Invito a pregare la Parola
“A Dio che ci ha scelti, ci ha chiamati e ci ha riservati a sé, noi rispondiamo con una dedizione totale ed esclusiva. Il primato di Dio, che nasce dalla libera e amorevole iniziativa di Dio nei nostri confronti, si traduce nell’offerta incondizionata di noi stessi…. Solo nella forza dello Spirito possiamo vivere questa chiamata; è Lui che nella storia della Chiesa attrae sempre nuove persone a percepire il fascino di una scelta tanto impegnativa; è Lui che ha suscitato Don Bosco, al cui progetto apostolico abbiamo aderito con la professione religiosa”.[1]
Per approfondire, pregando, la dimensione spirituale della nostra vocazione salesiana, don Juan J. Bartolomé ci propone due schemi di preghiera orante: il primo, centrato su un resoconto paolino della sua vocazione; il secondo, sull’unico racconto evangelico di vocazione non riuscita. Ambedue, anche se tanto diversi, sottolineano che per seguire Gesù lo si deve prima trovare per poi lasciare tutto quanto, pure quello che è buono per il chiamato, sia la legge di Dio siano i beni di Dio.
Raccontando ai galati l’origine della sua vocazione Paolo svela loro la ragione essenziale della sua passione apostolica: è stato ‘trovato’ dal Risorto e ha trovato la missione della sua vita. Una esperienza personale di Dio, che gli ha fatto conoscere suo Figlio nel suo cuore e lo ha portato immediatamente a predicare il vangelo. Senza incontro con Dio il credente non incontra la sua vocazione.
La memoria del giovane buono, che non poté seguire Gesù perché non volle distaccarsi dai propri beni, diventa un avvertimento permanente per quanti oggi lo seguono. Se dovrebbe farci arrossire il fatto che Gesù abbia contato su di noi, senza essere in grado di dirgli che abbiamo già osservato tutto quel che Dio vuole da noi, dovrebbe farci vergognare ancor di più il fatto che continuiamo a seguirlo, rimanendo però attaccati ai nostri beni, e che cerchiamo in Lui il Bene ed allo stesso tempo continuiamo ad accumulare altri beni.
Scrivendo ai galati, venti anni dopo la sua ‘conversione’, Paolo ricorda, ancora una volta, quanto gli accade sulla via di Damasco. Non esprime questa confessione come confidenza; è piuttosto un argomento nella difesa del suo vangelo. Non parla a neofiti fedeli, ma a “uomini stupidi” che “in fretta” stanno abbandonando la grazia di Cristo e passano ad un altro vangelo (Gal 3,1; 1,6). È inconfondibile il tono aspro e polemico della sua testimonianza.
Fondate dall’apostolo poco prima (At 16,6; 18,23), le comunità della Galazia lo avevano accolto “come un angelo di Dio, come Cristo Gesù” (Gal 4,14) e avevano creduto alla sua predicazione ricevendo lo Spirito e con tanti grandi portenti (Gal 3,2.5). Il primo fervore, purtroppo, non si mantenne a lungo (Gal 1,6): la visita di alcuni che presentarono “un altro vangelo” (Gal 1,7) mise in forse la correttezza del vangelo predicato da Paolo e, persino, la sua legittimità apostolica. La ‘crisi galata’ fece scoppiare nell’apostolo la più smisurata e sgradevole reazione tra quelle documentate nel suo epistolario (Gal 1,7-9; 4,17-20; 5,7-12; 6,12-14).
Per difendere, dunque, il suo ministero Paolo si presenta “apostolo non da parte di uomini, né per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre” (Gal 1,1); e come apologia del vangelo predicato in Galazia afferma senza esitare di non averlo “ricevuto né imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo” (Gal 1,12). L’apostolo può dare per scontato che i galati conoscevano bene i fatti (Gal 1,13.22): quello che dice – e come lo dice – focalizza la loro attenzione su quanto per Paolo è decisivo: Dio è all’origine del suo apostolato e il Figlio di Dio è l’unico contenuto del vangelo che predica (Gal 1,11-12). Quanto dichiara, e in modo enfatico, dimostra la sua indipendenza apostolica e l’origine divina del suo annuncio.
Per rafforzare tutte e due le asserzioni, si mette a narrare cosa aveva fatto prima e dopo l’incontro con il Risorto, senza fare una vera cronaca dell’accaduto. Ê il modello che utilizza pure in Flp 3: distingue bene tra la tappa precristiana dai primi passi dopo l’accettazione di Gesù come Signore, il suo passato di spietato persecutore (Gal 1,13-14) e il presente di missionario instancabile (Gal 1,15-24).
Tutte e due le parti del racconto sono credibili, ma sommarie, centrate sulle ‘condotte’, quella giudaica e quella cristiana, del protagonista. L’apostolo presenta i fatti senza abbellirli, né cerca la benevolenza dei lettori. Mentre prima non voleva che la rovina della chiesa, adesso si dedica completamente alla sua diffusione. A differenza di Flp 3, che mette più a fuoco la portata soggettiva dell’accaduto, Gal 1 svela un dato nuovo, più obiettivo e fondamentale: Dio è stato l’attore del suo cambiamento. Esso non consistette tanto in una trasformazione della condotta, né in un mutamento di fede: “Dio si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani” (Gal 1,16).
Paolo non sembra vergognarsi del suo passato, quando ormai è divenuto apostolo riconosciuto, ne parla ai galati. Non doveva pentirsi di essere stato un giudeo osservante, zelante cultore delle tradizioni del suo popolo e intransigente con che non le osservava. Mai si è manifestato imbarazzato o colpevole; proprio perciò, sarà più sincera e autorevole la sua posizione: ereditare una fede e delle tradizioni che non portano a Cristo non serve a nulla.
13Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo, come io perseguitassi fieramente la chiesa di Dio e la devastassi, 14superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito come ero nel sostenere le tradizioni dei padri.
Noto ai lettori, Paolo non nasconde il suo passato. Piuttosto, e per mettere più a fuoco quanto dirà dopo, lo menziona, riducendo la tappa giudaica della sua vita – la metà circa! – a una persecuzione senza misura della comunità di Gerusalemme. Sembra riconoscere di non aver fatto null’altro, come ricorda Luca, dal tempo della sua giovinezza (At 7,59; 8,1; 22,20; 26,10). È, infatti, l’unico dei primi persecutori della chiesa che viene ricordato per nome: “Saulo intanto infuriava contro la chiesa ed entrando nelle case prendeva uomini e donne e li faceva mettere in prigione” (At 8,3).
Neppure qui Paolo svela le ragioni di una condotta così brutalmente anticristiana. Non gli interessa giustificarla. Lascia affermato, questo sì, il suo proposito (devastare la chiesa di Dio), l’efficacia del suo intervento (eccellere al di sopra della maggiore parte dei coetanei ), e il motivo più personale (l’appassionato zelo delle tradizioni patrie). Se perseguitava fieramente i seguaci del Cristo non era perché fosse un sanguinario o un malevolo, ma perché, convinto osservante, non sopportava defezioni né deviamenti dalla fede dei padri. Da questa fedeltà estrema alla legge lo liberò Dio stesso.
Non solo nell’epistolario paolino, ma neanche in tutto il NT si trova una descrizione dell’accaduto a Damasco che superi, oppure sia paragonabile, a questa breve annotazione biografica.
15Ma quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque, 16di rivelare in me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai gentili, subito, senza consultare nessun uomo, 17senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi ritornai a Damasco.
Proprio perciò risulta alquanto scioccante che Paolo abbia dato più rilievo a quanto fece lui ‘subito’ dopo essere stato chiamato, e cioè recarsi in Arabia e ritornare poi a Damasco, che a quanto aveva fatto Dio con lui, sceglierlo, chiamarlo, mostrargli suo Figlio e convertirlo in suo apostolo. Se non di più, a un livello sintattico, l’accento dell’espressione ricade maggiormente sulla conseguenza, l’evangelizzazione immediata, anziché sul fatto stesso, la benevolenza di Dio che gli fece conoscere Gesù come suo Figlio. Gli interventi di Dio si vedono, si ‘misurano’, negli effetti.
Però Paolo non nasconde che essere inviato è stato puro dono: “per grazia di Dio sono quello che sono” (1 Cor 15,10). E, infatti, non si presenta come il soggetto attivo, ma come il beneficiato ricevitore di un intervento, tanto gratuito quanto inaspettato, di Dio in lui. Se l’attuazione di Dio è qualcosa di obiettivo, viene dal di fuori, la realizzazione accade nel suo intimo, e diventa una esperienza tutta privata: la si può documentare soltanto per il risultato che produce, la missione inevitabile.
Paolo presenta la sua vocazione apostolica come uno sperimentare Dio che adesso conosce come Padre del Risorto, o meglio come un dare a conoscere da parte di Dio – svelarsi, rivelare in modo definitivo – la sua paternità di Gesù. A questa conoscenza, ‘indotta’ da Dio, non è arrivato con le sue capacità né per la sua fedeltà. Questa ‘conoscenza’ è il motivo del suo apostolato immediato: Dio ha agito in lui in modo imprevisto, e lui subito ha agito tra i pagani. Dio si è identificato come Padre di Gesù e Paolo si sente identificato in mezzo ai pagani come suo inviato. La sua vocazione è conseguenza di una esperienza di Dio da Lui donata.
