Il rapido esaurimento in pochi mesi del volumetto Start Afresh from Don Bosco (ACSSA Roma, 2006), che conteneva il testo delle meditazioni degli Esercizi Spirituali predicati ai Salesiani dell'ispettoria di New York nell'estate 2004 — e prima ancora, parzialmente, ai direttori delle due ispettorie messicane e a confratelli di quella peruviana — è all'origine di questa edizione in lingua italiana, richiesta per altro anche da molti esercitandi e lettori del testo inglese.
A vincere la residua esitazione ad offrire tale pubblicazione ad un pubblico notevolmente diverso da quello cui era destinato, e in un contesto non più di Esercizi spirituali, è stato il fatto che proprio mentre usciva l'edizione inglese, il Rettor Maggiore inviava a tutti i Salesiani la lettera di convocazione del Capitolo Generale "Da mihi animas, cetera tolle. Identità carismatica e passione apostolica", che riprendeva il titolo della nostra predicazione nel sottotitolo "Ripartire da don Bosco per risvegliare il cuore di ogni salesiano". In essa don Pascual Chàvez indicava come obiettivo fondamentale del Capitolo Generale 26 (2008) il rafforzamento della nostra identità carismatica con il "ritorno" a don Bosco mediante un serio approfondimento della conoscenza della sua persona, della sua pedagogia e della sua esperienza spirituale. Era esattamente l'obiettivo della nostra predicazione in America, volutamente modulata sulla rivisitazione delle vicende storico-biografiche di don Bosco e del suo cuore di fondatore, in funzione di un'attualità lasciata alla libera iniziativa delle singole ispettorie.
Nella presente edizione, destinata ad un pubblico residente in area geografica e socio-culturale a me più familiare, ho però proceduto a leggeri ritocchi degli "originali" inglese (e spagnolo) del
le prime sette meditazioni storico-spirituali (onde presentarle in chiave più di istruzione che di meditazione), ad una maggiori elaborazione delle tre conferenze conclusive più attualizzanti con l'aggiunta di una nuova, e ad una brevissima conclusione. Non ho invece riportato le brevi considerazioni teologico-spirituali di apertura delle singole giornate degli Esercizi, l'omelia finale e l'appendice, edite invece in inglese. Ho comunque cercato di mantenere il tono confidenziale, semplice, "parlato", non da saggio scientifico.
Con poche meditazioni-istruzioni, dettate in una particolare occasione e con specifiche finalità, non si pretende né di dare una risposta esaustiva all'invito del Rettor Maggiore, né tanto meno di presentare a tutto tondo la personalità di don Bosco, che, come è ormai noto omnibus lippis et tonsoribus, è tanto poliedrica da non poter certamente essere "compressa" in un semplice corso di Esercizi Spirituali. La personalità del santo educatore torinese, costituita da realtà normale ed eccezionale, viva e carismatica, caratterizzata da un proprio "stile" quotidiano di vita e di azione, con progetti reali, ideali, ipotetici e virtuali, con particolari rapporti con il mondo del soprannaturale, ha bisogno di ben altro spazio per essere "intesa e compresa" nella sua interezza. Chi volesse farlo, può sempre ricorrere alla ricca bibliografia, scientifica o divulgativa, possibilmente aggiornata, disponibile sul mercato.
"Ripartire da don Bosco" — e non solo "ritornarvi!" — significa riprendere il cammino non di una persona del passato, ma di una persona che irrompe tuttora nella nostra vita, che ha la capacità di dare un senso al nostro "presente" e un "futuro" al nostro "passato". Occorre "riscoprirlo" questo don Bosco, coperto com'è, inevitabilmente, dalla polvere della storia, occorre "ricomprenderlo" nella sua epoca e "reinterpretarlo" alla luce di quella attuale, senza arbitrarie interpretazioni, senza scostanti dissociazioni e senza inutili ossequi formali a formule sintetiche consacrate dal tempo, cui non è quasi mai riconducibile.
Le riflessioni qui offerte intendono porsi in questa prospettiva storico-interpretativa, sorretti anche dal recente invito di papa Benedetto XVI che ha voluto citare espressamente don Bosco tra i "modelli insigni di carità sociale per tutti gli uomini di buona volontà",
"veri portatori di luce all'interno della storia", perché ricchi "di fede, di speranza e di amore" (Deus caritas est, n. 40).1
Roma, 9 gennaio 2007
FRANCESCO MOTTO
Trattandosi di una serie di meditazioni con finalità unicamente spirituali, non ho ritenuto di indicare ogni volta le fonti delle citazioni, onde non appesantire la lettura. Comunque i testi di don Bosco sono per la quasi totalità presi dalle edizioni critiche delle sue opere curate dall'Istituto Storico Salesiano; in particolare il suo epistolario, fino al 1875, edito dal sottoscritto (voll. 1-4, Roma LAS, 1991-2003), le Memorie dell'Oratorio a cura di Antonio Ferreira da Silva (Roma, LAS 1991) e Don Bosco educatore. Scritti e testimonianze, raccolti da Pietro Braido (Roma, LAS 1997') e parzialmente edili sulla rivista "Ricerche Storiche Salesiane".
"Colgo l'occasione per incoraggiarvi ad avere sempre più D. Bosco come riferimento per il rinnovamento spirituale e pastorale
nelle Ispettorie"(don Pascual Chavez)
Carissimi, sono sicuro che immediatamente avete capito come il titolo scelto per le nostre meditazioni di questi giorni richiami direttamente quello dell'Istruzione della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di vita Apostolica del maggio 2002: Ripartire da Cristo. Un rinnovato impegno della vita consacrata nel terzo millennio, titolo che per altro si trovava già in testa al terzo capitolo della lettera apostolica Novo Millennio ineunte del 6 gennaio 2001.
Nella Istruzione (n. 21) si legge: "Sì, bisogna ripartire da Cristo, perché da Lui sono partiti i primi discepoli in Galilea; da Lui, lungo la storia della Chiesa, sono partiti uomini e donne di ogni condizione e cultura che, consacrati dallo Spirito in forza della chiamata, per Lui hanno lasciato famiglia e patria e Lo hanno seguito incondizionatamente, rendendosi disponibili per l'annuncio del Regno e per fare del bene a tutti (cf At 10,38)".
Ma la stessa Istruzione afferma che si tratta di cogliere "una nuova opportunità di confrontarsi con le fonti dei propri carismi e dei propri testi costituzionali, sempre aperti a nuove e più impegnative interpretazioni". È quello che cercheremo di fare, e la prima fonte del nostro carisma è don Bosco stesso. Alla stregua di S. Paolo che dice "Siate miei imitatori come io lo sono di Cristo" (1 Cor 11,1), don Bosco ci ripete : "Siate miei imitatori come io lo sono stato di Cristo".
Dunque oggetto principale delle nostre riflessioni sarà la figura di don Bosco, una figura che cercheremo di incontrare per coglierne non tanto l'azione esteriore, che tutti già conosciamo, quanto le con
dizioni, le motivazioni, lo spirito che lo hanno portato a fare certe scelte, ad operare in un certo modo, a scrivere determinate cose, a raggiungere una certa forma di santità che è la sua, diversa, in qualche modo, da quella di altri santi.
La necessità della fedeltà a don Bosco, che esige il reditus ad fontes e la conoscenza profonda dello stesso santo, senza con questo chiudersi ad una accomodata renovatio, sono state sottolineate da tutti i Rettori Maggiori succeduti a don Bosco, ancor prima del Concilio Vaticano II. Non sarebbe difficile documentarlo. Nel dopo Concilio sono apparsi anche molti documenti ufficiali della Congregazione (si pensi all'art. 21 delle Costituzioni) e non sono mancati interventi autorevolissimi. Cito quello recente del Rettor Maggiore don P. CMvez:
"Don Bosco plasmò i suoi salesiani, raccontando più che dissertando [...] Oggi, come ieri, abbiamo bisogno di realizzare la pastorale vocazionale e di plasmare i salesiani «raccontando», rifacendoci più sovente ed esplicitamente a Don Bosco, alla maniera di Don Barberis, uno dei suoi biografi, che mentre narra le «antichità» dell'Oratorio di Valdocco, ce ne offre le ragioni: esse ci istruiscono nelle cose nostre, nei nostri metodi, nel nostro spirito di famiglia; nello stesso tempo fanno crescere in noi il senso di appartenenza, ci fanno sentire membri della famiglia, ci rendono protagonisti [...]. Lo stare con Don Bosco non esclude «a priori» l'attenzione ai suoi tempi, che lo modellarono o condizionarono, però richiede di vivere con il suo impegno le sue scelte, la sua dedizione, il suo spirito di intraprendenza e di avanguardia [...] Tutto ciò fa di Don Bosco un uomo affascinante e nel nostro caso un padre da amare, un modello da imitare, ma anche un santo da invocare. Ci rendiamo conto che più aumenta la distanza dal Fondatore, più reale è il rischio di parlare di Don Bosco in base a «luoghi comuni», ad aneddoti, senza una vera conoscenza del nostro carisma. Da qui l'urgenza di conoscerlo attraverso la lettura e lo studio; di amarlo affettivamente ed effettivamente come padre e maestro per la sua eredità spirituale; d'imitarlo cercando di configurarci a lui, facendo della Regola di vita il nostro progetto personale. Questo è il senso del ritorno a Don Bosco, a cui ho invitato me e tutta la Congregazione sin dalla mia prima «buona notte», attraverso lo studio e l'amore che cercano di comprendere, per illuminare la nostra vita e le sfide attuali. Insieme al vangelo, Don Bosco è il nostro criterio di discernimento e la nostra meta di identificazione" (ACG n. 383, ott-dic 2003, pp. 14-17).
Il pensiero del Rettor Maggiore, che recentemente ha chiesto che vengano tradotti nelle principali lingue alcuni testi editi dall'Istituto Storico Salesiano, non è troppo lontano dalle considerazioni di un superiore di altra epoca, don Francesco Bodrato (primo ispettore in Argentina, 1823-1880), il quale il 5 marzo 1877 scriveva in una lettera ai suoi novizi:
"Ma chi è don Bosco? Che ve lo dico proprio io davvero, come l'ho appreso e sentito dire da altri. Don Bosco è il nostro amatissimo e tenerissimo padre. Questo lo diciamo tutti noi che siamo suoi figli. Don Bosco è uomo Provvidenziale o l'uomo della provvidenza dei tempi. Questo lo dicono i veri dotti. Don Bosco è l'uomo della filantropia. Questo lo dicono i filosofi. Ed io dico, dopo aver ammesso s'intende tutto ciò che dicono i suddetti, che D. Bosco è veramente quell'amico che la Santa Scrittura qualifica un gran tesoro. Ebbene noi l'abbiamo trovato questo vero amico e questo grande tesoro. Maria SS. ci ha dato il lume per poterlo conoscere e il Signore ci permette di possederlo. Dunque guai a chi lo perde. Se sapeste miei cari fratelli quante persone vi sono che invidiano la nostra sorte [...] E se conveniste con me a credere Don Bosco il vero amico della Sacra Scrittura allora dovete guardare di possederlo sempre e curare di copiarlo in voi stessi" (F. BODRATO, Epistolario, a cura di B. Casali. Roma, LAS 1995, p. 132).
Più chiaro di così? Ora se le Costituzioni indicano all'art. 9 i tre obiettivi degli Esercizi Spirituali (ascolto della parola di Dio; discernimento della sua volontà; purificazione del nostro cuore) noi li raggiungeremo soprattutto attraverso la nostra "speciale" guida, che risponde al nome di "don Bosco".
Le sue "vecchie carte" che talvolta leggeremo assieme possono, anzi, devono sorreggere ed ispirare la nostra riflessione. Parlo di "carte di don Bosco" perché vorrei soprattutto mettervi in contatto diretto con lui, padre e maestro della nostra vocazione cristiana, salesiana, sacerdotale. Perciò di proposito non farò ricorso né al ricco magistero dei Rettori Maggiori, né a quello dei Capitoli Generali ultimi, né a quello delle Costituzioni, e neppure ad altri testi di spiritualità salesiana. Ci concentreremo proprio direttamente su don Bosco. Proprio perché credo che abbiamo bisogno di procedere ad una conoscenza realistica del personaggio storico, più che di ricorrere alle interpretazioni altrui, a quelle che spesso proiettano su di lui i
sogni e i progetti degli interpreti, magari anche autorevoli. Dobbiamo necessariamente prendere atto che, pur senza dimenticare e deprezzare il tesoro agiografico che una sana tradizione ci ha lasciato, la ricerca erudita ha fatto (e deve fare) dei passi in avanti, senza con ciò sentirsi in colpa, senza sgomentare nessuno, senza essere accusata di profanare un qualche sancta sanctorum. Ecco perché cercherò di non dare spazio a descrizioni oleografiche e apologetiche, nelle quali l'amore verso don Bosco e l'esaltazione prendano il sopravvento a danno della verità della persona. È mia intenzione rinunciare alla facile retorica per attenermi ad una figura apparentemente più dimessa, ma estremamente realista, quella che ci appare dalle fonti a nostra disposizione, filologicamente vagliate.
Come studioso di storia cercherò di ubicarmi sul versante storico, per aiutare a interpretare correttamente i dati del passato perché, una volta compresi nel loro significato, possano motivare, fondare ed illuminare i vostri orientamenti per il futuro. Questo non sta nel passato, magari glorioso, che la storia salesiana ci presenta; non sta nel rimpianto del tempo antico (quello della disciplina e della osservanza regolare), ma in quella fedeltà carismatica che esige, nei nostri progetti pastorali, di guardare con realismo e lucidità i cambiamenti culturali, sociali ed ecclesiali in corso, di assumere in positivo alcuni valori della cultura attuale (libertà, democrazia, autonomia, tolleranza, solidarietà...) e di opporsi con lucidità ai controvalori (individualismo, relativismo etico, assolutizzazione del mercato, secolarizzazione selvaggia, edonismo...).
Rimane poi vero che se alla fine delle conversazioni avrete meglio capito chi è stato don Bosco al suo tempo, quali siano stati i valori permanenti del suo spirito e del suo carisma, avrete la possibilità di imitarlo, anche se necessariamente a vostro modo, per la gioventù con cui siete a contatto. Se posso esprimere un desiderio, sarebbe quello che alla fine della settimana ciascuno di voi potesse dire: "Ho capito meglio chi era e che cosa voleva don Bosco; ora assieme ai miei fratelli mi impegno a realizzare il salesiano che sono (Operaci sequitur esse, diceva la filosofia classica che abbiamo tutti studiato), ossia ad attualizzare l'utopia di don Bosco: quello di un mondo migliore in cui i giovani si trovino «a casa loro»".
Tutto quello che verrò dicendo è, ovviamente, una mia lettura
delle fonti, di quelle che utilizzerò, non certo di tutte: non sarebbe possibile. Anche le conferenze finali — in chiave di attualità, in qualche modo provocanti — sono delle suggestioni molto personali, con le quali vi invito a confrontarvi.
