inavvedutamente dimenticato tra il materasso ed il saccone. Si mise ella a gridare per casa, porto il catechismo al Rabbino, e sospettando di quello, che era di fatto, corse frettolosa dallo studente Bosco, di cui aveva più volte udito a parlare da suo figlio medesimo. Immaginatevi il tipo della bruttezza ed avrete un'idea della madre di Giona. Era cieca da un occhio, sorda da ambe le orecchie; naso grosso; quasi senza denti, labbra esorbitanti, bocca torta, mento lungo ed acuto, voce simile al grugnito di un poledro. Gli ebrei solevano chiamarla col nome di Maga Lili, col quale nome sogliono esprimere la cosa più brutta di loro nazione. La sua comparsa mi ha spaventato, e senza dar tempo a riavermi prese a parlare così: Affè che giuro, voi avete torto; voi, si voi avete rovinato il mio Giona; l'avete disonorato in faccia al pubblico, io non so che sarà di lui. Temo che finisca col farsi cristiano; e voi ne siete la cagione.
Compresi allora chi era e di chi parlava, e con tutta calma risposi che ella doveva essere contenta e ringraziare chi faceva del bene a suo figlio.
- Che bene è mai questo? Sarà un bene a far rinnegare la propria religione?
- Calmatevi, buona signora, le dissi, ed ascoltate: Io non ho cercato il vostro Giona, ma ci siamo incontrati nella bottega del libraio Elia. Siamo divenuti amici senza saperne la cagione. Egli porta molta affezione a me; io l'amo assai, e da vero amico desidero che egli si salvi l'anima, e che possa conoscere quella religione fuori di cui niuno può salvarsi. Notate bene, o Madre di Giona, che io ho dato un libro a vostro figlio dicendogli soltanto d'istruirsi nella religione e se egli si facesse cristiano non abbandona la religione ebraica, ma la perfeziona.
- Se per disgrazia egli si facesse cristiano egli dovrebbe abbandonare i nostri profeti, perché i cristiani non credono ad Abramo, Isacco, Giacobbe, a Mosè né ai profeti.
- Anzi noi crediamo a tutti i santi patriarchi e a tutti i profeti della Bibbia. I loro scritti, i loro detti, le loro profezie formano il fondamento della fede cristiana.
- Se mai fosse qui il nostro Rabbino, egli saprebbe che rispondere. Io non so ne il Misna ne il Gemara (sono le due parti del Talmud). Ma che ne sarà del mio povero Giona?
Ciò detto se ne partì. Qui sarebbe lungo riferire gli attacchi fattimi più volte dalla Madre, dal suo Rabbino, dai parenti di Giona. Non fu minaccia, violenza che non siasi usata contro al coraggioso giovanetto. Egli tutto soffrò, e continuò ad istruirsi nella fede. Siccome in famiglia non era più sicuro della vita, così dovettesi allontanare da casa e vivere quasi mendicando. Molti però gli vennero in ajuto e affinché ogni cosa procedesse colla dovuta prudenza, raccomandai il mio allievo ad un dotto sacerdote, che si prese di lui cura paterna. Allora che fu a dovere istrutto nella religione, mostrandosi impaziente di farsi cristiano, fu fatta una solennità, che tornò di buon esempio a tutti i chieresi, e di eccitamento ad altri ebrei, di cui parecchi abbracciarono più tardi il cristianesimo.
Il Padrino e la Madrina furono Carlo ed Ottavia coniugi Bertinetti, i quali provvidero a quanto occorreva al Neofito, che divenuto cristiano, potè col suo lavoro procacciarsi onestamente il pane della vita. Il nome del neofito fu Luigi.
In mezzo a' miei studi e trattenimenti diversi, come sono canto, suono, declamazione, teatrino, cui prendeva parte di tutto cuore, aveva eziandio imparati vari altri giuochi. Carte, tarocchi, pallottole, piastrelle, stampelle, salti, corse, erano tutti divertimenti di sommo gusto, in cui, se non era celebre, non era certamente mediocre. Molti li aveva imparati a Murialdo, altri a Chieri, e se nei prati di Murialdo era piccolo allievo, a quell'anno era divenuto un compatibile maestro. Ciò cagionava molta maraviglia perché a quell'epoca tali giuochi essendo poco conosciuti, parevano cose dell'altro mondo. Ma che diremo dei prestigi?