Paolo non divenne un uomo meno cattivo, né più zelante. In lui non ci fu un cambio di condotta né l’abbandono della fede giudaica. Dio gli diede un ‘sapere’ nuovo: venne a conoscere l’identità vera di Dio (Padre di Gesù) e in essa gli fu scoperta la vera identità di Gesù (Figlio di Dio). E questa comprensione, tanto era nuova che divenne definitiva (‘apocalittica’), la sentì come benevolenza divina a suo favore; la vide come una chiamata che riempì Dio di soddisfazione, di compiacimento. Dio si sentì bene quando lo chiamò e gli rivelò di essere il Padre di Gesù. L’incontro con il Risorto – ricorda Paolo ai galati – si realizzò come conversione, fu una doppia (ri)conoscenza: sapere che il Dio di Israele era in realtà Padre di Gesù (Gal 1,16), e sapersi da lui inviato ad annunciarlo ai gentili (Gal 1,17).
Tale confessione, centrale per la comprensione dell’accaduto, viene preceduta da due formulazioni, participiali nell’originale, le quali integrano la concezione di Dio che Paolo aveva ricevuta: Lui è “Colui che lo scelse fin dal seno materno” e “Colui che lo chiamò con la sua grazia” (Gal 1,15). Scegliere, separandolo per sé, prima ancora di essere nato e chiamarlo alla vita sin dal ventre materno sono espressioni che sono servite per narrare vocazioni profetiche (Ger 1,5; Is 49,1); Paolo le considera appropriate per descrivere la sua esperienza e, perciò, si presenta profeta, pure lui, eletto da Dio. In più, riconosce adesso (mentre scrive ai galati), che da sempre, persino da quando non era ancora nato o durante il tempo in cui perseguitava la chiesa, Dio lo aveva scelto e destinato come evangelizzatore dei pagani; chiamandolo alla vita, lo chiamò all’apostolato. Tutta la sua vita, compresso il lungo periodo di zelante giudeo e accanito persecutore, era stato sotto la benevolenza divina. Se ne rese conto, è vero, soltanto quando conobbe Cristo, quando si sentì inviato ad evangelizzare i gentili.
Dio essendo stato gratuito con Paolo, lo ‘educò’ alla gratuità nella missione, liberandolo dal servizio della legge di Dio per servire il Signor Gesù, il Figlio di Dio. Poiché la sua vita di persecutore non impedì a Dio di farlo diventare ‘apostolo dei gentili’ (Rm 11,13), Paolo capì che d’ora in avanti la sua vita non avrebbe avuto altro compito, né altro senso, che annunziare Cristo, e questi crocifisso (1 Cor 2, 2): “Non è infatti per me un vanto predicare il vangelo; è per me un dovere: guai a me se non predicassi il vangelo” (1 Cor 9,16). Il chiamato non fa quello che lui vuole, né vive per realizzare i suoi sogni; è stato trovato ed inviato per fare la volontà di Chi gli ha voluto tanto bene che l’ha fatto suo rappresentante e testimone.
La ‘conversione’ di Paolo fu, oltre che un repentino cambio di ‘mestiere’ (da persecutore a propagatore), primo et per se una esperienza di Dio. Da essa nacque e in essa attecchì la coscienza apostolica di Paolo.
Paolo immagina il Dio che lo ha chiamato come un Dio che si è compiaciuto chiamandolo: Dio ha ‘trovato’ soddisfazione, compiacenza, contentezza quando ha fatto sì che Paolo trovasse Gesù e l’accettasse come Figlio suo.
Dopo un tempo di vita apostolica, quando scriveva ai galati, Paolo ha ‘visto’ tutta la sua vita – anche il tempo in cui perseguitava la chiesa di Dio – come parte e camino di un unico progetto di Dio.
Paolo ebbe coscienza di essere stato inviato da Dio nel momento in cui ha sentito Dio. Il suo cambio di vita fu il risultato di un cambiamento – da lui percepito – in Dio: dal Dio d’Israele al Dio del nostro Signore Gesù Cristo.
II. Si lascia Gesù, quando non è lui l’unico bene: Mc 10,17-31
Pochi testi evangelici hanno avuto un influsso così profondo e duraturo nella vita della Chiesa come l'episodio del giovane ricco (Mt 19,16-30; Mc 10,17-31; Lc 18,18-30). Insieme ad altri testi che formulano le esigenze della sequela di Cristo (per es. Mt 16,24; Lc 9,23.62; Lc 14,26.33), questo racconto è giunto ad essere considerato dalla tradizione cattolica come il fondamento biblico – se non l'unico, per lo meno il principale – dei cosiddetti 'consigli evangelici'. Curiosamente – e il dato passa spesso inavvertito – l’episodio è la cronaca di una vocazione fallita.
L’episodio si presenta, fondamentalmente, come un dialogo prolungato, in cui Gesù è il protagonista permanente. A seconda del suo interlocutore, sia esso uno sconosciuto, i discepoli o Pietro, si distinguono tre scene: l'incontro di un giovane con Gesù (Mc 10,17b-22), il commento che Gesù fa ai discepoli (Mc 10,23-27), la reazione dei discepoli davanti alla radicalità di Gesù (Mc 10,28-31).
Il dialogo di Gesù col ricco (Mc 10,17b-22) comincia un tanto bruscamente. Per strada, Gesù viene avvicinato da un tale che non è interessato a lui, alla sua persona, ma a se stesso, alla propria salvezza. A Gesù non chiede nessun beneficio, solo vuol avere un consiglio (Mc 10,17.20). L'incontro avviene su richiesta dello sconosciuto. Gesù risponde alle preoccupazioni del suo interlocutore, anche se solo in apparenza; in realtà, lo distoglie con maestria dalla sua preoccupazione, un tanto egoista, e gli propone la perfezione. Da sconosciuto passa ad essere amato.
17Mentre andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?”. 18E Gesù gli disse: “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. 19Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre”. 20Egli allora gli disse: “Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza”. 21Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: “Una cosa sola ti manca: va', vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!”. 22Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se en andò rattristato; possedeva infatti molti beni.
Dopo l'allontanamento del ricco, Gesù commenta il suo fallimento con i discepoli (Mc 10,23-27). Il quadro si apre e si chiude menzionando lo sguardo di Gesù (Mc 10,23.27), il quale, in una specie di catechesi sull'entrata nel regno, ne sottolinea la difficoltà (Mc 10,23.24.27). I discepoli, prima sconcertati (Mc 10,24), poi interessati (Mc 10,26), sono i destinatari unici di tale insegnamento e, una volta tanto, lo comprendono correttamente. Non si tratta semplicemente di una difficoltà per gli uomini, bensì di qualcosa che è possibile solo a Dio.
23Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: “Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezza, entrare nel regno di Dio!”.
24I discepoli erano sconcertati dalle sue parole; ma Gesù riprese e disse loro: “Figli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio! 25E' più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio”. 26Essi, ancora più stupiti, dicevano tra loro: “E chi può essere salvato?”. 27Ma Gesù, guardandoli in faccia, disse: “Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio”.
Pietro esprime la reazione dei discepoli davanti alla radicalità di Gesù (Mc 10,28-31). La problematica personale del giovane è scomparsa totalmente dal racconto. Pietro, che dà per scontato di aver fatto quanto riusciva impossibile al giovane, riesce a strappare a Gesù una promessa di ricompensa, per adesso e per dopo. Qualunque cosa si lasci – e sono sette le cose enumerate – sarà presa in considerazione.
28Pietro allora prese a dirgli: “Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito”. 29Gesù gli rispose: “In verità io vi dico: non c'è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo,30che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in casa e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà.31Molti dei primi saranno ultimi e gli ultimi saranno primi”.
C'era una persona buona che voleva essere migliore
Mentre Gesù andava per la strada, gli si avvicina correndo uno sconosciuto[2] che, si inginocchia davanti a lui. L'uomo desidera sapere cosa deve fare per arrivare a possedere la vita eterna. Sa di dover osservare la legge; e, quel che è più importante, si dichiara disposto a fare qualunque cosa, quel che gli si dirà.
Prima di rispondere, Gesù si mostra sorprendentemente critico; non accetta che gli si conceda quel che si deve solo a Dio (Mc 10,18). La risposta di Gesù è troppo ovvia; ripete, senza commenti o spiegazioni dettagliate, la seconda parte del decalogo (Mc 10,19; cfr. Es 20,12-16; Dt 5,16-20): è quella la volontà del buon Dio; i suoi comandamenti indicano il cammino della vita. Chi ha domandato doveva saperlo.
La scena potrebbe concludersi qui: la persona ha ricevuto la risposta richiesta. Ma, invece di andarsene, fa una confessione che impressiona Gesù (Mc 10,20). Gesù si trova davanti uno che non solo è disposto a compiere quel che gli venga chiesto, ma può confessare che lo sta già facendo, tutto e sempre, fin dalla sua giovinezza. E rimane attratto da questo giovane buono (Mc 10,21). Prima di proporgli un cambio radicale, Gesù è cambiato radicalmente nei suoi confronti. Quel giovane è oggetto di un amore sovrabbondante, per questo si attende di lui qualcosa in più. La nuova esigenza di Gesù è prova dell'amore che ha per lui.
L'unica cosa che gli manca è lasciare tutto quel che possiede, venderlo, distribuirlo tra i poveri e seguire Gesù. La proposta di Gesù non è una nuova condizione per ottenere la vita eterna. E' una nuova possibilità di vivere quella vita di obbedienza a Dio che il giovane sta portando avanti con tanto successo. La rinuncia a quanto possiede non è ancora tutto quel che gli manca, ma solo una prima tappa, un passo previo che prepara quello definitivo: la sequela di Gesù (Mc 1,16-20; 2,13-17) e l'attività apostolica (Mc 6,7-13). Non deve rinunciare ai beni perché siano cattivi, ma il loro possesso non è preferibile e nemmeno – in questo caso – compatibile con la compagnia di Gesù quando si va dietro a lui: carico di beni, non si può perseguire il Bene.
