Opera di importanza capitale, risalente ai primi anni settanta, per la comprensione della mentalità di don Bosco e del suo progetto operativo globale; insieme è rievocazione, riflessione e proiezione nel futuro. Edizione critica a cura di Antonio Da Silva Ferreira ISS, Fonti, Serie prima, 4. Roma - LAS 1991. Edizione divulgativa... Fonti, Serie prima, 5, LAS 1992.
Nella cappella annessa all'edifizio dell'Ospedaletto di S. Filomena l'Oratorio prendeva ottimo avviamento. Nei giorni festivi intervenivano in folla i giovanetti per fare la loro confessione e comunione. Dopo la messa tenevasi breve spiegazione del vangelo. Dopo mezzodì catechismo, canto di laudi sacre, breve istruzione, litanie lauretane e Benedizione. Nei varii intervalli i giovani erano trattenuti in piacevole ricreazione con trastulli diversi. Ciò si faceva nel piccolo viale che tuttora esiste tra il monastero delle Maddalene e la via pubblica. Passammo colà sette mesi e noi ci pensavamo di aver trovato il paradiso terrestre, quando dovemmo abbandonare l'amato asilo per andarcene a cercarcene un altro. La Marchesa Barolo, sebbene vedesse di buon occhio ogni opera di carità, tuttavia, avvicinandosi l'apertura del suo Ospedaletto (fu aperto il 10 agosto 1845) volle che il nostro Oratorio venisse di la allontanato. E' vero che il locale destinato a cappella, a scuola, o a ricreazione dei giovani non aveva alcuna comunicazione coll'interno dello stabilimento; le medesime persiane erano fisse e rivolte all'insù; nulla di meno si dovette ubbidire. Si promosse viva istanza al Municipio Torinese e mercè raccomandazione dell'Arcivescovo Fransoni si ottenne di trasferire l'Oratorio alla chiesa di S. Martino dei Molazzi ovvero dei Molini di città.
Ed eccoci una domenica del mese di Luglio 1845, si prendono panche, inginocchiatoi, candelieri; alcune sedie, croci, quadri e quadretti, e ciascuno portando quell'oggetto, di cui era capace, a guisa I di popolare emigrazione p. Io fra gli schiamazzi, il riso ed il rincrescimento siamo andati a stabilire il nostro quartiere generale nel luogo sopra indicato. Il T. Borelli fece un discorso di opportunita tanto prima della partenza, quanto nell'arrivo alla novella chiesa. Quel degno ministro del santuario con una popolarità, che si può chiamare piuttosto unica che rara espresse questi pensieri: I cavoli, o amati giovani, se non sono trapiantati non fanno bella e grossa testa. Diciamo lo stesso del nostro Oratorio. Finora fu spesso trasferito di luogo in luogo, ma ne' vari siti dove fece qualche fermata ebbe sempre un notabile incremento con non leggero vantaggio dei giovani che sono intervenuti. S. Francesco di Assisi lo vide cominciar come catechismo e un po' di canto. Colà non si poteva fare di più. Il Rifugio lo volle momentaneamente a fare una fermata come dicono farsi da chi cammina in ferrovia, e ciò affinché i nostri giovani non mancassero in quei pochi mesi dell'aiuto spirituale delle confessioni, dei catechismi, delle prediche e di ameni trastulli.
- Accanto all'Ospedaletto cominciò un vero Oratorio, e ci sembrava di avere trovato la vera pace, un luogo opportuno per noi, ma la divina Provvidenza dispose che dovessimo sloggiare e venire qua a S. Martino. Qui staremo molto tempo? nol sappiamo; speriamo di sì, ma comunque sia noi crediamo che, come i cavoli trapiantati, il nostro Oratorio crescerà nel numero di giovani amanti della virtù, crescerà il desiderio del canto, della musica, delle scuole serali ed anche diurne. Adunque passeremo qui molto tempo? Non occupiamoci di questo pensiero; gettiamo ogni nostra sollecitudine tra le mani del Signore, egli avra cura di noi. E' certo che egli ci benedice, ci aiuta e ci provvede; egli penserà al luogo conveniente per promuovere la sua gloria e pel bene delle nostre anime. Siccome però le grazie del Signore formano una specie di catena in guisa che un anello è collegato coll'altro; così, approfittando noi delle prime grazie siamo sicuri che Dio ne concederà delle maggiori; e noi corrispondendo allo scopo dell'Oratorio, cammineremo di virtù in virtù finché giungeremo alla patria Beata dove l'infinita misericordia di N. S. G. C. darà il premio che ognuno colle sue buone opere si sarà meritato. A quella solenne funzione era presente una folla immensa di giovanetti; e colla massima emozione si canto un Te Deum di ringraziamento.
Le pratiche religiose qui si compievano come al Rifugio. Ma non si poteva celebrar Messa, né dare la benedizione alla sera, quindi non poteva avere luogo la comunione, che è l'elemento fondamentale della nostra istituzione. La stessa ricreazione era non poco disturbata, incagliata a motivo che i ragazzi dovevano trattenersi nella via e nella piazzetta situata avanti la chiesa per dove passavano spesso gente a piedi, carri, cavalli e carrettoni. Non potendo avere di meglio ringraziavamo il cielo di quanto ci aveva concesso, aspettando località migliore; ma nuovi disturbi ci caddero addosso. I mugnai, i garzoni, i commessi, non potendo tollerare i salti, i canti e talvolta gli schiamazzi dei nostri allievi, si allarmarono e d'accordo promossero lamenti al medesimo Municipio. Fu allora che si cominciò a dire che quelle radunanze di giovanetti erano pericolose, che da un momento all'altro potevano fare sommosse e rivoluzioni. Ciò dicevano appoggiati alla pronta ubbidienza con cui eglino si prestavano ad ogni piccolo cenno del Superiore. Si aggiungeva senza fondamento che i ragazzi facevano mille guasti in Chiesa; fuori di Chiesa, nel selciato, e sembrava che Torino dovesse subbissare se noi avessimo continuato a radunarci in quel luogo.
Pose poi il colmo ai nostri guai una lettera scritta da un segretario dei Molini al Sindaco di Torino, in cui si raccoglievano tutte le voci vaghe ed amplificando i guasti immaginarii (1), diceva essere impossibile che le famiglie ------------------------------------------------------------------------------------------------------- (1) Il Sindaco mandò a verificare e trovò mura, selciato esterno, pavimento[,] tutte le cose di Chiesa a suo posto. Il solo guasto consisteva che un ragazzo colla punta di un chiodino aveva fatto una breve riga nelle pareti. ------------------------------------------------------------------------------------------------------ addette a quegli uffizi potessero continuare i loro doveri ed avere tranquillita. Si giunse fino a dire che quello era un semenzaio d'immoralità. Il Sindaco, sebbene persuaso della relazione infondata, scrisse una calda lettera in forza di cui dovevasi immediatamente portare altrove il nostro Oratorio. Rincrescimento generale, sospiri inutili! Dovemmo sgombrare.
E' bene però di notare che il segretario di nome Cussetti (non mai da pubblicarsi) autore della famosa lettera, scrisse per l'ultima volta, giacché fu colpito da un tremolo violento alla destra, dietro a cui passati tre anni andò alla tomba. Dio dispose che il figlio di lui fosse abbandonato in mezzo ad una strada e costretto di venire a chiedere pane e ricetto nell'Ospizio che si apri di poi in Valdocco.
Siccome il Sindaco e in generale il Municipio erano persuasi della insussistenza di quanto scrivevasi contro di noi, così a semplice richiesta, e con raccomandazione dell'Arcivescovo, si ottenne di poterci raccogliere nel cortile e nella Chiesa del Cenotafio del SS.mo Crocifisso detto volgarmente S. Pietro in Vincoli. Così dopo due mesi di dimora a S. Martino noi dovemmo con amaro rincrescimento trasferirci in altra nuova località, che per altro era più opportuna per noi. Il lungo porticato, lo spazioso cortile, la Chiesa adattata per le sacre funzioni, tutto servì ad eccitare entusiasmo nei giovanetti, sicché parevano frenetici per la gioia. Ma in quel sito esisteva un terribile rivale, da noi ignorato. Era questi non un defunto, che in gran numero riposavano nei vicini sepolcri; ma una persona vivente[,] la serva del cappellano. Appena costei ncominciò a udire i canti e le voci e, diciamo, anche gli schiamazzi degli allievi uscì fuori di casa tutta sulle furie, e colla cuffia per traverso e colle mani sui fianchi si diede ad apostrofare la moltitudine dei trastullanti. Con lei inveiva una ragazzina, un cane, un gatto, tutte le galline dimodoché sembrava essere imminente una guerra europea. Studiai di avvicinarmi per acquetarla, facendole osservare che quei ragazzi non avevano alcuna cattiva volontà, che si trastullavano, ne facevano alcun peccato. Allora si volse contro di me e diedemi il fatto mio.
In quel momento ho giudicato di far cessare la ricreazione[,] fare un po' di Catechismo, e recitato il Rosario in Chiesa, ce ne partimmo colla speranza di ritrovarci con maggiore quiete la Domenica seguente. Ben il contrario. Allora che in sulla sera giunse il Cappellano, la buona domestica se gli mise attorno e chiamando D. Bosco e i suoi figli rivoluzionari, profanatori dei luoghi santi e tutto fior di canaglia spinse il buon padrone a scrivere una lettera al Municipio. Scrisse sotto il dettato della fantesca ma con tale acrimonia, che fu immediatamente spedito ordine di cattura per chiunque di noi fosse colà ritornato. Duole il dirlo, ma quella fu l'ultima lettera del Cappellano D. Tesio, il quale scrisse il Lunedì, e poche ore dopo era preso da colpo apoplettico che lo rese cadavere quasi sull'istante. Due giorni dopo simile sorte toccava alla fantesca. Queste cose si dilatarono e fecero profonda impressione sull'animo dei giovani e di tutti quelli cui pervenne tale notizia. La smania di venire, di udire i tristi casi era grande in tutti; ma essendo proibiti di raccoglierci in S. Pietro in Vincoli, né essendosi potuto dare avviso opportuno, nissuno più poteva immaginarsi, nemmeno io, dove sarebbesi potuto avere un luogo di radunanza.
La domenica successiva a quella proibizione una moltitudine di giovanetti si reco a S. Pietro in Vincoli; perciocché non si era potuto dare loro alcun avviso preventivo. Trovando tutto chiuso si versarono in massa sulla mia abitazione presso l'Ospedaletto. Che fare! Io mi trovava un mucchio di attrezzi di chiesa e di ricreazione; una turba di fanciulli seguiva ovunque i miei passi, mentre io non aveva un palmo di terreno dove poterci raccogliere.
Celando tuttavia le mie pene mi mostrava con tutti di buon umore e tutti li rallegrava raccontando mille maraviglie intorno al futuro Oratorio che per allora esisteva soltanto nella mente mia e nei decreti del Signore. Per poterli poi in qualche modo occupare ne' giorni festivi li conduceva quando a Sassi, quando alla Madonna del Pilone; alla Madonna di Campagna; al monte dei Cappuccini ed anche fino a Superga: In queste chiese procurava di celebrare loro la S. Messa nel mattino colla spiegazione del vangelo. La sera un po' di catechismo, canto di lodi, qualche racconto, quindi giri, passeggiate fino all'ora di fare ritorno alle proprie famiglie. Sembrava che questa critica posizione dovesse mandare in fumo ogni pensiero di Oratorio, ed invece aumentava in numero straordinario gli avventori.
Intanto eravamo al mese di novembre (1845) stagione non più opportuna per fare passeggiate o camminate fuori città. D'accordo col T. Borrelli abbiamo preso a pigione tre camere della casa di D. Moretta, che è quella vicina, quasi di fronte all'attuale chiesa di Maria Ausil. Ora quella casa a forza di riparazioni venne pressoché rifatta. Colà passammo quattro mesi, angustiati pel locale, ma contenti di poter almeno in quelle camerette raccogliere i nostri allievi, istruirli e dar loro comodità specialmente delle confessioni. Anzi in quello stesso inverno abbiamo cominciato le scuole serali. Era la prima volta che nei nostri paesi parlavasi di tal genere di scuole; perciò se ne fece gran rumore[,] alcuni in favore, altri in avverso.
Fu pure in quel tempo che si propagarono alcune dicerie strane assai. Taluni chiamavano D. Bosco rivoluzionario, altri il volevano pazzo oppure eretico. La ragionavano così: Questo Oratorio allontana i giovanetti dalle parocchie, quindi il paroco si vedrà la chiesa vuota, né più potrà conoscere i fanciulli, di cui dovra rendere I conto al tribunale del Signore. Dunque D. Bosco mandi i fanciulli alle loro parocchie e cessi di raccoglierli in altre località.
Così dicevanmi due rispettabili paroci di questa città che mi visitarono a nome anche dei loro colleghi.
- I giovani che raccolgo, loro rispondeva, non turbano la frequenza alle parocchie, perché la maggior parte di essi non conoscono né paroco né parocchia.
- Perché? - Perché sono quasi tutti forestieri, i quali rimangono abbandonati dai parenti in questa città, o qui venuti per trovare lavoro, che non poterono avere. Savoiardi, Svizzeri, Valdostani, Biellesi, Novaresi, Lombardi sono quelli che per ordinario frequentano le mie adunanze.
- Non potrebbe mandare questi giovanetti alle rispettive parocchie?
- Non le conoscono. - Perché non farle conoscere?
- Non è possibile. La lontananza dalla patria, la diversità di linguaggio, la incertezza del domicilio, e l'ignoranza dei luoghi rendono difficile per non dire impossibile l'andare alle parocchie. Di più molti di essi sono già adulti: taluni toccano i 18, i 20 ed anche i 25 anni d'età, e sono affatto ignari delle cose di religione. Chi mai potrebbe indurre costoro di andarsi ad associare con ragazzi di 8 o 10 anni, molto più di loro istrutti?
- Non potrebbe Ella stessa condurli e venire a fare il Catechismo nelle stesse Chiese parocchiali?
- Potrei al più recarmi ad una parocchia, ma non a tutte. Si potrebbe a ciò provvedere se ogni parroco volesse prendersi cura di venire, od inviare chi raccogliesse questi fanciulli e li guidasse alle rispettive parocchie. Ma anche tal cosa riesce difficile, perché non pochi di quelli sono dissipati, ed anche discoli, i quali lasciandosi adescare dalla ricreazione, dalle passeggiate, che tra noi hanno luogo, si risolvono a frequentare anche i Catechismi e le altre pratiche di pietà. Perciò sarebbe necessario che ogni Parocchia avesse eziandio un luogo determinato dove radunare e trattenere questi giovanetti in piacevole ricreazione.
- Queste cose sono impossibili. Non ci sono locali, né preti che abbiano libero il giorno festivo per queste occupazioni.
- Dunque?
- Dunque faccia come giudica bene, intanto stabiliremo tra di noi quello che sia meglio di fare.
Venne quindi agitata la questione tra i paroci Torinesi, se gli Oratorii dovevansi promuovere oppure riprovarsi. Si disse pro e contro. Il Curato di Borgo Dora D. Agostino Cattino col T. Ponzati Curato di S. Agostino[,] mi portò la risposta in questi termini: I paroci della Città di Torino raccolti nelle solite loro Conferenze trattarono sulla convenienza degli Oratorii. Ponderati i timori e le speranze da una parte e dall'altra, non potendo ciascun paroco provvedere un Oratorio nella rispettiva parocchia incoraggiscono il Sac. Bosco a continuare finché non sia presa altra deliberazione. Mentre queste cose avvenivano giungeva la primavera del 1846. La casa Moretta era abitata da molti inquilini, i quali, sbalorditi dagli schiamazzi e dal continuo rumore dell'andare e venire dei giovanetti mossero lagnanza al padrone, dichiarando di smettersi tutti dalla pigione se non cessavano immantinenti quelle radunanze. Così il buon sacerdote Moretta dovette avvisarci di cercarci immediatamente altra località dove raccogliere i nostri giovani se volevamo tenere in vita il nostro Oratorio.
Con grave rincrescimento e con non leggero disturbo delle nostre radunanze nel Marzo del 1846 dovemmo abbandonare Casa Moretta e prendere in affitto un prato dai fratelli Filippi, dove attualmente avvi una fonderia di getto ossia ghisa. Io mi trovai la a cielo scoperto, in mezzo ad un prato, cinto da grama siepe, che lasciava libero adito a chiunque volesse entrare. I giovanetti erano da tre a quattrocento, i quali trovavano il loro Paradiso terrestre in quell'Oratorio, la cui volta, le cui pareti erano la medesima volta del Cielo.
Ma in questo luogo mai praticare le cose di religione? Alla bella meglio qui si faceva il Catechismo, si cantavano lodi, si cantavano i Vespri, quindi il T. Borrelli od io montavamo sopra di una riva o sopra di una sedia e indirizzavamo il nostro sermoncino ai giovani, che ansioni venivano ad ascoltarci.
Le confessioni poi si facevano così: Ne' giorni festivi di buon mattino io mi trovava nel prato dove già parecchi attendevano. Mettevami a sedere sopra di una riva ascoltando le confessioni degli uni mentre altri ne facevano la preparazione od il ringraziamento, dopo cui non pochi ripigliavano la loro ricreazione. Ad un certo punto della mattinata si dava un suono di tromba, che radunava tutti i giovanetti, altro suono di tromba indicava il silenzio, che mi dava campo a parlare e segnare dove andavamo ad ascoltare la Santa Messa e fare la Comunione.
Talvolta, come si disse, andavamo alla Madonna di Campagna, alla Chiesa della Consolata, a Stupinigi o nei luoghi sopra mentovati. Siccome poi facevamo frequenti camminate in luoghi anche lontani, così io ne descriverò una fatta a Superga, da cui si conoscerà come si facevano le altre.
Raccolti i giovani nel prato e dato loro tempo a giuocare alquanto alle bocce, alle piastrelle[,] alle stampelle, etc., si suonava un tamburo quindi una tromba che segnava la radunanza e la partenza. Si procurava che ognuno ascoltasse prima la Messa e poco dopo le 9 partimmo alla volta di Superga. Chi portava canestri di pane, chi cacio o salame o frutta od altre cose necessarie per quella giornata. Si osservava silenzio sin fuori delle abitazioni della città, di poi cominciavano gli schiamazzi, canti e grida ma sempre in fila ed ordinati.