Io comunque vi darò semplicemente dei pezzi di un giocattolo, ma il giocattolo intero lo dovrete montare voi; io vi darò le tessere di un mosaico, ma a ciascuno di voi toccherà di costruire la composizione artistica. Il che evidentemente mi solleva un po' dalle mie responsabilità e ne aggiunge un po' sulle vostre spalle. Non dobbiamo dimenticare che le Costituzioni redatte da don Bosco ed approvate dalla Santa Sede nel 1874, se erano "povere" in confronto con quelle da noi rinnovate cento anni dopo, teologicamente ben più ricche e fondate, hanno però fatto "grande" la Congregazione e prodotto una scuola di santità, grazie a coraggiosi piani istituzionali e alla disponibilità a realizzarli da parte di persone entusiaste ed appassionate.
Cercherò comunque di fare in modo di liberarmi dalla tentazione di dire tutto: se lo dico io, che ci sta a fare il Signore? Il predicatore deve avviare il dialogo... ma Dio lo continua. Il predicatore suggerisce alcuni temi di riflessione, ma il suo ruolo deve sempre restare in secondo piano e deve essere svolto con discreta presenza.
Quali sono i nostri stati d'animo in questo momento? Forse il nostro cuore è arido; forse il nostro spirito è preoccupato; forse è psicologicamente e spiritualmente vuoto. Forse non ci sentiamo troppo disponibili, forse siamo convinti che il predicatore ci stancherà, forse... Dobbiamo allora ricordarci che Dio è più forte di noi; è abituato a quelli di dura cervice. È capace di far nascere figli di Abramo dalle pietre.
Ebbene leggiamo nel Vangelo di Lc 5,15-16: "La sua fama si diffondeva ancor più; folle numerose venivano per ascoltarlo e per farsi guarire dalle loro infermità. Ma Gesù si ritirava in luoghi solitari a pregare". E analogamente in Mc (1,35-36): "Al mattino si alzò quando ancora era buio e uscito di casa si ritirò in un luogo deserto e là pregava. Ma Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue
tracce, lo trovarono e gli dissero: Tutti ti cercano". "Ma Gesù — osserverà altra volta Gv 6,15 — sapendo che stavano per venire a farlo
re, si ritirò di nuovo sulla montagna tutto solo". Gesù non perde tempo, lo occupa diversamente. Proprio quando la folla si accalca, quando i miracoli per noi sarebbero non solo utili ma necessari, si fa trovare altrove. Segno che il ritirarsi a pregare talora è più proficuo di vari altri "segni" pur importanti.
C'è un momento nell'anno per fermarsi e crescere. Ce lo ha ricordato il card. C. Maria Martini di Milano che sulla quarta pagina di copertina del volumetto Ritrovare se stessi, invitava a "liberarsi dalla schiavitù del quotidiano, dalle cose che ci opprimono ogni giorno".
Scrivendo don Luigi Lasagna a don Bosco il 3 settembre 1877 gli ricordava "l'epoca deliziosa [degli esercizi] quando [i salesiani] sollevati dalle annuali fatiche si raccoglievano affettuosamente giulivi intorno a lei sugli alpestri clivi di Lanzo, per ritemprare nei suoi santi consigli e nel suo amore il loro zelo e tra quelle fresche e purissime aure ridar lena e vigore alla forze perdute".
Esercizi Spirituali: tempo in ascolto, meditazione, contemplazione, preghiera, revisione di vita, propositi mirati e concreti di liberarsi dagli affetti disordinati, di cercare e trovare la volontà di Dio. Esercizi spirituali: tempo non per incontrare le cose di Dio, ma per incontrare il Dio delle cose che ci viene incontro. Ricordiamoci la saggezza e la verità del famoso proverbio: "Dio viene a farci visita, ma la maggior parte delle volte non ci trova in casa".
Non scoraggiamoci se ci sentiamo preda delle distrazioni. L'insidia dell'accidia e della dissipazione mondana è stata avvertita già dai padri del deserto; Soren Kierkegaard due secoli fa lamentava che gli studenti di teologia del suo tempo non sapevano stare un quarto d'ora nella propria stanza. È però vero che noi Salesiani, in genere, siamo distratti, immersi nel terribile ingranaggio della vita quotidiana, per cui non troviamo mai il tempo di una sosta di contemplazione più prolungata, e di intrattenerci con calma con Gesù per vederLo, ascoltarLo e parlarGli in profonda intimità.
I nostri Esercizi Spirituali siano un incontrarLo con gli occhi di don Bosco con lo stesso entusiasmo che avevamo il giorno meravi
glioso della prima professione, il giorno stupendo dell'ordinazione sacerdotale. Siano essi un'occasione d'oro da non perdere, un vero Kairòs. Approfittiamone magari per rivedere a fondo il nostro Progetto Personale di vita all'interno di quello educativo-pastorale della nostra comunità (PEPS) e di quello organico della nostra ispetto
ria (POI).
Già da questo momento intensifichiamo la preghiera. Ci aiuti la Vergine Maria. Lo Spirito Santo sia il vero protagonista che ispira la nostra mente ed apre il nostro cuore al dialogo con il Padre e con il
Figlio.
"Due cose sole contano: Cristo e la storia" (padre Giulio Bevílacqua, "maestro" di Paolo VI)
Al convegno ecclesiale di Palermo di una decina di armi fa (1995), era è stato chiesto alla chiesa italiana di "stare dentro la storia" con amore al proprio tempo, alla nazione, alla civiltà a cui apparteneva, di apprezzare quella "storia della libertà" che in essa andava avanti, pur tra mille contraddizioni e le si era domandato di farlo non indebolendo l'identità, ma al contrario a partire da essa e in forza di essa, in forza cioè della missione di salvezza che Dio in Cristo e nello Spirito sviluppa nel tempo attraverso la Chiesa.
Il discorso vale anche per la congregazione salesiana. È importante sottolineare il rischio che si corre oggi di tagliare in qualche modo il cordone ombelicale che ci tiene uniti al fondatore, di spezzare il legame vivo con lui, di perdere la nostra identità e, con essa, il nostro diritto di cittadinanza "nella storia". Tanto più che in quell'ermeneutica delle fonti salesiane e nello stesso tempo dei "segni del tempo" che sono le Costituzioni rinnovate, troviamo una bella sorpresa: il nome di don Bosco compare direttamente una quarantina di volte. Ed anche dove non è indicato il nome, il riferimento al suo pensiero, alla sua prassi, ai suoi scritti è costante. E pensare che nel secolo XIX la santa sede obbligava a non fare menzione nelle Costituzioni del nome e degli scritti del fondatore!
In questa prima conferenza ci poniamo nell'ottica della "storia della vita religiosa", della "storia della Chiesa", dove, come Salesiani, abbiamo una nostra precisa e riconosciuta collocazione.
Siamo all'alba di una nuova epoca storica. Fenomeni vistosissimi, che tutti ben conosciamo, sembrano far risultare culturalmente anacronistico il modello tradizionale di Vita cristiana e di Vita consacrata, nonché la loro spiegazione teologica. Siamo a un crocevia decisivo, per cui simboli del passato sono messi in questione: abito, pratiche di pietà, iconografia, spiegazioni, motivazioni, attività, obiettivi, metodi...
L'alba del Vaticano II non è ancora diventato giorno aperto per la stessa Chiesa universale. Essa è in crisi nel suo rapporto col mondo, è affaticata, perché è uscita da un certo regime di cristianità e deve instaurare un nuovo, inedito rapporto col mondo. A fronte di un "nuovo rinascimento", di un'era di "postcristianità", di un "quarto uomo" (dopo quello greco-latino, medioevo, moderno), si è alla ricerca di una nuova visione teologica, dal momento che la Chiesa, la quale per tanti secoli ha goduto di egemonia ("non possiamo non dirci cristiani" affermava Benedetto Croce), ora passa in mano ad altri molti degli strumenti di questa "socializzazione" cristiana, che sono stati spesso le opere, le scuole, gli ospedali, la stampa... La Chiesa per secoli si è identificata con l'impegno di cristianizzare le strutture; oggi invece la cultura pluralista, multireligiosa, multietnica, personalista non facilita quei modelli di educazione che comportava l'azione su una massa omogenea. La Chiesa trova oggi difficoltà a definirsi in relazione agli esterni, ai lontani, alle nuove istituzioni politiche, economiche, culturali, di comunicazione di massa, tutte o quasi scristianizzate; inoltre è alla ricerca non facile di come adeguatamente rispondere ai nuovi bisogni specificatamente religiosi dell'uomo d'oggi, bisogni difficili da definire, ma diffusi (sette, astrologia, new age...). Ma su questo punto non mi rimane che rimandare all'immensa bibliografia relativa alla Chiesa in quanto tale e alle chiese particolari.
Rifondare il fenomeno "minoritario" della Vita consacrata le idee sono più importanti dei numeri
Anche la Vita consacrata sta oggi attraversando un momento critico in tanti sensi, compreso quello della messa in discussione dei
suoi fondamenti classici, come ad esempio i voti e la vita comunitaria. C'è chi parla da tempo expressis verbis di vera e propria "rifondazione" di essa.
All'interno della Chiesa (o forse, meglio, di qualche Chiesa particolare) è in atto una progressiva emarginazione dei religiosi: essi
sembrano contare meno di quello che i numeri potrebbero suggeri
re. I piani pastorali, i sinodi diocesani, le macrostrutture ordinarie della Chiesa al massimo concedono alla Vita consacrata il richiamo
ai valori ultraterreni. I servizi dei Religiosi non sono sempre inte
grati, li si ringrazia e niente più. Anche i laici impegnati, i volontari, sembrano talora diffidare delle istituzioni religiose; movimenti e
associazioni inglobano anziché lasciarsi influenzare dai religiosi; senza contare poi che nella Chiesa nascono nuove prospettive, si riscoprono nuovi presupposti dottrinali, nuovi metodi, nuovi linguaggi, nuovi operatori...
Ma forse ci si dovrebbe anche chiedere se i religiosi si sentono ancora a loro agio nella dimensione carismatica e profetica eredita
ta, se sanno "fare altro" e "in diverso modo", magari meno gratifi
cante, se per caso essi non sono sempre rimasti gli stessi, senza neanche rendersi conto — il che è peggio — dei cambiamenti sopravvenu
ti. Essi, nel loro insieme, sentono la necessità di giustificare conti
nuamente la ragione della propria consacrazione in continui convegni, congressi, riunioni per categorie con libri, riviste... Come pos
sono infatti "consacrarsi" definitivamente ad un servizio o ad un'opera che è sempre contingente? Legittimamente si chiedono se venendo meno l'utilità di un servizio, il carisma sia ancora attivo; legittimamente si chiedono se il carisma colpevolmente non corrisposto può vanificarsi nel tempo.
E un fatto che il modello di Vita consacrata ereditato dal passato sembra giunto ad esaurimento, e se spesso non dice molto o nulla a
"chi sta fuori", molte volte non riesce neppure ad esprimere il si
gnificato per la Chiesa d'oggi, "per chi sta dentro", visto che là dove la gente dai religiosi prende volentieri prestazioni e servizi (spes
so migliori che altrove) da loro poi non trova le ragioni per vivere e le va a cercare altrove. Si tratta di riscoprire il proprio significativo ruolo per la causa del Vangelo e della salvezza dell'uomo di oggi. Comunque non va dimenticato che la Vita consacrata fu e rima
ne sempre un fenomeno minoritario: lo 0,12 % dei battezzati, 3 su 4 sono donne; 1423 sono gli Istituti femminili, contro i 250 maschili. Fra i religiosi 82,2% sono laici (donne 72,5 uomini 27,5) e 17,8% chierici; e tutto questo su un totale di circa un miliardo di cattolici nel mondo. Ciononostante la Vita consacrata occupa ancora grandissimi spazi religiosi e anche sociali. Il numero evidentemente non è tutto. Dunque si può sostenere che in essa c'è qualcosa di grande, un filo conduttore: è Dio che realizza il progetto del suo Regno e della Signoria del suo Figlio in modo originale e spesso insperato.
Può essere istruttivo dare uno sguardo alla storia della Vita consacrata, vale a dire alla "gloriosa storia da ricordare", in vista anche della "grande storia da costruire" (Vita Consecrata n. 20). Alcuni studi recenti l'hanno così suddivisa:
Sec. TV-VI Era dei padri della chiesa: fuga mundi
L'epifania ufficiale della Vita consacrata si ha nel deserto, dove i monaci scoprono e testimoniano l'assolutezza di Dio e di Cristo suo Figlio, e unico modello per il cristiano; nel deserto si prosegue il combattimento di Cristo contro lo spirito del male, il mysterium iniquitatis. La Chiesa si arricchisce con il contrastare alle radici la potenza del male e del maligno. È nei singoli monaci del deserto che si combatte e si vince con Cristo; è nei singoli eremiti che si innalza il livello della salvezza del mondo. La novità cristiana non si esaurisce dunque nel visibile, nel verificabile. Il più, il più importante, è invisibile, è vita nascosta con Cristo in Dio, è mysterium fidei.
Sec. VI-XII Era del monachesimo:
monastero nuovo ideale — separati (non troppo) dal mondo
In una situazione di drammatica involuzione umana e civile S. Benedetto diffonde la forza umanizzante del Vangelo e getta le fondamenta della civiltà medioevale e dell'Europa, di cui giustamente è stato dichiarato patrono. Invita le popolazioni vaganti del suo tem
po a costruire qualche cosa fermandosi (stabilitas); sollecita i giovani a deporre la toga e le armi per mettersi a dissodare la terra, per rendersi utili a sé e agli altri (labora); invita tutti a riunirsi attorno all'altare per diventare fratelli nella preghiera (ora); e così ha modificato il corso della storia.
Sec. XI-XII Fondazione degli ordini cavallereschi
Nella difficile situazione in cui versano i luoghi santi nei secoli XI-XII sorgono particolari istituzioni religioso-militari (Ordine Ospitaliero di San Giovanni di Gerusalemme, Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme, I Cavalieri Templari, I Cavalieri Teutonici), riconosciuti dai pontefici come veri e propri ordini religiosi, con tanto di voti e regole, che si impegnano soprattutto nella difesa dei luoghi santi, nell'ospitalità e nella difesa dei pellegrini in Medio Oriente. Terminata la loro missione istituzionale, rientrano nei loro priorati europei, assumendosi però attività di carità ed impegno di propagazione della fede, diventando nei secoli oggetto di ripetuti e anche prestigiosi riconoscimenti da parte di pontefici e sovrani.
Sec. XIII-XV Era dei mendicanti:
in città a chiedere pane, a pregare, a servire i poveri, a studiare
Ad un nuovo mondo borghese intento a moltiplicare le ricchezze, S. Francesco (e i Mendicanti) ricorda che tutto in definitiva è dono di Dio, che la vera ricchezza dell'uomo è Dio. E alla Chiesa uscita forte e potente dalla riforma gregoriana egli dice che non bastano il prestigio e la ricchezza umana, ma che occorre l'umiltà evangelica. Per questo costruisce fraternità come essenza della Chiesa. E così è successo che attorno ai valori "deboli" per il mondo (i voti) si è operato il rinnovamento della Chiesa e della società dell'epoca.