Lo sconosciuto, nonostante la sua bontà, non può sopportare l'esigenza di Gesù. Senza dire nulla, triste e a testa bassa, lascia Gesù per non lasciare quel che ha (Mc 10,22). Conserva i suoi beni, ma perde la sua gioia e il maestro buono. Le sue ricchezze non gli avevano impedito di essere un buon credente, ma lo misero nell'impossibilità di essere un semplice discepolo.
Quanto difficile è possedere dei beni ed entrare nel regno!
Lo sguardo di Gesù precede l'insegnamento a quanti rimangono attorno a lui. Possedere il regno risulta difficile per chi possiede ricchezze (Mc 10,23). Gesù non parla ancora di 'impossibilità' (Mc 10,27), sottolinea la difficoltà (Mc 10,24). Inoltre, e ciò risulta sorprendente, introduce qui il tema dell'entrata nel Regno, mentre l'invito rivolto al buon ricco era, invece, di seguirlo povero.
La reazione dei discepoli è più che logica. Non possono evitare di rimanere stupiti di fronte all'affermazione di Gesù. Nella tradizione religiosa giudaica, la ricchezza, lungi dal costituire un impedimento ad entrare nel Regno, era prova del favore di Dio (Dt 28,1-14). I seguaci di Gesù comprendono che la difficoltà a salvarsi non è riservata solo a colui che possiede molti beni, ma a quanti basano la loro concezione del 'bene' nel possederli (Mc 10,24; Lc 6,20.24). Non è, quindi, la salvezza del ricco, ma quella dell'uomo come tale ad essere minacciata (Mc 10,26).
Nel pensiero di Gesù la difficoltà invece di diminuire aumenta: non è necessario disporre di beni propri, basta mettere in essi la fiducia, anche se sono in realtà scarsi, perché l'entrata nel Regno diventi difficile. Gesù cerca di avvertire tutti che, a confronto di Dio e del suo regno, tutto deve risultare piccolo e spregevole, da buttar via; chi non giudica tutto quel che ha come insignificante, rende insignificante Dio. E per sottolineare la difficoltà, Gesù ricorre a una iperbole. E' più facile che un cammello passi per l'occhio di un ago piuttosto che un ricco entri nel Regno (Mc 10,25). Lasciarsi possedere da quanto si ha può portare alla perdita del Regno che si attendeva.
La reazione dei discepoli fa supporre che questa volta essi abbiano capito bene il loro maestro (Mc 10,26). Si diffonde lo spavento tra loro, ma non osano rivolgersi a Gesù. Rimangono angosciati dall'incapacità radicale dell'uomo - non del ricco! - di salvarsi. Se nemmeno i buoni, pur essendo ricchi, ci riescono, chi mai potrà riuscirvi?
E nuovamente lo sguardo di Gesù ne precede le parole (Mc 10,27). E risponde confermando l'impossibilità umana a procurarsi da se la salvezza. Non che il potere di Dio finisca lì dove termina quello dell'uomo, il fatto è che la salvezza di Dio non conosce limiti. Indipendentemente da ciò che è o ha, l'uomo dipende da Dio. Non ha bisogno delle ricchezze per assicurarsi la salvezza. Tutto è dono di Dio e Dio è l'unico bene non alienabile. Solo Lui può salvare.
Un Dio indebitato come ricompensa
Portavoce dei discepoli, Pietro fa notare che, a differenza del ricco, essi hanno abbandonato tutto, non solo famiglia e lavoro (Mc 10,28). Hanno perso tutto per guadagnare lui, proclama Pietro, con enfasi evidente. I discepoli dicono di aver superato la prova a cui soccombette il ricco. Sono consapevoli delle loro rinunce; si attendono una congrua rimunerazione: qualcosa toccherà a chi ha lasciato qualcosa.
Gesù risponde con una promessa che va molto al di là dell'intenzione e delle parole di Pietro (Mc 10,29). Possono essere sicuri che non solo essi, ma anche chiunque abbia rinunciato a qualcosa nella propria vita, avrà una ricompensa. L'enumerazione delle possibili rinunce è eloquente. L’elenco delle persone possedute si allunghi più di quella delle cose. Sarà forse perché esse costituiscono i nostri beni migliori? O, magari, perché sono quelli che ci posseggono meglio?
La rinuncia, in ogni caso, non deve essere generica; ha dei contenuti (proprietà e persone amate) e due cause (Cristo e il vangelo). I beni, sia che si tratti di oggetti buoni o di persone buone, non sono rinunciabili per un motivo qualunque. Non è infatti un motivo qualunque a renderli perituri. Bisogna avere delle buone ragioni per rinunciare ai beni che possediamo. Per il fatto che solo un rapporto stretto con Cristo e lo sforzo missionario ne giustificano la rinuncia, i beni continuano ad essere una cosa buona, ma non sono il meglio.
Col centuplo promesso viene assicurata non solo la ricompensa ma anche l'impegno divino per far sì che divenga realtà. E' quello il modo di pagare tipico di Dio, la sua usanza, con coloro che ascoltano e fanno la sua volontà (Mc 4,7-20). La fraternità cristiana compensa la famiglia lasciata, ma non è esente da pericoli (Lc 12,52-53; Mc 13,12-13). La ricompensa di adesso, anche se generosa, è limitata. Solo la vita eterna ricompensa realmente la sequela; solo in avvenire Dio salderà del tutto il suo “debito” verso coloro che hanno abbandonato tutto per seguire Cristo. Avere un Dio indebitato è la migliore garanzia di un avvenire insperato. E' allora che gli ultimi saranno i primi (Mc 10,31).
Prima di concludere: quale è il mio (unico) bene?
Il ricordo del ricco che non poté diventare discepolo è un monito permanente per i discepoli che desiderano essere ricchi o, semplicemente, i primi. L’incontro di Gesù col giovane ricco (Mc 10,17-31), ha come motivo l’incompatibilità dei beni con la sequela di Gesù: l’unico bene del buon discepolo dev'essere solo Gesù che sta seguendo. Gesù non tollera che i buoni conservino dei beni propri in concorrenza con lui.A chi le vuol seguire Gesù richiede dedizione esclusiva.
[1] Traccia di riflessione e lavoro sul tema del CG27, ACG 413 (2012)64-65.
[2] Nei paralleli viene identificato: giovane (Mt 19,20.22), persona di rilievo (Lc 18,18).
Invito a pregare la Parola
“La fraternità vissuta in comunità è una forma alternativa di vita, è proposta contro-culturale, è quindi profezia. L’individualismo diffuso, l’esclusione sociale, l’omologazione culturale sono sfide a cui la comunità salesiana risponde, mostrando che è possibile vivere da fratelli, condividere la vita e comunicare in profondità… Vivere insieme in comunità è principalmente vocazione e non scelta o convenienza: siamo convocati da Dio. La fraternità richiede di scoprire la gratuità e la relazionalità. I giovani che si avvicinano alla vita consacrata sono affascinata dal modo di vivere la fraternità… Le diversità costituiscono una ricchezza da riconoscere e accogliere anche nelle comunità educative pastorali, in cui sono coinvolti a vivere e operare insieme diverse vocazioni”.[1]
“Affidandoci dei fratelli da amare, Dio ci chiama a vivere in comunità” (Const. 50): la vita comune è, dunque, “per noi salesiani una esigenza fondamentale e una via sicura per realizzare la nostra vocazione” (Const. 49). Con due proposte di lectio G. Zevini ci invita a fare preghiera della vita salesiana e così accoglierla con riconoscimento come dono di Dio e testimoniarla come “profezia in atto” (VC 85), poiché “tutta la fecondità della vita religiosa dipende dalla qualità della vita fraterna in commune”.[2]
L’analisi di due dei tre sommari relativi alla vita della comunità di Gerusalemme è, logicamente, il primo testo da pregare. Luca ha voluto affermare che nel sorgere del vivere insieme dei discepoli che, poco prima, avevano tradito il suo Signore si può ‘toccare’ la forza – lo Spirito – che ha fatto risorgere Gesù dai morti. Una vita fraterna, tessuta da attenzione ai bisogni altrui e distacco dai beni materiali, e la proba tangibili di una nuova vita e rende particolarmente efficace la proclamazione del Signore Risorto
Lo Spirito è all’origine della vita comune e della sua diversità. Paolo dovette spiegare ai suoi cristiani di Corinto che nella loro comunità unità di vita e molteplicità di doni provengono di una unica fonte, lo Spirito del Signore Gesù. L’abbondanza di carismi e ministeri servono all’unità di fede e di culto. Paolo dà delle norme per vivere in comune i doni dello Spirito, ma non si meraviglia delle difficoltà sorte proprio a causa di questi doni. Dover fare i conti con delle crisi nella comunità potrebbe aprirci gli occhi alla presenza dello Spirito in essa!
L’atteggiamento di comunione e di condivisione nella fraternità, nell’attuale momento di riflessione ecclesiologica e di impegno pastorale che stiamo vivendo come Famiglia salesiana in preparazione al Bicentenario della nascita di don Bosco, e in particolare, noi salesiani al prossimo CG27, merita una particolare attenzione. Alla luce della Chiesa “mistero di comunione” e in rapporto agli avvenimenti ecclesiali che la caratterizzano con l’Anno della fede e il Sinodo dei Vescovi sulla “Nuova evangelizzazione”, il testo degli At 2,42-45; 4,32-35 appare in tutta la sua viva attualità. In realtà, non c’è comunità religiosa o gruppo ecclesiale che non sia interessato a meditare su questa testimonianza della Chiesa apostolica, che resta normativa per la vita della Chiesa di tutti i tempi.