Soleva spesso dare pubblici e privati spettacoli. Siccome la memoria mi favoriva assai, così sapeva a mente una gran parte dei classici specialmente poeti. Dante, Petrarca, Tasso, Parini, Monti ed altri assai mi erano cosi famigliari da potermene valere a piacimento come di roba mia. Per la qual cosa mi riusciva molto facile a trattare all'improvviso qualunque argomento. In quei trattenimenti, in quegli spettacoli talvolta cantava, talora suonava o componeva versi, che giudicavansi capi d'opera, ma che in realtà non erano altro, che brani di autori accomodati agli argomenti proposti. Per questo motivo non ho mai date le mie composizioni ad altri; e taluna che fu scritta ho procurato di consegnarla alle fiamme.
Cresceva poi la maraviglia ne' giuochi di prestigiatore. Il vedere uscire da un piccolo bossolotto mille palle tutte più grosse di lui; da un piccolo taschetto tirar fuori mille uova, erano cose che facevano trasecolare. Quando poi vedevanmi raccogliere palloni dalla punta del naso degli astanti; indovinare i danari della saccoccia altrui; quando col semplice tatto delle dita si riducevano in polvere monete di qualsiasi metallo; o si faceva comparire l'udienza intera di orribile aspetto ed anche senza teste; allora si cominciò da taluno a dubitare, che io fossi un mago, e che non potessi operare quelle cose senza l'intervento di qualche diavolo.
Accresceva credenza il mio padrone di casa di nome Tommaso Cumino. Era questi un fervoroso cristiano, che amava molto lo scherzo, ed io sapeva approfittarmi del suo carattere e direi dabbenaggine per fargliene di tutti i colori. Un giorno con grande cura aveva preparata una gelatina con un pollo per regalare a' suoi pensionari nel giorno suo onomastico. Portò a tavola il piatto, ma scopertolo, ne saltò fuori un gallo che svolazzando cantarellava in mille guise. Altra volta apprestò una pentola di maccheroni, e dopo averli fatti cuocere assai lungo tempo, nell'atto di versarli nel piatto trovo altrettanta crusca asciuttissima. Più volte empieva la bottiglia di vino e volendolo versare nel bicchiere, trovava limpida acqua. Volendo poi bere acqua, trovavasi invece il bicchiere pieno di vino. Le confetture cangiate in fette di pane; il danaro della borsa trasmutato in inutili e rugginosi pezzetti di latta; il cappello cangiato in cuffia; noci e nocciuole cangiate in sacchetti di minuta ghiaia erano cose assai frequenti.
Il buon Tommaso non sapeva più che dire. Gli uomini, diceva tra se, non possono fare queste cose; Dio non perde tempo in queste inutilità; dunque - il demonio che fa tutto questo. Non osando parlarne con quei di casa, si consigliò con un vicino sacerdote, D. Bertinetti. Scorgendo esso pure magia bianca in quelle opere, in que' trastulli, decise di riferire la cosa al delegato delle scuole, che era in quel tempo un rispettabile ecclesiastico, il can.co Burzio, arciprete e curato del duomo.
Era questi persona assai istrutta, pia e prudente; e senza fare ad altri parola mi chiese ad audiendum verbum. Giunsi a casa sua in momento che recitava il breviario e guardandomi con un sorriso mi accennò di attendere alquanto. In fine mi disse di seguirlo in un gabinetto e la con parole cortesi, ma con severo aspetto cominciò ad interrogarmi così: Mio caro, io sono molto contento del tuo studio e della condotta che hai tenuto finora; ma ora si raccontano tante cose di te... Mi dicono che tu conosci i pensieri degli altri, indovini il danaro che altri ha in saccoccia; fai vedere bianco quello che è nero. Conosci le cose da lontano e simili. Ciò fa parlare assai di te e taluno giunse a sospettare che tu ti servi della magia e che perciò in quelle opere vi sia lo spirito di Satana. Dimmi adunque: chi ti ammaestrò in questa scienza, dove l'hai imparata? Dimmi ogni cosa in modo confidenziale; ti assicuro che non me ne servirò, se non per farti del bene.
Senza scompormi di aspetto chiesigli cinque minuti di tempo a rispondere e l'invitai a dirmi l'ora precisa. Mette egli la mano in tasca e più non trovo il suo orologio. Se non ha l'orologio, soggiunsi, mi dia una moneta da cinque soldi. Frugò egli in ogni saccoccia, ma non trovo più la sua borsa.
Briccone, prese a dirmi tutto incollerito: O che tu sei servo del demonio, o che il demonio serve a te. Tu mi hai già involato borsa ed orologio. Io non posso più tacere, sono obbligato a denunziarti e non so come mi tenga dal non farti un fracco di bastonate! Ma nel rimirarmi calmo e sorridente parve acquetarsi alquanto e ripigliò: Prendiamo le cose in modo pacifico: spiegami questi misteri. Come fu possibile, che la mia borsa e il mio orologio uscissero dalle mie saccoccie senza che io me ne sia accorto? dove sono andati questi oggetti?