Non è fuori di luogo ricordare qui che nel 1215 il Concilio Lateranense IV proibì nuove fondazioni religiose con nuove regole. Quale il motivo? Disagio dei conservatori di fronte al loro moltiplicarsi? Gelosia del clero secolare contro i monaci che facevano concorrenza alle parrocchie? Quel decreto significava una sola cosa: da allora in poi il carisma di fondatore non sarebbe stato dato a nessuno, e, se lo
fosse stato, a nessuno sarebbe stato permesso di attuarlo. Che pensare? Oggi verrebbe da ridere e credo che anche lo Spirito Santo dovette sorridere in cielo. E difatti dopo quel decreto incominciarono a piovere e prosperare i carismi profetici: Francescani, ma anche Domenicani, Carmelitani, Servi di Maria, Agostiniani...
Sec. XVI Era degli ordini apostolici: frati istruiti, zelanti, missionari, coinvolti nella società e con alti ideali di santità
È l'epoca dell'esaltazione della "dignitas" e della "virtus" dell'uomo rinascimentale e della dura reazione luterana, che invece sottolinea le sole forze della fede. Per S. Ignazio — uno per tutti non si dà che un uomo, sorretto dalla grazia, coprotagonista di quella missione divina, che è appunto l'opera divina-umana della salvezza del mondo, la più esaltante delle imprese. Con S. Ignazio la Vita consacrata tocca profondamente la storia, vi si immerge totalmente, onde ri-orientarla verso Dio, perché tutto possa risplendere "alla sua maggior gloria". Con lui, con la sua Ratio studiorum si è fatto un ulteriore salto nella storia della Chiesa e, ancora una volta, nella storia della cultura e della civiltà.
Il tempo di S. Ignazio è anche quello del Concilio di Trento, in cui tutto era pronto ma mancava l'uomo adatto. Eccolo: un libertino in gioventù, che però da tempo aveva messo giudizio, Paolo II Farnese, il papa della Riforma cattolica. Occorreva poi completare un Concilio: ed ecco un ragazzo di 23 armi, Carlo Borromeo, diacono, cardinale per meriti di famiglia, nipote di un papa. Prende il Concilio per il collo e lo fa andare a buon fine. E così l'Europa non è crollata sotto la spallata terribile del luteranesimo.
Sec. XIX-XX Era delle congregazioni insegnanti, ospedaliere (ministeri particolari)
Alla sofferenza presente nella società cristiana, preoccupata spesso più di aspetti politici e di equilibri giurisdizionali che non della enorme miseria delle masse abbandonate, alla rivoluzione francese che aveva distrutto la Vita consacrata, rispondono le centinaia di nuove congregazioni moderne con gli ospedali, le scuole, l'istru
zione del popolo, l'assistenza agli anziani, la formazione del clero, l'attenzione agli ultimi. Era la profezia dell'indissolubile unità dell'amor di Dio e dell'amor del prossimo e costituì uno stimolo agli organi dirigenti degli Stati affinché mettessero all'ordine del giorno questi bisogni. La società non sarà più quella di prima, se i poveri sono considerati una delle dimensioni essenziali di ogni politica degna di questo nome.
Per restare in ambito salesiano, contro i ministri anticlericali del regno di Sardegna prima e del regno d'Italia dopo, contro tutte le leggi di soppressione delle congregazioni ed istituti religiosi, contro le norme di incameramento dei beni ecclesiastici nasce la congregazione salesiana, che fa da modello a tante altre e si sviluppa, dal nulla, in maniera impressionante. Dirà con cognizione di causa un cardinale sudamericano: "Se l'America Latina è cattolica, in buona parte è merito dei Salesiani".
Senza dire che nella Torino e nel Piemonte in via di forte scristianizzazione operarono una cinquantina di santi, spesso fondatori, già arrivati, o in via di arrivare sugli altari.
Dunque è Dio che tiene le fila della Vita consacrata, anche se questa è appesantita dai tradimenti dei carismi ricevuti dai fondatori, dalla controtestimonianza dei membri dovuta a cecità, ignoranza, debolezza, inutile difesa di uno statu quo, magari in buona fede, in nome della fedeltà al passato. Rimane un fatto che non basta avere dei meriti alle spalle: la giustificazione del nostro essere e del nostro operare o c'è oggi qui o non c'è affatto. Dobbiamo saper rispondere coi fatti all'accusa come quella che dice: "Prima ci fu Cristo, poi, purtroppo, venne la Chiesa", che applicata a noi suonerebbe: "prima ci fu don Bosco, poi, purtroppo, i salesiani".
È dunque necessario rendersi conto delle modalità di tali "passaggi" storici della Vita consacrata da una forma all'altra. Sono state individuate le seguenti fasi:
• di emergenza: i cambiamenti consistenti nella società e nella Chiesa provocano nuovi movimenti e la fondazione di nuove comunità religiose; alcuni aspetti di tali nuove comunità diventano
eminenti e si fondono in nuova immagine di Vita consacrata, diversa dalle precedenti, accolta da alcuni, e ritenuta non "vera" da altri;
• di crescita e successo: le nuove comunità si espandono e le antiche si modellano sulle nuove, ottenendo pure loro successo. L'immagine positiva attira molte persone, diventa matura e poi dominante, e così continua;
• di declino: l'immagine dominante viene esposta a profondi interrogativi, quella Vita consacrata non sembra più adatta alle aspirazioni dell'epoca; le comunità perdono la loro ragion d'essere, cadono nel lassismo, si disintegrano. Alcune comunità spariscono, altre si riducono a pochi soggetti;
• di tornante: segue un periodo relativamente breve di rivitali7zazione, in cui sorgono nuovi movimenti e nuove comunità, capaci di rispondere a nuove necessità della Chiesa e del mondo. Emergono variazioni dell'immagine dominante la Vita consacrata e una di esse viene selezionata per diventare quella dominante;
• di crescita e successo della nuova immagine: una volta emersa, questa cresce e influenza tutte le altre.
Il ciclo poi si ripete fino al tornante successivo. Oggi si dovrebbe dedurre che siamo alla fine di un'era, che siamo su un tornante della storia (uno dei pochissimi in 2000 anni) e che nel futuro emergerà una diversa Vita consacrata.
"Che sarà della Vita consacrata e della Chiesa stessa nella società occidentale secolarizzata e post Moderna?" si sono chiesti nel convegno in Italia del 2003 dal titolo "La Vita consacrata a 40 anni dal Concilio Vaticano II". La risposta è stata: "Solo il Signore lo sa", cui però non è seguito l'invito alla rassegnazione passiva, ma alla fiducia nel Signore e all'impegno operoso e intelligente da parte dei religiosi. In tale ricerca la Vita consacrata è "in buona compagnia" dal momento che nel rapido e inarrestabile mutamento culturale di oggi tutte le società e le istituzioni sociali, politiche, partitiche, ecclesiali (e dunque anche la Vita consacrata) riscoprono la crisi della propria figura tradizionale; tutte, se vogliono un avvenire, hanno la necessità di ricreare uno spazio di significato dentro la cultura attuale.
Nell'ambito della Vita consacrata si possono intanto intravedere delle linee di tendenza; quella di:
• un sempre maggior incarnazionismo: lo Spirito che trascende il mondo va incarnato in una vita che abbraccia il mondo. Ciò che i religiosi sono, sarà indicato da ciò che fanno, non esclusa la testimonianza della propria consacrazione religiosa non suppor-tata da impegnative opere sul piano apostolico. Sveleranno il mistero dell'incarnazione più del passato. Ciò rimarrà vero anche se le molte opere apostoliche "classiche" saranno sempre più assicurate dallo Stato;
• un superamento del dualismo della cultura millenaria: corpo e anima, lavoro manuale e intellettuale, mondo attuale e quello futuro, sacro e profano, vita laicale e Vita consacrata (che non è più unica "via della perfezione"). Il laicato è chiamato per vocazione battesimale alla santità e molte competenze che prima erano ritenute esclusive degli Istituti Religiosi, oggi la Chiesa le affida ai laici, come s'è detto, con la conseguenza che molti religiosi rischiano di sentirsi "spiazzati";
• una più forte inculturazione: il carisma deve essere riletto a partire dalle circostanze particolari, che se richiedono unità di alcuni principi, forse legittimano un pluralismo nella forma di viverlo; è totalmente utopico pensare ad un rinnovamento di tutta una congregazione religiosa, ma non allo stesso modo? forse si può camminare a diverse velocità; forse si può vivere il carisma in modi diversi all'interno della stessa congregazione, perché ognuno ha diritto di servire il Signore "secondo le proprie possibilità". I progetti personali, quelli ispettoriali possono non essere tutti uguali;
• una testimonianza della povertà e un'inserzione fra í poveri: non c'è un unico modo di vivere la povertà e di essere solleciti verso i poveri, ma c'è un modo privilegiato di farlo, quello del non essere poveri per forza, ma per amore, per libera scelta, in contro-tendenza con il mondo.
Nella storia della Chiesa uno dei segni interpretativi più qualificati della via della salvezza tracciata da Cristo, dopo gli apostoli e i
martiri, sono i fondatori. Questi hanno avuto una tale percezione del mistero di Cristo, da diventare una via sicura per gli altri. Don Bosco pertanto ci ha offerto una lettura del Vangelo garantita negli obiettivi, nello stile, nello spirito. Noi, Salesiani di don Bosco, siamo un carisma dello Spirito nella Chiesa a servizio del mondo. Lo crediamo per fede. Basta leggere i primi tre art. e il 12° delle Costituzioni.
Don Bosco non si sentiva né l'unico, né il fiduciario massimo di Cristo. Fra l'altro sappiamo tutti che gli elementi più importanti, quelli ontologici, della Vita consacrata, sono uguali per tutti i cristiani ed i religiosi: battesimo, vita nuova in Cristo, sequela Christi. Ma diversa è la cristallizzazione originale degli stessi elementi. Per tutti i cristiani la sequela è per così dire sullo sfondo di una vita dedicata al lavoro, alle professioni, alla famiglia; per noi è in primo piano, è la norma unica ed ultima. Leggiamo la Perfectae Caritatis: "essendo norma fondamentale della vita consacrata il seguire Cristo come viene insegnato dal Vangelo, questa norma deve essere considerata da tutti gli istituti religiosi come loro regola suprema". Cui fa eco l'art. 196 delle nostre Costituzioni.
È stato detto che la vita di S. Francesco d'Assisi è una regola per leggere la Scrittura. Lo possiamo dire senza paura anche per don Bosco: la vita di don Bosco è una regola per leggere la Scrittura ed attualizzare in modo tipico la sequela di Cristo. Tanto più che don Bosco è un santo che ha avuto decine di imitatori. Lui stesso è stato definito "Il San Vincenzo de Paoli del sec. XDC, il "nuovo san Filippo Neri" e sono decine le città italiane e straniere che hanno attribuito il nome di "don Bosco" ad un loro concittadino che si è ispirato nella sua azione apostolica al santo di Valdocco.
Le Costituzioni rinnovate hanno avuto paura di usare il termine "mistero": hanno preferito il termine "progetto", ma la realtà di fe
de c'è tutta. Mistero: un qualche cosa che riguarda Dio ed è sostenuto da Dio. E questo va detto di fronte a tante svolte antropologiche con le loro ambiguità, di fronte magari a certi atteggiamenti dannosamente pessimistici in alcuni paesi o altrettanto dannosamente ottimistici in altri.
Certamente all'origine ci fu un progetto di don Bosco: "Queste regole sono state praticate fin dal 1844", scrisse. E quel progetto ha
avuto da lui una risposta totale: "Ho promesso a Dio che fin l'ultimo respiro della mia vita sarebbe stato per i miei poveri giovani". Totalità della sua offerta: in estensione e profondità. Per altro sappiamo che il progetto umano si elabora, in chi crede, come espressione del progetto di salvezza di Cristo, nello sforzo di tradurre la voldiità del Signore, manifestata nel Vangelo, secondo i tre classici elementi: il fondatore, le circostanze, la legislazione ecclesiastica.
* * *
È una grande responsabilità. Facciamo attenzione: si può resistere allo Spirito (At 7,51), si può contristare lo Spirito (Ef 4,30), si può estinguere lo Spirito (1 Tess 5,19). I segni dei tempi sono carichi di ambiguità, che solo la docilità allo Spirito Santo può far superare: "veritas liberavit vos" (Gv 8,32).
Ad apertura di secolo XXI paradossalmente siamo ancora agli inizi: dobbiamo quasi creare ex novo. Chissà che non si debba fare nuovamente una bella copia delle Costituzioni di cui parlava don Bosco a don Giulio Barberis nel 1865! La nostra missione passata si è azzerata, per il semplice fatto che i tempi sono cambiati. Si comincia di nuovo con la consapevolezza dell'inizio, ma sempre nel contesto di fede, speranza, carità e dei valori intramontabili del Sistema Preventivo.
I vari chierici del tempo di don Bosco vedevano che le cose non andavano perfettamente, neppure volevano la Vita consacrata; ma erano incantati, entusiasti di don Bosco e della coraggiosa sua attività a servizio dei giovani. Facciamoci caso: don Bosco manda alcuni fra i migliori in America e proprio mentre non sa ancora se la congregazione riuscirà a sopravvivere in Italia.
112 febbraio 1876 diceva ai Direttori: "Non c'è stato nella congregazione mutamento che non sia stato preceduto da ordine del Signore". Evidentemente gli ordini del Signore si manifestano attraverso varie mediazioni da interpretare. Si capisce allora che per il nostro "ripartire da don Bosco" saranno necessari gli storici, ma ci vorrà lo sforzo congiunto di teologi, pedagogisti, pastoralisti, organizzatori e soprattutto "uomini spirituali" sensibili alle cose di Dio e alle cose degli uomini che Dio ama.
Uomo essenzialmente di azione,
don Bosco "viveva come se vedesse l'invisibile" (art. 21, Eb 11,27)
"I santi non fanno la storia" ebbe a scrivere poco prima di morire sul finire del secolo scorso il romanziere Alberto Moravia. Non sembra proprio, visto che don Bosco, ad esempio, un'autentica icona della santità subalpina, ha segnato di sé il suo secolo, è stato e continua ad essere oggetto di libri, studi, saggi, film, fiction, musical e di lui si interessano uomini e donne, esponenti dell'alto clero e semplici sacerdoti, laici di tutte le professioni (scrittori, professori, politici, giornalisti...), estimatori e denigratori.