Giunti poi a' piedi della salita, che conduce a quella basilica, trovai uno stupendo cavallino che, bardato a dovere, il Sac. Anselmetti, Curato di quella Chiesa mi aveva mandato. Laàpure riceveva una letterina del T. Borrelli, che ci aveva preceduti, nella quale diceva: "Venga tranquillo coi cari nostri giovani, la minestra, la pietanza, il vino sono preparati". Io montai sopra quel cavallo e poi lessi ad alta voce quella lettera. Tutti si raccolsero intorno al cavallo e udita quella lettura unanimi si posero a fare applausi ed ovazioni gridando, schiamazzando e cantando. Gli uni prendevano il cavallo per le orecchie, gli altri per le narici o per la coda urtando ora la povera bestia, ora chi la cavalcava. Il mansueto animale tutto sopportava in pace dando segni di pazienza maggiore di quella che avrebbe dato chi era portato sul dorso. In mezzo a que' trambusti avevamo la nostra musica che consisteva in un tamburo, in una tromba ed in una chitarra. Era tutto disaccordo, ma servendo a fare rumore colle voci dei giovani bastava per fare una maravigliosa armonia. Stanchi dal ridere, scherzare, cantare e direi di urlare[,] giungemmo al luogo stabilito. I giovanetti, perché sudati, si raccolsero nel cortile del santuario e furono tosto provveduti di quanto era necessario pel vorace loro appetito. Dopo alquanto riposo li radunai tutti e loro raccontai minutamente la storia maravigliosa di quella Basilica, delle tombe reali che esistono sotto alla medesima, e dell'Accademia Ecclesiastica ivi eretta da Carlo Alberto e promossa dai Vescovi degli Stati Sardi.
Il T. Guglielmo Audisio, che ne era preside, fece la graziosa spesa di una minestra colla pietanza a tutti gli ospitati. Il paroco donò vino e frutta. Si concedette lo spazio di un paio d'ore per visitare i locali, di poi ci siamo radunati in Chiesa, dove era pure intervenuto molto popolo. Alle 3 pomeridiane ho fatto un breve discorso dal pulpito, dopo cui alcuni più favoriti dalla voce cantarono un Tantum ergo in musica, che per la novità delle voci bianche trasse tutti in ammirazione. Alle sei si fecero salire alcuni globi areostatici, di poi tra vivi ringraziamenti a chi ci aveva beneficati partimmo alla volta di Torino. Il medesimo cantare, ridere, correre e talvolta pregare occupò la nostra via. Giunti in città, di mano in mano che alcuno giungeva al sito più vicino alla propria casa cessava dalle file e si ritirava in famiglia. Quand'io giunsi al Rifugio aveva ancora con me 7 od 8 giovani dei più robusti che portavano gli attrezzi usati nella giornata.
Non è a dire quale entusiasmo eccitassero nei giovanetti quelle passeggiate. Affezionati a questa mescolanza di divozione, di trastulli, di passeggiate ognuno mi diveniva affezionatissimo a segno, che non solamente erano ubbidientissimi a' miei comandi, ma erano ansiosi che loro affidassi qualche incumbenza da compiere. Un giorno un carabiniere vedendomi con un cenno di mano ad imporre silenzio ad un quattrocento giovanetti, che saltellavano e schiamazzavano pel prato, si pose ad esclamare: Se questo prete fosse un generale d'armata, potrebbe combattere contro al più potente esercito del mondo. E veramente l'ubbidienza e l'affezione de' miei allievi andava alla follia.
Questo per altro die' cagione a rinnovare la voce che D. Bosco co' suoi figli poteva ad ogni momento eccitare una rivoluzione. Tale asserzione, che appoggiava sul ridicolo, trovò di nuovo credenza tra le autorità locali e specialmente presso al Marchese di Cavour, padre dei celebri Camillo e Gustavo, allora Vicario di Città, che era quanto dire capo del potere urbano. Egli adunque mi fece chiamare al Palazzo Municipale e tenutomi lungo ragionamento sopra le fole che si spacciavano a mio conto conchiuse con dirmi: - Mio buon prete, prendete il mio consiglio, lasciate in libertà quei mascalzoni: Essi non daranno che dispiaceri a voi ed alle pubbliche autorità. Io sono assicurato, che tali radunanze sono pericolose, e perciò io non posso tollerarle.
- Io, risposi io, non ho altra mira, Sig. Marchese, che migliorare la sorte di questi poveri figli del popolo. Non dimando mezzi pecuniarii ma soltanto un luogo dove poterli raccogliere. Con questo mezzo spero di poter diminuire il numero dei discoli, e di quelli che vanno ad abitare le prigioni.
- V'ingannate, mio buon prete; vi affaticate invano. Io non posso assegnarvi alcuna località ravvisando tali radunanze pericolose; e voi dove prenderete i mezzi per pagare pigioni e sopperire a tante spese, che vi cagionano questi vagabondi? Vi ripeto qui, che io non posso permettervi tali radunanze.
- I risultati ottenuti, Sig. Marchese, mi assicurano che non fatico invano. Molti giovanetti totalmente abbandonati furono raccolti, liberati dai pericoli, avviati a qualche mestiere, e le prigioni non furono più loro abitazione. I mezzi materiali finora non mi mancarono, essi sono nelle mani di Dio, il quale talvolta si serve di spregevoli istrumenti per compiere i suoi sublimi disegni.
- Abbiate pazienza, ubbiditemi senz'altro, io non posso permettervi tali radunanze.
- Non concedetelo per me, Sig. Marchese, ma concedetelo pel bene di tanti giovanetti abbandonati, che forse andrebbero a fare trista fine.
- Tacete, io non sono qui per disputare. Questo è un disordine, ed io lo voglio e lo debbo impedire. Non sapete che ogni assembramento è proibito, ove non vi sia legittimo permesso?
- Li miei assembramenti non hanno scopo politico: Io insegno il Catechismo a' poveri ragazzi e questo faccio col permesso dell'Arcivescovo.
- L'Arcivescovo è inforrnato di queste cose?
- Ne è pienamente informato, e non ho mai mosso un passo senza il consentimento di lui.
- Ma io non posso permettere questi assembramenti?
- Io credo, Sig. Marchese, che voi non vorrete proibirmi di fare un Catechismo col permesso del mio Arcivescovo.
- E se l'Arcivescovo vi dicesse di desistere da questa vostra ridicola impresa, non opporreste difficoltà?
- Nissunissima. Ho cominciato ed ho finora continuato col parere del mio Superiore Ecclesiastico, e ad un semplice suo motto sarò tutto a' cenni suoi.
- Andate, parlerò coll'Arcivescovo, ma non siate poi ostinato agli ordini suoi, altrimenti mi costringerete a misure severe, che io non vorrei usare.
Ridotte le cose a questo punto, credeva, almeno per qualche tempo, essere lasciato in pace. Ma quale non fu la mia perturbazione quando giunsi a casa e trovai una lettera con cui i fratelli Filippi mi licenziavano dal locale a me pigionato.
- I suoi ragazzi, mi dicevano, calpestando ripetutamente il nostro prato faranno perdere fino la radice dell'erba. Noi siamo contenti di condonarle la pigione scaduta purché entro a quindici giorni ci dia libero il nostro prato. Maggior dilazione non le possiamo concedere.
Sparsa la voce di tante difficoltà parecchi amici mi andavano dicendo di abbandonare l'inutile impresa, così detta da loro. Altri poi vedendomi sopra pensiero e sempre circondato da ragazzi cominciavano a dire che io era venuto pazzo. Un giorno il Teologo Borrelli in presenza del sac. Pacchiotti Sebastiano e di altri prese a dirmi così: Per non esporci a perdere tutto è meglio salvare qualche cosa. Lasciamo in libertà tutti gli attuali giovanetti, riteniamone soltanto una ventina dei più piccoli. Mentre continueremo ad istruire costoro nel Catechismo, Dio ci aprirà la via e l'opportunità di fare di più. Loro risposi: Non occorre aspettare altra opportunità, il sito è preparato, vi è un cortile spazioso, una casa con molti fanciulli, porticato, Chiesa, preti, cherici, tutto ai nostri cenni.
- Ma dove sono queste cose, interruppe il T. Borrelli.
- Io non so dire dove siano, ma esistono certamente e sono per noi. Allora il T. Borrelli dando in copioso pianto, povero D. Bosco, esclamò, gli è dato la volta al cervello. Mi prese per mano, mi baciò e si allontano con D. Pacchiotti, lasciandomi solo nella mia camera.
Le molte cose che andavansi dicendo sul conto di D. Bosco cominciavano ad inquietare la Marchesa Barolo, tanto più da che il Municipio Torinese si mostrava contrario a' miei progetti.
Un giorno adunque venuta in mia camera Ella prese a parlarmi così:
- Io sono assai contenta delle cure che si prende pei miei istituti. La ringrazio che abbia cotanto lavorato per introdurre in quelli il canto delle laudi sacre, il canto fermo, la musica, l'aritmetica ed anche il sistema metrico.
- Non occorre ringraziamenti: I preti devono lavorare per loro dovere, Dio paghera tutto, e non si parli più di questo.
- Voleva dire che mi rincresce assai, che la moltitudine delle sue occupazioni abbiano alterata la sua sanità. Non e possibile che possa continuare la direzione delle mie opere e quella dei ragazzi abbandonati, tanto più presentemente, che il loro numero è cresciuto fuori misura. Io sono per proporle di fare soltanto quello, che è di obbligo suo, cioè direzione dell'Ospedaletto, non più andare nelle carceri, nel Cottolengo e sospendere ogni sollecitudine pei fanciulli. Che ne dice?
- Signora Marchesa, Dio mi ha finora aiutato e non mancherà di aiutarmi. Non si inquieti sul da farsi. Tra me, D. Pacchiotti, il T. Borrelli faremo tutto.
- Ma io non posso più tollerare che ella si ammazzi. Tante e così svariate occupazioni da volere o non volere tornano a detrimento della sua sanità e de' miei istituti. E poi le voci che corrono intorno alla sua sanità mentale; l'opposizione delle autorità locali mi costringono a consigliarla...
- A che, signora Marchesa?
- O a lasciare l'opera de' ragazzi, o l'opera del Rifugio. Ci pensi e mi risponderà.
La mia risposta è già pensata. Ella ha danaro e con facilità troverà preti quanti ne vuole pe' suoi istituti. De' poveri fanciulli non è così. In questo momento se io mi ritiro, ogni cosa va in fumo perciò io continuerò a fare parimenti quello che posso pel Rifugio, cesserò dall'impiego regolare e mi darò di proposito alla cura dei fanciulli abbandonati.
- Ma come potrà vivere?
- Dio mi ha sempre aiutato e mi aiuterà anche per l'avvenire.
- Ma Ella è rovinata di sanità, la sua testa non la serve più; andra ad ingolfarsi nei debiti; verrà da me, ed io protesto fin d'ora che non le darò mai un soldo pei suoi ragazzi. Ora accetti il mio consiglio di madre. Io le continuerò lo stipendio, e l'aumenterò se vuole. Ella vada a passare uno, tre, cinque anni in qualche sito: si riposi, quando sia ben ristabilito, ritorni al Rifugio e sarà sempre il benvenuto. Altrimenti mi mette nella spiacevole necessità di congedarlo da' miei istituti. Ci pensi seriamente.
- Ci ho già pensato, signora Marchesa. La mia vita e consacrata al bene della gioventù. La ringrazio delle profferte che mi fa, ma non posso allontanarmi dalla via che la divina Provvidenza mi ha tracciato.
- Dunque preferisce i suoi vagabondi ai miei Istituti? Se è così, resta congedato in questo momento. Oggi stesso provvederò chi la deve rimpiazzare.
Le feci vedere che un diffidamento così precipitoso avrebbe fatto supporre motivi non onorevoli né a me né a Lei: era meglio agire con calma, e conservare tra noi quella stessa carità, con cui dovremo poi parlare ambidue al tribunale del Signore.
- Dunque, conchiuse, le darò tre mesi, dopo cui lascierà ad altri la direzione del mio Ospedaletto. Accettai il diffidamento, abbandonandomi a quello che Dio avrebbe disposto di me.
Intanto prevaleva ognor più la voce che D. Bosco era divenuto pazzo. I miei amici si mostravano dolenti; altri ridevano; ma tutti si tenevano lontani da me. L'Arcivescovo lasciava fare; D. Caffasso consigliava di temporeggiare, il T. Borrelli taceva. Così tutti i miei collaboratori mi lasciarono solo in mezzo a circa quattrocento ragazzi.
In quell'occasione alcune rispettabili persone vollero prendersi cura della mia sanità. Questo D. Bosco, diceva uno di loro, ha delle fissazioni, che lo condurranno inevitabilmente alla pazzia. Forse una cura gli farà bene. Conduciamolo al manicomio e colà, coi dovuti riguardi, si farà quanto la prudenza suggerira.
Furono incaricati due di venirmi a prendere con una carrozza e condurmi al manicomio. I due messaggeri mi salutarono cortesemente, di poi chiestemi notizie della sanità, dell'Oratorio, del futuro edifizio e chiesa, trassero in fine un profondo sospiro e proruppero in queste parole: E' vero.
Dopo ciò mi invitarono di recarmi seco loro a fare una passeggiata. Un po' di aria ti farà bene; vieni; abbiamo appunto la carrozza, andremo insieme ed avremo tempo a discorrere. Mi accorsi allora del giuoco che mi volevano fare, e senza mostrarmene accorto, li accompagnai alla vettura, insistetti che essi entrassero primi a prendere posto nella carrozza, e invece di entrarci anch'io, ne chiusi lo sportello in fretta dicendo al cocchiere: Andate con tutta celerita al manicomio, dove questi due ecclesiastici sono aspettati.
Mentre succedevansi le cose sopramentovate, era venuta l'ultima domenica, in cui mi era ancora permesso di tenere l'Oratorio nel prato (15 marzo 1846). Io taceva tutto, ma tutti sapevano i miei imbarazzi e le mie spine. In sulla sera di quel giorno rimirai la moltitudine di fanciulli, che si trastullavano; e considerava la copiosa messe, che si andava preparando pel sacro ministero, per cui era solo di operai, sfinito di forze, di sanità male andata senza sapere dove avrei in avvenire potuto radunare i miei ragazzi. Mi sentii vivamente commosso.
Ritiratomi pertanto in disparte, mi posi a passeggiare da solo e forse per la prima volta mi sentii commosso fino alle lacrime. Passeggiando e alzando gli occhi al Cielo, mio Dio, esclamai, perché non mi fate palese il luogo in cui volete che io raccolga questi fanciulli? O fatemelo conoscere o ditemi quello che debbo fare?
Terminava quelle espressioni, quando giunge un cotale, di nome Pancrazio Soave che balbettando mi dice: E vero che cerca un sito per fare un laboratorio?
- Non un laboratorio, ma un Oratorio.
- Non so se sia lo stesso Oratorio o laboratorio; ma un sito c'è, lo venga a vedere. È di proprietà del Sig. Giuseppe Pinardi, onesta persona. Venga e farà un buon contratto.
Giunse opportuno in quel momento un fedele mio collega di Seminario, D. Merla Pietro, fondatore dell'Opera pia nota sotto al nome di famiglia di S. Pietro. Egli si occupava con zelo nel sacro ministero, ed aveva iniziato il suo istituto ad oggetto di provvedere al triste abbandono in cui si trovano tante zitelle o donne sgraziate, che, dopo aver scontato la pena del carcere, per lo più sono abborrite dalla società degli onesti a segno che loro riesce pressoché impossibile trovare chi loro voglia dare pane o lavoro. Quando a quel degno Sacerdote rimaneva qualche momento di tempo, correva con piacere in aiuto del suo amico, che per lo più si trovava solo in mezzo ad una moltitudine di ragazzi.
- Che c'è, disse appena mi vide, non ti vidi mai così malinconico. Ti colse qualche disgrazia?
- Disgrazia no, ma un grande imbarazzo. Oggi è l'ultimo giorno, che mi è permesso dimorare in questo prato. Siamo alla sera; rimangono due [ore] di giorno; debbo dire ai miei figli dove si raduneranno un'altra domenica e non so. Avvi qui un amico, che mi dice esservi un locale forse conveniente. Vieni, assisti un momento la ricreazione; io vado a vedere e presto saro di nuovo qua.
Giunto al luogo indicato vidi una casupola di un solo piano colla scala e balcone di legno tarlato, attorniata da orti, prati, campi. Io voleva salire la scala, ma il Pinardi ed il Pancrazio, no, mi dissero. Il sito destinato per Lei è qui di dietro. Era una tettoia prolungata, che da un lato appoggiava al muro, dall'altro terminava coll'altezza di circa un metro da terra. Poteva per necessità servire a magazzino o per legnaia e non di più. Per entrarci dentro ho dovuto tenere chino il capo a fine di non urtare nel solaio.
- Non mi serve, perché troppo bassa: dissi.
- Io la farò aggiustare come vuole, ripigliò graziosamente il Pinardi. Io scaverò, farò scalini, farò altro pavimento; ma desidero tanto che il suo laboratorio venga stabilito qui.
- Non un laboratorio, ma un Oratorio, una piccola chiesa per radunare dei giovanetti.
- Più volentieri ancora. Mi presterò assai di buon grado. Facciamo contratto. Sono anch'io cantore, verrò ad aiutarla; porterò due sedie, una per me l'altra per mia moglie. E poi in mia casa ho una lampana, la porterò ancora qua.
Quel dabben uomo sembrava che vaneggiasse per la contentezza di avere una chiesa in sua casa.
- Vi ringrazio, o mio buon amico, della vostra carità e del vostro buon volere. Accetto queste belle offerte. Se voi mi potete abbassare il pavimento non meno di un piede (cent. 50) io l'accetto, ma quanto dimandate?
- Trecento franchi; me ne vogliono dare di più, ma preferisco Lei, che vuole destinare questo locale al pubblico vantaggio ed alla religione.
- Ve ne do trecentoventi, purché mi diate anche la striscia di sito che lo circonda per la ricreazione dei giovani; purché mi promettiate che domenica prossima io possa già venir qua co' miel ragazzi.