42Erano perseveranti nell'insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere. 43Un senso di timore era in tutti, e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli. 44Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; 45vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno… 32La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuore solo e un'anima sola e nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune. 33Con grande forza gli apostoli davano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e tutti godevano di grande favore. 34Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano il ricavato di ciò che era stato venduto 35e lo deponevano ai piedi degli apostoli; poi veniva distribuito a ciascuno secondo il suo bisogno.
Lectio, commento esegetico-spirituale
Partiamo dal quadro di riferimento di At 2,42-45 per poi legarlo con At 4,32-35. Il testo biblico presenta un modello di comportamento per ogni comunità cristiana e di vita consacrata. E’ il primo dei numerosi sommari, dove Luca presenta un quadro, un poco idealizzato ma “normativo”, della esistenza ecclesiale. L’evangelista espone cioè una situazione dove sono presenti i punti validi e necessari per la costruzione e la vita spirituale di ogni comunità di fede, ossia lo statuto ontologico delle relazioni dei primi cristiani: “erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli, nella comunione fraterna, nello spezzare il pane e nelle preghiere” (v.42). Sono quattro, dunque, le perseveranze su cui ogni comunità religiosa deve necessariamente confrontarsi per rimanere fedele al vangelo e agli insegnamenti di Gesù.
1. Perseverare nell’insegnamento degli apostoli. Sappiamo che la didaké è qualche cosa di diverso del kérygma, dal primo annuncio: essa è un’opera di formazione, di approfondimento, di illustrazione della persona e della missione del Signore Gesù. I cristiani della Chiesa delle origini ascoltavano la predicazione e la parola degli apostoli e, quindi, erano introdotti alla conoscenza del vangelo per giungere da credenti maturi ad una vera esperienza del Signore. Una preoccupazione che spesso ha accompagnato la storia e la vita della Chiesa, e parimenti l’esistenza di varie comunità religiose, è stato la formazione e la conoscenza del mistero di Cristo, legato ad una vita di testimonianza e di fede nei confronti della Parola di Dio.
2. Perseverare nella comunione fraterna. La comunione fraterna (= koinonia) è la vera vita comunitaria intesa come solidarietà sul piano materiale, come unione dei cuori e come partecipazione ai beni spirituali comuni. Luca è molto attento alla fraternità in tutte le sue dimensioni, da quella economica, al distacco dai beni, al mettere in comune le risorse spirituali personali. Significava anche la costatazione che i beni venivano distribuiti “secondo il bisogno di ciascuno” (v.45), un programma costantemente presente e un cammino costruttivo su cui la Chiesa primitiva si è costantemente esercitata.
3. Perseverare nella frazione del pane. E’ il segno caratteristico delle riunioni cultuali dei primi cristiani, dove si rinnovavano i gesti di Gesù durante l’ultima cena. Ma indica pure i pasti di Gesù con i peccatori e poi quelli del Risorto con i discepoli. Siamo di fronte ad una chiara allusione all’Eucaristia. Questa era vissuta nelle case come luogo della vita cristiana, nella consapevolezza che la più povera Eucaristia, se celebrata con verità e ben preparata, era essenziale per la vita dei primi credenti. La vera comunione fraterna era celebrare bene l’Eucaristia, consapevoli di vivere attorno alla mensa del Signore la vita cristiana in pienezza.
4. Perseverare nelle preghiere. Il termine è usato al plurale perché le forme di preghiere erano diverse. Si pregava al tempio, durante i pasti o nel segreto delle proprie case. E qui, Luca aggiunge l’elemento della “perseveranza” (v. 42), perché è uno dei tratti tipici della preghiera, che va fatta “senza mai stancarsi” (1Ts 5,17). Per comprendere questo atteggiamento di rapporto con Dio bisogna inserirlo nell’insegnamento spirituale tradizionale della comunità primitiva che, in modi diversi, perseguiva tale ideale: pregava sempre, “in ogni occasione” (Ef 6,18), “in ogni luogo” e “alzando al cielo mani pure” (1Tm 2,8). Naturalmente la preghiera era legata alla carità tanto che Origene potrà dire: “Prega sempre colui che unisce la preghiera alle opere che deve fare, e le opere alla preghiera. Soltanto così possiamo considerare realizzabile il precetto di pregare incessantemente”.[3] Si coglie in queste poche righe degli Atti degli Apostoli un clima di gioia, di freschezza delle origini, che guadagna il cuore di chi assiste a questa “ricostruzione” di un’umanità nuova. Clima che ha sempre incantato i cristiani di tutte le generazioni successive.
Ma il cuore del discorso del testo biblico è espresso nelle parole: “nessuno infatti tra loro era bisognoso” (v.34), perché la comunità “aveva un cuore solo e un'anima sola” (v.32), realtà che la tradizione biblica e la cultura profana avevano sempre sognato. Infatti, la comunità escatologica, quella degli ultimi tempi, sarà caratterizzata dal fatto che “non vi sarà alcun bisognoso in mezzo a voi” (Dt 15,4) e i greci sognavano di avere: “tutte le cose in comune”. Ogni comunità che vuol essere evangelica vive nel cuore il distacco dai beni materiali, premessa indispensabile per la concordia degli spiriti e raggiunge mete di vita spirituale. La comunità di Gerusalemme è la realizzazione di quella definitiva, quella perfetta. In quelle intermedie, le nostre, si realizza la previsione di Gesù: “i poveri li avrete sempre con voi” (Mc 14,7). Infine il testo aggiunge: “con grande forza gli apostoli davano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù” (v. 33). E’ un inciso che non sembra omogeneo con il resto del contesto. Ma vari esegeti fanno opportunamente osservare che Luca vuole affermare che la forza della testimonianza alla risurrezione del Signore viene proprio dalla vita fraterna. Attenzione ai bisogni altrui e distacco dai beni materiali sono elementi-base per costruire una comunità fraterna, e nello stesso tempo, rendere particolarmente efficace la proclamazione della Parola nel Signore Risorto.
Meditatio, applicata alla vita salesiana
La vicenda della prima Pentecoste con l’esplosione dello Spirito e l’entusiasmo della prima conversione di massa, si concluse in modo inatteso: persone diverse cominciarono a vivere uno stile di vita fraterna. Viene lo Spirito e il sogno irrealizzabile della fraternità è reso possibile: sentirsi fratelli e vivere da fratelli. Di tutti i miracoli, prodigi e segni, questo è il più impressionante: persone che non si conoscono, s’intendono e parlano la stessa lingua della carità, mettendo in comune i loro beni. Qualcosa di grande ha avuto inizio nel mondo: l’amore per gli altri diventa più forte dell’amore verso se stessi. La fraternità, prodigio della Pentecoste, manifesta il vero volto della Chiesa e diventa il motore dell’espansione del vangelo: liberi e schiavi, ricchi e poveri, dotti e ignoranti, tutti riuniti intorno alla stessa mensa, conviviale ed eucaristica, per vivere la nuova realtà profetica dei figli di Dio, in Cristo, nella potenza dello Spirito.
Coltivare la fraternità è il primo e più sicuro apporto alla missione salesiana nella Chiesa, dato che il più sicuro frutto dello Spirito è la costruzione di una comunità fraterna. Un articolo delle primitive Costituzioni scritte da don Bosco recitava: “Tutti i congregati tengono vita comune stretti solamente dalla fraterna carità e dai voti semplici che li stringano a formare un cuore solo e un’anima sola per amare e servire Iddio”.[4] Il modo di vivere delle comunità nate dagli apostoli è stato visto sempre come punto di riferimento degli Ordini e Istituti religiosi e di noi salesiani. Anche oggi questo alto ideale affascina, anche se non mancano gli scettici nei confronti della possibilità di vivere questa fraternità. Eppure la fraternità cristiana è il primo segno da porre per l’evangelizzazione del mondo e dei giovani. Non solo è segno di riconoscimento che siamo discepoli del Signore Gesù (Gv 13,35), ma è anche segno che il Signore Gesù è l’inviato del Padre (Gv 17,21), non uno dei profeti, ma il Profeta, il Figlio.
La comunità salesiana si fonda in Dio che ne è il modello: “Dio ci chiama a vivere in comunità, affidandoci dei fratelli da amare” (Cost 50a). La vita comune in fraternità, che nell’ottica salesiana ha come fine l’amore e il servizio di Dio, si realizza nella missione verso i bisognosi, specie i giovani poveri ed emarginati dalla società. Questa vita esige affetto fraterno, condivisione e unione spirituale come è detto nella nostra Regola di vita: “Ci riuniamo in comunità, nelle quali ci amiamo fino a condividere tutto in spirito di famiglia e costruiamo la comunione delle persone” (Cost. 49b). Avere un cuore solo vuol dire per noi salesiani avere una sola volontà e gli stessi obiettivi. Don Bosco a un chierico salesiano diceva: “Tu puoi e devi studiare il modo di infiammare di santo amor di Dio tutti i fratelli della nostra Società, e non arrestarti se non quando di tutti sarà fatto un cuor solo ed un’anima sola per amare e servire il Signore con tutte le nostre forze in tutto il corso della nostra vita. Certamente tu ne darai l’esempio verbo et opere».[5]
Quanto più l’individualismo avanza, tanto più la comunità nelle sue varie realizzazioni non può non presentarsi come fraternità. Fraternità da costruire con l’impegno personale e con l’annuncio gioioso del vangelo, fatto di testimonianza e di vita. L’unico modello ecclesiale che viene dal testo biblico è il modello della fraternità: modello non solamente teologico, ma modello comunitario da realizzare, come premessa di ogni altra realizzazione. Solo la bellezza di una comunità fraterna, ridarà spinta e incisività alla missione salesiana. E se questo è vero, quel modello non può essere accantonato come utopico o poetico o troppo vago, come a volte si sente dire. Sarebbe il trionfo di una ecclesiologia materialistica che, in nome del realismo, non riesce a vedere il mistero della fraternità, la grande novità cristiana nella nostra società.