Evidentemente devo dare per scontata la vostra conoscenza della vita di don Bosco; ma come introduzione a questa seconda meditazione ripercorriamo assieme in rapida carrellata la sua vicenda biografica:
• ragazzo di campagna, giovane studente, seminarista,
• prete, prete educatore di ragazzi soprattutto abbandonati, prete del popolo,
• predicatore rurale ed urbano, scrittore religioso e catechistico, apologeta, controversista e narratore educativo per la gioventù e per il popolo,
• editore, promotore di tipografie, editrici e librerie,
• fondatore di giornali e periodici: attività che poi si estese per i giovani studenti a collane letterarie per la scuola ed a letture amene e teatrali,
• fondatore di opere assistenziali ed educative: oratori, ospizi, collegi, scuole (domenicali, serali, diurne, per artigiani), piccoli seminari, chiese per i giovani e per il popolo,
• organizzatore di iniziative per gli emigranti e per le missioni estere, di compagnie e associazioni giovanili religiose, culturali, ricreative, sociali,
• promotore di un sistema educativo-familiare su cui scrisse e teorizzò,
• fondatore, a garanzia della continuità della sua opera, di due famiglie religiose (SDB FMA) e due organismi ad esse collegati: l'opera di Maria Ausiliatrice per le vocazioni adulte e i Cooperatori,
• mediatore politico-religioso fra stato e chiesa, ricercatore delle più varie relazioni sociali: papi, curia pontificia, vescovi, sacerdoti, laici di tutte le estrazioni sociali e di tutte le tendenze politiche,
• uomo capace di mobilitare ed aggregare assecondando le condizioni storico-culturali e le congiunture economiche dell'epoca: la struttura sociale paternalistica dell'ancien regime del regno sardo, l'assetto politico liberale del regno d'Italia italiano aperto al decentramento della carità e della filantropia, la disponibilità di risorse per la beneficenza, i consistenti consensi di autorità e fedeli, nonostante parziali opposizioni del mondo ecclesiastico,
• educatore che ha intuito la presenza di una forte sensibilità nel "civile", nel "politico", nei ceti più avvertiti della società, nell'opinione pubblica, nonché nell'ecclesiale", al problema della rigenerazione morale e sociale della società, al problema dell'educazione della gioventù,
• un santo (oggi sugli altari) iniziatore di un'autentica "scuola di santità".
Il "successo" di don Bosco è universalmente riconosciuto, anche se il segreto di tale "successo" ciascuno lo trova in una delle diverse sfaccettature della sua complessa personalità: geniale e capacissimo imprenditore di opere educative, lungimirante organizzatore di imprese nazionali e internazionali, finissimo educatore, grande maestro di santità giovanile, magari cultore di poteri magici... e potremmo continuare con la lunga sequenza dei titoli con cui fu defi
nito in occasione del centenario della morte. Ma forse non si è lontani dal vero se scopriamo tale "segreto" semplicemente in poche, ma radicate intuizioni e convinzioni, che qui indichiamo.
Altissima considerazione
della persona destinata per vocazione divina alla salvezza
Don Bosco ha posto Dio al di sopra di tutto, ha visto nell'uomo l'immagine di Dio, ed ha considerato i giovani (e il popolo) come creature da nutrire con l'alimento dei principi religiosi e morali del cristianesimo. La sua visione antropologica era quella propria della Bibbia e dei Padri: l'uomo è il capolavoro dell'Universo, immagine di Dio, viene da Dio ed a Dio è destinato.
Non gli bastava la concezione pascaliana dell'uomo come "un essere che pensa": era una definizione troppo statica, inaccettabile, non stimolante. Neppure gli bastava quella di Duns Scoto dell'uomo come "solitudine dell'essere": definizione forse vera, certamente più realistica dell'altra, ma sempre insufficiente e non invitante all'azione. Immaginiamoci poi se avesse potuto accettare la definizione sartriana che "gli altri sono l'inferno" e simili.
Mosso da carità teologica — o carità pastorale come si va dicendo da qualche decennio — convinto del porro unum est necessarium, a questo unum diede tutto se stesso. Se ebbe un'ossessione, fu quella delle anime da salvare (e del peccato da evitare). Da mílii animas, coetera tolle fu il suo motto dall'inizio alla fine della vita. Per lui non era un semplice slogan, ma una perenne aspirazione, una costante invocazione, una continua preghiera; non era un principio astratto, ma una presenza viva, continua, efficace. "La gloria di Dio e la salvezza delle anime" fu la passione di Don Bosco e l'espressione costituisce la sintesi più adeguata dell'essere" di don Bosco e del suo "operare" colto in tutte le sue dimensioni assistenziali, educative, pastorali, spirituali. Il primato assoluto spettava certamente al primo elemento della formula, il secondo invece era come finali 7zato ad esso. Promuovere la gloria di Dio e la salvezza delle anime equivale a conformare la propria volontà a quella di Dio, che appunto vuole tanto il bene che è Lui stesso, ossia la Sua gloria, quanto il bene dell'uomo, che è la salvezza della sua anima.
Ma quest'anima, sulla terra, don Bosco non la considerò come vivesse "fuori dal corpo", per cui ci si dovesse interessare "prima" dell'anima e "poi", semmai, "del corpo"; no, don Bosco non considerò prima il cristiano e poi l'uomo, ma entrambi assieme, l'indivisibile persona del giovane. Al Dio-che-salva tutto l'uomo, don Bosco prestò il suo braccio, la sua mente, il suo cuore di apostolo. La gloria di Dio, la volontà celeste di salvare le anime costituirono l'opzione fondamentale cui indirizzò azioni, attitudini, relazioni, tutte le sue energie fisiche, psichiche, morali, tutte le sue disponibilità economiche.
Al centro della sua spiritualità c'era il conoscere, amare e servire Dio in ordine alla propria salvezza, mediante la realizzazione di una vocazione personale: la dedizione ai giovani, soprattutto i più poveri ed abbandonati, in funzione della loro salvezza integrale, sul modello di Cristo salvatore, alla scuola di Maria Santissima, Madre e Maestra.
Quanto mai significativa è la seguente confidenza del santo don Orione ai suoi chierici nel 1934 (il ragazzo Orione aveva vissuto tre anni con don Bosco):
"Ora vi dirò la ragione, il motivo, la causa per cui don Bosco si è fatto santo. Don Bosco si è fatto santo perché nutrì la sua vita di Dio, perché nutrì la vita nostra di Dio. Alla sua scuola imparai che quel santo non ci riempiva la testa di sciocchezze, o di altro, ma ci nutriva di Dio, e nutriva se stesso di Dio, dello spirito di Dio. Come la madre nutre se stessa per poi nutrire il proprio figliuolo, così don Bosco nutrì se stesso di Dio, per nutrire di Dio anche noi. Per questo, quelli che conobbero il Santo, e che ebbero la grazia insigne di crescere vicino a lui, di sentire la sua parola, di avvicinarlo, di vivere in qualche modo la vita del santo, riportarono da quel contatto qualche cosa che non è terreno, che non è umano; qualche cosa che nutriva la sua vita di santo. Ed egli poi tutto volgeva al cielo, tutto volgeva a Dio, e da tutto traeva motivo per elevare i nostri animi verso il cielo, per indirizzare i nostri passi verso il cielo".
In don Bosco la cultura dei valori forti (la vocazione cristiana, sacerdotale, religiosa, educativa, missionaria...) non si è posta in alternativa ad una moderata empiria. Certo non è fuggito in avanti, ma neppure è rimasto attardato. Non ha tagliato i ponti con la realtà che lo circondava, anzi ne ha costruiti dei nuovi, pur di poter portare
anime a Dio. Rosmini scriveva che la carità, per essere completa, deve esercitarsi a livello fisico, spirituale, intellettuale. Don Bosco lo fece, senza scriverlo.
Trasformare i valori in fatti sociali, in gesti concreti: questo è il difficile. Don Bosco c'è riuscito. Non solo ha volato alto nella difesa dei valori forti, ma ha anche saputo tradurli in fatti sociali, in gesti concreti, senza ripiegamento nello spirituale, nell'ecclesiale, nel liturgico, inteso come spazio esente dai problemi del mondo e della vita. Lo Spirito in lui si è fatto vita concreta.
Forte della sua vocazione di sacerdote educatore, ha coltivato un quotidiano che non fosse assenza di orizzonti, bensì dimensione incarnata del valore e dell'ideale, cioè un'identità che si consolidava e si costruiva; un quotidiano che non fosse una nicchia protettiva e un rifiuto del confronto aperto, ma un sincero misurarsi con una realtà più ampia e diversificata; un quotidiano che non fosse un mondo ristretto di pochi bisogni da soddisfare o luogo di ripetizione quasi meccanica di atteggiamenti tradizionali, ma accettazione di ogni tensione, del sacrificio esigente, del rischio, della rinuncia al piacere immediato, della lotta.
Mi limito ad alcune delle infinite citazioni che potrei portare al riguardo. La prima è molto antica, del 1853: una lettera scritta da don Bosco al trentunenne don Vittorio Alasonatti, sacerdote al proprio paese (Avigliana presso Torino): "Mio buon amico, se vuole seguire la voce di Dio, faccia tacere per ora la voce della natura e degli affetti. Qui Dio lo aspetta. Io non posso assicurarle altro che lavoro, ma le sto garante che avrà una gran ricompensa in paradiso. Si faccia coraggio, imiti l'esempio degli apostoli, e venga dove il Signore lo chiama [...] Non ho l'autorità di dirle: Sequere me; ho però quella di ricordarle che Dio ha bisogno che lo venga a servire a Torino, a benefizio di queste centinaia di ragazzi, che aspettano chi loro spezzi il pane della vita e quello dell'anima". Quale meravigliosa sintesi di un Salesiano come colui che spezza ai giovani il "pane della vita e quello dell'anima!".
La seconda è di 30 anni dopo, del card. Vicario di Roma, Lucido Maria Parocchi che nel 1884 si domandava:
"Quale lo specifico della società salesiana? Intendo di parlarvi di ciò che distingue la vostra Congregazione, ciò che forma il vostro carattere; così come i francescani si distinguono per la povertà; i domenicani per la difesa della fede; i gesuiti per la cultura. Essa ha in sé qualche cosa che si apparenta a quella dei francescani, dei domenicani e dei gesuiti, ma se ne distingue per l'oggetto e le modalità [...] Che cosa dunque di speciale vi sarà nella Congregazione Salesiana? Quale sarà il suo carattere, la sua fisionomia? Se ne ho ben compreso, se ne ho ben afferrato il concetto, il suo carattere specifico, la sua fisionomia, la sua nota essenziale, è la carità esercitata secondo le esigenze del secolo: nos credidimus Charitati. Deus caritas est. Il secolo presente soltanto colle opere di carità può essere adescato e tratto al bene. Il mondo ora null'altro vuole e conosce, fuorché le cose materiali; nulla vuol sapere delle cose spirituali. Ignora le bellezze della fede, disconosce le grandezze della religione, ripudia le speranze della vita avvenire, rinnega lo stesso Dio. Questo secolo comprende della Carità soltanto il mezzo e non il fine e il principio. Sa fare l'analisi di questa virtù ma non sa comporre la sintesi. Animalis homo percipit quae sunt spiritus Dei: così dice S. Paolo. Dire agli uomini di questo secolo: «Bisogna salvare le anime che si perdono, è necessario istruire coloro che ignorano i principi della religione, è d'uopo far elemosina per amor di quel Dio, che un giorno premierà i generosi» gli uomini di questo secolo non capiscono. Bisogna dunque adattarsi al secolo, il quale vola, vola. Ai pagani Dio si fa conoscere per mezzo della legge naturale; si fa conoscere agli Ebrei col mezzo della Bibbia, ai Greci scismatici per mezzo delle grandi tradizioni dei padri; ai protestanti per mezzo del Vangelo: al presente secolo colla carità" (BS 1884, n. 6, pp. 89-90).
Lo stesso anno, additando i tratti del Salesiano, il primo cooperatore beatificato, il vescovo spagnolo mons. Marcelo Spinola, non faceva altro che tracciare il profilo spirituale di don Bosco e indicare che l'opera religiosa e sociale salesiana era la prova che l'amore di Dio era inscindibile dall'amore per l'uomo.
"Il Salesiano non è il Gesuita, soldato, per così dire, del sacro squadrone, ossia della milizia scelta, che la chiesa riserva per i suoi nemici più minacciosi, e soprattutto contro questo mondo moderno, così pieno di superbia [...] non è il Cappuccino, il frate più popolare fra tutti i frati, con le sue austerità e rigori, con il suo disprezzo dei beni terreni e quella nudità interiore ed esteriore che dà spavento, non è il figlio di Benedetto che abita nei luoghi solitari e passa la vita tra lo studio, il canto delle lodi divine
e la coltivazione della terra, non è il discepolo di San Giuseppe Calasanzio, benefattore di alto grado, benemerito della chiesa e della società, però consacrato a un solo compito [...]. Il Salesiano è l'uomo dell'abnegazione e dell'umiltà [...] che fa il bene credendo di non far nulla, che si sacrifica senza accorgersene, e più ancora quasi ignorandolo e che arrivato all'ultima ora si considera l'ultimo dei servitori della Chiesa. Va dove lo mandano, prende le cose e le accetta come sono e costruisce il suo nido sia fra i floridi rami di un albero frondoso che indifferentemente sulla pietra più sporgente di una rozza e nuda roccia. Le sue virtù caratteristiche sono di non lamentarsi mai, anche se tutto gli va contro e di non abbattersi mai, sperando sempre nella Provvidenza. Il Salesiano ha qualcosa dell'energia, dell'attività, dell'estensione e dell'altezza di obiettivi e dell'incontrastabile fermezza del Gesuita; ha qualcosa della popolarità del Cappuccino, ha qualcosa del raccoglimento e delle abitudini al lavoro del monaco, infine ha qualcosa di tutti gli istituti conosciuti, pur essendo un tipo nuovo. Avremo l'ardire di dire che D. Bosco ha operato per propria ispirazione, senza che Dio abbia avuto parte nei suoi pensieri e nei suoi fatti?" (M. SPINOLA Y MAESTRE, Don Bosco y su obra, Barcelona 1884, pp. 83-90).
Dello stesso parere era il card. di Torino, Ottaviano Alimonda, quando nel discorso di trigesima, il 1° marzo 1888, affermò che se il Vangelo divinizzò il mondo e le leggi della natura con la "divina carità", nello stesso modo "con la divina carità" don Bosco "divinizzò il secolo XIX": la carità che si piega sul prossimo, che crede che la bontà di Dio sia più grande della malvagità dell'uomo.
Lo riconobbero anche in campo liberale vari giornali al momento della morte di don Bosco. Il "Corriere della sera" di Milano scrisse. "Discordi, anzi lontani da lui in fatto d'opinioni politiche, non possiamo non ammirare l'opera sua. Così nel campo liberale si potessero contare tanti uomini, i quali come don Bosco avessero la mente organizzatrice davvero superiore e sorretta da quella forza di volontà, da quella perseveranza, che conduce a compiere le più meravigliose imprese".
Chiara identità sacerdotale:
"pontefice e ministro, maestro e predicatore, padre e fratello"
Condizione indispensabile per fare quello che don Bosco ha fatto era però una chiara identità sacerdotale. In lui si può dire che la
tempra dell'educatore ha affinato lo zelo dell'apostolo e del sopcorritore dei bisogni anche materiali del prossimo, nel senso che lo ha obbligato ad un autocontrollo severo, che esprimesse un'identità intessuta di fermezza e tenerezza, di risorse naturali e di solidi principi religiosi. Don Bosco si è inserito realisticamente nel mondo degli uomini a titolo di umana sensibilità e di sacerdotale partecipazione, in un'alternanza di sfoghi quasi biblici, di decisioni concrete, talora ardimentose, di preghiere insistenti rivolte agli uomini del potere pubblico o al cuore di benefattori generosi. Sempre sospinto da superiore ardimento di fede, in circostanze spesso difficili.