- Inteso, patto conchiuso: Venga pure. Tutto sarà ultimato.
Non cercai di più. Corsi tosto da' miei giovani; li raccolsi intorno a me e ad alta voce mi posi a gridare: - Coraggio, miei figli, abbiamo un Oratorio più stabile del passato; avremo chiesa, sacristia, camere per le scuole, sito per la ricreazione. Domenica, domenica andremo nel novello Oratorio che e colà in casa Pinardi; e loro additava il luogo. Quelle parole furono accolte col più vivo entusiasmo. Chi faceva corse o salti di gioia; chi stava come immobile; chi gridava con voci e sarei per dire con urli e strilli. Ma commossi come chi prova un gran piacere e non sa come esprimerlo, trasportati da profonda gratitudine e per ringraziare la S. Vergine che aveva accolte ed esaudite le nostre preghiere, che in quel mattino stesso avevam fatto alla Madonna di Campagna, ci siamo inginocchiati per l'ultima volta in quel prato, ed abbiamo recitato il SS. Rosario dopo cui ognuno si ritiro a casa sua. Così veniva dato l'ultimo saluto a quel luogo, che ciascuno aveva amato per necessità, ma che per la speranza di averne un altro migliore abbandonava senza rincrescimento. La Domenica seguente solennita di Pasqua nel giorno 12 di Aprile, si trasportarono colà tutti gli attrezzi di chiesa e di ricreazione, e andammo a prendere possesso della nuova località.
Sebbene questa nuova chiesa fosse una vera meschinità, tuttavia essendo pigionato con un contratto formale ci liberava dalle inquietudini di dover ad ogni momento emigrare da un luogo ad un altro con gravissimi disturbi. A me poi sembrava essere veramente il sito dove aveva sognato scritto: Haec est domus mea, inde gloria mea, sebbene fossero diverse le disposizioni del cielo. Non piccola difficoltà presentava la casa presso cui ci trovavamo; era casa d'immoralità; difficoltà eziandio per parte dell'albergo della Giardiniera, attuale casa Bellezza, dove si raccoglievano specialmente ne' giorni festivi, tutti i buontemponi della città. Ciò nulla di meno potemmo tutto superare e cominciare a fare regolarmente le nostre radunanze.
Ultimati i lavori, l'Arcivescovo in data... aprile concedeva la facoltà di benedire e consacrare al divin culto quel modesto edifizio. Ciò avveniva la domenica del... aprile 1846. Il medesimo Arcivescovo per mostrare la sua soddisfazione rinnovò la facoltà già concessa quando eravamo al Rifugio, cioè di cantar messa, fare tridui, novene, esercizi spirituali, promuovere alla cresima, alla santa comunione, e di poter eziandio soddisfare al precetto pasquale a tutti quelli che avessero frequentata la nostra Istituzione.
Il sito stabile, i segni d'approvazione dell'Arcivescovo, le solenni funzioni, la musica, il rumore di un giardino di ricreazione, attraevano fanciulli da tutte parti. Parecchi ecclesiastici presero a ritornare. Tra quelli che prestavano l'opera loro vuolsi notare, D. Trivero Giuseppe, T. Carpano Giascinto, T. Gio. Vola, il T. Roberto Murialdo, e l'intrepido T. Borrelli.
Le funzioni si facevano così. Ne' giorni festivi di buon mattino si apriva la chiesa: e si cominciavano le confessioni, che duravano fino all'ora della messa. Essa era fissata alle ore otto, ma per appagare la moltitudine di quelli, che desideravano confessarsi, non di rado era differita fino alle nove ed anche di più. Qualcuno de' preti, quando ce n'erano, assisteva, e con voce alternata recitava le orazioni. Tra la messa facevano la s. comunione quelli che erano preparati. Finita la messa e tolti i paramentali io montava sopra una bassa cattedra per fare la spiegazione del Vangelo, che allora si cangiò per dare principio al racconto regolare della Storia Sacra. Questi racconti ridotti a forma semplice e popolare vestiti dei costumi dei tempi, dei luoghi, dei nomi geografici coi loro confronti, piacevano assai ai piccolini, agli adulti ed agli stessi ecclesiastici che trovavansi presenti. Alla predica teneva dietro la scuola che durava fino a mezzo giorno.
Ad un'ora pom. cominciava la ricreazione, colle bocce, stampelle, coi fucili, colle spade in legno, e coi primi attrezzi di Ginnastica. Alle due mezzo si dava principio al catechismo. L'ignoranza in generale era grandissima. Più volte mi avvenne di cominciare il canto dell'Ave Maria e di circa quattrocento giovanetti, che erano presenti, non uno era capace di rispondere, e nemmeno di continuare, se cessava la mia voce.
Terminato il catechismo, non potendosi per allora cantare i Vespri si recitava il Rosario. Più tardi si cominciò a cantare l'Ave Maris Stella, poi il Magnificat, poi il
Dixit
, quindi gli altri salmi; e in fine un'Antifona e nello spazio di un anno ci siamo fatti capaci di cantare tutto il Vespro della Madonna.
A queste pratiche teneva dietro un breve sermoncino, che per lo più era un esempio, in cui si personificava un vizio o qualche virtù. Ogni cosa aveva termine col canto delle Litanie e colla benedizione del SS. Sacramento.
Usciti di chiesa cominciava il tempo libero in cui ciascuno poteva occuparsi a piacimento. Chi continuava la classe di catechismo, altri del canto, o di lettura, ma la maggior parte se la passava saltando, correndo e godendosela in varii giuochi e trastulli. Tutti i ritrovati pei salti, corse, bussolotti, corde, bastoni, siccome anticamente aveva appreso dai saltimbanchi, erano messi in opera sotto alla mia disciplina. Così potevasi tenere a freno quella moltitudine, la quale in gran parte potevansi dire: Sicut equus et mulus, quibus non est intellectus ( I ).
------------------------------------------------------------------------------------------------------- (1) Tob. c. VI, 17 e Psal. XXXI, 9. -------------------------------------------------------------------------------------------------------
Debbo dire per altro che nella grande ignoranza ho sempre ammirato un grande rispetto per le cose di chiesa, pei sacri ministri ed un grande trasporto per imparare le cose di religione.
Anzi io mi serviva di quella smodata ricreazione per insinuare a' miei 600 allievi pensieri di religione e di frequenza ai santi sacramenti. Agli uni con una parola nell'orecchio raccomandava maggior ubbidienza, maggior puntualità nei doveri del proprio stato; ad altri di frequentare il catechismo, di venirsi a confessare e simili. Di modo che per me quei trastulli erano un mezzo opportuno per provvedermi una moltitudine di fanciulli che al sabato a sera o la domenica mattina con tutto buon volere venivano a fare la loro confessione:
Talvolta li toglieva dagli stessi trastulli per condurli a confessarsi, qualora li avessi veduti alquanto restii a quegli importanti doveri. Riferirò uno dei molti fatti. Un giovanetto era stato invitato più volte di venire a fare pasqua; egli prometteva ogni domenica di venire, ma poi non manteneva la parola. Un giorno festivo, dopo le sacre funzioni egli si pose a fare ricreazione la più vivace. Mentre correva in tutti i lati saltando e correndo e tutto molle di sudore[,] tutto rosso nella faccia da non sapere più se fosse in questo mondo o nell'altro, lo chiesi in tutta fretta pregandolo a recarsi meco in sacristia per aiutarmi a compiere un affare. Voleva venire com'era, in manica di camicia; no[,] gli dissi, mettiti la giubbetta e vieni. Giunti alla sacristia il condussi in coro quindi soggiunsi:
Inginocchiati sopra questo genu~lessorio. Lo fece; ma egli voleva traslocare l'inginocchiatoio.
- No, soggiunsi, lascia ogni cosa come è.
- Che vuole adunque da me?
- Confessarti. Non sono preparato. - Lo so.
- Dunque? - Dunque preparati, e poi ti confesserai.
- Bene, benone, esclamò; ne avevo proprio bisogno; ne aveva vero bisogno, ha fatto bene a prendermi in questo modo, altrimenti per timore dei compagni non mi sarei ancora venuto a confessare. Mentre recitai una parte di Breviario, l'altro si preparò alquanto; di poi fece assai di buon grado la sua confessione con divoto ringraziamento. D'allora in poi fu costantemente dei più assidui a compiere i suoi religiosi doveri. Soleva poi raccontare il fatto ai suoi compagni conchiudendo: Don Bosco uso un bello stratagemma per cogliere il merlo nella gabbia.
Sul far della notte, con un segno di campanello erano tutti raccolti in chiesa, dove si faceva un po' di preghiera o si recitava il Rosario coll' Angelus, ed ogni cosa compievasi col canto di Lodato sempre sia etc.
Usciti di chiesa mettevami in mezzo di loro, li accompagnava mentre essi cantavano o schiamazzavano. Fatto la salita del Rondo, si cantava ancora qualche strofa di laude sacra, di poi si invitavano per la seguente domenica, ed augurandoci a vicenda ad alta voce la buona sera, ognuno se ne andava pei fatti suoi.
Una scena singolare era la partenza dall'Oratorio. Usciti di chiesa ciascuno dava le mille volte la buona sera senza punto staccarsi dall'assemblea dei compagni. Io aveva un bel dire: - Andate a casa, si fa notte, i parenti vi attendono. Inutilmente. Bisognava che li lasciassi radunare; sei dei più robusti facevano colle loro braccia una specie di sedia sopra cui come sopra di un trono era giuocoforza che io mi ponessi a sedere. Messisi quindi in ordine a più file, portando D. Bosco sopra quel palco di braccia, che superava i più alti di statura, procedevano cantando[,] ridendo e schiamazzando fino al circolo detto comunemente il Rondo. Colà si cantavano ancora alcune lodi, che avevano per conclusione il solenne canto del Lodato sempre sia. Fattosi di poi un profondo silenzio io poteva allora a tutti augurare buona sera e buona settimana. Tutti con quanto avevano di voce rispondevano buona sera. In quel momento io veniva deposto dal mio trono; ognuno andava in seno della propria famiglia, mentre alcuni dei più grandicelli mi accompagnavano fino a casa mezzo morto per la stanchezza.
Malgrado l'ordine[,] la disciplina e la tranquillità dell'Oratorio nostro, il Marchese Cavour, Vicario di città, pretendeva che avessero fine i nostri assembramenti, che egli chiamava pericolosi. Quando seppe che io aveva sempre proceduto col consenso dell'Arcivescovo, convocò la così detta Ragioneria nel palazzo vescovile essendo quel prelato allora alquanto ammalato.
La Ragioneria era una scelta de' primari consiglieri municipali, nelle cui mani concentravasi tutto il potere della civica amministrazione. Il capo della Ragioneria detto Mastro di Ragione, primo Decurione od anche Vicario di città, in potere era superiore al sindaco.
Quando io vidi tutti quei magnati, disse di poi l'Arcivescovo, a raccogliersi in questa sala, mi parve doversi tenere il giudizio universale. Si disputò molto pro e contro; ma in fine si conchiuse doversi assolutamente impedire e disperdere quegli assembramenti, perché compromettevano la pubblica tranquillita.
Faceva parte della Ragioneria il conte Giuseppe Provana di Collegno, p. 124 nostro insigne benefattore, e allora Ministro al Controllo generale, ossia delle Finanze presso al Re Carlo Alberto. Più volte mi aveva dato sussidii e del suo proprio ed anche per parte del Sovrano. Questo principe udiva assai con piacere a parlare dell'Oratorio, e quando si faceva qualche solennità leggeva sempre volentieri la relazione che io gli mandava scritta, o che il prefato conte faceva verbalmente. Mi ha più volte fatto dire che egli molto stimava questa parte di ecclesiastico ministero, paragonandolo al lavoro delle missioni straniere, esprimendo vivo desiderio che in tutte le città e paesi del suo stato fossero attivate simili istituzioni. Per buon capo d'anno soleva sempre mandarmi un sussidio di L. 300 con queste parole: Ai monelli di D. Bosco.
Quando venne a sapere che la Ragioneria minacciava la dispersione delle nostre adunanze die carico al prefato conte di comunicare la sua volontà con queste parole: E' mia intenzione che queste radunanze festive siano promosse e protette; se avvi pericolo di disordine si studi modo di prevenirli e di impedirli.
Il conte Collegno, che silenzioso aveva assistito a tutta quella viva discussione, quando osservò che se ne proponeva l'ordine di dispersione e definitivo scioglimento, si alzò, chiese di parlare e comunico la sovrana intenzione, e la protezione che il Re intendeva di prendere di quella microscopica istituzione.
A quelle parole tacque il Vicario e tacque la Ragioneria. Con premura il Vicario mi mandò novellamente a chiamare e continuando il tono minaccievole e chiamandomi ostinato, conchiuse con queste benevole parole: Io non voglio il male di nissuno. Voi lavorate con buona intenzione, ma ciò che fate è pieno di pericoli. Essendo io obbligato a tutelare la pubblica tranquillità, io manderò a sorvegliare voi e le vostre radunanze. Alla minima cosa che vi possa compromettere io farò immediatamente disperdere i vostri monelli e voi mi darete conto di quanto sarà per avvenire.
Fossero le agitazioni, cui andò soggetto, fosse qualche malanno che già lo travagliasse, fatto fu che quella è stata l'ultima volta che il Vicario Cavour andò al Palazzo Municipale. Assalito dalla podagra, dovette soffrire assai e fra pochi mesi venne condotto alla tomba.
Ma per i sei mesi che visse ancora mandava ogni domenica alcuni arceri o guardie civiche a passare con noi tutta la giornata, vegliando sopra tutto quello che in chiesa o fuori di chiesa si diceva o si faceva.
- E bene, disse il Marchese Cavour ad una di quelle guardie, che cosa avete veduto, udito in mezzo a quella marmaglia?
- Sig. Marchese, abbiamo veduto una moltitudine immensa di ragazzi a divertirsi in mille modi: abbiamo udito in chiesa delle prediche che fanno paura. Si raccontarono tante cose sull'inferno e sui demonii, che mi fecero venir volontà di andarmi a confessare.
- E di politica?
- Di politica non si parlò punto, perché quei ragazzi non ne capirebbero niente. Credo tratterebbero bene l'argomento delle pagnottelle, intorno a cui ciascuno sarebbe in grado di fare la prima parte. Morto Cavour non fu più alcuno del Municipio che ci abbia cagionato molestia, anzi ogni volta se ne presento occasione il Municipio torinese ci fu sempre favorevole fino al 1877.
A S. Francesco di Assisi io aveva già conosciuta la necessità di qualche scuola. Certi fanciulli sono alquanto inoltrati negli anni e tuttora ignoranti delle verità della fede. Per costoro il puro ammaestramento verbale sarebbe lungo e per lo più loro annoierebbe, perciò facilmente cessano di intervenire. Si provò a fare un po' di scuola, ma non si poteva per difetto di locali e di maestri opportuni che ci volessero aiutare. Al Rifugio, di poi in casa Moretta si cominciò una scuola domenicale stabile[,] ed anche la scuola serale regolare quando venimmo in Valdocco. Per ottenere qualche buon risultato si prendeva un solo ramo d'insegnamento per volta. Per esempio si faceva una domenica o due passare e ripassare l'alfabeto e la relativa sillabazione; poi si prendeva subito il piccolo catechismo intorno a cui si faceva leggere e sillabare fino a tanto che fossero in grado di leggere una o due delle prime dimande del catechismo, e ciò serviva di lezione lungo la settimana. La successiva domenica si faceva ripetere la stessa materia, aggiugnendo altre dimande e risposte. In questa guisa in otto giorni festivi ho potuto ottenere che taluni giungessero a leggere e a studiare da sé delle intere pagine di catechismo. Ciò fu di grande guadagno nel tempo, giacché i più grandicelli dovevano frequentare il catechismo quasi degli anni prima di poterli istruire abbastanza per la sola confessione.
Le prove delle scuole domenicali riuscivano vantaggiose a molti, ma non bastavano; perciocché non pochi perché di tardissimo ingegno, dimenticavano affatto quanto la domenica prima avevano imparato. Furono allora introdotte le scuole serali che cominciate al Rifugio si fecero con maggior regolarita in casa Moretta, e meglio ancora appena si poté avere abitazione stabile in Valdocco.
Le scuole serali producevano due buoni effetti: animavano i giovanetti ad intervenire per istruirsi nella letteratura, di cui sentivano grave bisogno; nel tempo stesso davano grande opportunita per istruirli nella religione, che formava lo scopo delle nostre sollecitudini.
Ma dove prendere tanti maestri, mentre quasi ogni giorno uopo era di aggiugnere nuove classi?
Per provvedere a questo bisogno mi sono messo a fare scuola ad un certo numero di giovanetti della città. Somministrava loro l'insegnamento gratuito d'Italiano, di Latino, di Francese, di Aritmetica, ma coll'obbligo di venirmi ad aiutare ad insegnare il catechismo e fare la scuola domenicale e serale. Questi miei maestrini, allora in numero di otto o dieci, continuarono ad aumentare in numero, e di qui cominciò la categoria degli studenti.
Quando era ancora al Convitto di S. Francesco d'Assisi, fra i miei allievi ebbi Gioanni Coriasco, ora Maestro Falegname[,] Vergnano Felice, ora neg. in passamanterie[,] Delfino Paolo. Quest'ultimo ora è professore di corso Tecnico. Al Rifugio ebbi Melanotte Anto[nio], ora Droghiere, Melanotte Gioanni, confetturiere, Ferrero Felice, sensale; Ferrero Pietro, compositore; Piola Gioanni, falegname, padrone di bottega; ad essi unironsi Genta Luigi, Mogna Vittorio; ed altri che però non continuarono stabilmente. Doveva spendere molto tempo e molto danaro, e generalmente al punto del bisogno la maggior parte mi abbandonava.
A costoro si aggiunsero altri pii signori di Torino. Costanti furono il sig. Gagliardi Giuseppe chincagliere, Fino Gius. della stessa professione; Ritner Vittorio orefice ed altri. I sacerdoti mi aiutavano specialmente per la celebrazione della santa messa, per la predicazione e per le classi di catechismo ai più adulti.