Oratio, da personalizzare
Signore, il testo della Pentecoste ci ricorda anzitutto che solo lo Spirito Santo è il fondamento dell’unità e della concordia della comunità salesiana, è il criterio della comunione nella vita comunitaria e personale. Siamo consapevoli che egli prosegue l’opera di Gesù nella storia, ispirando l’ermeneutica esistenziale della vita cristiana: impegna la comunità ecclesiale, la vita religiosa, l’esistenza di ogni salesiano in un continuo compito di riforma. Questa consiste nella fedeltà creativa e responsabile allo Spirito di Cristo e di don Bosco che ci vivifica.
Solo così la comunità salesiana può divenire spazio di vita, quando lo Spirito arriva a liberare le energie di intelligenza, di carità, di libertà, di creatività di ciascuno e a scompaginarle nella comunità e nella vita insieme con gli altri. Allora la comunità salesiana manifesta la sua vocazione profetica: quella di essere segno di speranza, capace di aprire orizzonti di senso e di vivibilità ai giovani, di indicare vie di comunione fraterna e di comunicazione con le differenze culturali e religiose. La riscoperta della centralità della Parola di Dio e del volto dell’altro, soprattutto del povero, del diverso, del non credente, dell’appartenente a un’altra religione, ricordano ad ogni salesiano la sua vocazione all’ascolto del mondo e dei volti dei giovani, in cui lo Spirito Santo si personalizza ed è contemplabile nei frutti che produce, che sono i frutti della santità (Gal 5,22).
Ci introducono nella lectio divina le parole di H. Urs Von Balthasar: “Il moto d’amore tra cielo e terra è guidato dallo Spirito Santo, ed egli dà, così, compimento al rapporto, annodato in Cristo, con la Sposa Sion-Maria-Ekklesia. Il cristiano vive nel centro di questo evento, che vuole farsi realtà anche in lui e per lui, attraverso la sua dedizione amorosa all’amore. La sua esistenza dev’essere sempre traduzione creativa, futuro di Dio perennemente nello Spirito Santo”.[6] Ed inoltre le parole della nostra tradizione salesiana che definisce lo spirito salesiano “il nostro proprio stile di pensiero e di sentimento, di vita e di azione, nel mettere in opera la vocazione specifica e la missione che lo Spirito non cessa di darci. Oppure, più dettagliatamente, lo spirito salesiano è il complesso degli aspetti e dei valori del mondo umano e del mistero cristiano (Vangelo anzitutto, Chiesa, Regno di Dio…) ai quali i figli di Don Bosco, accogliendo l’ispirazione dello Spirito Santo e in forza della loro missione, sono particolarmente sensibili, tanto nell’atteggiamento interiore quanto nel comportamento esteriore” (ACGS n. 86).
3 Fratelli, nessuno può dire: “Gesù è Signore!”, se non sotto l'azione dello Spirito Santo. 4 Vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; 5 vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; 6 vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. 7 A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune: 8 a uno infatti, per mezzo dello Spirito, viene dato il linguaggio di sapienza; a un altro invece, dallo stesso Spirito, il linguaggio di conoscenza; 9 a uno, nello stesso Spirito, la fede; a un altro, nell'unico Spirito, il dono delle guarigioni; 10 a uno il potere dei miracoli; a un altro il dono della profezia; a un altro il dono di discernere gli spiriti; a un altro la varietà delle lingue; a un altro l'interpretazione delle lingue. 11 Ma tutte queste cose le opera l'unico e medesimo Spirito, distribuendole a ciascuno come vuole. 12 Come infatti il corpo è uno solo e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche il Cristo. 13 Infatti noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti siamo stati dissetati da un solo Spirito.
Lectio, commento esegetico-spirituale
L’esperienza della fraternità vissuta in comunità e quella dello Spirito sono una costante nel Nuovo Testamento, ma le forme di queste esperienze sono molteplici. Esse sono all’origine della Chiesa, e la Parola di Dio mostra chiaramente come la presenza dello Spirito Santo agisce nella vita della comunità religiosa e vi imprime una nota di unità e di missionarietà.
La lingua dello Spirito è la Parola di Dio che scende verso l’uomo e che porta la comunità di fede non a imporre il proprio linguaggio, ma a entrare nel linguaggio degli altri uomini, a “dire Dio” e ad annunciare il vangelo secondo le possibilità e le modalità di comprensione dell’altro. Questo significa che san Paolo nella sua missione ha visto nei destinatari dell’annuncio non un semplice recettore passivo, ma un soggetto teologico la cui cultura determina forme e modalità della missione stessa. Ovviamente, tutto ciò ha importanti ricadute a livello di vita comunitaria e di relazioni interpersonali: amare l’altro significa ascoltarlo, assumerlo nella sua diversità, nella sua alterità, entrare nella sua sensibilità per poter comunicare con lui non con violenza, cioè imponendoci a lui, ma nella carità e nella verità, cioè aprendoci positivamente alla sua differenza. Questa azione, per Paolo, è azione pneumatica, opera dello Spirito che scende dall’alto, viene da Dio. Di questo Spirito san Paolo dice che si oppone alla “carne” (cfr. Gal 5,16-17), cioè alla tendenza egoistica dell’uomo, alla chiusura in sé, al rifiuto dell’incontro e della comunione con l’altro.
Le prime comunità cristiane, infatti, sperimentarono con gioia e vivacità la presenza dello Spirito e riconobbero la varietà e la ricchezza delle sue manifestazioni e dei suoi doni. Ma si accorsero anche che le manifestazioni dello Spirito non sono esenti da ambiguità. Così la certezza della presenza dello Spirito nella comunità non chiude il discorso all’interno della comunità, ma ne apre uno nuovo ed importante, quello degli strumenti necessari per garantire ai vari doni presenti nella comunità la fedeltà alla tradizione e la capacità di edificazione comune.
Questa è stata l’esperienza della comunità di Corinto. La comunità era ricca di carismi e ministeri, ma anche di tensioni e contrasti. Intervenendo, Paolo afferma, anzitutto, che la varietà dei doni viene dallo Spirito, che è ricco e non può manifestarsi in un modo solo. L’uniformità non è mai segno dello Spirito. Ma perché la varietà dei doni sia segno della sua presenza e della sua azione occorrono tre condizioni.
La prima condizione è la fede che trova il suo centro nell’affermazione: “Gesù è il Signore” (v.3). Chi afferma che Gesù è il Signore, viene dallo Spirito; chi afferma il contrario, non può venire dallo Spirito. Ma che cosa significa proclamare “Gesù Signore”? Anzitutto che Gesù di Nazareth, il Crocifisso è Risorto; che è presente ed agisce ora nella comunità; che la sua strada, quella della Croce, è la strada che va percorsa anche dal discepolo.
La seconda è che la varietà dei doni trovi il punto di convergenza nell’edificazione comune. Dietro la varietà dei doni di ciascuno c’è la carità, il carisma migliore e comune. Solo a questa condizione si può parlare di presenza dello Spirito.
C’è un terzo criterio per discernere lo Spirito: il carisma si concepisce come funzione, come servizio, non come dignità. Il carisma non fonda una dignità, una grandezza da far valere, ma un compito da svolgere, un servizio per gli altri. Questa è l’affermazione centrale, rivoluzionaria, che Paolo sviluppa mediante l’allegoria del corpo e delle membra. Un dono che venisse concepito come dignità, come un per sé, da usare a vantaggio proprio, cesserebbe di essere carisma che viene dallo Spirito. Lo Spirito è presente là - e soltanto là – dove il dono diventa servizio e apertura verso i fratelli.
Meditatio, applicata alla vita salesiana
La Chiesa è una comunità-comunione ricca di vari carismi. Don Bosco fondatore, nel suo tempo, ignorava e non parlava di carismi, di cui tuttavia non era privo. Egli implorava da Dio e dall’Ausiliatrice grazie particolari, che erano in realtà dei carismi. Basti pensare al dono della parola che egli domandò ed ottenne il giorno della sua ordinazione sacerdotale. A riguardo don Ceria riporta una frase assai significativa: “la grazia delle guarigioni, il discernimento degli spiriti, lo spirito di profezia sono carismi che abbondarono nella vita del nostro Santo, né ci stancheremo noi di registrare i fatti, mano a mano che ne incontreremo di accertati”.[7] Con san Paolo noi chiamiamo carismi i doni di natura e di grazia che sono al servizio della Chiesa e per l’edificazione della comunione fraterna. A noi salesiani, come ad ogni istituto religioso, “è richiesta la fedeltà al carisma fondazionale e al conseguente patrimonio spirituale”.[8]
Parlando del carisma di don Bosco fondatore, don E. Viganò lo riconosceva nell’esperienza fontale del “dono nuovo di Valdocco”, arricchita da elementi comuni della santità cristiana e dallo zelo apostolico, generatore di posterità spirituale. Questi gli elementi essenziali del patrimonio salesiano: una scelta originale di alleanza ed unione con lo Spirito di Dio; una collaborazione attiva e affettiva alla missione della Chiesa con un particolare stile di vita spirituale; una forma tipica di vita evangelica in stile familiare di rapporti che sappia portare i giovani a Cristo. “Don Bosco è stato ispirato dall’Alto a volere per noi una determinata forma di vita evangelica, duttile e adattata ai tempi, agile e disponibile per la missione tra la gioventù, di armoniosa permeazione tra autenticità religiosa e cittadinanza sociale, tra fedeltà alla sequela del Cristo e duttilità ai segni dei tempi”.[9]
Lo Spirito e la Parola di Dio appaiono pertanto gli elementi che presiedono all’armonia della comunità fraterna al suo interno e nel mondo. Specie tra i giovani la comunità salesiana è posta dallo Spirito come testimone del Cristo, chiamata ad annunciare il Vangelo e l’opera di Dio nell’oggi. Al suo interno la comunità è situata nella feconda dialettica dell’unità nella diversità: unico è lo Spirito, ma si personalizza in ciascuno. Paolo afferma che l’unicità dello Spirito si accompagna alla diversità delle manifestazioni, dei carismi (cfr. 1Cor 12, 4-11). E tutto questo è in continuità con la testimonianza del Cristo, la cui presenza e la cui parola hanno suscitato sia reazioni di accoglienza sia reazioni di rifiuto.