È stata ricostruita da don Desramaut la storia letteraria del "don Bosco prete all'altare, in confessionale, in cortile coi giovani, a Torino a Firenze, nella casa del povero e nel palazzo del re e dei ministri" che don Bosco avrebbe rivolto al ministro Ricasoli; ma se l'espressione fosse anche, come pare, una ricostruzione posteriore e non ipsissima verba di don Bosco, ciò non toglie la verità di fondo, che cioè don Bosco ha vissuto sempre, dovunque e con entusiasmo il suo sacerdozio educativo, senza alcun nascondimento o messa in mora. In quanto sacerdote si sentì profondamente e continuamente coinvolto come "segno e strumento" di salvezza nel dramma della redenzione. La sua dichiarazione al ministro non corrisponde solo ad una sua intima convinzione: definisce pienamente il suo modo di essere, di sentire, di agire. Don Bosco è prete a tempo pieno, perfino quando dorme e sogna. Prete quando celebra e quando confessa, ma anche quando è in cortile coi suoi ragazzi o in camera a sbrigare la nutritissima corrispondenza, a correggere centinaia di pagine di bozze di stampa o a scrivere qualcuno dei suoi numerosi opuscoli. È prete quando dal pulpito dà le missioni al popolo, ma lo è anche quando viaggia sul treno, quando siede a cassetta col vetturino della diligenza o quando siede alla mensa d'un suo ricco benefattore.
Don Bosco non ha tempo per attardarsi a fare grandi considerazioni teoriche: predica con gli scritti, con la parola, con la sua veste talare la verità di Cristo esortando senza rispetto umano, intervenendo in modo diretto anche là dove pareva compromettere, agli occhi di alcuni, la dignità sacerdotale, perché l'innocenza dei giovani non fosse derubata di diritti sacrosanti, perché "il basso popo
lo", i popoli non evangelizzati potessero conoscere le verità della fede e salvarsi. Ha anche la certezza che la sua congregazione è amata da Dio, per questo la sua confidenza in Lui non è provvidenzialismo. Egli agisce come se tutto dipendesse da lui e spera come se tutto dipendesse da Dio, convinto della verità del proverbio: aiutati che il ciel t'aiuta.
Servitore del Vangelo, nutrì anch'egli, come don Primo Mazzo-lari, una profonda convinzione: "Non basta una fede qualunque: bisogna lavorare con Cristo, secondo il suo spirito, non secondo il nostro. Averlo con noi, non in ostaggio, o prigioniero, ma guida. Impegnare il Cristo e impegnarsi con Cristo: compromettersi con lui e comprometterlo". Scriveva don Bosco il 25 ottobre 1878 ad un sacerdote: "Non parli di esentarsi dalla parrocchia. C'è da lavorare? Morrò nel campo del lavoro, sicut bonus miles Christi. Sono buono a poco? Omnia possum in eo qui me confortat. Ci sono spine? Con le spine cangiate in fiori gli Angeli tesseranno per lei una corona del cielo. I tempi sono difficili? Furono sempre così, ma Dio non mancò mai del suo aiuto. Christus heri et hodie". Il Cristo di "oggi, ieri e sempre" (Eb 13,8) è esattamente il programma pastorale della Chiesa oggi, un programma che non è soggetto a nessun cambio né temporale né culturale.
Davanti alle difficoltà di carattere economico e di organizzazione delle opere, di fronte ad attacchi e persecuzioni da parte di nemici della fede e della stampa anticlericale, all'indomani del crollo di ciò che aveva costruito con tanto sforzo e sacrificio, don Bosco mai si lasciò abbattere. Lesse tutto ed insegnò a leggere tutto con gli occhi della fede, procurando di cogliere in esso il messaggio di Dio, o l'aspetto e l'effetto positivo, considerandolo come mezzo per ravvivare la fede, come croce che conduce alla gloria, come occasione propizia per intensificare l'amor di Dio e la confidenza in Lui, che è padre e non abbandona i figli che procurano i suoi interessi e si consacrano al suo servizio.
A soli tre anni dal suo insediamento in casa Pinardi, don Bosco veniva descritto come "zelante sacerdote ansioso del bene delle anime", "consecrato intieramente al pietoso ufficio di strappare al vizio, all'ozio, ed all'ignoranza" un gran numero di fanciulli della degradata periferia di Torino (L'Armonia, 2 aprile 1849). L'umile pre
te, fornito di nessun altra ricchezza che d'una immensa carità", "pontefice e ministro, maestro e predicatore, padre e fratello" dei giovani (Giornale della società d'Istruzione e d'Educazione, maggic 1849) divenne poi universalmente conosciuto come il prete santo, tutto dedito alla salvezza dei giovani; in contesti molto diversi tanti altri non si faranno scrupolo di supplicarlo, che, appoggiato alla prodigiosa intercessione di Maria Ausiliatrice, propiziasse loro grazie spirituali e materiali.
L'estrema varietà dei destinatari e la stima che questi gli dimostrano — in bellissime e commoventissime lettere — invitano altresì a riflettere sulla capacità di attrazione di don Bosco verso la sua persona, la sua opera e quello che rappresentava.
Già tre secoli prima Pascal aveva intuito e praticato, nella Parigi libertina di allora, l'art d'agrée e l'art de persuader, vale a dire l'arte di sapersi farsi accogliere in società, onde aprirsi un varco ad uomini e donne di diversi convincimenti etico-religiosi. Per l'ordine dello spirito, per conoscere l'uomo non basta l'esprit de géométrie, occorre l'esprit de finesse. Occorre accostare l'altro con sforzo empatetico, diventando interlocutore confidente, discreto, sincero. L'altro appare allora come una sorta di complementarità interpersonale, quasi un dimidium animae meae di oraziana memoria, giacché fra i due si attua un'osmosi di idee, di orientamenti di vita, di sentimenti.
Personalità simpatica, attraente, ricca di affettività intensissima, sempre controllata, e tuttavia espressa, comunicata, visibile, don Bosco era amatissimo dai suoi ragazzi: "nessun padre riceve più carezze dai suoi figlioli, tutti gli sono a' panni, tutti vogliono parlargli, tutti baciargli la mano" scrive su un giornale mons. Gastaldi nel 1849. È il suo fascino ed il profondo rapporto padre-figli a far sì che in tempi di soppressione di opere religiose i primi giovani oratoriani restino con lui e costituiscano poi il primo nucleo della congregazione. È il suo fascino a suscitare entusiasmo ed ammirazione in tutte le categorie di persone un po' ovunque, a Valdocco come in Italia, in Francia come in Spagna, in America latina come altrove. Ed è noto come tale fascino continuò per decenni, diventando po
tente generatore di fecondità e fedeltà vocazionale. Come poi non ricordare che l'amorevolezza è una delle tre colonne del Sistema Preventivo di don Bosco e che i Salesiani si chiamano così a motivo della "dolcezza e dell'amabilità" del santo di cui portano il nome?
Ascoltiamo un ex allievo del primo Oratorio, 45enne, che diventato militare ed insegnante nell'esercito, così scrive al suo ex Direttore di Valdocco con cui si era incontrato poco prima: "Amato mio don Bosco, sembra che abbia ragione lagnarsi di me, sì, ma creda pure che sempre lo amai, lo amerò. Io in lei trovo ogni conforto e ammiro le sue gesta da lontano, ma parlai né permisi sentire di lei parlare male; sempre lo difesi. Vedo in lei che volgerebbe l'anima mia ad ogni verso; restai confuso, estatico, elettrizzato nei suoi ragionamenti; furono forti e sentiti: mise in me uno sconcerto e mi rese a tal punto da restare abbagliato nel vedere che sempre mi ama svisceratamente. Sì, o caro don Bosco. Credo la comunione dei Santi [...] nessuno più di lei sa e conosce il cuore mio e potrà decidere. Conchiudo perciò, mi consigli, mi ami, mi perdoni e mi raccomandi a Dio, a Gesù, a Maria SS.ma H Le mando un bacio di cuore e le fo professione di fede che le voglio bene".
E altrettanto toccante è il lamento della contessa Luisa Nerli col cav. Federico Oreglia — il braccio destro secolare di don Bosco — per non aver potuto incontrare don Bosco nel suo viaggio a Firenze (18 dicembre 1865): "Don Bosco non l'ho veduto [...] Io ero in mezzo al mio dolore, né potevo uscire. Don Bosco andò, girò in molti luoghi pubblici e case private ove fu portato; a me disgraziatamente nessuno pensò e così non lo vidi! [...] forse non meritavo questa consolazione, e al solito rassegnazione, rassegnazione ripeterò. Gli faccia i miei ossequii, gli baci la mano per me e chieda la sua benedizione per la mia famigliuola".
Non meno rivelatrice del fascino di don Bosco (e dell'ambiente di Valdocco) è la voce dello stesso cav. Oreglia dopo che lo ebbe lasciato per farsi gesuita (1869). Gli scrisse: "Parto dall'Oratorio, dove per ben nove anni ho goduto tutta la sua affezione e confidenza, per cui può essere persuaso che sento tutta l'amarezza di questo distacco" (MB IX 716). Ed ai suoi tre compagni della prima ora (don Michele Rua, don Celestino Durando e don Giovanni Battista Lemoyne) ribadì che "se qualche motivo può aver causato questo passo
per me, certo, sensibile e doloroso, egli è da dedursi unicamente da' miei peccati i quali, senza forse, mi resero indegno di continuare a fare parte di questa nuova falange di Gesù Cristo, il quale, per sua misericordia, anziché abbandonarmi a me stesso volle a me inspirare il bisogno d'ima vita più rigorosa e togliermi a quei pericoli che la prevenzione di me stesso mi renderebbero forse insuperabili in una congregazione informata a tanta dolcezza da rendere ogni vincolo tanto facile e leggiero come non fosse" (MB IX 717).
E a sua volta dal Brasile il grande missionario don Lasagna scriveva nel 1883: "È tanta la stima ed entusiasmo che hanno quella gente (di Rio de Janeiro) per Don Bosco, che basta agli occhi loro che uno sia suo figlio perché debba essere un santo ed un talento!".
Genialità operativa, comunicativa e operosità instancabile
All'analisi storica risulta come don Bosco sia riuscito a coordinare attorno alla sua vocazione umana essenziale ("salvare" i giovani, promuoverne il loro saldo inserimento nella società), un insieme di attività locali e di iniziative, nazionali ed internazionali tali da polarizzare attorno all'isolato centro giovanile di Valdocco migliaia di giovani, da conquistare ad esso il consenso e il supporto del tessuto ecclesiastico e della società civile a raggio larghissimo, in Italia e a l 1 'estero.
Comunicatore nato, attraverso la rete della corrispondenza epistolare (molto ampia, anche se il numero di 250 lettere giornaliere sembra far parte del mito), delle numerose lotterie, delle notevoli conoscenze personali, della ricca stampa in proprio ed altrui, delle continue iniziative che da Valdocco presero il largo (fondazione delle Figlie di Maria Ausiliatrice, Missioni, Cooperatori, Bollettino Salesiano...) - ma con finalità decisamente distinguibili - riuscì a far percepire alla società e alla chiesa la necessità e l'urgenza della sollecitudine per quello che sarà chiamato ai nostri giorni il "pianeta giovani".
Non solo, ma ne dimostrò la praticabilità attraverso la sua capacità di convogliare attorno al suo progetto, reale o virtuale che fosse, una lunga serie di ecclesiastici e laici, di ricchi di denaro e potere, di papi e re, di poveri e benestanti, di nobildonne decadute e di uomini in carriera. Fu per lui una strategia redditizia. Si pensi solo
alla grande diffusione delle Letture Cattoliche e all'organizzazione delle lotterie già fin dagli anni cinquanta che coinvolsero collaboratori all'Oratorio, associati alle conferenze di San Vincenzo o alle stesse Letture Cattoliche, uomini e donne invitati a contribuire come "promotori" nella martellante vendita dei biglietti ovvero coinvolti come protagonisti nelle stesse attività di animazione religiosa. Ovviamente, in primo piano fra loro, i Cooperatori chiamati ad essere presenti ed operanti accanto a lui o direttamente nella chiesa e nella società con spirito salesiano, in coerenza con il Vangelo e la missione della Chiesa. Lo fece con grande abilità, genialità ed inventiva e, talora, in modo decisamente temerario; per riuscirvi dovette ricorrere a forti virtù morali, di relazione, di adattamento, di tolleranza delle frustrazioni: ma era convinto che certi indirizzi che la società dell'epoca stava prendendo non erano fuochi di paglia, bensì veri "segni del tempo". Più che cercare sicurezze, cercò di rispondere allo spirito.
Tutto questo richiese quel frenetico attivismo e quel prodigioso lavoro che costituisce forse l'aspetto di don Bosco più conosciuto e commentato: un'infaticabile attività manuale, intellettuale, apostolica, sacerdotale, come richiesto dallo zelo per le anime ai sacerdoti e dalle necessità dei tempi alle nuove congregazioni religiose. Basti qui ricordare che ne rimase impressionato nel 1883 anche un testimone d'eccezione, come il futuro papa Pio XI: "Ecco una vita che fu un vero e proprio e grande martirio: una vita di lavoro colossale, che dava l'impressione dell'oppressione anche solo a vederlo, il Servo di Dio: una vita di pazienza inalterata, inesauribile, di vera e propria carità, sì da aver sempre Egli un resto della propria persona, della mente, del cuore per l'ultimo venuto ed in qualunque ora fosse arrivato e dopo qualunque lavoro; un vero continuo martirio nelle durezze della vita" (3 dicembre 1933).
L'attività febbrile di don Bosco resterebbe però un enigma e la sua fecondità apostolica mancherebbero d'una ragione sufficiente senza la presenza, sentita come viva ed attiva, di Dio, senza la coscienza di una missione celeste, che non poteva eludere.
Il suo incontro col Signore è talmente totalitario e totalizzante che lo dichiara e lo testimonia con tutta la vita. È il suo essere familiare a Dio, l'essere sempre "in udienza" con Lui, è la tensione spirituale in cui vive, che spiega quel suo parlar con tutta naturalezza di Dio e dell'anima in ogni ambiente ed in ogni circostanza, quel suo far avvertire la presenza di Dio abitualmente fuori di sé, quel suo invitare i suoi corrispondenti alla preghiera per la salvezza propria ed altrui, alla rassegnazione alla volontà di Dio, all'ascesi ininterrotta, alla fiducia nel premio eterno. Dalla sua maniera di essere e di operare si percepiva che era uomo che dialogava con Dio, un "monumento della fede", un "Sacramento della fede", un esperto di Dio, capace di mettere in vista il mistero che reggeva la sua vita, ossia il mistero che Dio esisteva e che gli aveva parlato.