Una difficoltà grande si presentava nei libri, perciocché terminato il piccolo catechismo non aveva più alcun libro di testo. Ho esaminato tutte le piccole Storie Sacre, che tra noi solevansi usare nelle scuole; ma non ne potei trovare alcuna che soddisfacesse al mio bisogno. Mancanza di popolarità, fatti inopportuni, questioni lunghe o fuori di tempo, erano comuni difetti. Molti fatti poi erano esposti in modo che mettevano a pericolo la moralità dei giovanetti. Tutti poi si curavano poco di far rilevare i punti che devono servire di fondamento alle verità della fede. Lo stesso dicasi dei fatti che si riferiscono al culto esterno, al purgatorio, alla confessione, Eucaristia e simili.
A fine di provvedere a questa parte di educazione che i tempi reclamavano assolutamente, mi sono di proposito applicato a compilare una Storia Sacra che oltre alla facilità della dicitura e popolarita dello stile fosse scevra dei mentovati difetti. E' questa la ragione che mi mosse a scrivere e stampare la così detta Storia Sacra ad uso delle Scuole. Non poteva garantire un lavoro elegante, ma ho lavorato con tutto il buon volere di giovare alla gioventù.
Fatti alcuni mesi di scuola abbiamo dato pubblici saggi del nostro insegnamento festivo, in cui gli allievi furono interrogati su tutta la Storia Sacra, sulla relativa geografia, con tutte le opportune interrogazioni. Erano spettatori il celebre Ab. Aporti[,] Boncompagni, T. Pietro Baricco, Prof. Gius. Rayneri, e tutti applaudirono a quell'esperimento. Animati dai progressi ottenuti nelle scuole domenicali e serali[,] alla lettura e scrittura fu eziandio aggiunta la classe di aritmetica e di disegno. Era la prima volta che nei nostri paesi avevano luogo tali scuole. Da tutte parti se ne parlava come di una grande novità. Molti professori ed altri distinti personaggi ci venivano con frequenza a visitare. Lo stesso Municipio con alla testa il Comm. Gius. Duprè mandò una commissione appositamente incaricata di recarsi a verificare se i decantati risultati delle scuole serali erano realtà. Facevano eglino stessi delle dimande sulla pronuncia; sulla contabilità; sulla declamazione e non potevano darsi ragione: affatto illetterati fino ai 18 ed anche 20 anni potessero in pochi portarsi così avanti nella educazione e nella istruzione. Al vedere quel gran numero di giovani adulti, raccolti alla sera, che invece di girovagare per le vie, attendevano all'istruzione, quei signori partirono pieni di entusiasmo. Fattane relazione in pieno Municipio venne assegnata come premio una annualita di trecento franchi, che si e percepita fino al 1 1878 quando, non se ne poté mai sapere la ragione, fu tolto quel sussidio per darlo ad un altro istituto.
Il Cav. Gonella, il cui zelo e carità lasciarono in Torino gloriosa ed imperitura memoria, era in quel tempo Direttore dell'Opera La mendicità istruita. Venne egli pure più volte a vederci e l'anno dopo (1847) introdusse le stesse scuole, gli stessi metodi nell'opera a lui affidata. Ma avendo riferita ogni cosa agli amministratori di quell'Opera, con piena deliberazione decretarono un premio di mille franchi per le nostre Scuole. Il Municipio lo seguì, e nello spazio di pochi anni, le scuole serali si propagarono in tutte le principali città del Piemonte.
Altro bisogno apparve: un libro di divozione adattato ai tempi. Sono innumerabili quelli, che, redatti da valente penna, corrono per le mani di tutti. Ma questi libri in generale sono fatti per le persone culte, adulte, e per lo più possono servire pei cattolici, ebrei e protestanti. Vedendo come l'eresia insidiosa si andava ogni giorno più insinuando ho procurato di compilare un libro adatto alla gioventù, opportuno per le loro idee religiose, appoggiato sulla Bibbia, il quale esponesse i fondamenti della religione cattolica colla massima brevità e chiarezza. Questo fu il Giovane Provveduto. La stessa cosa mi era necessaria per l'insegnamento dell'aritmetica e del sistema metrico. E' vero che l'uso del sistema metrico non era obbligatorio fino al 1850; ma cominciò ad introdursi nelle scuole nel 1846. Sebbene introdotto legalmente nelle scuole, mancavano affatto i libri di testo. A ciò ho provveduto col libretto intitolato: ll sistema metrico decimale ridotto a semplicità, etc.
I molti impegni che io aveva nelle carceri, nell'Opera Cottolengo, nel Rifugio, nell'Oratorio e nelle scuole facevano si, che dovessi occuparmi di notte per compilare i libretti che mi erano assolutamente necessari. Per la qual cosa la mia sanità, già per se stessa assai cagionevole, deteriorò al punto che i medici mi consigliarono a desistere da ogni occupazione. Il Teologo Borrelli, che assai mi amava, per mio bene mi mandò a passare qualche tempo presso al curato di Sassi. Riposava lungo la settimana; la domenica mi recava a lavorare all'Oratorio. Ma ciò non bastava. I giovanetti a turbe venivano a visitarmi; a costoro si aggiunsero quelli del paese. Sicché era disturbato più che a Torino, mentre io stesso cagionava immenso disturbo ai miei piccoli amici.
Non solamente quelli che frequentavano l'Oratorio correvano, si può dire ogni giorno, a Sassi, ma gli stessi allievi dei Fratelli delle Scuole Cristiane. Tra i molti avvenne questo episodio. Si dettarono gli esercizi spirituali agli alunni delle scuole di S. Barbara amministrate eziandio dai medesimi religiosi. Essendo soliti in gran numero confessarsi da me, sul terminare degli esercizi vennero in corpo a cercarmi all'Oratorio; ma non avendomi trovato colà partirono alla volta di Sassi, distante quattro chilometri da Torino. Era tempo piovoso; eglino inesperti della via andavano vagando ne' prati, ne' campi e nelle vigne in cerca di D. Bosco. Ci giunsero finalmente in numero di circa quattrocento, tutti sfiniti dal cammino e dalla fame, molli di sudore, coperti di zacchere anzi di fango, e chiedenti di potersi confessare. Noi, dicevano, abbiamo fatto gli esercizi, vogliamo farci buoni, vogliamo tutti fare la nostra confessione generale, e col permesso dei nostri Maestri siamo qua venuti.
Fu detto loro che ritornassero tosto al collegio per togliere dalla ansietà i loro Maestri ed i loro parenti, ma essi rispondevano con asseveranza che volevano confessarsi. Fra il Maestro comunale, Curato, Vicecurato e me si confesso quanto si pote; ma ci volevano almeno una quindicina di confessori.
Ma come ristorare o meglio acquetare l'appetito a quella moltitudine? Quel buon curato, e l'attuale T. Abbondioli, diede a quei viaggiatori ogni suo commestibile, pane, polenta, fagiuoli, riso, patate, cacio, frutta, ogni cosa fu acconciata e loro somministrata.
Quale non fu poi lo sconcerto, quando i predicatori, i maestri, alcuni personaggi invitati intervennero per la chiusa degli esercizi, per la messa, comunione generale e non trovarono un allievo in collegio? Fu un vero disordine; e si diedero efficaci provvedimenti a che non venissero più rinnovati.
Venuto a casa, fui preso da sfinimento, portato a letto. La malattia si manifestò con una bronchite, cui si aggiunse tosse ed infiammazione violenta assai. In otto giorni fui giudicato all'estremo della vita. Aveva ricevuto il SS. Viatico, l'Olio santo. Mi sembra che in quel momento fossi preparato a morire; mi rincresceva di abbandonare i miei giovanetti, ma era contento che terminava i miei giorni dopo aver dato una forma stabile all'Oratorio.
Sparsa la notizia che la mia malattia era grave, si manifestò generale e vivissimo rincrescimento da non potersi dire maggiore. Ad ogni momento schiere di giovanetti lagrimanti e bussando alla porta chiedevano del mio male. Più si davano notizie, più se ne dimandavano. Io udiva i dialogi che si facevano col domestico e ne era commosso. In appresso ho saputo quello che aveva fatto fare l'affezione de' miei giovani. Spontaneamente pregavano, digiunavano, ascoltavano messe, facevano comunioni. Si alternavano passando la notte in preghiera e la giornata avanti l'immagine di Maria Consolatrice. Al mattino si accendevano lumi speciali, e fino a tarda sera erano sempre in numero notabile a pregare e scongiurare l'augusta Madre di Dio a voler conservare il povero loro D. Bosco.
Parecchi fecero voto di recitare il Rosario intiero per un mese, altri per un anno, alcuni per tutta la vita. Né mancarono quelli che promisero di digiunare a pane ed acqua per mesi, anni ed anche tutta la vita. Mi consta che parecchi garzoni muratori digiunarono a pane ed acqua delle intere settimane punto non rallentando da mattino a sera i pesanti loro lavori. Anzi, rimanendo qualche breve tratto di tempo libero andavano frettolosi a passarlo davanti al SS. Sacramento.
Dio li ascoltò! Era un sabato a sera e si credeva quella notte essere l'ultima di mia vita; così dicevano i medici, che vennero a consulto; così ne era io persuaso, scorgendomi affatto privo di forze con perdite continue di sangue. A tarda notte mi sentii tendenza a dormire. Presi sonno, mi svegliai fuori di pericolo. Il dottor Botta e il dottor Caffasso al mattino nel visitarmi dissero che andassi a ringraziare la Madonna della Consolata per la grazia ricevuta. I miei giovani non potevano credere se non mi vedevano, e mi videro di fatto poco dopo col mio bastoncino a recarmi all'Oratorio con quelle commozioni che ognuno può immaginare ma non descrivere. Fu cantato un Te Deum. Mille acclamazioni, entusiasmo indescrivibile.
Fra le prime cose, una fu quella di cangiare in cose possibili i voti e le promesse che non pochi avevano fatto senza la dovuta riflessione quando io era in pericolo della vita.
Questa malattia avveniva sul principio di luglio 1846 quando appunto doveva lasciare il Rifugio e trasferirmi altrove. Io sono andato a fare alcuni mesi di convalescenza in famiglia, a casa, a Murialdo. Avrei più a lungo protratta la mia dimora in quel luogo nativo, ma i giovanetti cominciarono a venire a schiere a farmi visita a segno che non era più possibile godere né riposo né tranquillità. Tutti mi consigliavano a passar almeno qualche anno fuori di Torino in luoghi sconosciuti per tentar l'acquisto della primiera sanità. D. Caffasso e l'Arcivescovo erano di questo parere. Ma tal cosa tornandomi di troppo grave rincrescimento, mi fu acconsentito di venire all'Oratorio con obbligo che per due anni non avessi più preso parte ne alle confessioni ne alla predicazione. Ho disubbidito: Ritornando all'Oratorio, ho continuato a lavorare come prima e per 27 anni non ho più avuto bisogno né di medico, né di medicine. La qual cosa mi ha fatto credere che il lavoro non sia quello che rechi danno alla sanità corporale.
Passati alcuni mesi in convalescenza in famiglia sembravami di poter fare ritorno a' miei amati figli, di cui parecchi ogni giorno venivano a vedermi o mi scrivevano eccitandomi a fare presto ritorno tra loro. Ma dove prendere alloggio, essendo stato congedato dal Rifugio? Con quali mezzi sostenere un'opera che diveniva ogni giorno più laboriosa e dispendiosa? Di che avrei potuto vivere io e le persone che meco erano indispensabili?
In quel tempo si resero vacanti due camere in casa Pinardi e queste si pigionarono per abitazione mia e di mia madre. Madre, le dissi un giorno, io dovrei andar ad abitare in Valdocco, ma a motivo delle persone che occupano quella casa non posso prendere meco altra persona che voi. Ella capì la forza delle mie parole e soggiunse tosto: Se ti pare tal cosa piacere al Signore, io sono pronta a partire in sul momento. Mia madre faceva un grande sacrifizio; perciocché in famiglia, sebbene non fosse agiata, era tuttavia padrona di tutto, amata da tutti, ed era considerata come la regina dei piccoli e degli adulti.
Abbiamo fatto precedere alcune cose di maggiormente necessarie che con quelle già esistenti al Rifugio furono spedite alla novella abitazione. Mia madre empié un canestro di biancheria e di altri oggetti indispensabili; io presi il breviario, un messale con alcuni [libri] e quaderni più necessari. Era questa tutta la nostra fortuna. Partimmo a piedi dai Becchi alla volta di Torino. Facemmo breve fermata a Chieri e la sera del 3 Novembre 1846 giungemmo in Valdocco.
Al vederci in quelle camere sprovviste di tutto, mia madre scherzando disse: A casa aveva tanti pensieri per amministrare e comandare; qui sono assai più tranquilla perché non ho più né che maneggiare né a chi fare comandi.
Ma come vivere, che mangiare, come pagare i fitti e provvedere a molti fanciulli che ad ogni momento dimandavano pane, calzamenta, abiti o camicie, senza cui non potevano recarsi al lavoro? Avevamo fatto venire da casa un po' di vino, di meliga, fagiuoli, grano e simili. Per fare fronte alle prime spese aveva venduto qualche pezzo di campo ed una vigna. Mia madre avevasi fatto portare il corredo sposalizio, che fino allora aveva gelosamente conservato intero. Alcune sue vesti servirono a formare pianete, colla biancheria si fecero degli amitti, dei purificatori, rocchetti, camici e delle tovaglie. Ogni cosa passo per mano di madama Margherita Gastaldi, che fin d'allora prendeva parte ai bisogni dell'Oratorio.
La stessa mia madre aveva qualche anello, una piccola collana d'oro, che tosto vendette per comperare galloni e guarniture pei sacri paramentali. Una sera mia madre, che era sempre di buon umore, mi cantava ridendo:
Guai al mondo se ci sente.
Forestieri senza niente.
Sistemate in qualche modo le cose domestiche ho preso a pigione un'altra camera, che venne destinata a sacristia. Non potendosi aver locali per le scuole, qualche tempo dovetti farla in cucina od in mia camera[,] ma gli allievi, fior di monelli, o tutto guastavano o tutto mettevano sossopra.
Si cominciarono alcune classi in sacristia, in coro, e nelle altre parti della chiesa; ma le voci, il canto, l'andirivieni degli uni disturbavano quanto volevano fare gli altri. Alcuni mesi dopo si poterono avere due altre camere a pigione, e quindi organizzare meglio le nostre classi serali. Come fu detto sopra nell'inverno del 1846-7 (1) le nostre scuole ottennero ottimi risultati.
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(I) Si ritenga che le prime scuole serali attuate in Torino furono quelle che nel novembre del 1845 vennero aperte in casa Moretta. Non si potevano ricevere che 200 allievi in tre camere classi. Il buon risultato ottenuto ci mosse a riaprirle nell'anno seguente, appena si poté avere dimora stabile in Valdocco.
Fra quelli che aiutavano nelle scuole serali, e preparavano i giovani per la declamazione, pei dialoghi e teatrini, si devono ricordare il prof. Teologo Chiaves, D. Musso, e T. Giacinto Carpano.
In media avevano trecento allievi ogni sera. Oltre alla parte scientifica animava le nostre classi il canto fermo e la musica vocale, che tra noi furono in ogni tempo coltivati.
Stabilita così regolare dimora in Valdocco mi sono messo con tutto l'animo a promuovere le cose che potevano contribuire a conservare l''unità di spirito, di disciplina e di amministrazione. Per prima cosa ho compilato un Regolamento, in cui ho semplicemente esposto quanto si praticava nell'Oratorio, e il modo uniforme con cui le cose dovevano essere fatte. Questo essendo stampato a parte ognuno può leggerlo a piacimento. Il vantaggio di questo piccolo Regolamento fu assai notabile: ognuno sapeva quello che aveva da fare, e siccome io soleva lasciare ciascuno risponsale del suo uffizio, così ognuno si dava sollecitudine per conoscere e compiere la parte sua. Molti Vescovi e paroci ne fecero dimanda e si studiarono e si adoperarono per introdurre l'opera degli Oratorii nei paesi e nelle città delle rispettive diocesi.
Stabilite le basi organiche per la disciplina e l'amministrazione dell'Oratorio era mestieri dare eccitamento alla pietà con qualche pratica stabile e uniforme. Ciò fu fatto coll'istituzione della Compagnia di S. Luigi. Compiùte le Regole nel limite che mi sembravano più adatte per la gioventù, le presentai all'Arcivescovo, che ne fece lettura, di poi le diede ad altri, che ne facessero studio e riferissero. In fine le lodò, le approvò concedendo particolari indulgenze in data 12 Aprile 1847. Queste Regole si possono leggere a parte.
Grande entusiasmo cagionò tra i nostri giovanetti la Compagnia di S. Luigi, tutti ci si volevano ascrivere. A ciò conseguire erano necessarie due condizioni: Buon esempio in chiesa e fuori di chiesa; evitare i cattivi discorsi e frequentare i santi sacramenti. Quindi si vide un notabilissimo miglioramento nella moralità.
Per animare poi tutti i giovani a celebrare le sei domeniche di S. Luigi fu comperata una statua del Santo, fu fatto fare un Gonfalone, e si dava ai giovani la comodita di venirsi a confessare a qualunque ora del giorno[,] della sera o della notte. Siccome poi quasi nissuno di loro aveva ricevuta la cresima, così ne furono preparati per la festa di S. Luigi. Concorso immenso! Coll'aiuto però di varii ecclesiastici e signori Laici si poterono preparare, e pel giorno della festa del Santo tutto era in ordine (1). Era la prima [volta] ------------------------------------------------------------------------------------------------------ (I) Tra quelli che si ascrissero con piacere alla Compagnia di S. Luigi sono da notarsi l'Ab. Antonio Rosmini, il Can.co Arcip. Pietro De Gaudenzi ora Vescovo di Vigevano, Camillo e Gustavo Cavour, il Card. Antonucci Arciv. di Ancona, S. S. Pio IX, il Card. Antonelli e molti altri -------------------------------------------------------------------------------------------------------- che facevansi tali funzioni nell'Oratorio, ed era eziandio la prima volta che l'Arcivescovo ci veniva a far visita. Avanti la piccola chiesuola fu fatta una specie di padiglione sotto cui venne ricevuto l'Arcivescovo. Ho letto qualche cosa di opportunità; poi alcuni giovani rappresentarono una breve commedia intitolata: Un Caporale di Napoleone. Non era altro che un caporale in caricatura che per esprimere le sue maraviglie in quella solennità diceva mille facezie. Ciò fu causa di molto riso e di amena ricreazione per quel prelato, che ebbe a dire di non aver mai riso tanto in vita sua. Egli si compiacque di rispondere a tutti, esprimendo la sua grande consolazione per quella istituzione; lodò ed incoraggiò a perseverare, e ringraziò della cordiale accoglienza che gli avevamo fatto.