Lo spirito salesiano rifiuta la monotonia delle cose prefabbricate e standardizzate; egli dona a ciascuno vocazioni e doni diversi, secondo la personalità di ognuno. Queste diversità possono condurre ad un pericolo anche noi salesiani, oggi come ai tempi di san Paolo, quello cioè di catalogarsi, di opporsi gli uni agli altri, di affrontarsi in accesi confronti. Lo Spirito esige unità pur nella diversità, conservando ciascuno la propria personalità. Doni e carismi personali sono a beneficio del bene della comunità, le cui condizioni che regolano tali carismi sono vivere la fede in Gesù Cristo, produrre frutti dello Spirito, come la carità, la pace, la gioia (Gal 5,22), praticando la regola d’oro dell’edificazione comune (1Cor 14,26), fatta di unione con Dio e comunione fraterna. Tutto questo vale per il dono della “profezia” che consiste nel parlare a nome di Dio, il quale suscita nel cuore del credente parola profetiche destinate a promuovere la crescita e la riforma della comunità religiosa.
Il carisma di don Bosco è un’esperienza dello Spirito, trasmessa ai propri discepoli per essere da questi vissuta, custodita, approfondita e costantemente sviluppata in sintonia con il Corpo di Cristo in perenne crescita… con una indole propria che comporta anche uno stile particolare di santificazione e di apostolato”.[10] Per noi salesiani oggi la vita comune in fraternità ha una convinta adesione e piena valorizzazione, consapevoli che vivere questo aspetto significa far crescere i nostri carismi.
Oratio, da personalizzare
“Lo Spirito Santo è il dono che viene nel cuore dell’uomo insieme con la preghiera. In questa egli si manifesta prima di tutto e soprattutto come il dono “che viene in aiuto della nostra debolezza”. È il magnifico pensiero sviluppato da san Paolo nella lettera ai Romani (8,26) quando scrive: “Noi nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili”. Dunque lo Spirito Santo non solo fa sì che preghiamo, ma ci guida “dall’interno” nella preghiera, supplendo alla nostra insufficienza, rimediando alla nostra incapacità di pregare: egli è presente nella nostra preghiera e le dà una dimensione divina. Così “colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito, poiché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio” (Rm 8,27). La preghiera per opera dello Spirito Santo diventa l’espressione sempre più matura dell’uomo nuovo, che per mezzo di essa partecipa alla vita divina.
«La nostra difficile epoca ha uno speciale bisogno della preghiera. Se nel corso della storia – ieri come oggi – numerosi uomini e donne hanno dato testimonianza dell’importanza della preghiera, consacrandosi alla lode di Dio e alla vita di orazione soprattutto nei monasteri con grande vantaggio della Chiesa, in questi anni va pure crescendo il numero della persone che, in movimenti e gruppi sempre più estesi, mettono al primo posto la preghiera e in essa cercano il rinnovamento della vita spirituale. È questo un sintomo significativo e consolante, giacché da tale esperienza è derivato un reale contributo alla ripresa della preghiera tra i fedeli, che sono stati aiutati a meglio considerare lo Spirito Santo come colui che suscita nei cuori un profondo anelito alla santità”.[11]
Giorgio Zevini, SDB
[1] Traccia di riflessione e lavoro sul tema del CG27, ACG 413 (2012)65.
[2] Giovanni Paolo II, Discorso alla Plenaria della CIVCSVA (20-11-1992), in OR 21.11.1992, n.3.
[3] De oratione 12, PG 11,452.
[4] Costituzioni primitive, ms. in ACS 022 (1), c. I Forma, art. 1.
[5] Epistolario. Introduzione, testi critici e note. A cura di F. Motto, Roma, LAS,1999, II 174
[6] Spiritus Creator. Saggi teologici III, Morcelliana, Brescia 1972, 328.
[7] MB XIII 572.
[8] VC 36b.
[9] E. Viganò, Lettera ai salesiani, 14 maggio 1981, in ‘Lettere circolari’, 309-310.
[10] E. Viganò, Lettera ai salesiani, 8 febbraio 1995, in “Lettere circolari”, 1557.
[11] Giovanni Paolo II, Dominum et vivificantem, 18 maggio 1986, n. 65.
Un invito a pregare la Parola di Dio
“Il dono più bello che possiamo offrire ai giovani è la possibilità di incontrare il Signore Gesù; è la proposta di un’educazione che si ispiri al vangelo e che apra ai giovani “la porta della fede”... Ci dedichiamo alla missione “con operosità instancabile, curando di fare bene ogni cosa con semplicità e misura” (Cost. 18), sull’esempio del Signore Gesù che “come il Padre opera sempre” e a imitazione di Don Bosco che si è speso “fino all’ultimo respiro”. Il lavoro apostolico richiede talvolta rinunce, fatiche e sacrifici, che hanno senso se finalizzate a un bene più grande: “la gloria di Dio e la salvezza delle anime”.[1]
La missione ci identifica nella Chiesa come consacrati a Dio e ai giovani e “da un a tutta la nostra esistenza il suo tono concreto” (Const. 3). “Nel compiere questa missione, troviamo la via della nostra santificazione” (Cost. 2). F. J. Moloney ci offre due spunti per una preghiera in cui si contempla che, primo, il servizio ai giovani è innanzitutto, servizio a Cristo e che, secondo, il ministero apostolico è un servizio senza misura.
Il racconto della prima moltiplicazione dei pani ricorda che Gesù sazia la folla presso dalla sua compassione di Gesù e senza badare tanto all’indisponibilità dei suoi discepoli. Solo quando mettano a sua disposizione quel poco che hanno, Gesù farà il prodigio: la scarsità di alimento non è scusa per far mangiare una moltitudine. Per servire la gente i discepoli devono imparare a consegnare tutto, anche se ben poco, a Gesù perché Lui si consegni, tutto, agli altri.
Il ministero apostolico richiede totale consegna di se, come Paolo confida agli inquieti cristiani di Corinto. E per consegnarsi totalmente, l’apostolo deve essere totalmente libero. Per salvare la gratuità del messaggio, il messaggero deve saper rinunciare ai propri diritti, anche ai più nobili ed irrinunciabili. Il suo onore, il suo salario, risiede nel poter lavorare per il vangelo: essere apostolo è compito e ricompensa, affidamento e premio. Predicare non è qualcosa di elettivo, è una necessità di cui non ci si può liberare. Legato irremissibilmente al vangelo, dovrà offrirlo a prescindere dalla sua persona, purché possa guadagnare qualcuno (!) per Cristo.
Il tema del servizio ai giovani, così centrale per la vocazione salesiana, è stato individuato dal Rettor Maggiore come uno dei nuclei tematici per il CG27. Un’attenta Lectio salesiana di Marco 6:30-44 fornisce una base per questo tema. In qualsiasi iniziativa cristiana, il credente deve riconoscere che la “missione” di servizio ha le sue origini in Dio mediante suo Figlio Gesù Cristo. Questo brano parla della riluttanza iniziale dei discepoli a dare cibo alla folla. Gesù li mette in grado di farlo, usando la loro povertà per sfamare una grande moltitudine. Così, il Signore conduce anche noi – che siamo a volte riluttanti – ad assumere la nostra povertà e consegnarla totalmente ai giovani.
30 Gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e insegnato. 31 Ed egli disse loro: «Venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un po’.» Era infatti molta la folla che andava e veniva e non avevano più neanche il tempo di mangiare. 32 Allora partirono sulla barca verso un luogo solitario, in disparte. 33 Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città cominciarono ad accorrere là a piedi e li precedettero. 34 Sbarcando, vide molta folla e si commosse per loro, perché erano come pecore senza pastore, e si mise a insegnare loro molte cose. 35 Essendosi ormai fatto tardi, gli si avvicinarono i discepoli dicendo: «Questo luogo è solitario ed è ormai tardi; 36 congedali perciò, in modo che, andando per le campagne e i villaggi vicini, possano comprarsi da mangiare.»
37 Ma egli rispose: «Voi stessi date loro da mangiare.» Gli dissero: «Dobbiamo andar noi a comprare duecento denari di pane e dare loro da mangiare?»38 Ma egli replicò loro: «Quanti pani avete? Andate a vedere.» E accertatisi, riferirono: «Cinque pani e due pesci.» 39 Allora ordinò loro di farli mettere tutti a sedere, a gruppi, sull'erba verde. 40 E sedettero tutti a gruppi e gruppetti di cento e di cinquanta. 41 Presi i cinque pani e i due pesci, levò gli occhi al cielo, pronunziò la benedizione, spezzò i pani e li dava ai discepoli perché li distribuissero; e divise i due pesci fra tutti. 42 Tutti mangiarono e si sfamarono, 43 e portarono via dodici ceste piene di pezzi di pane e anche dei pesci. 44 Quelli che avevano mangiato i pani erano cinquemila uomini. (Marco 6:30-44 CEI)
Una caratteristica del Vangelo di Marco sono le due narrazioni di Gesù che sfama la moltitudine (Marco 6:30-44 e 8:1-10). Esse giocano un ruolo importante nel modo in cui Marco sviluppa la sua presentazione di Gesù e dei suoi discepoli. Il primo episodio è situato in Israele, dal lato ebreo del lago di Galilea. Tra il primo miracolo e il secondo, Gesù s’imbatte nel rifiuto dei capi d’Israele e denuncia con parole forti i loro atteggiamenti (7:1-23). Lasciando Israele, Gesù va a Tiro e Sidone (vv. 24-30), e poi alla Decapoli pagana (vv. 31-37). Trovandosi ora in una regione pagana dall’altro lato del lago, sfama di nuovo la moltitudine. Non è possibile fraintendere il messaggio di Marco: Gesù, mediante i suoi discepoli, nutre sia il giudeo (6:30-44) che il pagano (8:1-20).