Va però osservato che don Bosco non ci concede descrizioni delle sue evoluzioni interiori, è quanto mai schivo nel rivelarci i suoi retroscena mentali e spirituali, è molto riservato nel manifestare la sua intimità profonda. Non ci lascia particolari introspezioni del suo spirito, non scrive diari spirituali, non dà interpretazioni; preferisce trasmettere uno spirito descrivendo le vicende esterne della sua vita oppure alli averso le biografie dei suoi giovani e le sue Memorie. Nelle stesse migliaia di pagine delle sue lettere private, dove sarebbe scontato che gli torni facile rivelarci il suo intimo sentire, ha un estremo pudore a farlo; in esse si esprime invece come farebbe qualunque altro sacerdote, quasi con distacco, con naturalezza, nascondendo la santità che è in lui dietro la spessa cortina dei pensieri comuni. E se pochi mesi dopo averlo conosciuto la marchesa Giulia Barolo trovava in don Bosco "quell'aria di raccoglimento e di semplicità propria delle anime sante" e don Rua, che gli visse a fianco per quasi 40 anni, confessava di essere più impressionato dall'osservarlo anche nelle azioni più piccole che non leggere o meditare qualsiasi libro devoto, altre figure eminenti, anche di prelati, non se ne resero conto, tanto era "ordinario" il suo tratto; non per nulla i Salesiani della seconda generazione riconobbero in don Bosco maggior santità che non in don Rua, in quanto il primo avrebbe anche rinunciato all'apparenza della santità.
"Don Bosco con Dio" è il titolo del famoso volume, più volte edito, che don Ceria pubblicò in occasione della beatificazione. In esso
l'autore già nelle prime pagine cerca di svelare la faccia nascosta della santità di don Bosco nello "spirito di preghiera e di unione con Dio" e afferma che "frutto ben scarso ritrarrebbe dalla sua mirabile vita, chi corresse troppo dietro ai fatti biografici senza penetrarne a dovere i moventi intimi e abituali". A don Ceria si sono successivamente accodati molti altri studiosi. Andrebbe però onestamente precisato che il primo ad indurre al suddetto tale "travisamento" è stato don Bosco stesso con le sue ripetute scelte di vita e di azione. L'instancabile operosità che caratterizzò tutta la sua vita sacerdotale non gli lasciò molto spazio alle formali pratiche di pietà suggerite o richieste ad un sacerdote dell'epoca; chiese ed ottenne la dispensa dalla recita del breviario che richiedeva parecchio tempo; nelle Costituzioni ridusse a poche le pratiche di pietà comuni e la preghiera mentale era ridotta ad una mezz'oretta, che poteva essere anche soppressa in caso di concomitante sacro ministero; sul letto di morte raccomandò il lavoro, non la preghiera. Per di più non ha lasciato formule di pietà, non ha codificato particolari esercizi di pietà. Si può allora ben comprendere la famosa obiezione sollevata nel corso del suo processo di beatificazione: quando don Bosco pregava?
Ma a don Bosco (e ai Salesiani) le preghiere del buon cristiano, facili, semplici, fatte con perseveranza, bastavano; esse dovevano intervenire lungo la giornata come elevazione dell'anima a Dio, come petizione, come alimento, quasi in funzione ascetica. La santificazione personale si sarebbe raggiunta attraverso la dedizione religiosa ed apostolica — benefica, educativa, pastorale — ai giovani, offrendola a Dio. Dunque un lavoro fondato sulla fede e permeato di carità, che appunto muove ad amare Dio e amare il prossimo, perché e come lo ama Dio. È la cosiddetta "estasi dell'azione", nella quale convivono in armoniosa sintesi attività e preghiera, vita interiore e carità.
* * *
La spiritualità di don Bosco, come ogni spiritualità, consiste nell'esercizio della fede, della speranza, della carità. Amor di Dio e lavoro instancabile in questa vita, paradiso nell'altra sono dunque il cuore della sua spiritualità operativa.
Non è pertanto un caso se il sostantivo che si ritrova con maggiore frequenza, ad es. nel III volume dell'Epistolario di don Bosco, è Dio-Iddio (414 volte in 451 lettere), tenuto anche presente che si tratta di un epistolario "tutto concretezza e realismo", interessato e polarizzato su problemi di ordinaria e quotidiana amministrazione che assillano chi scrive. Le sorprese continuano quando si passa alle più complesse fonde verbali. In testa alla classifica troviamo il verbo fare con 945 occorrenze. Pur considerando che si tratta di un verbo polisemico, come non pensare che sia "significativo" della mens di don Bosco? Ma ancor più sorprendente è che al secondo posto dei verbi si collochi pregare con ben circa 343 occorrenze, le quali, sommate alle 201 del corrispondente sostantivo, porta il numero a 544, un centinaio in più delle lettere stesse. Si potrebbe dunque concludere che a distanza di dieci secoli da S. Benedetto, don Bosco, universalmente riconosciuto come uomo di azione per educazione, temperamento e libera scelta, ripropone nella sua corrispondenza epistolare, capovolgendolo, quello che, in un contesto totalmente diverso, era il motto del fondatore della vita religiosa in occidente: ora et labora. Logicamente non un "lavoro" qualunque, ma quello "per la gloria di Dio e la salvezza delle anime" che pertanto poteva diventare esso stesso "preghiera": quis laborat, orat. Ecco forse perché "per noi non ci sono dubbi: il vero santo dell'Italia moderna è Don Bosco", secondo il pastore luterano Walter Nigg. Ecco forse il motivo per cui il teologo M. D. Chenu 0.P., ancora una ventina di anni fa, alla domanda di un giornalista che gli chiedeva di indicargli alcuni santi portatori di un messaggio di attualità per i nuovi tempi, rispondeva: "Mi piace ricordare, anzitutto, colui che ha precorso il Concilio di un secolo, Don Bosco. Egli è già, profeticamente, un modello di santità per la sua opera che è rottura con un modo di pensare e di credere dei suoi contemporanei".
"Servirà di norma a superare le difficoltà future, prendendo lezioni dal passato" (Memorie dell'Oratorio)
C'è chi afferma che l'esperienza include solo ciò che avviene; altri che abbraccia solo ciò di cui si è consci; altri ancora sostengono che l'esperienza umana suppone sempre il linguaggio. Dunque si danno vari livelli interpretativi. Noi per qualche meditazione ci soffermeremo su di un'esperienza in modo non scientifico, a modo di una certa filosofia del buon senso, per cui esperienza significa alcuni elementi, quali contesto, prospettiva, percezione, valore, desiderio, decisione e abitudine, da mettere in rapporto fra di loro. Vale per Sacra Scrittura, per la letteratura, per il teatro, per la storia e dunque anche per la "bella storia di don Bosco giovane". Una completa rilettura della sua vita non può prescindere, anzi deve essere fatta sub lumi-ne humanae experientíae, e non solo sub lumine evangelii.
Don Bosco ha presentato ai giovani le "vite" dei suoi ragazzi come modelli proporzionati a loro, ma ha fatto altrettanto con la propria personale esperienza, indicando in qualche modo se stesso come paradigma per tutti i Salesiani. Aveva ricevuto l'esplicito invito del papa a scrivere la storia della sua vocazione: "Il bene che proverrà ai vostri figli voi non potete intenderlo pienamente". Ed ecco che don Bosco ci ha lasciato le "Memorie dell'Oratorio", un libro che è insieme rievocazione, dimostrazione apologetica e teologica, proposta paradigmatica e programmatica per i Salesiani. In altre parole: non tanto un'autobiografia storica, quanto un documento edificante e pedagogico: "Servirà di norma a superare le difficoltà fu
ture, prendendo lezioni dal passato". "Memorie del futuro" le ha definite don Pietro Braido. In esse — scritte all'età di 60 anni — interferiscono tre realtà particolari: quelle veramente successe nel passato, quelle del presente che danno significato ed interpretano il passato, quelle future che si dovranno costruire sull'esperienza del passato e del presente.
Tutto ciò, se dal punto di vista storico, rende assai ardua l'analisi del famoso testo, dal punto di vista invece dell'interpretazione ideale dei fatti del "progetto formativo-pastorale", delle convinzioni sociali, religiose, educative e morali che don Bosco ci volle trasmettere è un vantaggio grandissimo, insperato. Dobbiamo essergli grati di averci rivelato la sua mentalità, i tratti spirituali più concordi con il suo mondo interiore, i suoi sogni (già realizzati).
Sulla base dunque di tali "Memorie" vogliamo assieme analizzare che tipo di ragazzo e di giovane era Giovanni Bosco. La sua infanzia e la sua giovinezza sono significative per noi e lui stesso ha inteso che lo fossero al momento in cui le metteva per iscritto, le correggeva e le ricorreggeva continuamente. Se papa Giovanni XXIII scrivendo il suo diario lo faceva per cogliere tutti i messaggi che il Signore gli mandava attraverso la sua Parola, le ispirazioni interiori, gli avvenimenti della vita e così essere pronto a risponderGli, don Bosco ha fatto altrettanto a vantaggio dei suoi figli. E così tutti i personaggi, tutti gli eventi della sua infanzia e della sua giovinezza, sotto la sua penna, diventano "significativi" e acquistano una dimensione educativo-spirituale.
La famiglia
Tutti la conosciamo: orfano di padre a due anni, con la madre Margherita che copre il ruolo anche di padre. Da lei don Bosco apprende soprattutto il "senso della vita" desunto dalla fede e dalla pratica cristiana. Racconta che sua madre lo istruiva nella religione, gli insegnava le preghiere (recitate in comune con i fratelli), lo preparò alla prima confessione e lo assistette all'importante momento della prima comunione. Come non riconoscere immediatamente
quanto queste "esperienze" infantili (famiglia che vive di fede in tutte le sue espressioni, compresa la carità, la fiducia nella Provvidenza...) diverranno fondamentali all'interno del suo modello educativo? Tanto più che si potrebbe confrontare la sua esperienza personale con i modelli sia positivi che negativi di rapporto padre-madre, genitori-figli presentati nelle sue future pubblicazioni di indole educativa. Dunque per don Bosco una famiglia cristiana costituisce una situazione ideale di sviluppo di autentica umanità giovanile cristiana.
La comunità parrocchiale
"In principio era la madre", scrisse ne11929 il biografo danese di don Bosco, Jens. J. Joergensen. Lo hanno ripetuto e lo ripeteranno in tanti, tanto più quando mamma Margherita dovesse venir canonizzata. Ma andrebbe forse completato così: In principio era la madre all'interno della comunità cristiana della borgata (Morialdo) e della parrocchia (Castelnuovo, Buttigliera). Da queste Giovannino acquisì alcuni elementi forti della sua "spiritualità": abitudine alla preghiera, al dovere, àl sacrificio, assieme ad un po' di studio (don Lacqua); in queste fece la sua prima confessione (età della ragione), la sua prima comunione (età della discrezione) e imparò il catechismo dell'epoca. Tutto ciò plasmò la sua personalità e pose le basi elementari della sua intensa attività di scrittore ed educatore religioso-popolare.
I luoghi del lavoro e dello studio
Il ruolo simbolico affidato da don Bosco alla madre può essere dunque trasferito anche al paese, all'ambiente parrocchiale ed ai personaggi in esso operanti.
Il paese nativo fu il luogo della sua prima modestissima alfabetizzazione, consistente soprattutto nel saper leggere. L'impegno di studio aumentò dopo l'incontro con don Calosso, cappellano di Morialdo (1829-1830), col quale si accorderà per una vita di studente-lavoratore: studente in casa del prete e nel viaggio di andata e ritorno, lavoratore nel resto del tempo. Tale abbinamento continuerà anche
dopo, allorquando frequenterà le scuole sia di Castelnuovo (mentre alloggiava e lavorava presso un sarto che gli fece delle proposte assai vantaggiose, respinte per seguire la vocazione) che di Chieri (mentre alloggiava presso un barista-pasticciere che pure gli fece vantaggiose profferte di lavoro, sempre respinte). Don Bosco lo registrerà nelle "Memorie dell'Oratorio" con evidenti intenzioni formative, a costo di dilatare l'entità e la qualità dei diversi lavori fatti temporaneamente, ma non continuati. Comunque rimane il fatto che si preparò alla lontana al suo sacerdozio, che intravide come un desiderio, un'aspirazione, un sogno.
Quanto poi all'incontro con l'umile cappellano di Morialdo, don Bosco, nei suoi ricordi profondamente emotivi e carichi di significato, vi trasfonde numerosissimi elementi della spiritualità del prete educatore cristiano. Ecco una parte del dialogo:
D. Per qual motivo vorresti studiare?
R. Per abbracciare lo stato ecclesiastico
D. E per qual motivo vorresti abbracciare questo stato?
R. Per avvicinarmi, parlare, istruire nella religione tanti miei compagni, che non sono cattivi, ma diventano tali, perché niuno ha cura di loro.
Sappiamo come don Calosso si offre di aiutarlo nella realizzazione della sua vocazione, lo avvia allo studio del latino, e più avanti lo ospita pure. Gli è soprattutto padre spirituale e don Bosco confessa: "Ogni parola, ogni pensiero, ogni azione eragli prontamente manifestata". E sappiamo anche che presto tale "guida stabile" tale "amico dell'anima" viene a morire, per cui don Bosco si trova nuovamente solo nella scelta dello stato di vita.
Il tempo libero
Ma c'è un altro versante importante della vita di Giovannino: quello della festa, dell'allegria, del tempo libero, per nulla in contrasto con la mentalità realistica e cristiana del fanciullo, della madre, della comunità cristiana in cui si trova a crescere. E allora ecco il gioco, le attività ricreative, le acrobazie del saltimbanco, frammisti a espressioni religiose che preluderanno alla successiva "Società
dell'allegria" e all'ampio spazio assegnato al tempo libero nella spiritualità del suo sistema preventivo. I prati dei Becchi anticipano l'Oratorio di Valdocco. Non solo; don Bosco pare celebrare e proporre uno stile di vita familiare, più che forse descrivere con esattezza una situazione oggettiva (da ridimensionare): egli intende mettere in luce la vicenda di un ragazzo che si costruisce la propria "vocazione" personale sulla base di doti naturali, favorite dalla saggezza della madre, contadina sì, ma né ansiosa né protettiva.
Dunque don Bosco ha vissuto la sua fanciullezza e giovinezza con grande entusiasmo, in pienezza e di questa ricchezza interiore ha contagiato tutti i compagni che gli stavano vicino. Scriveva: "Ognuno mi voleva per giudice o per amico. Dal canto mio facevo del bene a chi potevo, ma del male a nessuno". E ancora: "Da queste radunane erano esclusi tutti quelli che avessero bestemmiato, fatto cattivi discorsi, o avessero rifiutato di prendere parte alle pratiche religiose".
Dall'ampia e vivace narrazione delle sue prodezze fra i compagni, sotto gli occhi amorevoli della madre — ci fu anche l'avventura della caduta dall'albero della nidiata con conseguenze per la salute che Giovanni nascose alla madre e non mise per iscritto nelle "Memorie" — si evince che amava profondamente la vita, anche sul piano esteriore; non era in difficoltà col suo corpo, con il suo spirito, nonostante la non facile situazione familiare in cui si trovava: privo di padre, con un fratellastro più grande di lui e non troppo disponibile ai suoi studi (ma chi lo poteva essere all'epoca in quelle condizioni di vita?), costretto, per altro come tanti altri della sua età, a cercare lavoro fuori casa. Il suo fu uno stile di crescita nella grazia: contento di vivere così come era, proprio perché accettava la situazione in cui la provvidenza lo aveva posto. Quanto diverso dai ragazzi d'oggi, spesso scontenti del proprio corpo, alla ricerca di una perfezione irraggiungibile modulata sui modelli televisivi e cinematografici.