Celebrò la santa messa in cui diede la santa comunione ad oltre trecento giovanetti, di poi amministro la santa cresima.
Fu in quella occasione, che l'Arcivescovo nell'atto che se gli pose la mitra sul capo, non riflettendo che non era in Duomo, alzo in fretta il capo e con quella urtò nel soffitto della chiesa. La qual cosa eccito ilarita in lui e in tutti gli astanti. Assai spesso l'Arcivescovo soleva con piacere ripetere quell'episodio, ricordando così le nostre adunanze, che l'Abate Rosmini ebbe a paragonarle con quelle che si fanno nei paesi e nelle chiese delle missioni straniere.
E' bene di notare che per le sacre funzioni vennero due canonici della metropolitana ad assistere l'Arcivescovo con molti altri ecclesiastici. Finita la funzione si fece una specie di verbale in cui si notava chi aveva amministrato quel sacramento, nome e cognome del padrino colla data del luogo e del giorno, quindi si raccolsero i biglietti, che ripartiti secondo le varie parocchie vennero portati alla Curia ecclesiastica perché li trasmettesse al rispettivo paroco.
Mentre si organizzavano i mezzi per agevolare l'istruzione religiosa e letteraria apparve altro bisogno assai grande cui era urgente un provvedimento. Molti giovanetti Torinesi e forestieri pieni di buon volere di darsi ad una vita morale e laboriosa; ma invitati a cominciarla solevano rispondere, non avere né pane[,] né vestito, né alloggio ove ricoverarsi almeno per qualche tempo. Per alloggiarne almeno alcuni, che la sera non sapevano più dove ricoverarsi, avevasi preparato un fienile, dove si poteva passare la notte sopra un po' di paglia. Ma gli uni ripetutamente portarono via le lenzuola, altri le coperte, e infine la stessa paglia fu involata e venduta.
Ora avvenne che una piovosa sera di maggio sul tardi si presentò un giovanetto sui quindici anni tutto inzuppato dall'acqua. Egli dimandava pane e ricovero. Mia madre l'accolse in cucina, l'avvicinò al fuoco e mentre si riscaldava e si asciugava gli abiti, diedegli minestra e pane da ristorarsi.
Nello stesso tempo lo interrogai se era andato a scuola, se aveva parenti, e che mestiere esercitava. Egli mi rispose: Io sono un povero orfano, venuto da Valle di Sesia per cercarmi lavoro. Aveva meco tre franchi, i quali ho tutti consumati prima di poterne altri guadagnare e adesso ho più niente e sono più di nissuno.
- Sei già promosso alla s. comunione?
- Non sono ancora promosso.
- E la cresima?
- Non l'ho ancora ricevuta.
- E a confessarti?
- Ci sono andato qualche volta.
- Adesso dove vuoi andare?
- Non so, dimando per carità di poter passare la notte in qualche angolo di questa casa.
Ciò detto si mise a piangere; mia madre piangeva con lui, io era commosso.
- Se sapessi che tu non sei un ladro, cercherei di aggiustarti, ma altri mi portarono via una parte delle coperte e tu mi porterai via l'altra.
- Non signore. Stia tranquillo; io sono povero, ma non ho mai rubato niente.
- Se vuoi, ripiglio mia Madre, io l'accomodero per questa notte, e dimani Dio provvederà.
- Dove? - Qui in cucina. - Vi portera via fin le pentole.
- Provvederò a che ciò non succeda.
- Fate pure.
La buona donna aiutata dall'orfanello uscì fuori[,] raccolse alcuni pezzi di mattoni, e con essi fece in cucina quattro pilastrini, sopra cui adagiò alcuni assi, e vi soprapose un saccone, preparando così il primo letto dell'Oratorio. La buona mia Madre fecegli di poi un sermoncino sulla necessità del lavoro, della fedeltà e della religione. Infine lo invitò a recitare le preghiere. Non le so, rispose. Le reciterai con noi, gli disse; e così fu.
Affinché poi ogni cosa fosse assicurata, venne chiusa a chiave la cucina né più si aprì fino al mattino. Questo fu il primo giovane del nostro Ospizio. A questo se ne aggiunse tosto un altro, e poi altri, però per mancanza di sito in quell'anno abbiamo dovuto limitarci a due. Correva l'anno 1847.
Accorgendomi che per molti fanciulli tornerebbe inutile ogni fatica se loro non si da ricovero, mi sono dato premura di prendere altre e poi altre camere a pigione sebbene a prezzo esorbitante. Così oltre all'Ospizio si poté pure iniziare la scuola di canto fermo e di musica vocale. Essendo la prima volta (1845) che avevano luogo pubbliche scuole di musica, la prima volta che la musica era insegnata in classe a molti allievi contemporaneamente, vi fu un concorso stragrande.
I famosi Maestri Rossi Luigi, Blanchi Giuseppe, Cerutti, Can.co Luigi Nasi, venivano ansiosi ad assistere ogni sera le mie lezioni. Ciò era contradditorio al Vangelo, che dice non essere l'allievo sopra il maestro, mentre io che non sapeva un milionesimo di quanto sapevano quelle celebrità, la faceva da Dottore in mezzo di loro. Essi per altro venivano per osservare come era eseguito il nuovo metodo, che è quello stesso che oggidì è praticato nelle nostre case. Nei tempi passati ogni allievo che avesse desiderato imparare musica, doveva cercarsi un maestro che gli desse lezione separata.
Quanto più era grande la sollecitudine a promuovere l'istruzione scolastica, tanto più cresceva il numero degli allievi. Ne' giorni festivi una parte appena poteva raccogliersi nella chiesa per le funzioni e nel cortile per la ricreazione.
Allora sempre d'accordo col T. Borrelli[,] a fine di provvedere a quel crescente bisogno venne aperto un novello Oratorio in altro quartiere della città. A tale uopo venne presa a pigione una piccola casa a Porta Nuova sul viale del Re comunemente detto Viale dei Platani dalle piante che lo fiancheggiano.
Per avere quella casa si dovette sostenere una battaglia assai accanita cogli abitanti. Era occupata da parecchie lavandaie, le quali credevano dover succedere la fine del mondo qualora avessero dovuto abbandonare l'antica loro dimora. Ma prese alle buone e mediante qualche indennità si poterono comporre le cose senza che le parti belligeranti venissero alle ostilità.
Di quel sito e del giardino per la ricreazione era proprietaria la Sig. Vaglienti, che di poi lasciò erede il Cav. Gius. Turvano. La pigione era di f. 450: L'Oratorio fu detto di S. Luigi Gonzaga, titolo che gli fu finora conservato (1).
-------------------------------------------------------------------------------------------------------- (I) L'attuale chiesa di S. Giovanni Evangelista, cuopre il sito dove giaceva la chiesa, sacristia, e piccola casa del portinaio dell'Oratorio di S. Luigi. --------------------------------------------------------------------------------------------------------
L'inaugurazione fu fatta da me e dal T. Borrelli il giorno della Immacolata Concezione 1847. Vi fu straordinario concorso di giovanetti che così diradarono alquanto le file troppo compatte di quelli di Valdocco. La direzione di quell'Oratorio fu affidata al T. Giacinto Carpano, che vi lavorò alcuni anni totalmente gratis. Lo stesso Regolamento compilato per l'istituto di Valdocco fu applicato a quello di S. Luigi senza che fosse introdotta veruna modificazione.
In questo anno medesimo nel desiderio di dare ricetto ad una moltitudine di fanciulli che dimandavano ricovero si comperò tutta la casa Moretta. Ma essendoci messi all'opera per adattarla al nostro bisogno si trovò che le mura non reggevano. Perciò si giudicò meglio di rivenderla, tanto più che ci era offerto prezzo assai vantaggioso.
Allora facemmo acquisto di una giornata di terreno (38 are) dal seminario di Torino, ed è quel sito, dove di poi fu fabbricata la chiesa di Maria Ausiliatrice e l'edifizio dove al presente esistono i laboratorii dei nostri artigiani.
In quest'anno gli affari politici e lo spirito pubblico presentarono un dramma, il cui scioglimento non si può ancora prevedere.
Carlo Alberto aveva concessa la Costituzione. Molti si pensavano che colla Costituzione si fosse eziandio concessa la liberta di fare bene o male a capriccio. Appoggiavano questa asserzione sopra la emancipazione degli ebrei e dei protestanti, cui mercè si pretendeva di non esservi più distinzione tra cattolici e le altre credenze (1). Ciò era vero in politica, ma non in fatto di religione (2).
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(1) Il 20 dicembre del 1847 Carlo Alberto riceveva una petizione di 600 rinomati cattolici, dietro cui era firmata la famosa emancipazione di cui qui si parla.
(2) Nel dicembre 1847 fu presentata al Re Carlo Alberto una Supplica firmata da 600 illustri cittadini, in gran numero ecclesiastici, che dimandavano quella famosa emancipazione. Si esponevano le ragioni, ma non si badavano alle espressioni ereticali che entro quella supplica si incontrano in fatto di religione. Dopo quell'epoca gli ebrei uscirono dal ghetto e divennero primari possidenti. I protestanti poi sciolsero il freno alla loro audacia, e sebbene sia scarso tra noi il loro numero, tuttavia appoggiati dall'autorità civile, ne ritornòo gran danno alla religione ed alla moralità.
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Intanto una specie di frenesia invade le menti degli stessi giovanetti, che assembrandosi in varii punti della città, nelle vie e nelle piazze, giudicavano ben fatto ogni sfregio contro al prete o contro alla religione. Io fui più volte assalito in casa e per istrada. Un giorno mentre faceva il catechismo una palla di archibugio entrò per una finestra, mi forò la veste tra il braccio e le coste, e andò a fare largo-guasto nel muro. Altra volta un cotale, assai conosciuto, mentre io era in mezzo ad una moltitudine di fanciulli, di pieno giorno, mi assalì con lungo coltello alla mano. E fu per miracolo se correndo a precipizio potei ritirarmi e salvarmi in mia camera. Il T. Borrelli poté pure scampare come per prodigio di una pistolettata, e dai colpi di coltello in un momento che fu scambiato per un altro. Era perciò difficile assai domare tale sfrenata gioventù. In quel pervertimento di idee e di pensieri, appena si poterono avere altre camere, si aumentò il numero degli artigiani, che si portò fino a quindici, tutti dei più abbandonati e pericolanti. 1847.
Eravi però una grande difficoltà: Non avendosi ancora i laboratorii nell'istituto, i nostri allievi andavano a lavorare e a scuola in Torino, con grande scapito della moralità perciocché i compagni che incontravano[,] i discorsi che udivano, e quello che vedevano, facevano tornare frustraneo quanto loro si faceva e si diceva nell'Oratorio.
Fu allora che ho cominciato a fare un brevissimo sermoncino alla sera dopo le orazioni collo scopo di esporre o confermare qualche verità che per avventura fosse stata contraddetta nel corso della giornata. Ciò che succedeva degli artigiani era ugualmente a lamentarsi degli studenti. Perciocché per le varie classi in cui erano divisi, i più avanzati negli studi dovevansi inviare (i grammatici) presso al Prof. Gius. Bonzanino; i Retorici al Prof. D. Picco Matteo. Erano scuole ottime, ma per l'andata e pel ritorno erano piene di pericoli. L'anno 1856 con gran vantaggio furono definitivamente stabilite le scuole ed i laboratorii nella casa dell'Oratorio.
In quel momento apparve tale un pervertimento di idee e di azioni, che io non poteva più fidarmi di gente di servizio; quindi ogni lavoro domestico era fatto da me e mia madre. Fare la cucina, preparare la tavola, scopare, spaccar legna, tagliare e fare mutande, camicie, calzoni, giubbetti, asciugamani, lenzuola, e farne le relative riparazioni; erano cose di mia spettanza. Ma queste cose tornavano assai vantaggiose moralmente, perché io poteva comodamente indirizzare ai giovani un consiglio od una parola amica, mentre loro somministrava pane, minestra od altro.
Scorgendo poi la necessità di avere qualcheduno che mi venisse in aiuto nelle cose domestiche e scolastiche nell'Oratorio, cominciai a condurne meco alcuni in campagna, altri a villeggiare a Castelnuovo mia patria, taluni meco a pranzo, altri alla sera venivano per leggere o scrivere alcun che, ma sempre collo scopo di opporre un antidoto alle velenose opinioni del giorno. Ciò fu fatto con maggiore o minore frequenza dal 1841 al 1848. Io adoperava tutti i mezzi per conseguire eziandio uno scopo mio particolare, che era studiare, conoscere, scegliere alcuni individui che avessero attitudine e propensione alla vita comune e riceverli meco in casa.
Con questo medesimo fine in questo anno (1848) ho fatto esperimento di una piccola muta di esercizi spirituali. Ne raccolsi una cinquantina entro la casa dell'Oratorio; mangiavano tutti meco; ma non essendoci letti per tutti una parte andava a dormire presso la propria famiglia per fare ritorno il mattino seguente. L'andare e venire a casa loro mattino e sera rischiava quasi tutto il profitto che si raccoglieva dalle prediche e dalle altre istruzioni che sogliono avere luogo in quella occasione. Cominciavano la domenica a sera e terminavano il sabato a sera. Ciò riusci assai bene. Molti, intorno a cui erasi lavorato lungo tempo inutilmente, si diedero davvero ad una vita virtuosa. Parecchi si fecero religiosi, altri rimasero nel secolo, ma divennero modelli nella frequenza agli Oratorii (1). Di questa materia si parlerà a parte nella -------------------------------------------------------------------------------------------------------- (I) Arnaud Giacinto, Sansoldi, ambidue defunti; Buzzetti Giuseppe, Galesio Nicola; Costantino Gioanni, defunto; Cerutti Giacomo, defunto; Gastini Carlo, Gravano Gio.;Borgialli Domenico, defunto, sono annoverati fra quelli che fecero i primi esercizii in quell'anno e che si mostrarono sempre buoni cristiani. -------------------------------------------------------------------------------------------------------- storia della Società salesiana.
In quest'anno pure alcuni paroci, specialmente quello di Borgodora, del Carmine e di S. Agostino, mossero nuovi lamenti presso all'Arcivescovo perché si amministravano i sacramenti negli Oratorii. In quell'occasione l'Arcivescovo emanò un decreto con cui dava ampia facoltà di preparare e presentare i fanciulli a ricevere la cresima, la santa comunione e a soddisfare il precetto pasquale a quelli che avessero frequentati i nostri Oratorii. Rinnovava la facoltà di fare ogni funzione religiosa che siasi solita a fare nelle parochie. Queste chiese, diceva l'Arcivescovo, per tali fanciulli forestieri ed abbandonati saranno come chiese parochiali pel tempo che dimoreranno in Torino.
I pericoli, cui i giovanetti erano esposti in fatto di religione e di moralità, richiedevano maggiori sforzi per tutelarli. Alla scuola serale ed anche diurna, alla musica vocale si giudico bene di aggiugnere la scuola di piano e di organo e la stessa musica istrumentale. Quindi io mi sono trovato maestro di musica vocale ed istrumentale, di piano e di organo senza esserne mai stato vero allievo. Il buon volere suppliva a tutto. Preparate alcune voci bianche più belle, si cominciarono a fare funzioni all'Oratorio, di poi per Torino, a Rivoli, a Moncalieri, Chieri e in altri siti. Il canonico Luigi Nasi, D. Michelangelo Chiatellino si prestavano assai di buon grado ad esercitare i nostri musici ed accompagnarli, e dirigerli nelle pubbliche funzioni in varii paesi, perciocché non essendosi fino allora uditi cori di voci argentine sulle orchestre, gli a soli, i duetti, i ripieni, faceva tale novità che da tutte parti si parlava della nostra musica e si andava a gara per avere i nostri cantori. Il can.co Luigi Nasi, D. Chiatellino Michelangelo per lo più erano i due accompagnatori della nostra nascente società filarmonica.
Eravamo soliti andare ogni anno a fare una religiosa funzione alla Consolata, ma in quest'anno vi si andò processionalmente dall'Oratorio. Il canto per la via, la musica in chiesa trassero innumerabile folla di gente. Si celebrò la messa, si fece la s. comunione, quindi ho fatto un sermoncino di opportunità nella cappella sotterranea, e infine gli Oblati di Maria ci improvvisarono una stupenda colazione nei claustri del Santuario. In questa guisa si andava vincendo il rispetto umano, si raccoglievano giovanetti e si avevano opportunita di insinuare colla massima prudenza lo spirito di moralità, di rispetto alle autorità, e la frequenza dei santi sacramenti. Ma tali novità facevano gran romore.
In questo anno pure il Municipio di Torino mandò altra deputazione composta del Cav. Pietro Ropolo del Capello detto Moncalvo, e comm. Duprè a verificare quanto la voce pubblica vagamente riferiva. Ne furono assai soddisfatti; e fattane la dovuta relazione, venne decretato un premio di f. 1000 con lettera assai lusinghiera. Da quell'anno il Municipio stanzio un sussidio annuo che fu ogni anno pagato fino al 1878. In quest'anno furono tolti i 300 f. che gli assennati Reggitori di Torino bilanciarono per provvedere i lumi per la scuola serale a benefizio dei figli del popolo.