Signor arciprete, presi a dirgli rispettosamente: io spiego tutto in poche parole. È tutto destrezza di mano, intelligenza presa, o cosa preparata.
- Che intelligenza vi potè essere pel mio orologio e per la mia borsa?
- Spiego tutto in breve: Quando giunsi in casa sua Ella dava limosina ad un bisognoso, di poi mise la borsa sopra uno inginocchiatoio. Andando poi di questa in altra camera lasciò l'orologio sopra questo tavolino. Io nascosi l'uno e l'altro, ed Ella pensava di avere quegli oggetti con sì, mentre erano invece sotto a questo paralume.
Ciò dicendo alzai il paralume e si trovarono ambidue gli oggetti creduti dal demonio portati altrove.
Rise non poco il buon canonico; mi fece dar saggio di alcuni atti di destrezza, e come potè conoscere il modo con cui le cose facevansi comparire e disparire, ne fu molto allegro, mi fece un piccolo regalo, e in fine conchiuse: Va a dire a tutti i tuoi amici che ignorantia est magistra admirationis.
Discolpatomi che ne' miei divertimenti non vi era la magia bianca mi sono di nuovo messo a radunare compagni e trattenerli e ricrearli come prima. In quel tempo avvenne che alcuni esaltavano a cielo un saltimbanco, che aveva dato pubblico spettacolo con una corsa a piedi percorrendo la città di Chieri da una all'altra estremità in due minuti e mezzo, che e quasi il tempo della Ferrovia a grande velocità.
Non badando alle conseguenze delle mie parole ho detto che io mi sarei volentieri mi surato con quel ciarlatano. Un imprudente compagno riferì la cosa al saltimbanco, ed eccomi impegnato in un sfida: Uno studente sfida un corriere di professione!
Il luogo scelto era il viale di Porta Torinese.
La scommessa era di 20 f. Non possedendo io quel danaro parecchi amici appartenenti alla Società dell'Allegria, mi vennero in soccorso. Una moltitudine di gente assisteva. Si comincia la corsa e il mio rivale mi guadagnò alcuni passi; ma tosto riacquistai terreno e lo lasciai talmente dietro di me, che a metà corsa si fermò; dandomi partita guadagnata.
- Ti sfido a saltare, dissemi, ma voglio scommettere fr. 40 e di più se vuoi. Accettammo la sfida, e toccando a lui scegliere il luogo, egli fissò che il salto dovesse avere luogo contro il parapetto di un ponticello. Egli saltò il primo e pose il piede vicinissimo al muriccio, sicché più in là non si poteva saltare. In quel modo io avrei potuto perdere, ma non guadagnare. L'industria però mi venne in soccorso. Feci il medesimo salto, ma appoggiando le mani sul parapetto del ponte prolungai il salto al di là del medesimo muro e dello stesso fosso. Applausi generali.
- Voglio ancora farti una sfida. Scegli qualunque giuoco di destrezza.
Accettai, e scelsi il giuoco della bacchetta magica colla scommessa di fr. 80. Presi pertanto una bacchetta, ad una estremità posi un cappello, poi appoggiai l'altra estremità sulla palma di una mano. Di poi senza toccarla coll'altra la feci saltare sulla punta del dito mignolo, dell'anulare, del medio, dell'indice, del pollice; quindi sulla nocetta della mano, sul gomito, sulla spalla, sul mento, sulle labbra, sul naso, sulla fronte. Indi rifacendo lo stesso cammino torno sulla palma della mano.
- Non temo di perdere, disse il rivale, è questo il mio giuoco prediletto. Prese adunque la medesima bacchetta e con meravigliosa destrezza la fece camminare fin sulle labbra, d'onde, avendo alquanto lungo il naso, urto e perdendo l'equilibrio dovette prenderla colla mano per non lasciarla cadere a terra.
Quel meschino vedendosi il patrimonio andare a fondo quasi furioso esclamo: Piùttosto qualunque altra umiliazione, ma non quella di essere stato vinto da uno studente. Ho ancora cento franchi e questi li scommetto e li guadagnerò chi di noi metterò i piedi più vicino alla punta di quest'albero, accennava ad un olmo che era accanto al viale. Accettammo anche questa volta, anzi in certo modo eravamo contenti che egli guadagnasse giacché sentivamo di lui compassione, e non volevamo rovinarlo.