Marco 6:30 chiude l’episodio previo nella storia di Marco, cioè il ritorno dei Dodici inviati in missione (6:7-30), e apre il nostro brano, 6:30-44. Intanto, tra l’invio dei Dodici (vv. 7-13) e il loro ritorno (v. 30) è stata annunciata la morte di Giovanni Battista (vv. 14-29). Questo evento viene inserito nel cuore del resoconto della prima missione dei Dodici per indicare un modello di discepolato: costa niente meno che tutto. Poi, nel v. 30 i Dodici ritornano a Gesù con l’idea di aver compiuto tutto. A Gesù che li ha costituiti (v. 3:14) riferiscono tutto ciò che hanno fatto. La morte di Giovanni Battista, insieme al malinteso dei discepoli circa la vera sorgente di riuscita nella loro missione, è un ammonimento al lettore salesiano che il servizio dei giovani non concerne l’individuo salesiano e i suoi talenti, ma la sua disponibilità a darsi alla missione fino all’ultimo respiro, come ci ricorda la vita di Don Bosco (C 1, 14, 21).
Nel v. 31, Gesù parla ai discepoli, chiedendoli di ritirarsi un po’ e recarsi a riposare in un altro luogo perché “la folla… andava e veniva e non avevano più neanche il tempo di mangiare” (v. 31b). Gesù e i discepoli lasciano fisicamente un posto e vanno ad un luogo solitario attraversando il lago (v. 32) - ma è tutto invano. L’attrattiva di Gesù è troppo forte. Molti accorrono a piedi “da tutte le città”. Essi sono già lì ad aspettare Gesù e i discepoli quando arrivano (v. 33). Questo entusiasmo della folla contrasta con l’incomprensione dei discepoli. Capita spesso infatti che i discepoli, anche noi salesiani, non riconosciamo il miracolo di essere così vicini al Signore. Ci sentiamo annoiati, semplicemente facendo ciò che dobbiamo fare, inconsapevoli della grande ricchezza che possediamo e che dobbiamo condividere con altri. Rassomigliamo come i discepoli di Gesù nell’episodio.
Al vedere la grande folla, che è accorsa da tutte le parti, Gesù si commuove (v. 34a), e Marco usa l’immagine di “pecore senza pastore” per descrivere i sentimenti di Gesù (v. 34b). Il suo atteggiamento rievoca le parole di Yahweh a Mosé: “perché la comunità del Signore non sia un gregge senza pastore” (Num 27:17). Rievoca anche un aspetto essenziale del salesiano, il quale è chiamato ad essere un seguace del Buon Pastore, partecipando alla sua compassione per i più bisognosi, specialmente i giovani (C 27, 95). Man mano che il racconto del miracolo procede, si vedrà Gesù comandare i suoi discepoli a prendere cura anch’essi del gregge (cf. vv. 37-41). Intanto su questo sfondo, Gesù insegna “molte cose” alla folla. Come Mosé, Gesù insegna e anche offre cibo nel deserto (v. 34c).
I discepoli, fragili come sono, additano a Gesù l’ora tarda e l’isolamento del luogo. Chiedono che mandi via la folla per lasciarla comprare qualcosa da mangiare (vv. 35-36). Ma Gesù li invita a partecipare alla sua compassione, comandando loro: “Voi stessi date loro da mangiare” (v. 37a). Chiamati dal Buon Pastore a unirsi a lui nella missione di sollecitudine per i bisognosi, i discepoli avevano scelto una via facile: mandarli via! Ma, come il racconto della morte di Giovanni Battista insegna (vv. 13-29), il discepolo di Gesù deve dare tutto per vivere una vita radicata nel Vangelo: ecco il radicalismo evangelico che sta al cuore della convocazione del CG27.
Vi è un bisogno urgente di sfamare la gente (vv. 36-37). Bisogna prendere cura delle pecore che sono senza pastore. E noi salesiani siamo stati chiamati da Gesù e la Chiesa proprio per questo (C 26, 31). La risposta dei discepoli al comando di Gesù si aggira intorno ai soldi e al pane (v. 37b). È questa anche la nostra strategia: offrire un altro palazzo, un altro programma, più personale qualificato, più attrezzatura costosa e dell’ultimo grido? Gesù invece s’interessa della povertà dei discepoli, non di ciò che possiedono. Essi gli informano che hanno solo cinque pani e due pesci (v. 38). Ciò che possiedono - in questo caso, la mancanza di possedimenti - disturba loro. Ma non disturba il Buon Pastore.
Si chiede alla gente di sedersi “sull’erba verde” (v. 39). Questo dettaglio non è menzionato per aggiungere un po’ di colore. Esso richiama invece il Ps. 23,1: “Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla; su pascoli erbosi mi fa riposare.” Continuano i temi del Buon Pastore e dell’Esodo mentre Gesù fa sedere la gente in gruppi di cento e cinquanta (v. 40). I numeri riflettono i gruppi che marciarono nel deserto, come viene descritto nell’Esodo 18:21-25, Num 31:14 e Deut. 1:15. Come ad un popolo dell’Esodo che si trova in bisogno, Gesù dà da mangiare, e chiede ai discepoli di unirsi a loro in quel viaggio inquieto verso il futuro in Dio. Gesù è in controllo, conducendo laddove vuole andare. Né i discepoli né il salesiano di oggi determina la strada (C 31, 34).
Prendendo quel poco che i discepoli hanno con sé, Gesù compie diverse azioni: “presi”, “levò gli occhi al cielo”, “pronunciò la benedizione”, “spezzò i pani e li dava… perché li distribuissero” (v. 41). Queste azioni hanno le origini nelle pratiche eucaristiche primitive della comunità (vedi Marco 14:22). Le parole di Marco ci fanno pensare alle nostre celebrazioni eucaristiche. Un dettaglio da notare è che Gesù dà il pane benedetto e spezzato ai discepoli perché distribuissero alla gente. Nonostante la loro incapacità di capire il loro ruolo di pastore, essi vengono abilitati a unirsi alla sollecitudine di Gesù per i bisognosi.
Il commento: “Tutti mangiarono e si sfamarono” (v. 42) riprende il tema del pastore del Ps. 23:1 (“non manco di nulla”). Continua il collegamento tra il dare da mangiare a cinque mila persone e l’Eucaristia. I discepoli raccolgono i pezzi di pane e di pesce che avanzano, e riempiono dodici ceste. Nella Chiesa primitiva, la parola greca che viene usata qui (klasmata) indicava il pane eucaristico (v. Giovanni 6:12). Viene fatto un legame teologico importante con Israele mediante la collezione delle dodici ceste di pezzi che avanzano. Il pasto condiviso con la folla venuta da tutte le città d’Israele (vedi v. 33) rimane ancora aperto, a differenza della manna dell’Esodo che s’imputridì dopo un giorno (Es. 16:19-21). Il pane dato da Gesù è sempre a disposizione nelle dodici ceste. In questo miracolo, il numero “dodici” è basato sul numero originale delle tribù d’Israele, ora personificate nei “Dodici” di Gesù. Noi oggi siamo i loro eredi, invitati come discepoli di Gesù a partecipare al pasto e attirare altri a questa partecipazione. Questo è il mistero che giace al centro eucaristico della vita salesiana. Là “attingiamo dinamismo e costanza nella nostra azione per i giovani” (C 88).
La Parola di Dio ci insegna che Gesù prende dalla debolezza e povertà dei discepoli di tutti i tempi, e sfama sia il giudeo (6:30-44) che il pagano (8:1-10). Gesù nutre tutto il mondo. Lo sfondo eucaristico lega questo atto di sfamare l’umanità con il mistero e la missione centrale e universale della Chiesa. La presenza continua dei discepoli, la Chiesa cristiana, è chiamata a nutrire i popoli di tutti i tempi. La vocazione salesiana, oramai presente nei quattro angoli della terra e impegnata incondizionatamente e instancabilmente al servizio dei giovani (C 1, 78), trova qui le sue radici evangeliche ed eucaristiche.
Il nostro primo momento di preghiera e riflessione si è concentrato sull’apprendimento da parte dei discepoli di Gesù dell’arte di donarsi totalmente al popolo (Marco 6:30-44). Completata quella riflessione, passiamo ora all’Apostolo Paolo per partecipare al suo ardore di autentico discepolo di Gesù. Non vi sono limiti al dono di sé da parte di Paolo. Capita che alcuni che lavorano per la diffusione del Vangelo la fanno con buone intenzioni, ma per la loro auto-realizzazione e riuscita personale. Paolo lancia una sfida ai Corinzi – e a noi. La sua non è una strada di privilegio. Per chiunque spende la propria vita nell’essere e farsi tutto a tutti non c’è un limite al dono di sé. Difatti, la nostra vocazione salesiana di servizio ai giovani non conosce limiti: “Ho promesso a Dio che fin l’ultimo mio respiro sarebbe stato per i miei poveri giovani” (C 1).