L'opera della Mendicità, che col nostro metodo aveva pur introdotte le scuole serali e musicali, in capo al Cav. Gonella mandò eziandio una deputazione per farci una visita. In segno di gradimento ci diedero altro premio di mille franchi. Noi eravamo soliti di andare insieme ogni anno a fare le visite ai sacri sepolcri del giovedì santo; ma in seguito ad alcune burle che vogliamo dire anche disprezzi, non pochi non osavano più associarsi cogli altri loro compagni. Egli fu per incoraggiare ognor più i nostri giovani a disprezzare il rispetto umano che in quell'anno si andò per la prima volta processionalmente a fare quelle visite cantando in musica lo Stabat Mater ed il Miserere. Allora furono veduti giovanetti di ogni età e condizione, lungo la processione andare a gara per unirsi alle nostre file. Ogni cosa procedette con ordine e tranquillità.
Alla sera fu per la prima volta fatta la funzione del Lavabo. A questo scopo si scelsero dodici giovanetti, che soglionsi appellare i dodici apostoli. Dopo la lavanda secondo il rituale, si tenne morale discorso al pubblico. Quindi i dodici apostoli vennero tutti insieme ammessi ad una frugale cena con un piccolo regalo che ciascuno con somma gioia portò a casa sua.
Parimenti in quell'anno fu eretta regolarmente la via Crucis, e se ne benedissero le stazioni con grande solennità. Ad ogni stazione si teneva breve sermoncino, cui teneva dietro analogo mottetto cantato in musica. Così andavasi consolidando l'umile nostro Oratorio, mentre si compievano gravi avvenimenti che dovevano mutare l'aspetto alla politica d'Italia e forse del mondo.
Quest'anno è assai memorando. La guerra del Piemonte contro l'Austria cominciata l'anno antecedente aveva scosso tutta l'Italia. Le pubbliche scuole rimasero sospese, i seminarii, specialmente quello di Chieri e di Torino furono chiusi ed occupati dai militari; e per conseguenza i cherici della nostra diocesi rimasero senza maestri e senza luogo, dove raccogliersi. Fu allora che per avere almeno la consolazione di aver fatto quanto si poteva e per mitigare le pubbliche calamità, si prese a pigione tutta la casa Pinardi. Strillarono gli inquilini, minacciarono me, mia madre, lo stesso proprietario, si dovette fare grande sacrifizio di danaro; tuttavia si ottenne che quell'edifizio fosse tutto messo a nostra disposizione. Così quel nido di iniquità che da vent'anni era a servizio di Satana rimase in nostro potere. Abbracciava tutto il sito, che forma l'attuale cortile tra la chiesa di Maria Ausilitrice e la casa dietro stante. In questa guisa potemmo aumentare le nostre classi, ingrandire la chiesa e lo spazio per la ricreazione fu raddoppiato, e il numero dei giovani tu portato a trenta. Ma lo scopo principale era di poter accogliere, come di fatto si accolsero, i cherici della diocesi; e si può dire che la casa dell'Oratorio per quasi 20 anni divenne il Seminario diocesano.
Sul finire del 1848 gli avvenimenti politici costrinsero il S. Padre Pio IX a fuggire da Roma e ricoverarsi a Gaeta. Questo grande Pontefice ci aveva già molte volte usata benevolenza. Essendosi sparsa la voce come egli trovavasi nelle strettezze pecuniarie, si apri in Torino una questua sotto il nome di obolo di S. Pietro. Una commissione composta del T. Can.co Francesco Valinotti e del Marchese Gustavo Cavour venne all'Oratorio. La nostra questua monto a f. 35. Era poca cosa, che noi procurammo di rendere in qualche modo gradevole al S. Padre con un indirizzo che gli pi acque assai. Palesò il suo gradimento con una lettera diretta al Card. Antonucci, allora Nunzio a Torino, ed ora Arcivescovo di Ancona, incaricò di esprimerci quanto gli fosse consolante la nostra offerta, ma assai più i pensieri che l'accompagnavano. In fine colla sua Apostolica Benedizione inviava un pacco di 60 dozzine di coroncine, che furono solennemente distribuite il 20 luglio di quell'anno. V. libretto stampato in quell'occasione e diversi giornali. Lettera del Card. Antonucci, allora Nunzio a Torino.
A motivo del crescente numero dei giovanetti esterni, che intervenivano agli Oratorii, si dovette pensare ad altro locale, e questo fu l'Oratorio del Santo Angelo Custode in Vanchiglia, poco distante dal sito dove per opera specialmente della Marchesa Barolo sorse di poi la chiesa di S. Giulia.
Il Sac. Gio. Cocchis aveva da più anni fondato quell'Oratorio con uno scopo alquanto analogo al nostro. Ma acceso di amor di patria giudicò bene di ammaestrare i suoi allievi a maneggiar fucile e spada per mettersi alla loro testa e marciare, come fece di fatto, contro agli Austriaci.
Quell'Oratorio rimase chiuso un anno. Dopo l'abbiamo affittato noi, e ne fu affidata la direzione al T. Gioanni Vola, di buona memoria. Questo Oratorio si tenne aperto fino all'anno 1871 quando venne trasferito presso alla chiesa parochiale. La Marchesa Barolo lasciò un legato per questo bisogno colla condizione che il locale e la cappella fossero destinati ai giovani annessi alla parochia come tuttora si pratica.
Una solenne visita fu fatta in quel tempo all'Oratorio da una commissione di Deputati con altri incaricati dal Ministero dell'interno, che vennero ad onorarci di loro presenza. Visitarono tutti e tutto in senso amichevole, di poi fecero una lunga relazione alla Camera dei Deputati. Ciò diede motivo a lunga e viva discussione che si può vedere nella Gazzetta Piemontese del 29 marzo 1849. La Camera dei Deputati fece una largizione di fr. 300 ai nostri giovani; Urbano Ratazzi allora Ministro dell'interno decretò la somma di fr. 2000. Si consultino i documenti.
Fra i miei allievi finalmente potei averne uno che vestì l'abito chericale, Savio Ascanio, attuale Rettore del Rifugio, fu il primo cherico dell'Oratorio, e ne era vestito sul finire di ottobre di quell'anno.
Un fatto strano venne in que' giorni a cagionare non leggero disturbo alle nostre radunanze. Si voleva che l'umile nostro Oratorio prendesse parte alle pubbliche dimostrazioni che si andavano ripetendo nelle città e nei paesi sotto al nome di Feste Nazionali. Chi ci prendeva parte e voleva pubblicamente mostrarsi amante della nazione si ispartiva i capelli sulla fronte e li lasciava cadere inanellati di dietro, con farsetto attillato e a vari colori, con Bandiera nazionale, con medaglia ed azzurra coccarda sul petto. Così abbigliati andavasi in processione cantando inni all'unità nazionale.
Il Marchese Roberto d'Azeglio, promotore principale di tali dimostrazioni ci fece formale invito, e, malgrado il mio rifiuto, provvide quanto ci occorreva perché potessimo cogli altri fare onorevole comparsa. Un posto ci stava preparato in piazza Vittorio accanto a tutti gli istituti di qualsiasi nome, scopo e condizione. Che fare? Rifiutarmi era un dichiararmi nemico dell'Italia; accondiscendere, valeva l'accettazione di principii che io giudicava di funeste conseguenze.
- Sig. Marchese, risposi al prelodato d'Azeglio, questa mia famiglia, i giovani che dalla città qui si raccolgono, non sono ente morale; io mi farei burlare, se pretendessi di fare mia una istituzione, che e tutta della carità cittadina.
- Appunto così. Sappia la carità cittadina, che tale opera nascente non e contraria alle moderne istituzioni; ciò vi fara del bene; aumenteranno le offerte, il Municipio, io stesso largheggeremo in vostro favore. - Sig. Marchese, è mio fermo sistema tenermi estraneo ad ogni cosa che si riferisca alla politica. Non mai pro, non mai contro.
- Che cosa dunque volete fare?
- Fare quel po' di bene che posso ai giovanetti abbandonati adoperandomi con tutte le forze affinché diventino buoni cristiani in faccia alla religione, onesti cittadini in mezzo alla civile società.
- Capisco tutto: ma voi vi sbagliate, e se persistete su questo principio voi sarete abbandonato da tutti, e l'opera vostra diventa impossibile. Bisogna studiar il mondo, conoscerlo e portare le antiche e le moderne istituzioni all'altezza dei tempi.
- Vi ringrazio del vostro buon volere e dei consigli che mi date. Invitatemi a qualunque cosa, dove il prete eserciti la carità, e voi mi vedrete pronto a sacrificare vita e sostanze, ma io voglio essere ora e sempre estraneo alla politica.
Quel rinomato patrizio mi lasciò con soddisfazione, e d'allora in poi non ebbesi più relazione di sorta tra noi. Dopo di lui parecchi altri laici ed ecclesiastici mi abbandonarono. Anzi rimasi come solo dopo il fatto che sono per raccontare.
La domenica dopo la festa accennata alle due pomeridiane io era in ricreazione coi giovanetti mentre un cotale stava leggendo l'Armonia, quando i preti soliti venire ad aiutarmi nel sacro ministero si presentano in corpo con medaglia, coccarda, bandiera a tricolore, più con un giornale veramente immorale detto Opinione. Uno di loro, assai rispettabile per zelo e dottrina mi si fa davanti e rimirando che a mio fianco eravi chi tra mano aveva l'Armonia, - Vitupero, prese a dire, è tempo di finirla con questi rugiadosi. - Ciò dicendo strappo da l'altrui mano quel foglio, lo ridusse in mille pezzi, lo gitto per terra, e sputandoci sopra, lo pesto e calpesto cento volte. Dato questo primo sfogo di fervore politico, venne in mio cospetto, questo si che è buon giornale, disse avvicinandomi l'Opinione alla faccia, questo e non altro si deve leggere da tutti i veri e dagli onesti cittadini.
Rimasi sbalordito a quel modo di parlare e di agire e non volendo che si aumentassero gli scandali nel sito dove si doveva dar buon esempio; mi limitai di pregare lui e i suoi colleghi a parlare di quegli argomenti in privato e tra noi soltanto. Non signore, ripiglio, non ci deve più essere ne privato ne segreto. Ogni cosa sia posta in chiara luce. In quel momento il campanello chiamo tutti I in chiesa, e chiamava appunto uno di quegli ecclesiastici stato incaricato di fare un sermoncino morale ai poveri giovanetti. Ma quella volta fu veramente immorale. Libertà, emancipazione, indipendenza risuonarono in tutta la durata di quel discorso.
Io era in sacristia impaziente di poter parlare e porre un freno al disordine; ma il predicatore uscì tosto di chiesa e data appena la benedizione, invitò preti e giovani ad associarsi con lui, e intonando a tutta gola inni nazionali facendo freneticamente sventolare la bandiera, andarono difilato intorno a Monte dei Cappuccini. Colà fu fatta formale promessa di non più intervenire all'Oratorio se non invitati e ricevuti con tutte le forme nazionali. Tutto questo succedevasi senza che io potessi in alcun modo esprimere né ragioni né pensieri. Ma io non paventava cosa alcuna che si opponesse a' miei doveri. Feci dire a quei preti che erano severamente proibiti di ritornare presso di me; i giovani poi dovessero uno per volta presentarsi a me prima di rientrare nell'Oratorio.
La cosa mi riusci bene. Niuno dei preti tento di ritornare; i giovanetti chiesero scusa asserendo essere stati ingannati, e promisero ubbidienza e disciplina.
Ma io rimasi solo. Ne' giorni festivi doveva di buon mattino comincia le confessioni, alle nove celebrare la messa, dopo fare la predica, quindi scuola di canto, di letteratura fino a mezzogiorno. All'una pomeridiana: ricreazione, di poi catechismo, vespri, istruzione, benedizione, indi ricreazione, canto e scuola fino a notte.
Nei giorni feriali, lungo il giorno doveva lavorare per li miei artigiani, fare scuola ginnasiale ad una decina di giovanetti; la sera scuola di francese, di aritmetica, di canto fermo, di musica vocale, di pianoforte e di organo erano tutte cose cui doveva attendere. No so come io abbia potuto reggere. Dio mi aiutò! Un grande conforto però ed un grande appoggio in quei momenti l'ebbi nel Teologo Borrelli. Quel maraviglioso sacerdote, sebbene oppresso da altre gravissime occupazioni di sacro ministero, studiava ogni briciolo di tempo per venirmi in aiuto. Non di rado esso rubava le ore del sonno per recarsi a confessare i giovani; negava il ristoro allo stanco corpo per venire a predicare. Questa critica posizione duro fino a tanto che potei avere qualche sollievo nel ch. Savio, Bellia, Vacchetta, di cui per altro ne rimasi presto privato; perciocché, secondando essi il suggerimento altrui, senza farmene parola fuggirono per entrare negli Oblati di Maria.
In uno di que' giorni festivi fui visitato da due sacerdoti, che io credo opportuno di nominare. Nel cominciare il catechismo era tutto in moto per ordinare le mie classi, allora che si presentano due ecclesiastici, i quali in contegno umile e rispettoso venivano a rallegrarsi con me e dimandavano ragguaglio sull'origine e sistema di quella istituzione. Per unica risposta dissi: - Abbiano la bonta di aiutarmi. Ella venga in coro ed avrà i più grandicelli; a Lei, dissi all'altro di più alta statura, affido questa classe che e di più dissipati. - Essendomi accorto che facevano a maraviglia il catechismo, pregai uno a regalare un sermoncino ai nostri giovani, e l'altro a compartirci la benedizione col Venerabile. Ambidue accondiscesero graziosamente.
Il Sacerdote di minore statura era l'Abate Antonio Rosmini fondatore dell'Istituto della Carità; l'altro era il Can. Arciprete De Gaudenzi, ora Vescovo di Vigevano, che d'allora in poi l'uno e l'altro si mostrarono sempre benevoli[,] anzi benefattori della Casa.
L'anno 1849 fu spinoso, sterile, sebbene abbia costato grandi fatiche ed enormi sacrifizi; ma ciò era una preparazione per l'anno 1850 che e meno burrascoso, e assai più fecondo di buoni risultati. Cominciamo dalla casa Pinardi. Coloro che erano stati sloggiati da questa casa non potevano darsi opace. Non ripugna, si andava dicendo, che una casa di ricreazione e di sollievo cada nelle mani di un prete e di un prete intollerante?
Venne pertanto proposta al Pinardi una pigione quasi due volte maggiore alla nostra. Ma egli sentiva non leggero rimorso nel ricavare maggior lucro da mezzi iniqui, perciò mi aveva talvolta fatto proposta di vendere qualora io avessi voluto comperare. Ma le pretese di lui erano esorbitanti. Chiedeva ottanta mila franchi per un edifizio il cui valore doveva essere di un terzo. Iddio vuole far vedere che è padrone dei cuori, ed ecco come.
Un giorno festivo mentre il teologo Borrelli predicava, io stava sulla porta del cortile per impedire gli assembramenti e i disturbi, quando si presenta il Sig. Pinardi; alto la, disse, bisogna che D. Bosco compri la mia casa.
- Alto là[,] bisogna che il Sig. Pinardi me la dia pel suo prezzo, ed io la compro subito.
- Si che la do pel suo prezzo.
- Quanto?
- Al prezzo richiesto.
- Non posso fare offerte. - Offra. - Non posso. - Perché?
- Perché e prezzo esagerato. Non voglio offendere chi dimanda. -
Offra quel che vuole.
- Me la dà pel suo valore? - Parola d'onore, che la do. - Mi stringa la mano e faro l'offerta. - Di quanto? - La ho fatta stimare da un suo e mio amico, e mi assicuro che nello stato attuale deve patteggiarsi tra il 26 ed il 28 mila franchi; ed io, affinché sia cosa compiuta, le do 30.000 fr.
- Regalerà ancora uno spillo di fr. 500 a mia moglie?
- Farò questo regalo.
- Mi pagherà in contanti.
- Pagherò in contanti.
- Quando faremo lo strumento?
- Quando a Lei piace.
- Dimani a quindici giorni, ma con un pagamento solo.
- Tutto inteso come desidera.
- Cento mila franchi di multa a chi desse indietro.
- Così sia. -
Quell'affare fu trattato in cinque minuti; ma dove prendere tale somma in così breve tempo? Cominciò allora un bel tratto della divina Provvidenza. Quella stessa sera D. Caffasso, cosa insolita nei giorni festivi, mi viene a far visita, e mi dice che una pia persona, contessa Casazza-Riccardi, l'aveva incaricato di darmi dieci mila franchi da spendersi in quello che avrei giudicato della maggior gloria di Dio. Il giorno dopo giunge un religioso Rosminiano che veniva in Torino per mettere a frutto fr. 20.000, e me ne chiedeva consiglio. Proposi di prenderli a mutuo pel contratto Pinardi, e così fu messa insieme la somma ricercata. I tre mila franchi di spese accessorie furono aggiunti dal Cav. Cotta nella cui Banca venne stipulato il sospirato istrumento.
Assicurato così l'acquisto di quello edifizio si porto il pensiero sopra la così detta Giardiniera. Era questa una bettola, dove nei giorni festivi solevano radunarsi gli amatori del buon tempo. Organini, pifferi, clarinetti, chitarre, violini, bassi, contrabassi e canto di ogni genere succedevansi nel corso della giornata; anzi non di rado erano contemporaneamente tutti raccolti insieme pei loro concerti. Siccome quell'edifizio, casa Bellezza, era da un semplice muriccio diviso dal nostro cortile, così spesso avveniva che i cantici di nostra cappella restassero confusi o soffocati dagli schiamazzi del suono e delle bottiglie della Giardiniera. Di più era un continuo andirivieni da casa Pinardi alla Giardiniera. Ognuno può di leggieri immaginarsi con quale disturbo nostro e con quale pericolo pei nostri giovani.
Per liberarci da quella grave molestia ho tentato di farne acquisto, ma non mi è riuscito; cercai di prendere a pigione, cui la padrona acconsentiva; ma la padrona della bettola reclamava danni favolosi.
Allora feci proposta di rilevare tutta l'osteria, assumermi la pigione, e comperare tutto il suppellettile di camera, di tavole, di cantina, di cucina etc.; e pagando ogni cosa a ben caro prezzo, potei divenire arbitro del locale cui diedi immediatamente altra destinazione. In questa guisa veniva disperso il secondo semenzaio d'iniquità che accanto di casa Pinardi tuttora sussisteva in Valdocco.