Salì egli il primo sopra l'olmo e portò i piedi a tale altezza, che, per poco fosse più alto salito, [l'albero] sarebbesi piegato cadendo a terra colui che si arrampicava. Tutti dicevano che non era possibile salire più in alto. Feci la mia prova. Salii alla possibile altezza senza far curvare la pianta, poi tenendomi colle mani all'albero alzai il corpo e portai i piedi circa un metro oltre all'altezza del mio contendente.
Chi mai può esprimere gli applausi della moltitudine, la gioia de' miei compagni, la rabbia del saltimbanco, e l'orgoglio mio, che era riuscito vincitore, non contro i miei condiscepoli, ma contro ad un capo di ciarlatani? In mezzo però alla grande desolazione gli abbiamo voluto procurare un conforto. Mossi a pietà dalla tristezza del poverino gli abbiamo detto che noi gli ritornavamo il suo danaro se egli accettava una condizione, di venire cioè a pagarci un pranzo all'albergo del Muretto. Accetto l'altro con gratitudine. Andammo in numero di ventidue, tanti erano i miei partigiani. Il pranzo costò 25 franchi, così che gli furono tornati f. 215.
Quello fu veramente giovedì di grande allegria. Io mi sono coperto di gloria per avere in destrezza superato un ciarlatano. Contentissimi i compagni che si divertirono a più non posso col ridere e col buon pranzo. Contento dovette pur essere il ciarlatano, che riebbe quasi tutto il suo danaro, godette anche un buon pranzo. Nel separarsi egli ringraziò tutti dicendo: Col ritornarmi questo danaro voi impedite la mia rovina. Vi ringrazio di tutto cuore. Serberò di voi grata memoria, ma non faro mai più scommesse cogli studenti.
Nel vedermi passare il tempo in tante dissipazioni, voi direte che doveva per necessità trascurare lo studio. Non vi nascondo che avrei potuto studiare di più: ma ritenete che l'attenzione nella scuola mi bastava ad imparare quanto era necessario. Tanto più che in quel tempo io non faceva distinzione tra leggere e studiare e con facilità poteva ripetere la materia di un libro letto o udito a raccontare. Di più essendo stato abituato da mia madre a dormire assai poco, poteva impiegare due terzi della notte a leggere libri a piacimento, e spendere quasi tutta la giornata in cose di libera elezione, come fare ripetizioni, scuole private, cui sebbene spesso mi prestassi per carità o per amicizia, da parecchi però era pagato.
Era allora in Chieri un libraio ebreo di nome Elia, col quale contrassi relazioni associandomi alla lettura dei classici italiani. Un soldo ogni volumetto, che gli ritornava dopo averlo letto. Dei volumetti della biblioteca popolare ne leggeva uno al giorno. L'anno di quarta Ginnasiale l'impiegai nella lettura degli autori italiani. L'anno di Retorica mi posi a fare studi sui classici latini, e cominciai a leggere Cornelio Nipote, Cicerone, Salustio, Quinto Curzio, Tito Livio, Cornelio Tacito, Ovidio, Virgilio, Orazio Flacco ed altri. Io leggeva que' libri per divertimento e li gustava come se li avessi capito interamente. Soltanto più tardi mi accorsi che non era vero, perciocché fatto sacerdote, messomi a spiegare ad altri quelle classiche celebrità, conobbi che appena con grande studio e con molta preparazione riusciva a penetrarne il giusto senso e la bellezza loro.
Ma i doveri di studio, le occupazioni delle ripetizioni, la molta lettura, richiedevano il giorno ed una parte notabile della notte. Più volte accadde che giungeva l'ora della levata mentre teneva tuttora tra mano le decadi di Tito Livio, di cui aveva intrapreso lettura la sera antecedente. Tal cosa mi rovinò talmente la sanità che per più anni la mia vita sembrava ognora vicina alla tomba. Laonde io darò sempre per consiglio di fare quel che si può e non di più. La notte è fatta pel riposo, ed eccettuato il caso di necessità, altrimenti dopo la cena niuno deve applicarsi in cose scientifiche. Un uomo robusto reggerà alquanto, ma cagionerà sempre qualche detrimento alla sua sanità.
Intanto si avvicinava la fine dell'anno di Retorica, epoca in cui gli studenti sogliono deliberare intorno alla loro vocazione. Il sogno di Murialdo mi stava sempre impresso; anzi mi si era altre volte rinnovato in modo assai più chiaro, per cui, volendoci prestar fede, doveva scegliere lo stato ecclesiastico; cui appunto mi sentiva propensione: ma non volendo credere ai sogni, e la mia maniera di vivere, certe abitudini del mio cuore, e la mancanza assoluta delle virtù necessarie a questo stato, rendevano dubbiosa e assai difficile quella deliberazione.