9:1 Non sono forse libero, io? Non sono un apostolo? Non ho veduto Gesù, Signore nostro? E non siete voi la mia opera nel Signore? 2 Anche se per altri non sono apostolo, per voi almeno lo sono; voi siete il sigillo del mio apostolato nel Signore. 3 Questa è la mia difesa contro quelli che mi accusano. 4 Non abbiamo forse noi il diritto di mangiare e di bere? 5 Non abbiamo il diritto di portare con noi una donna credente, come fanno anche gli altri apostoli e i fratelli del Signore e Cefa? 6 Ovvero solo io e Barnaba non abbiamo il diritto di non lavorare? 7 E chi mai presta servizio militare a proprie spese? Chi pianta una vigna senza mangiarne il frutto? O chi fa pascolare un gregge senza cibarsi del latte del gregge? 8 Io non dico questo da un punto di vista umano; è la Legge che dice così. 9 Sta scritto infatti nella legge di Mosè: Non metterai la museruola al bue che trebbia. Forse Dio si dà pensiero dei buoi? 10 Oppure lo dice proprio per noi? Certamente fu scritto per noi. Poiché colui che ara deve arare nella speranza di avere la sua parte, come il trebbiatore trebbiare nella stessa speranza. 11 Se noi abbiamo seminato in voi le cose spirituali, è forse gran cosa se raccoglieremo beni materiali? 12 Se gli altri hanno tale diritto su di voi, non l'avremmo noi di più? Noi però non abbiamo voluto servirci di questo diritto, ma tutto sopportiamo per non recare intralcio al vangelo di Cristo. 13 Non sapete che coloro che celebrano il culto traggono il vitto dal culto, e coloro che attendono all'altare hanno parte dell'altare? 14 Così anche il Signore ha disposto che quelli che annunziano il vangelo vivano del vangelo. 15 Ma io non mi sono avvalso di nessuno di questi diritti, né ve ne scrivo perché ci si regoli in tal modo con me; preferirei piuttosto morire. Nessuno mi toglierà questo vanto! 16 Non è infatti per me un vanto predicare il vangelo; è un dovere per me: guai a me se non predicassi il vangelo! 17 Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato. 18 Quale è dunque la mia ricompensa? Quella di predicare gratuitamente il vangelo senza usare del diritto conferitomi dal vangelo. 19 Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero: 20 mi sono fatto Giudeo con i Giudei, per guadagnare i Giudei; con coloro che sono sotto la legge sono diventato come uno che è sotto la legge, pur non essendo sotto la legge, allo scopo di guadagnare coloro che sono sotto la legge. 21 Con coloro che non hanno legge sono diventato come uno che è senza legge, pur non essendo senza la legge di Dio, anzi essendo nella legge di Cristo, per guadagnare coloro che sono senza legge. 22 Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno. 23 Tutto io faccio per il vangelo, per diventarne partecipe con loro. 24 Non sapete che nelle corse allo stadio tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo! 25 Però ogni atleta è temperante in tutto; essi lo fanno per ottenere una corona corruttibile, noi invece una incorruttibile. 26 Io dunque corro, ma non come chi è senza mèta; faccio il pugilato, ma non come chi batte l'aria, 27 anzi tratto duramente il mio corpo e lo trascino in schiavitù perché non succeda che dopo avere predicato agli altri, venga io stesso squalificato. (1 Corinzi 9:1-27 CEI)
Paolo aveva fondato la comunità di Corinto (v. Atti 18:1-11), ma ora è cosciente di problemi seri in quella comunità immatura. Sono divisi tra loro (1 Cor 1-4. Vedi 1:11); non rispettano l’importanza cristiana del corpo umano (5:1-6:20); vi sono problemi nei matrimoni (7:1-9) e nelle cose sessuali (7:17-40). In una lunga sezione, tratta delle difficoltà che provengono da fuori ad un gruppo minoritario inserito in un mondo pieno di culti pagani (8:1-11:1); tratta anche dell’uso dei doni dello Spirito (12-14). Finalmente, si occupa della questione della risurrezione dai morti (15:1-58). In 9:1-27, nel cuore della sua intensa interazione con la sua comunità, lancia loro una sfida narrando la storia della propria vita. Pregando e riflettendo su questa Parola di Dio, noi salesiani ci lasciamo sfidare da lui ad “essere nella Chiesa segni e portatori dell’amore di Dio ai giovani” (C 2).
L’ardore di Paolo è un indizio che non tutti hanno una simpatia per lui. Ci sono quelli che pongono interrogative sul suo ruolo tra loro. Non meno di quattordici volte in 7:1-18, egli fa delle domande arrabbiate (vedi vv. 1 [4 volte], 4, 5, 6, 7 [3 volte], 8 [2 volte], 9, 10, 11, 13, 18) per difendere se stesso (v. 3). I Corinzi sono cari a lui, il frutto della sua fatica, un segno davanti al Signore (vv. 1-2). Egli, il loro apostolo, si sente profondamente ferito perché alcuni dubitano di lui. In queste domande feroci si scorge un uomo appassionato che si preoccupa della sua missione nel nome di Gesù Cristo e della comunità cristiana. Solamente in questo modo qualcuno può diventare tutto a tutti. Il salesiano deve essere appassionatamente fiero di essere stato scelto come un apostolo per i giovani; deve vivere la sua vocazione pubblicamente, essere infaticabile nel suo impegno a favore dei giovani, sentirsi ferito quando la sua dedizione viene impugnata da altri, o quando viene tradito dai suoi.
Un apostolo non viene forzato ad assumere la missione, ma fa una risposta libera alla chiamata di Dio (v. 1). L’impegno incondizionato dell’apostolo, però, può portarlo ad uno stile di vita che appare strano al mondo secolare. Paolo liberamente rinuncia ai suoi diritti al cibo e alla bevanda, ad una moglie, ad una retribuzione per il suo lavoro a favore della gente che serve (vv. 4-7). Noi ci uniamo a lui in questi gesti controculturali in e per mezzo di una vita consacrata di Obbedienza, Povertà e Castità (C 60-84). Il salesiano deve dimostrare ai giovani che è un apostolo per loro, non per se stesso. “Basta che siate giovani, perché io vi ami assai… per voi sono disposto anche a dare la vita” (Don Bosco, C 14).
La Bibbia dice che il lavoratore ha diritto a guadagnare qualcosa dalla sua fatica (vv. 8-9, in riferimento a Deuteronomio 25:4), che colui che ara deve ricevere una ricompensa dalla mietitura (v. 10, in riferimento a Ben Sirach 6:19). Anche Paolo può legittimamente domandare un premio come il frutto del suo lavoro tra i Corinzi (vv. 11-12). Ma questo non è il modo di agire di Paolo. Egli è spinto da una passione ardente di diffondere il Vangelo di Cristo. Qualsiasi idea di guadagno personale dalla missione deve essere abbandonata (C 73). La vita di Paolo dimostra che egli vive il Vangelo che predica. I salesiani si uniscono a lui in questo impegno appassionato di vivere il Vangelo senza compromessi, partecipando “più strettamente al mistero della sua Pasqua, al suo annientamento e alla sua vita nello Spirito” (C 60).
Paolo, costretto dall’urgenza divina, non può fare altro: “Guai a me, dice, se non predicassi il vangelo” (v. 16). Non vuole vantarsi delle sue virtù (v. 15), essendovi una sola cosa che gli importa: predicare il Vangelo, spinto da un senso urgente di essere un apostolo del Signore. Egli serve solo il Signore e mai se stesso (vv. 16-17). Il modo più efficace di proclamare il Vangelo è “gratuitamente”, ricavandone nessun beneficio ma formando coloro ai quali si è inviato affinché essi diventino “il sigillo del [suo] apostolato” (v. 2). Per il salesiano, “buoni cristiani e onesti cittadini” sono il segno che stiamo vivendo il Vangelo (C 34-36).
L’apostolo non conosce né leggi culturali o sociali né limiti. Paolo non solo fa senza; diventa lo schiavo di tutti (v. 19): giudeo con i giudei, pagano con i pagani, debole con i deboli. Vi è una sola legge, ed è la Legge di Cristo (vv. 20-22). Vi è una sola meta. Costi quel che costi, l’impegno incondizionato di Paolo è quello di salvare coloro a cui è inviato (v. 22). Se ciò viene fatto nel nome del Vangelo, Paolo si sente ricco delle sue benedizioni (v. 23). Condividiamo questo impegno di Paolo anche noi salesiani, chiamati al servizio della gioventù, specialmente di quella meno privilegiata “che ha maggior bisogno di essere amata ed evangelizzata,… nei luoghi di più grave povertà” (C 26).
Paolo si volge ai Corinzi, chiedendoli di rinunciare alle loro divisioni e difficoltà meschine che lo hanno spinto a scrivere questa lettera. Ricorda loro che stanno correndo in una corsa per conquistare la corona della loro vittoria finale (v. 24). Non c’è una via facile, non c’è una vita senza sacrificio: ci accorgiamo di trovarci in una corsa e in una lotta, e quindi bisogna agire appropriatamente (vv. 25-26).
Paolo percorre la strada per primo, come deve fare ogni apostolo. Se lui non avesse abbracciato uno stile di vita e fatto un dono appassionato di se stesso a tutti, il suo ministero sarebbe stato in vano. Ciò lo avrebbe squalificato da questo ministero prezioso (v. 27). La cosa che Paolo chiese ai Corinzi, la chiede ora anche a noi: “Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo” (11:1), affinché non diventiamo squalificati. La tradizione continua: ogni salesiano continua ad imitare il nostro fondatore e ad incarnare il suo carisma, “imitando la sollecitudine di Don Bosco” (C 27).
Francis J. Moloney, SDB