Liberati dalle vessazioni morali di casa Pinardi e della Giardiniera era mestieri pensare ad una chiesa più decorosa pel culto, è più adattata al crescente bisogno. L'antica, è vero, erasi alquanto ingrandita, e corrispondeva all'attuale sito del Refettorio dei Superiori, ma era incomoda per la capacità, e per la bassezza. Siccome per entrarvi bisognava discendere due scalini, così d'inverno e in tempo piovoso eravamo allagati, mentre di estate eravamo soffocati dal caldo e dal tanfo eccessivo. Pel che passavano pochi giorni festivi senza che qualche allievo venisse preso da sfinimento e portato fuori come asfissiato. Era dunque necessità che si desse mano ad un edifizio più proporzionato al numero dei giovanetti, più ventilato e salubre.
Il Cav. Blachier fece un disegno, la cui esecuzione doveva dare l'attuale chiesa di S. Francesco e l'edifizio che circonda il cortile posto a fianco della chiesa. Impresario era il Sig. Bocca Federico.
Scavate le fondamenta fu fatta la benedizione della pietra fondamentale il 20 luglio 1850
la poneva a suo posto; il can.co Moreno economo generale la benediceva; il celebre Padre Barrera, commosso alla vista della moltitudine di gente accorsa, montò sopra un rialzo di terra ed improvviso uno stupendo discorso di opportunità. Egli esordiva con queste testuali parole: "Signori, quella pietra che abbiamo testè benedetta e collocata a fondamento di questa chiesa ha due grandi significati. Significa il granello di senapa che crescerà in albero mistico, presso cui molti ragazzi verranno a rifugiarsi; significa che quest'opera basa sopra una pietra angolare, che è Cristo Gesù contro cui saranno vani gli sforzi che i nemici della fede faranno per abbatterla". Dimostrava quindi l'una e l'altra di queste premesse con grande soddisfazione degli uditori, che giudicavano come inspirato l'eloquente predicatore.
Ecco il verbale etc. Si trascriva il verbale di quella solennità.
Quelle rumorose solennità traevano giovanetti esterni da tutte parti, mentre ad ogni ora del giorno molti altri venivano chiedendo ricovero. Il loro numero in quell'anno passò i cinquanta, e si diè principio a qualche laboratorio in casa; perciocché ognor più funesta si esperimentava l'uscita dei giovanetti a lavorare in città.
Già il sacro e sospirato edifizio usciva fuori di terra, quando mi accorsi essere le finanze totalmente esauste. Aveva messo insieme 35 mila franchi colla vendita di alcuni stabili, ma questi scomparvero come ghiaccio al sole. L'Economato assegnò nove mila franchi, ma da versarsi ad opera quasi compiuta. Il Vescovo di Biella, Monsig. Pietro Losana, riflettendo che il novello edifizio, e tutta quella istituzione tornava a speciale vantaggio dei garzoni muratori biellesi, diramò una circolare a' suoi paroci invitandoli a concorrere col loro obolo. Si trascriva la circolare. La questua frutto mille franchi. Ma queste erano gocce d'acqua sopra arsiccio terreno; onde fu ideata una lotteria di oggetti ossia di piccoli doni. Era la prima volta che ricorreva in questo modo alla pubblica beneficenza, e si ebbe accoglienza assai favorevole. Si raccolsero tre mila trecento doni. Il Sommo Pontefice, il Re, la Regina Madre, la Regina Consorte, e in generale tutta la corte sovrana si segnalo colle sue offerte. Lo spaccio dei biglietti (cent. 50 caduno) fu compiùto; e quando si fece la pubblica estrazione al Palazzo di Città vi fu chi andavane in cerca offrendo cinque franchi l'uno e non poteva più rinvenirne. Si può mettere il Programma e il Regolamento di quella Lotteria.
Molti di quelli, che vinsero qualche dono, il lasciarono con gran piacere a benefizio della chiesa. Dal che si ricavò altro provento. È vero che ci furono non piccole spese, tuttavia si ottenne netta la somma di fr. 26 mila.
Mentre gli oggetti erano in pubblica esposizione avvenne (26 aprile 1852) lo scoppio della polveriera sita accanto al Cenotafio di S. Pietro in Vincoli. L'urto che ne segui fu orribile e violento. Molti edifizi vicini e lontani vennero scossi e ne riportarono grave danno. Dei lavoranti 28 rimasero vittime, e sarebbero stato assai maggiore il danno se un certo sergente di nome Sacco, con grande pericolo della propria vita non avesse impedita la comunicazione del fuoco ad una maggior quantità di polvere, che avrebbe potuto rovinare l'intera città di Torino. La casa dell'Oratorio, che era di cattiva costruzione, ne soffrì assai; e i deputati ci mandarono l'offerta di f. 300 per aiutarne la riparazione.
Voglio a questo proposito raccontare un fatto che si riferisce ad un nostro giovanetto artigiano di nome Fascio Gabriele. L'anno antecedente egli cadde in malattia, che lo porto all'estremo di vita. Nell'eccesso del suo male andava ripetendo: Guai a Torino, guai a Torino! I suoi compagni li dissero: - Perché? Perché è minacciata da un gran disastro.
- Quale? - E' un orribile terremoto.
- Quando sarà? - Altro anno. Oh guai a Torino al 26 di aprile.
- Che cosa dobbiamo fare? Pregare S. Luigi che protegga l'Oratorio e quelli che vi abitano.
Fu allora che a richiesta di tutti i giovanetti della casa che aggiunse mattino e sera nelle comuni preghiere un Pater Ave e Gloria a questo Santo. Di fatto la nostra casa rimase poco danneggiata in paragone del pericolo, ed i ricoverati non ebbero a lamentare alcun danno personale.
Intanto i lavori della chiesa di S. Francesco di Sales progredivano con alacrita incredibile, e nello spazio di undici mesi fu condotta al suo termine.
Il 20 giugno 1852 fu consacrata al divin culto con una solennità tra noi piùttosto unica che rara. Un arco di altezza colossale erasi elevato all'entrata del cortile. Sopra di esso, in caratteri cubitali stava scritto: In caratteri dorati - scriveremo in tutti i lati - Viva eterno questo dì.
Da ogni parte echeggiavano questi versi posti in musica dal Maestro Blanchi Giuseppe, di grata memoria:
Prima il sole dall'occaso
Fia che torni al suo oriente,
Ogni fiume a sua sorgente
prima indietro tornerà,
Che da noi ci si cancelli
Questo dì, che tra i più belli
Tra di noi sempre sarà.
Si recitò e si cantò con grande sfarzo la poesia seguente:
Come augel di ramo in ramo
Va cercando albergo fido, etc.
Molti giornali parlarono di questa solennita: v. L'Armonia e la Patria di que' giorni.
Il primo di giugno dell'anno stesso si die principio alla Società di mutuo soccorso per impedire che i nostri giovani andassero ad ascriversi colla Società detta degli Operai, che fin dal suo principio manifesto principii tutt'altro che religiosi. Si prenda il libretto stampato. Servì a maraviglia al nostro scopo. Più tardi questa medesima nostra Società si cangio in Conferenza annessa di S. Vincenzo de' Paoli che tuttora sussiste. Terminata la chiesa occorrevano arredi di tutti i generi. La carità cittadina non mancò. Il Comm. Giuseppe Duprè fece abbellire una cappella, che fu dedicata a S. Luigi, e comperò un altare di marmo, che tuttora adorna quella chiesa. Altro benefattore fece fare l'orchestra, sopra cui fu collocato il piccolo organo destinato a favore dei giovani esterni. Il sig. Michele Scannagatti comperò una compiuta muta di candelieri; il marchese Fassati fece fare l'altare della Madonna, provvide una muta di candelieri di bronzo e più tardi la statua della Madonna. D. Caffasso pagò tutte le spese occorse pel pulpito. L'altare magg. venne provveduto dal Dottore Francesco Vallauri e completato da suo figlio D. Pietro sacerdote. Così la novella chiesa in breve tempo si vide provveduta di quanto era più necessario per le private e solenni funzioni.
Colla nuova chiesa di S. Francesco di Sales[,] colla sacristia e col campanile si dava provvedimento a quei giovanetti che avessero desiderato d'intervenire alle sacre funzioni del giorno festivo, delle scuole serali ed anche diurne. Ma come provvedere alla moltitudine di poveri fanciulli che ad ogni momento chiedevano di essere ricoverati? Tanto più che lo scoppio della polveriera, avvenuto l'anno prima, aveva quasi rovinato l'antico edifizio. In quel momento di supremo bisogno fu presa la deliberazione di fabbricare un nuovo braccio di casa. Affinché si potesse tuttora usufruire il vecchio locale, si cominciò il nuovo in sito separato, cioè dal termine dell'attuale refettorio fino alla fonderia dei caratteri tipografici.
I lavori progredirono con tutta alacrità, e sebbene la stagione autunnale fosse già alquanto inoltrata, tuttavia si giunse fino all'altezza del coperchio. Anzi tutta la travatura era stata collocata al suo posto, tutti i listelli inchiodati, e le tegole stavano ammucchiate sui travi culminanti per essere ordinatamente collocate, quando un violento acquazzone fece interrompere ogni lavoro. L'acqua diluviò più giorni e più notti, e scorrendo e colando dalle travi e dagli stessi listelli rose e trasse seco la calcina fresca restando così le mura di soli mattoni e ciottoli lavati. Era circa la mezzanotte[,] tutti eravamo in riposo, quando si ode un rumore violento che ad ogni momento si rende più intenso e spaventoso. Ognuno si sveglia ed ignorando che ci fosse, pieno di terrore si avviluppa nelle coperte o nelle lenzuola, esce di dormitorio e fugge confuso senza sapere dove, ma con animo di allontanarsi dal pericolo, che s'immaginava. Cresce il disordine ed il frastuono; l'armatura del tetto, le tegole si mischiano coi materiali delle mura e tutto cadde rovinoso, con immenso fracasso.
Siccome quella costruzione poggiava contro al muro del basso e vecchio edifizio, si temeva che tutti rimanessero schiacciati sotto alle cadenti rovine; ma non si ebbe a provare altro male che un orrendo frastuono, che non cagiono alcun danno personale.
Giunto il mattino, venne una visita di ingegneri per parte del Municipio. Il Cav. Gabbetti vedendo un alto pilastro smosso dalla base pendere sopra un dormitorio esclamò:
Andate pure a ringraziare la Madonna della Consolata. Quel pilastro si regge per miracolo e cadendo avrebbe sepolto nelle rovine D. Bosco con trenta giovanetti coricati nel dormitorio sottostante. I lavori essendo ad impresa, il maggior danno fu del capomastro. Il nostro danno fu valutato a fr. 10.000. Il fatto avveniva la mezzanotte del 2 dicembre 1852. In mezzo alle continue tristi vicende che opprimono la povera umanità avvi sempre la mano benefica del Signore che mitiga le nostre sciagure. Se quel disastro fosse succeduto due ore prima avrebbe sepolto i nostri allievi delle scuole serali. Terminavano queste alle dieci, ed usciti dalle loro classi in numero di circa 300 scorazzarono per oltre mezz'ora lungo i vani dell'edifizio in costruzione. Un po' dopo succedeva quella rovina.
La stagione inoltrata non permetteva più non dico di terminare; ma nemmeno di cominciare né in tutto né in parte i lavori della casa rovinata, e intanto chi provvederà alle nostre strettezze? Che fare in mezzo a tanti giovani, con sì poco locale e mezzo rovinato? Si fece di necessità virtù. Assicurate le mura della chiesa antica venne ridotta a dormitorio. Le scuole poi vennero trasferite nella chiesa nuova, che perciò era chiesa nei giorni festivi, collegio lungo la settimana.
In questo anno fu pure costrutto il campanile che fiancheggia la chiesa di S. Francesco di Sales, ed il benefico Sig. Michele Scannagatti provvide una elegante muta di candelieri per l'altare maggiore, che formano tuttora uno de' più belli arredi di questa chiesa.
Appena la stagione il permise si diede immediatamente mano a rialzare la casa rovinata. I lavori si progredirono alacremente e col mese di ottobre l'edifizio era compiùto. Essendo nel massimo bisogno di locale, siamo tosto volati ad occuparlo. Io andai pel primo nella camera che Dio mi concede di poter tuttora abitare. Scuole, refettorio, dormitorio poterono stabilirsi e regolarizzarsi, e il numero degli allievi fu portato a sessantacinque.
Continuarono le provviste da parte di varii benefattori. Il cav. Giuseppe Duprè provvide a sue spese la balaustra di S. Luigi in marmo; ne fece abbellire l'altare e stuccare tutta la Cappella. Il Marchese Domenico Fassati regalò la piccola balaustra dell'altare della Madonna, una muta di candelieri di bronzo dorato, pel medesimo altare. Il conte Carlo Cays, nostro insigne benefattore, per la seconda volta Priore della Compagnia di S. Luigi, ci pagò un vecchio debito di mille duecento franchi al panattiere, che cominciava a fare difficoltà a somministrarci il pane. Compro una campana, che fu oggetto di una graziosa festa. Il T. Cattino, nostro curato di felice memoria, la venne a benedire; di poi fece un sermoncino di opportunità alla molta gente accorsa dalla città. Dopo le sacre funzioni venne rappresentata una commedia che fu tema di molta allegria per tutti. Lo stesso conte Cays provvide una bella panta, l'attuale baldacchino con altri attrezzi di chiesa.
Fornita così la nuova chiesa delle cose più necessarie al culto si poté finalmente appagare per la prima volta il comune desiderio mercè l'esposizione delle quarantore. Non vi era grande ricchezza di addobbi, ma vi fu straordinario concorso di fedeli. Per secondare quel religioso trasporto e dare a tutti comodità di soddisfare la propria divozione alle quarantore fecesi seguire un ottavario di predicazione, che fu letteralmente impiegato ad ascoltare le confessioni della moltitudine. Quell'insolito concorso fu motivo che negli anni successivi continuo a farsi l'esposizione delle quarantore con regolare predicazione con grande frequenza dei santi sacramenti e di altre pratiche di pietà.
Quest'anno, al mese di marzo cominciò la periodica pubblicazione delle Letture Cattoliche. Nel 1847 quando ebbe luogo l'emancipazione degli ebrei e dei protestanti divenne necessario qualche antidoto da porre in mano dei fedeli cristiani in genere, specialmente della gioventù. Con quell'atto pareva che il governo intendesse solamente dare libertà a quelle credenze, ma non a detrimento del cattolicismo. Ma i protestanti non la intesero così, e si diedero a fare propaganda con tutti i mezzi loro possibili. Tre giornali (La buona Novella, La luce Evangelica, Il Rogantino piemontese)[,] molti libri biblici e non biblici; largheggiare soccorsi, procacciare impieghi, somministrare lavori; offerire danaro, abiti, commestibili a chi andava alle loro scuole o frequentava le loro conferenze o semplicemente il loro tempio, sono tutti mezzi da loro usati per fare proseliti.
Il governo sapeva tutto e lasciava fare e col suo silenzio li proteggeva efficacemente. Aggiungasi che i protestanti erano preparati e forniti di ogni mezzo materiale e morale; mentre i cattolici fidandosi delle leggi civili che fino allora li avevano protetti e difesi, appena possedevano qualche giornale, qualche opera classica o di erudizione, ma niun giornale, niun libro da mettere nelle mani del basso popolo.
In quel momento prendendo consiglio dalla necessità, ho cominciato a formare alcune tavole sinottiche intorno alla Chiesa cattolica; poi altri cartelli intitolati: Ricordi pei Cattolici, e mi diedi a spacciarli fra i giovanetti e fra gli adulti specialmente in occasione di esercizi spirituali e di missioni.
Quelle pagelle, quei libretti erano accolti con grande ansietà; e in breve se ne spacciarono migliaia di migliaia. Ciò mi persuase della necessità di qualche mezzo popolare con cui agevolare la conoscenza dei principii fondamentali del cattolicismo. [Fu] fatto quindi stampare un librettino col titolo: Avvisi ai Cattolici, che ha lo scopo di mettere i cattolici all'erta e non lasciarsi cogliere nella rete degli eretici. Lo spaccio ne fu straordinario; in due anni se ne diffusero oltre a duecentomila esemplari. Ciò piacque ai buoni, ma fece dare alle furie i protestanti, che si pensavano di essere i soli padroni del campo evangelico.
Mi avvidi allora essere cosa urgente di preparare e stampare libri pel popolo, e progettai le così dette Letture Cattoliche. Preparati alcuni fascicoli voleva tosto pubblicarli, quando nacque una difficoltà né aspettata né immaginata. Niun Vescovo voleva mettersi alla testa. Vercelli, Biella, Casale si rifiutarono, dicendo essere cosa pericolosa lanciarsi in battaglia coi protestanti. Monsignor Fransoni, allora dimorante in Lione, approvava, raccomandava, ma niuno voleva assumersi nemmeno la Revisione ecclesiastica. Il Can.co Giuseppe Zappata, Vicario Generale, fu il solo, che a richiesta dell'Arcivescovo ne rivedesse un mezzo fascicolo, di poi mi ritorno il manoscritto dicendomi: Si prenda il suo lavoro; io non mi sento di segnarmi: il fatto di Ximenes e di Palma (1) sono troppo recenti. Ella sfida e prende di fronte i nemici ed io amo meglio battere la ritirata in tempo utile.
-------------------------------------------------------------------------------------------------------- (1) L'Abate Ximenes Direttore di un giornale cattolico, Il Contemporaneo di Roma, fu assassinato. Monsig. Palma, Seg. pontificio e scrittore di quel giornale, finiva per un colpo di archibugio nelle medesime sale del Quirinale. --------------------------------------------------------------------------------------------------------
D'accordo col Vicario Generale esposi ogni cosa all'Arcivescovo, e ne ebbi risposta con lettera da portare a Monsig. Moreno Vescovo di Ivrea. Con essa pregava quel prelato a prendere la progettata pubblicazione sotto alla sua protezione, di assisterla colla revisione e colla sua autorità. Il Moreno si prestò volentieri; delegò l'avv. Pinoli, suo Vic[ario] Gen[erale,] per la revisione, tacendo però il nome del Revisore. Si compilò tosto un programma, e col primo marzo 1853 uscì il primo fascicolo del Cattolico provv.