Oh se allora avessi avuto una guida, che si fosse presa cura della mia vocazione! Sarebbe stato per me un gran tesoro, ma questo tesoro mi mancava! Aveva un buon confessore, che pensava a farmi buon cristiano, ma di vocazione non si volle mai mischiare.
Consigliandomi con me stesso, dopo avere letto qualche libro, che trattava della scelta dello stato, mi sono deciso di entrare nell'Ordine Francescano. Se io mi fo cherico nel secolo, diceva tra me, la mia vocazione corre gran pericolo di naufragio. Abbraccierò lo stato ecclesiastico, rinuncierò al mondo, andrò in un chiostro, mi darò allo studio, alla meditazione, e così nella solitudine potrò combattere le passioni, specialmente la superbia, che nel mio cuore aveva messe profonde radici. Feci pertanto dimanda ai conventuali riformati, ne subii l'esame, fui accettato e tutto era preparato per entrare nel convento della Pace in Chieri. Pochi giorni prima del tempo stabilito per la mia entrata ho fatto un sogno dei più strani. Mi parve di vedere una moltitudine di que' religiosi colle vesti sdruscite indosso e correre in senso opposto l'uno dall'altro. Uno di loro vennemi a dire: Tu cerchi la pace e qui pace non troverai. Vedi l'atteggiamento de' tuoi fratelli. Altro luogo, altra messe Dio ti prepara.
Voleva fare qualche dimanda a quel religioso, ma un rumore mi svegliò e non vidi più cosa alcuna. Esposi tutto al mio confessore, che non volle udire a parlare né di sogno né di frati. In questo affare, rispondevami, bisogna che ciascuno segua le sue propensioni e non i consigli altrui.
In quel tempo succedette un caso, che mi pose nella impossibilità di effettuare il mio progetto. E siccome gli ostacoli erano molti e duraturi, così io ho deliberato di esporre tutto all'amico Comollo. Esso mi diede per consiglio di fare una novena, durante la quale egli avrebbe scritto al suo zio prevosto. L'ultimo giorno della novena in compagnia dell'incomparabile amico ho fatto la confessione e la comunione, di poi udii una messa, e ne servii un'altra in duomo all'altare della Madonna delle Grazie. Andati poscia a casa trovammo di fatto una lettera di D. Comollo concepita in questi termini: Considerate attentamente le cose esposte, io consiglierei il tuo compagno di soprassedere di entrare in un convento. Vesta egli l'abito chericale, e mentre farà i suoi studi conoscerà viemeglio quello che Dio vuole da lui. Non abbia alcun timore di perdere la vocazione, perciocché colla ritiratezza, e colle pratiche di pietà egli supererà tutti gli ostacoli.
Ho seguito quel savio suggerimento, mi sono seriamente applicato in cose che potessero giovare a prepararmi alla vestizione chericale. Subito l'esame di Retorica, sostenni quello dell'abito di cherico in Chieri e precisamente nelle camere attuali della casa Bertinetti Carlo, che morendo ci lasciò in eredità e che erano tenute a pigione dall'arciprete Can.co Burzio. In quell'anno l'esame non ebbe luogo secondo il solito in Torino a motivo del cholera-morbus, che minacciava i nostri paesi.
Voglio qui notare una cosa che fa certamente conoscere quanto lo spirito di pietà fosse coltivato nel collegio di Chieri. Nello spazio di quattro anni che frequentai quelle scuole non mi ricordo di avere udito un discorso od una sola parola che fosse contro ai buoni costumi o contro alla religione. Compiuto il corso della Retorica, di 25 allievi, di cui componevasi quella scolaresca, 21 abbracciarono lo stato ecclesiastico; tre medici, uno mercante.
Andato a casa per le vacanze, cessai di fare il ciarlatano e mi diedi alle buone letture, che, debbo dirlo a mia vergogna, fino allora aveva trascurato. Ho però continuato ad occuparmi dei giovanetti, trattenendoli in racconti, in piacevole ricreazione, in canti di laudi sacre, anzi osservando che molti erano già inoltrati negli anni, ma assai ignoranti nelle verità della fede, mi sono dato premura d'insegnare loro anche le preghiere quotidiane ed altre cose più importanti in quella età.
Era quella una specie di oratorio, cui intervenivano circa cinquanta fanciulli, che mi amavano e mi ubbidivano, come se fossi stato loro padre.