Scuola, collegio, educatori
Da11831 al 1835 don Bosco frequenta la scuola chierese di grammatica, umanità e retorica. Ha 16-19 anni. È il tempo della maturazione culturale, dell'esplosione della socialità giovanile con marcata dimensione apostolica e della definitiva scelta vocazionale. Si distinguono già nettamente alcuni tratti della sua futura spiritualità (giovanile).
Anzitutto il trinomio: studio, pietà ed allegria, che ritornerà negli anni seguenti con terminologie leggermente diverse in tante lettere (le famose tre S: sanità, studio, santità, e simili). Poi l'attenzione all'acquisizione di una scienza che riterrà importante nella futura organizzazione dei collegi e necessaria ai corsi regolari di filosofia-teologia in vista del sacerdozio, senza dimenticare che costituisce il mezzo privilegiato per la cura delle vocazioni ecclesiastiche. Infine lo studio: uno dei doveri principali di un giovane.
Il desiderio dello studio fu una delle passioni dominanti di tutta la giovinezza di don Bosco; si potrebbe forse sostenere che la passione per lo studio fu la strada attraverso la quale il Signore lo ha fatto crescere, lo ha custodito e lo ha accompagnato a realizzare la sua vocazione. Giovanni dedica anche una parte della notte ad esso, tanto da rovinarsi la salute. L'esito fu però che i compagni cominciarono a fare ricorso a lui perché facesse loro, come diceva lui, la carità scolastica: cioè passava loro i compiti (ma poi non lo fece più perché gli fu proibito); era però subito disponibile a mettere a loro disposizione le proprie abilità.
Quando scrive le sue "Memorie" don Bosco è già fondatore e formatore di educatori, per cui non manca di esprimere giudizi su insegnanti ed educatori del suo collegio, sottolineandone qualità e limiti. Del prof. Banaudi fa un elogio circa il metodo educativo che preannuncia quanto lui stesso poi realizzerà con i suoi giovani a Valdocco; del canonico Maloria, apprezza le doti di direttore spirituale in funzione di aiuto contro i cattivi compagni; e anche in tal caso "anticipa" le sue future esperienze ed insegnamenti.
Anche di altri sacerdoti del proprio paese aveva apprezzato il lavoro pastorale in parrocchia, ma aveva lamentato che non era riuscito a "contrarre con loro alcuna familiarità" per cui, piangendo, aveva detto in cuor suo che se fosse diventato prete avrebbe fatto diversamente. È noto anche il dialogo di Giovanni Bosco col chierico Cafasso sulla porta della chiesa: — "Mio caro amico [...] gli spettacoli dei preti sono le funzioni di chiesa [...]. R. — È vero quanto dite, ma v'è tempo per tutto: tempo di andare in Chiesa, e tempo per ricrearci".
Don Bosco nella vita del collegio, regolato secondo precise norme, scopre il fondamento religioso e morale della vita, il valore dell'istruzione e della pratica religiosa cristiana, la sollecitudine per l'ordine, la disciplina e la moralità garantita (dal "prefetto degli studi"), la formazione interiore tramite la "congregazione", la direzione spirituale, la prassi sacramentale, la mitigazione della serietà del dovere con il carattere umano dei rapporti interpersonali fra studenti e insegnanti e tra studenti stessi, l'uso dei premi e la moderazione dei castighi: tutti elementi che confluiranno nella sua futura "esperienza" di educatore.
"Società dell'allegria"
Ad essa si dedicano molti capitoletti delle "Memorie dell'Oratorio". La Società aveva un preminente valore morale e religioso: era molto simile ad una "compagnia religiosa" e contemporaneamente ad una "accademia di cultura". Nella "compagnia" spiccava il giovane Luigi Comollo, il "devoto" che poi don Bosco troverà in seminario; inoltre l'ebreo (poi convertito) Giona, con cui don Bosco passerà molto tempo in allegria, suonando il piano, leggendo, ascoltando storielle (altro metodo di avvicinamento, non indifferente nella futura "spiritualità pastorale" di don Bosco).
Le molte pagine delle "Memorie" dedicate agli aspetti giocosi e gioiosi della vita studentesca (gioco, magie, corse...) ricordano quanto scrive con enfasi nei vari Cenni storici da lui composti in tempi anteriori o coevi alle "Memorie": in tutti questi giochi e divertimenti di sommo gusto (e ne fa l'elenco) Giovanni Bosco "se non era celebre, non era certamente mediocre". Quasi di certo anche qui voleva
indicare uno stile, meglio, uno spirito caratterizzante un'inedita azione educativa.
Le relazioni con i compagni
Se è vero, come è vero che l'uomo è un rapporto, che le relazioni umane costituiscono l'essere di una persona, ci possiamo domandare come Giovanni si sia comportato con i compagni.
Prima di tutto va detto che don Bosco non si abbandona al caso nell'intessere le sue relazioni, ma le sceglie con cura. Ciò che lo contraddistingue è proprio la lucidità interiore con cui si muove in mezzo alle persone. Ad alcune dice di sì; ad altre di no, perché, dopo averle valutate, ha scoperto che le prime sono costruttive e le seconde lo rendono schiavo. Quando in seguito scriverà di ragazzi di indole buona, ordinaria, difficile e indicherà come comportarsi con loro, aveva ben presente la sua esperienza giovanile: "In queste prime quattro classi ho dovuto imparare a mio conto a trattare con i compagni. Io avevo fatto tre categorie di compagni: buoni, indifferenti, cattivi. Questi ultimi evitarli assolutamente sempre appena conosciuti, con gli indifferenti trattenermi per cortesia e per bisogno, con i buoni contrarre familiarità quando se ne incontrassero che fossero veramente tali".
Don Bosco matura anche attraverso le sue relazioni, tipo quelle con i giovani Braje, Comollo, Garigliano, con cui condivide ricreazione e doveri di scuola. Sottolinea molto come queste amicizie siano state il sostegno della sua giovinezza. Del resto fu fedelissimo alle sue amicizie: morti don Cafasso ed il suo successore al Convitto, il teologo Golzio, dal 1873 si confessò dal suo compagno di seminario, don Giacomelli. Per don Bosco l'amicizia non è un incidente, un caso, un passatempo emotivo, bensì una delle prospettive fondamentali su cui costruisce la sua vita e su cui costruirà quella dei suoi ragazzi. Dirà di Comollo: "L'ebbi sempre per intimo amico, e posso dire che da lui ho cominciato ad imparare a vivere da cristiano. Ho messo piena confidenza in lui ed egli in me".
Giovanni Bosco a Chieri si rende conto che per crescere occorrono amici, non solo educatori ed esperti. Se lo ricorderà per tutta la sua vita da educatore. Soprattutto amicizia matura, spirituale. Mol
te le espressioni al riguardo: "Andavamo insieme a confessarci, insieme a comunicarci, fare la meditazione la lettura spirituale, la visita al SS. Sacramento, a servire la messa". Questo livello di confidenza è difficile, anche per i religiosi: però è una meta da raggiungere. Don Bosco lo riteneva essenziale.
La gioia
Nella giovinezza di don Bosco c'è una straordinaria preoccupazione di comunicare l'allegria. Sapendo che tutti i giovani hanno fame di vita, don Bosco intuisce che per avvicinare i giovani e per diventare loro amico è necessario prendere su di sé questa fame di vita che si manifesta nell'allegria. Ma che tipo di allegria? Ce lo dice il regolamento della "società dell'allegria".
Si tratta innanzitutto di un'allegria voluta, cioè non casuale, che non spunta per sbaglio da qualche situazione, ma da un progetto di vita. Egli scrive: "E obbligo stretto per ciascuno di cercare quei libri, introdurre quei discorsi e trastulli che possono contribuire a stare allegri". Don Bosco si manterrà tale sempre. "Erano incredibili, dirà don Cerruti, le industrie che don Bosco metteva in atto per tenerci allegri e ne inventava così tante che i suoi colleghi ahimé troppo seriosi lo consideravano pazzo".
Un'allegria da difendere: don Bosco intuisce che l'allegria ha dei nemici da mettere subito alla porta: "Era proibita ogni cosa che cagionasse malinconia, specialmente le cose contrarie alla legge del Signore". Una allegria non sguaiata e pericolosa, come pure lui ebbe occasione di poter avere dietro invito di alcuni "cattivi" compagni, ma che rifiutò ogni volta decisamente. Ecco qui l'associazione tra peccato e tristezza, tra felicità e grazia, caratteristiche del suo sistema preventivo. Se non comprendiamo questo, non possiamo capire bene le ragioni di tanta insistenza in tutta la sua pedagogia sull'allegria. È sempre un'allegria che spunta da cuore amico del Signore: un'allegria che serve ad evangelizzare i giovani, cioè ad annunciare che Dio è la nostra felicità.
Un'allegria fatta anche di impegno. Così recitava il secondo articolo del Regolamento: "Esattezza nell'adempimento dei propri doveri scolastici e dei doveri religiosi". È l'annuncio della pedagogia
del dovere che don Bosco userà per tutta la vita. Basta leggere le tre biografie dei ragazzi di Valdocco da lui scritte. Un testimone oculare lo conferma: "non ci si accorgeva che don Bosco era santo, tanto era semplice nel fare bene tutte le cose. Solo chi conosce la fatica che si deve impiegare per fare bene ogni giorno tutte le piccole cose, sa che per realizzare con pienezza bisogna davvero essere santi".
Infine un'allegria evangelizzatrice. Se è vero che questa allegria scaturisce da cuore innamorato di Dio, è altrettanto vero che va custodita e diffusa fra i fratelli. Lungo la settimana la "società dell'allegria" si raccoglieva in casa di uno dei soci per parlare di religione. Ecco un ulteriore "inizio" dell'Oratorio. L'allegria di cui parla don Bosco è la gioia di colui che crede. Per questo chi si avvicinava a lui ne restava affascinato: "Sarei disposto — dirà il santo don Orione — a fare qualsiasi cosa per ritornare a vivere qualche ora con don Bosco, come mi capitò nella mia giovinezza".
"Tutto cominciò da un sogno" si legge in molte biografie di don Bosco e l'affermazione può essere accettata ad una condizione: che don Bosco solo da adulto, e non prima, capì che tutto "era cominciato con un sogno". Che significa? Una cosa sola: che don Bosco più volte nella sua vita ha sperimentato l'ansia, il dubbio della scelta vocazionale. Fu incerto se entrare in seminario o farsi frate; se diventare prete diocesano o prete religioso; se essere sacerdote in patria o missionario; se vivere la vita del prete di parrocchia o dedicarsi ad altro apostolato sacerdotale. Comunque nel 1835, al momento della scelta, la decisione avviene attraverso un processo "pedagogico" che poi consiglierà ai giovani: riflessione, richiesta di consiglio a persona saggia, preghiera intensa e quindi ascolto docile del consiglio ricevuto dal sacerdote-consigliere. Vediamo alcuni particolari.
La scelta è sempre una sofferenza. Non c'è troppo da illudersi. Scrive don Bosco a 19 armi: "La mia maniera di vivere, certe abitudini del mio cuore [superbia] e la mancanza assoluta delle virtù necessarie a questo stato [quello ecclesiastico] rendevano dubbiosa e assai difficile quella deliberazione". Il sogno dei nove anni, più volte rinnovatosi in modo sempre più chiaro, lo invitava all'opzione
per lo stato ecclesiastico, cui per altro sentiva propensione. Ma la scelta restava difficile.
La scelta nasce da un confronto. Scegliere è confrontarsi: prima di tutto con una guida spirituale. Don Bosco ne sente la mancanza: "oh se avessi avuto una guida che si fosse presa cura della mia vocazione! sarebbe stato per me un gran tesoro, ma questo tesoro mi mancava. Avevo un buon confessore, che pensava a farmi cristiano, ma di vocazione non si volle mai immischiare".
La scelta è un confronto con Dio. Le scelte fondamentali della vita non si fanno davanti agli uomini, bensì davanti a Dio. Don Bosco ci pensò su da solo, lesse qualche libro e si decise per la vita sacerdotale francescana. Fece l'esame presso i conventuali riformati: fu accettato e tutto era pronto per entrare nel convento della Pace a Chieri, quando un sogno circa la vita francescana mise in dubbio la scelta che stava per fare. Fece allora un nuovo tentativo di accostare un confessore, ma senza risultato; finché fece ricorso allo zio del Comollo, prevosto di Cimano, che lo consigliò di entrare in seminario. La scelta dello stato di vita è una cosa molto seria. Lo testimonia un'espressione tipica e molto forte di don Bosco, sovente ripetuta anche nei decenni seguenti: "Ero persuaso che dalla scelta dello stato di vita dipendesse l'eterna salvezza o l'eterna perdizione".
La scelta è anche un confronto cogli altri. L'esperienza del gruppo aiuta. Giovanni aveva 25 compagni di classe, di cui tre divennero medici, uno mercante e ventuno preti. Ci si può chiedere quanto abbia influito la decisione di don Bosco sui compagni, visto i suoi indubbi caratteri di leader presso di loro; ma ci si può anche domandare quanto essi abbiano influito sulla decisione di don Bosco. Senza poi dire del parere del compagno Comollo, con cui intraprese una novena perché il Signore lo ispirasse nella scelta dello stato. Indubbiamente c'è questo va e vieni tra don Bosco ed i suoi amici; è evidente che la scelta di uno è già una "comunicazione" che aiuta altri a scegliere; ma anche il non scegliere di uno è già una scelta che bloccherà altri. Si è insomma inseriti in un canale di salvezza in cui ogni cosa che si fa comunica ad altri un messaggio.
La scelta implica una vera conversione. Dicono i maestri di spirito che nella vita dei santi normalmente si incontra un fatto chia
mato "seconda conversione". Essi si danno al Signore, magari con generosità, fino ad una certa stagione. Poi, improvvisamente, c'è un incremento di vita spirituale, come se si innestasse una marcia in più. Don Bosco ebbe questo momento a 20 anni, quando si decise a vestire l'abito ecclesiastico; fu a una conversione al suo Signore in maggior pienezza. Così scrive: "Dopo quella giornata dovevo occuparmi di me stesso; avevo vestito l'abito ecclesiastico, la vita fino allora tenuta doveva essere radicalmente riformata; negli anni precedenti non ero stato uno scellerato, ma un dissipato, vanaglorioso, occupato in partite, giochi, salti, trastulli ed altre cose simili che rallegravano momentaneamente, ma che non appagavano il cuore".
Don Bosco che pure era stato un ottimo giovane, giudica severamente la sua vita passata, per cui una volta deciso di entrare in seminario, fissa una precisa direzione alla sua voglia di vivere e si pone dei limiti per quanto concerne i tipi di esperienze giovanili : "Per l'avvenire non prenderò mai più parte a pubblici spettacoli sulle fiere [...] Non farò mai più il gioco dei bussolotti, di prestigiatore [...]. Queste cose le reputo tutte contrarie alla gravità e allo spirito ecclesiastico". Don Bosco invero rifarà alcune di queste esperienze per i suoi giovani, perché ne comprenderà il senso e la finalità evangelizzatrice: solo che non le farà più per gusto personale. Il capovolgimento di direzione è segnato dall'austera presenza della conversione, della rottura con un certo mondo per sposarne un altro. "Amerò — scrive — e praticherò la ritiratezza, la temperanza nel mangiare e nel bere, e di riposo". La croce nella vita di don Bosco assumerà spesso il nome di "temperanza" cioè l'austerità nella vita quotidiana.