Le Letture Cattoliche furono accolte con generale applauso, e il numero dei lettori fu straordinario; ma di qui appunto cominciarono le ire dei protestanti. Provarono a combatterle coi loro giornali, colle loro Letture Evangeliche; ma non potevano avere lettori. Quindi ogni sorta di attacchi contro al povero D. Bosco. Ora gli uni ora gli altri venivano a disputare persuasi, essi dicevano, che niuno valesse a resistere alle loro ragioni. I preti cattolici fossero tanti gonzi e perciò con due parole potevano confondersi.
Egli no pertanto vennero ad attaccarmi ora uno ora due, ed ora più insieme. Io li ho sempre ascoltati e mi raccomandava sempre che le difficoltà, cui essi non sapevano rispondere, fossero presentate ai loro ministri, e di poi mi fossero cortesi darmene comunicazione. Venne Amedeo Bert, di poi Meille, l'evangelista Pugno, poi altri ed altri, ma non poterono ottenere che io cessassi né dal parlare, né dallo stampare i nostri trattenimenti: cosa che li eccito a massima rabbia. Credo bene di riferire alcuni fatti relativi a questa materia.
U
na domenica a sera del mese di Gennaio mi sono annunziati due signori che venivano per parlarmi. Entrarono e dopo una lunga serie di complimenti e di lusinghe uno di loro prese ad esprimersi così:
- Voi, Sig. Teologo, avete sortito dalla natura un gran dono: quello di farvi capire e di farvi leggere dal popolo; perciò saremmo a pregarvi di volere occupare questo dono prezioso in cose utili per l'umanità, in vantaggio della scienza, delle arti, del commercio.
- I miei pensieri sono appunto rivolti alle Letture Cattoliche; di cui intendo occuparmi con tutto l'animo.
- Sarebbe assai meglio occuparvi di qualche buon libro per la gioventù, come sarebbe una storia antica, un trattato di Geografia, di Fisica e Geometria, non però delle Let[ture] Catt[oliche].
- Perché non di queste Letture?
- Perché è un lavoro già fritto e rifritto da tanti.
- Questi lavori furono già eseguiti da tanti, ma in volumi di erudizione, non però pel popolo, come appunto è mio scopo colle Letture Cattoliche.
- Ma questo lavoro non vi da alcun vantaggio, al contrario, se faceste i lavori che noi vi raccomandiamo, fareste anche un bene materiale al maraviglioso istituto che la Provvidenza vi ha affidato. Prendete, qui avete già qualche cosa (erano quattro biglietti da mille franchi) ma non sarà l'ultima oblazione, anzi ne avrete delle maggiori. - Per quale ragione tanto danaro?
- Per incoraggiarvi ad intraprendere le opere accennate e per coadiuvare a questo non mai abbastanza lodato istituto.
- Perdonatemi, Signori, se vi ritorno il vostro danaro; io non posso per ora intraprendere altro lavoro scientifico, se non quello che concerne alle Letture Cattoliche.
- Ma se è un lavoro inutile...
- Se e un lavoro inutile perché volete prendervene pensiero? Perché spendere questo danaro per farmi desistere?
- Voi non badate all'azione che fate; perciocché con questo rifiuto voi fate un danno all'opera vostra, esponete voi a certe conseguenze, a certi pericoli...
- Signori, io capisco quello che volete significarmi, ma vi dico chiaro che per la verità non temo alcuno, facendomi prete, mi sono consacrato al bene della Chiesa e pel bene della povera umanità, e intendo di continuare colle deboli mie fatiche a promuovere le Let[ture] Catt[oliche].
- Voi fate male, soggiunsero con voce e con volto alterato alzandosi in piedi, voi fate male, voi ci fate un insulto, e poi chi sa che sarà di voi qui, e, in modo minaccioso, se uscite di casa sarete sicuro di rientrare?
- Voi, Signori, non conoscete i preti cattolici, finché vivono, essi lavorano per compiere il loro dovere; che se in mezzo a questo lavoro e per questo motivo dovessero morire, per loro sarebbe la più grande fortuna, la massima gloria. -
In quel momento apparvero ambidue così irritati che temeva mi mettessero le mani addosso. Mi alzai, misi la sedia tra me e loro dicendo: Se volessi usare la forza non temerei le vostre minaccie, ma la forza del prete sta nella pazienza e nel perdono; ma partitevi di qui.
Fatto intanto un giro intorno alla sedia, aprii l'uscio della camera, Buzzetti, dissi, conduci questi signori fino al cancello, essi non sono guari periti della scala. - Rimasero confusi a quell'intimazione, e dicendo ci vedremo altro momento più opportuno, se ne uscirono col volto e cogli occhi infiammati di sdegno. - Questo fatto fu pubblicato da alcuni giornali, specialmente dall'Armonia.
Sembrava che ci fosse una trama personale segreta contro di me, ordita dai protestanti o dalla massoneria.
Racconterò, ma in breve, alcuni fatti.
Una sera mentre stava in mezzo ai giovani facendo scuola; vennero due uomini chiamandomi in fretta al Cuor d'Oro per un moribondo.
Ci andai tosto, ma volli essere accompagnato da alcuni dei più grandicelli. Non occorre, mi dissero, che siano disturbati questi suoi allievi. Noi la condurremo dall'infermo e la ricondurremo a casa. L'infermo forse sarebbe disturbato dalla presenza di costoro.
- Non datevi pensiero di ciò, aggiunsi; questi miei allievi fanno una breve passeggiata, e si arresteranno ai pie' della scala pel tempo che io passerò presso l'infermo. -
Ma giunti alla casa del Cuor d'Oro: venga qua un momento, mi dissero, si riposi alquanto e intanto andremo a prevenire l'ammalato della sua venuta.
Mi condussero in una camera a pian terreno, dove eranvi parecchi bontemponi che dopo cena stavano mangiando castagne. Mi accolsero con mille parole di encomio e di applausi, vollero che mi servissi e mangiassi delle loro castagne, che però non posi in bocca, adducendo per ragione che aveva testé fatta la mia cena.
- Almeno beverà un bicchiere del nostro vino ripigliarono. Non le spiacerà; viene dalle parti di Asti.
- Non mi sento, non sono solito a bere fuori pasto, mi farebbe male.
- Un piccolo bicchiere non le farà certamente alcun male. - Ciò dicendo versano vino per tutti, giunti poi a me uno si recò a prendere bottiglia e bicchiere a parte. Mi accorsi allora del perverso loro divisamento, ciò non di meno presi tra mano il bicchiere, feci con loro un brindisi, ma invece di bere cercava riporlo sulla tavola.
- Non faccia questo, è un dispiacere, diceva uno; e un insulto, soggiungeva un altro. Non ci faccia questo rifiuto.
- Non mi sento, non posso e non voglio bere.
- Bisogna che beva a qualunque costo.
Ciò detto, uno prese la mia spalla sinistra, un altro la spalla destra soggiungendo: Non possiamo tollerare questo insulto. Beva per amore o per forza.
- Se volete assolutamente che io beva; il farò, ma lasciatemi alquanto in libertà, e siccome io non posso bere lo darò ad uno de' miei figli che beveranno in vece mia.
Pronunciando quelle simulate parole feci un lungo passo verso l'uscio, lo aprii invitando i miei giovani ad entrare.
- Non occorre, non occorre che altri beva. Stia tranquillo, andremo tosto a prevenire l'ammalato, questi stiano in fondo alla scala. - Non avrei certamente dato ad altri quel bicchiere, ma agiva per meglio scuoprire la loro trama che era di farrni bere il veleno.
Fui poscia condotto in una camera al secondo piano, dove, invece di un infermo, mi accorsi star coricato quello stesso che era venuto a chiamarmi, e che dopo avere sostenute alcune mie dimande diede in uno scroscio di riso dicendo: Mi confesserò poi dimani mattina. - Me ne andai tosto pei fatti miei.
Una persona amica fece alcune indagini intorno a coloro che mi avevano chiamato, intorno al loro scopo, e potei essere assicurato che un cotale aveva loro pagata una lauta cena coll'intendimento che eglino si fossero adoperati per farmi bere un po' di vino che egli aveva preparato.
Sembrano favole gli attentati che vo raccontando, ma pur troppo sono dolorose verità che ebbero moltissimi testimoni. Eccone altro più strano ancora.
Una sera di agosto, circa alle ore sei di sera, circondato da' miei giovani io stava sulla cancellata che metteva nel cortile dell'Oratorio, quando un grido inaspettato si fa sentire: È un assassino, è un assassino. Ed ecco un cotale, da me assai conosciuto ed anche beneficato; messo in manica di camicia con lungo coltello in mano correva furioso, verso di me dicendo: Voglio D. Bosco, voglio D. Bosco. Tutti si diedero a fuggire sbandati, e l'altro continuò la sua corsa dietro ad un cherico creduto per vece mia. Allorché si accorse dello scambio, ripigliò furioso il suo passo contro di me. Appena ebbi tempo di rifuggirmi su per le scale dell'antica abitazione, e la serratura del cancello non era per anco ferma quando sopravvenne il malcapitato. Batteva, gridava, mordeva le stanghe di ferro per aprirle, ma inutilmente: io era in sicuro. I miei giovani volevano assalire quel miserabile e farlo in pezzi, ma io li ho costantemente proibiti e mi ubbidirono. Fu dato avviso alla pubblica sicurezza, alla questura, ai carabinieri, ma non si poté avere alcuno fino alle 9 ½ della stessa sera, ora in cui due carabinieri catturarono il malandrino e seco lo condussero alla caserma.
Il giorno seguente il questore mi mandò un uomo di polizia chiedendo se io perdonava quell'oltraggiatore. Risposi che io perdonava quella ed altre ingiurie, che però in nome della legge mi raccomandava alle autorità di tutelare meglio le persone e le abitazioni dei cittadini. Chi lo crederebbe? All'ora stessa in cui erasi tentata l'aggressione il mio rivale il giorno appresso mi stava attendendo a poca distanza che uscissi di casa.
Un mio amico osservando che non potevasi avere difesa dalle autorità volle parlare a quel miserabile. Io sono pagato, rispose, e mi si dia quanto altri mi danno, io me ne vado in pace. Gli vennero pagati 80 franchi di fitto scaduto, altri 80 per anticipazione di altro alloggio lontano da Valdocco, e così termino quella prima commedia.
Non così fu la seconda, che sto per raccontare. Circa un mese dopo al fatto sopra narrato una domenica a sera fui richiesto in fretta in casa Sardi vicino al Rifugio per confessare un'ammalata che si diceva all'estremo di vita. A motivo dei fatti precedenti invitai parecchi giovani grandicelli ad accompagnarmi. Non occorre, mi si diceva, noi l'accompagneremo, si lascino questi giovani ai loro trastulli. Questo bastò perché io non andassi da solo. Ne lasciai alcuni nella via a piè della scala; Buzzetti Giuseppe e Giacinto Arnaud si arrestarono al 1° piano sul pianerottolo della scala a poca distanza dall'uscio della camera dell'ammalata.
Entrai, e vidi una donna ansante a guisa di chi sta per mandare l'ultimo respiro. Invitai gli astanti in numero di quattro ad allontanarsi alquanto per parlare di religione. - Prima di confessarmi, ella prese a dire con gran voce, io voglio che quel briccone che mi sta di fronte, si ricreda delle calunnie che mi ha imputate.
- No, rispose un altro.
- Silenzio, aggiunse un altro alzandosi in piedi. Allora si levarono tutti da sedere. Si, no, guarda, ti strozzo, ti scanno erano voci che miste ad orrende imprecazioni facevano un eco diabolico per quella camera. In mezzo a quel diavolio si spengono i lumi; aumentandosi gli schiamazzi, comincia una pioggia di bastonate dirette la dove io era seduto. Indovinai tosto il giuoco, che consisteva nel farmi la festa; e in quel momento non avendo tempo né a pensare né a riflettere presi consiglio dalla necessità, diedi mano ad una sedia, me la misi in capo, e sotto a quel parabastonate camminando verso l'uscita riceveva que' colpi di bastone che con gran rumore cadevano sopra la sedia.
Uscito da quella fucina di Satana mi lanciai tra le braccia de' miei giovani, che a quel rumore e a quegli schiamazzi volevano ad ogni costo entrare in quella casa. Non riportai grave ferita eccetto una bastonata, che colpi il pollice della sinistra appoggiato sullo schienale della sedia e ne riportò via l'unghia colla metà della falange, siccome tuttora serbo la cicatrice. Il maggior male fu lo spavento.
Io non ho mai potuto sapere il vero motivo di tali vessazioni, ma sembra che ogni cosa fosse sempre ordita ad attentarmi la vita per farmi desistere, essi dicevano, dal calunniare i protestanti.
Il cane Grigio fu tema di molti discorsi e di varie supposizioni. Non pochi di voi l'avranno veduto ed anche accarezzato. Ora lasciando a parte le strane storielle che di questo cane si raccontano, io vi verrò esponendo quanto è pura verità. I frequenti insulti di cui era fatto segno mi consigliarono a non camminare da solo nell'andare o nel venire dalla città di Torino. A quel tempo il Manicomio era l'ultimo edifizio verso l'Oratorio, il rimanente era terreno ingombro di bossoli e di acacie.
Una sera oscura alquanto sul tardi veniva a casa soletto non senza un po' di panico; quando mi vedo accanto un grosso cane che a primo aspetto mi spavento; ma non minacciando atti ostili, anzi facendo moine come se io fossi il suo padrone, ci siamo tosto messi in buona relazione, e mi accompagnò sino all'Oratorio. Ciò che avvenne in quella sera, succedette molte altre volte; sicché io posso dire che il grigio mi ha reso importanti servigi.
Ne esporrò alcuni. Sul finire di novembre 1854 una sera nebbiosa e piovosa veniva dalla città e per non fare lunga via da solo discendeva per la via che dalla Consolata mette al Cottolengo. Ad un punto di strada mi accorgo che due uomini camminavano a poca distanza dinanzi a me. Costoro acceleravano o rallentavano il passo ogni volta rallentava o accelerava il mio. Quando poi io tentava portarmi nella parte opposta per evitarne lo scontro, eglino destramente si recavano davanti di me. Tentai rifare la via, ma non fui più a tempo; perciocché facendo improvvisamente due salti indietro, conservando cupo silenzio, mi gettarono un mantello nella faccia.
Mi sforzai per non lasciarmi avviluppare, ma inutilmente, anzi uno tentava di turarmi la bocca, con un moccichino. Voleva gridare, ma non poteva più. In quel momento appare il grigio, e urlando a guisa di orso si lancia colle zampe contro alla faccia di uno, colla bocca spalancata verso l'altro in modo che dovevano avviluppare il cane prima di me.
- Chiami questo cane, si posero a gridare tremanti.
- Si che lo chiamo, ma lasciate in libertà i passeggieri.
- Ma lo chiami tosto, esclamavano. - Il grigio continuava ad urlare come lupo o come orso arrabbiato.
Ripigliarono gli altri la loro via, e il grigio, standomi sempre a fianco mi accompagnò fino a che entrai nell'Opera Cottolengo. Riavuto dallo spavento, e ristorato con una bibita che la carità di quell'Opera sa sempre trovare opportunamente, con buona scorta me ne andai a casa.
Tutte le sere che non era da altri accompagnato, passati gli edifizi, mi vedeva spuntare il grigio da qualche lato della via. Più volte lo videro i giovani dell'Oratorio, ma una volta ci servì di commedia. Lo videro i giovani della casa entrare nel cortile: chi lo voleva battere, chi prenderlo a sassate.
- Non si disprezzi, disse Buzzetti Giuseppe, e il cane di D. Bosco.
Allora ognuno si fece ad accarezzarlo in mille guise e lo accompagnarono da me. Io era in Refettorio a cena con alcuni cherici e preti, e con mia madre. A quella vista inaspettata rimasero tutti sbigottiti: Non temete, io dissi, e il mio grigio, lasciatelo venire. Di fatto compiendo egli un largo giro intorno alla tavola si recò vicino a me tutto festoso. Io pure lo accarezzai e gli offerii minestra, pane e pietanza, ma egli tutto rifiutò, anzi volle nemmeno fiutare queste offerte. - Ma dunque che vuoi? soggiunsi. Egli non fece altro se non isbattere le orecchie e muovere la code. - O mangiar, o bere, o altrimenti stammi allegro, conchiusi. Continuando allora a dar segni di compiacenza, appoggiò il capo sulla mia tovaglia come volesse parlare e darmi la buona sera, quindi, con grande maraviglia ed allegria fu accompagnato dai giovani fuori della porta. Mi ricordo che quella sera venni sul tardi a casa, ed un amico mi aveva portato nella sua carrozza.
L'ultima volta che io vidi il grigio fu nel 1866 nel recarmi da Murialdo a Moncucco presso di Luigi Moglia mio amico. Il paroco di Buttigliera mi volle accompagnare un tratto di via, e ciò fu cagione che fossi sorpreso dalla notte a metà cammino. - O se avessi il mio grigio, dissi tra me, quanto mi sarebbe opportuno! - Ciò detto, montai in un prato per godere l'ultimo sprazzo di luce. In quel momento il grigio mi corre incontro con gran festa, e mi accompagnò pel tratto di via da farsi, che era ancora di tre chilometri. Giunto alla casa dell'amico, dove ero atteso, mi prevennero di passare in sito appartato, affinché il mio grigio non venisse a battaglia con due grossi cani della casa. Si sbranerebbero l'un l'altro, se si misurassero, diceva il Moglia.
Si parlò assai con tutta la famiglia, di poi si andò a cena, e il mio compagno fu lasciato in riposo in un angolo della sala. Terminata la mensa, bisogna dare la cena anche al grigio, disse l'amico, e preso un po' di cibo lo si portò al cane, che si cercò in tutto gli angoli della sala e della casa. Ma il grigio non si trovò più. Tutti rimasero maravigliati, perciocché non si era aperto né uscio né finestra, né i cani della famiglia diedero alcun segno della sua uscita; si rinnovarono le indagini nelle abitazioni superiori, ma niuno più poté rinvenirlo.
È questa l'ultima notizia che io ebbi del cane grigio, che fu tema di tante indagini e discussioni. Né mai mi fu dato poterne conoscere il padrone. Io so solamente che quell'animale fu per me una vera provvidenza in molti pericoli in cui mi sono trovato.