La direzione della sua vita è inoltre indicata da un'attenta vigilanza sulla libertà del cuore: "Siccome pel passato ho servito al mondo con letture profane, così per l'avvenire procurerò di servire a Dio dandomi alle letture di cose religiose. Combatterò con tutte le mie forze ogni cosa, ogni pensiero, ogni discorso, parole ed opere contrarie alla virtù della castità. All'opposto praticherò tutte quelle cose, anche piccolissime, e che possono contribuire a conservare questa virtù".
La conversione è infine segnata da un'immersione interiore nel clima di fede. Don Bosco che era stato un po' dissipato ed innamorato dei classici e della poesia, intende ora immergersi in una cultura spirituale. Se nel passato era stato utile ai piccoli e grandi del suo paese e ai suoi compagni di studi con letture profane, ora per l'avvenire intendeva servire Dio dandosi alle letture di cose religiose: "Oltre alle pratiche ordinarie di pietà, non ometterò mai di fare ogni giorno un poco di meditazione e un po' di lettura spirituale". Una volta arricchitosi di questa esperienza, don Bosco programma di esprimerla ogni giorno esteriormente. Ecco il settimo e ultimo proposito dopo la vestizione e prima di entrare in seminario: "Ogni giorno un esempio o qualche massima vantaggiosa alle anime altrui. Ciò farò con i compagni, con gli amici, con i parenti e quando non posso con altri, lo farò con mia madre". Il suo impegno era di esprimere ciò che aveva dentro, cioè "testimoniare".
* * *
Leggendo come in filigrana questa storia della giovinezza di don Bosco — così come narrata da lui stesso "volgendo lo sguardo indietro" a distanza di decenni — già si scoprono i lineamenti dell'uomo maturo, del futuro educatore. Don Bosco a venti anni risulta già un uomo fatto. In lui c'è estrema continuità fra queste esperienze e ciò che vivrà in seguito. Non sconfesserà mai la sua giovinezza, perché essa è grazia, è piena di grazie. Don Bosco ci insegna a prendere sul serio l'età giovanile. Essere giovani non è un incidente biologico o cronologico; è poter disporre di una grazia. Tocca agli educatori far sì che i giovani rispondano a questa grazia con l'ascolto, l'impegno, la fedeltà.
"lo so a chi ho dato la mia fiducia" (2 Tim 1,12)
Abbiamo visto l'infanzia, la fanciullezza e la giovinezza di don Bosco. Ne abbiamo presentato le esperienze che hanno contribuito ad offrire dimensioni ed elementi significativi di quella che sarà poi stata la sua futura pedagogia spirituale. Nella stessa logica ora seguiamo don Bosco chierico nel seminario di Chieri e sacerdote nel Convitto ecclesiastico di Torino (1835-1844). Si tratta di un decennio altrettanto e forse ancor più importante dei due precedenti. Aggiungeremo poi alcuni spunti spirituali tratti dalle lettere di don Bosco ai chierici salesiani e ai seminaristi in genere.
I125 ottobre don Bosco fa la vestizione e la sua vita cambia radicalmente, anticipando le "abitudini" di un chierico di diverso stile, portatore di rinnovata spiritualità ecclesiastica ed apostolica. Don Bosco, studente modello nelle scuole di Chieri, sarà seminarista modello in teologia (e poi sacerdote irreprensibile al "Convitto" e benefico al tempo di casa Pinardi).
Quello del seminario è un periodo importantissimo della sua vita. La sua spiritualità personale si capisce e si profila proprio negli anni della formazione ecclesiastica, ovviamente maturata negli anni successivi nella fucina dell'azione e nella molteplicità delle relazioni personali. Dall'esperienza del seminario don Bosco assumerà ispirazioni e contenuti che accompagneranno sostanzialmente la sua futura azione educativa.
Con la vestizione era nato un "altro" don Bosco, molto diverso dal precedente. Lo aveva aiutato anche il "memorando" discorso della madre: "1. Non è l'abito che onora il tuo stato, ma la virtù. Guarda di non disonorarlo: piuttosto lascialo stare. 2. Abbi sempre divozione alla Madonna, sii tutto della Madonna".
Entrato nel seminario di Chieri, inizia colà la sua vita con gli esercizi spirituali e poi si dà anima e corpo a prepararsi intellettualmente e spiritualmente al suo sacerdozio. Eccolo allora tutto compreso della vita del seminario.
Un posto privilegiato hanno per lui le pratiche di pietà: ogni mattina messa, meditazione e la terza parte del rosario; a mensa lettura edificante. La confessione era obbligatoria ogni quindici giorni. La santa comunione però si poteva soltanto fare la domenica od in altra speciale solennità; qualche volta si faceva lungo la settimana, ma con qualche sotterfugio non proibito dai superiori. In tal modo don Bosco può ricevere frequentemente la santa comunione, che definisce "il più efficace alimento della mia vocazione".
Nelle "Memorie dell'Oratorio" scriverà a proposito dell'inizio degli studi di filosofia (1836):
"Mi feci a leggere De imitatione Christi di cui lessi qualche capo intorno al SS. Sacramento. Considerando attentamente la sublimità dei pensieri, e il modo chiaro e nel tempo stesso ordinato ed eloquente con cui si esponevano quelle grandi verità, cominciai a dire tra me stesso. L'autore di questo libro era un uomo dotto. Continuando altre e poi altre volte a leggere quell'aurea operetta, non tardai ad accorgermi, che un solo versicolo di essa conteneva tanta dottrina e moralità, quanta non avrei trovato nei grossi volumi dei classici antichi".
Come è noto, l'Imitazione di Cristo è una silloge di riflessioni e istruzioni di natura religiosa, espressa in sentenze frammiste ad elevazioni spirituali per condurre alla perfezione della carità mediante un itinerario devozionale e ascetico di conversione. L'idea fondamentale è l'imitazione di Cristo, ma un'imitazione dove l'attenzione si porta soprattutto sull'esempio del Gesù del Vangelo. Tredici anni dopo, nel 1849, don Bosco ne farà come una sintesi in La Chiave del Regno, dipingendo quasi un proprio autoritratto:
"Il modello che ogni Cristiano deve copiare è Gesù Cristo. Niuno può vantarsi di appartenere a G. C. se non si adopera per imitarlo. Perciò nella vita e nelle azioni di un Cristiano devonsi trovare la vita e le azioni di Gesù medesimo. Il Cristiano deve pregare, siccome pregò G. C. sopra la montagna con raccoglimento, con umiltà, con confidenza. Il Cristiano deve essere accessibile, come lo era Gesù Cristo, ai poveri, agli ignoranti, ai fanciulli [...] Il Cristiano deve trattare col suo prossimo, siccome trattava G. C. co' suoi seguaci: perciò i suoi trattenimenti devono essere edificanti, caritatevoli, pieni di gravità, di dolcezza, di semplicità. Il Cristiano deve essere umile, siccome fu G. C. [...] Il vero Cristiano si considera come il minore degli altri e come servo di tutti. Il Cristiano deve ubbidire come ubbidì G. C. [...] Il vero Cristiano obbedisce a' suoi genitori, a' suoi padroni, a' suoi superiori [...] Il vero Cristiano nel mangiare e nel bere deve essere come G. C., alle nozze di Cana di Galilea e di Betania [...] Il buon Cristiano poi deve essere coi suoi amici, siccome era G. C. con S. Giovanni e S. Lazzaro [...] Il vero cristiano deve soffrire con rassegnazione le privazioni e la povertà come le soffrì G. C. [...] Egli sa tollerare le contraddizioni e le calunnie [...] Il vero Cristiano deve essere pronto a tollerare le pene di spirito [...] Il buon Cristiano deve essere disposto ad accogliere con pazienza ogni persecuzione, ogni malattia ed anche la morte, siccome fece G. C. [...] Di maniera che il vero Cristiano deve dire coll'apostolo S. Paolo: Non sono io che vivo, ma è Gesù Cristo che vive in me".
Don Bosco non si pone il problema della possibilità di cesura o di contrasto fra il Gesù della storia ed il Cristo della fede. Semplicemente invita il cristiano ad "imitare" l'unico "modello" conosciuto di Gesù, quello evangelico, assumendo, come suo discepolo, una condotta impregnata del suo Spirito e sorretta dalle sue grandi intenzioni di Salvatore.
Giovanni Bosco intratteneva buoni rapporti coi Superiori, che gli usavano molta bontà, anche se tante volte avrebbe voluto parlare, chiedere loro consiglio o scioglimento dei dubbi e non poteva. Il futuro memorialista non potrà fare a meno di sottolineare la distanza che c'era tra superiori e chierici. Positivamente rimane impressionato da don Borel, di cui ammira l'aria ilare, le parole scherzose, ma sempre condite di pensieri morali, l'ottima preparazione e ringraziamento alla messa, il contegno e fervore nel celebrarla, e poi la popolarità, la vivacità, la chiarezza ed il fuoco di carità delle sue parole. Un'immagine esatta di quello che vorrà essere lui stesso.
Scelse come compagni i chierici di specchiata virtù, notando altresì come "non pochi giovani senza badare alla loro vocazione vanno in seminario senza avere né spirito né volontà del buon seminarista". Questi li riteneva pericolosi. Comunque, allegro, socievole, buono con tutti, a tutti offrì i suoi umili servizi: cucire scarpe, attaccare bottoni... per cui tutti lo volevano. Ed ancora una volta si mantenne in profondissima e spirituale amicizia con Comollo. Di lui, benché abbia delle riserve su certe forme di penitenza, tuttavia condivide le convinzioni relative ai doveri del buon seminarista e alle responsabilità spirituali del futuro sacerdote: saranno parte della "pedagogia spirituale" di cui si farà propugnatore in futuro. Si pensi solo - in relazione alla morte del Comollo - alla concezione che la vita è una preparazione alla morte, con l'evidente salutare timore del giudizio di Dio, giusto e misericordioso, per cui don Bosco inserirà nel Giovane Provveduto la meditazione sui Novissimi e la realistica mensile "Preghiera per la buona morte" (senza contare nel futuro i sogni sui "Novissimi" e le premonizioni di morte).
Le vacanze potevano essere pericolose per un chierico. Ecco allora don Bosco leggere, scrivere, studiare, lavorare nei campi, fare il solito orario, insegnare il catechismo a piccoli e grandi. "Ho pure cominciato a fare prediche e discorsi col permesso e coll'assistenza del mio prevosto. Non so quale ne sia stato il frutto. Da tutte le parti era applaudito, finché ne fui disingannato... Dio misericordioso ha disposto che avessi quella lezione".
Studiava seriamente, giorno e notte. Don Bosco non scherzava; veramente non sprecava un minuto del tempo: decine i volumi letti, soprattutto di storia della Chiesa e dei santi. Andava a scuola, ma approfondiva per conto suo. Per la morale studiava il probabiliorismo; in ecclesiologia le tesi antiinfallibilistiche; nella prassi pastorale il rigorismo e in diritto moderate idee filogallicane e giurisdizionalistiche. Coltivava la cultura profana: conosceva i classici latini ed italiani, ma apprezzava anche la bellezza degli scrittori ecclesiastici. Nell'ultimo anno domandò di essere dispensato dal 4° col permesso di dare gli esami: si buttò a corpo morto a studiare nelle vacanze e fu promosso. Giudizio finale: "chierico zelante e di buona riuscita".
Tante altre cose possiamo leggere nelle sue "Memorie" e nelle
"Memorie Biografiche" su Giovanni Bosco seminarista a Chieri. Siamo quasi certi che gli sia stato difficile vivere colà, dato il suo temperamento estroverso, i suoi desideri che certamente contrastavano con il tipo di regolamento, di studi, di vita monotona in atto, di sistema più "repressivo" che "preventivo". Per questo sorprende che all'uscita dal seminario si esprima in termini di dolore per la separazione da quel posto. Comunque due furono le principali acquisizioni del seminario: l'educazione alle scienze e lo spirito ecclesiastico.
Al Convitto si "imparava ad essere prete", scriverà don Bosco. Anzitutto colà fa sua la concezione teologica morale del "benignismo" (quella di S. Alfonso) che si poneva fra il giansenisno rigorista e una certa diffusa reazione lassista. Rimaneva però una morale fondata piuttosto sulla legge che sulla coscienza, per cui era facile il conflitto fra legge e libertà. Fra le scienze teologiche preferiva la storia sacra e quella ecclesiastica, apologetica ed edificante, una storia che interpretava le vicende umane in chiave teologica, provvidenzialista, agiografica e moralistica.
Al Convitto la figura e l'insegnamento di don Cafasso rafforzarono elementi propri della sua spiritualità: la speranza cristiana, il senso del dovere come stile di vita religiosa coerente, l'importanza della pratica sacramentale nell'azione pastorale, la fedeltà alla Chiesa e al papa, l'orientamento pastorale in favore dei giovani abbandonati, il pensiero dei Novissimi, l'esercizio della Buona Morte.
Durante quegli studi poi don Bosco si esercita a preparare "meditazioni" e "istruzioni" per esercizi spirituali e missioni popolari. Stile piano e dimesso è il suo, molto elementare nelle strutture linguistiche, senza fantasia creatrice; elementare finché si vuole, nei contenuti teologici e spirituali, ma molto pratico negli obiettivi da raggiungersi.
Come altri suoi compagni "studenti" fa pure, sotto la guida di don Cafasso, esperienze pastorali in città. Gli tocca la catechesi sia ai carcerati (compresa l'assistenza religiosa fino all'impiccagione presso Valdocco di un condannato a morte) che agli immigrati presso la
Chiesa di S. Francesco di Assisi. Dalla prima matura l'idea che è meglio "prevenire" che "reprimere", dalla seconda prende avvio la sua Opera: "Questa società era all'inizio un semplice catechismo".
In occasione degli esercizi spirituali, in preparazione all'ordinazione sacerdotale di sabato 5 giugno 1841, don Bosco prende determinati propositi, forse gli stessi suggeriti dai predicatori a tutti gli esercitandi. Don Bosco li ha però trascritti nelle sue ultime Memorie-Testamento spirituale (degli anni ottanta); essi dunque sono stati presenti al suo spirito nel corso della sua vita, fino al termine. Li precede quella che egli considera la sintesi conclusiva degli esercizi stessi: "Il prete non va solo al cielo, non va solo all'inferno. Se fa bene andrà al cielo con le anime da lui salvate col suo buon esempio; se fa male, se dà scandalo andrà alla perdizione colle anime dannate pel suo scandalo". Ma ecco i propositi:
"1° Non fare mai passeggiate se non per gravi necessità: visite a malati etc. 2° Occupare rigorosamente bene il tempo.
3° Patire, fare, umiliarsi in tutto e sempre, quando trattasi di salvare anime. 4° La carità e la dolcezza di S. Francesco di Sales mi guidino in ogni cosa. 5° Mi mostrerò sempre contento del cibo che mi sarà apprestato, purché non sia cosa nociva alla sanità.
6° Berrò vino adacquato e soltanto come rimedio: vale a dire solamente quando e quanto sarà richiesto dalla sanità.
7° Il lavoro è un'arma potente contro ai nemici dell'anima, perciò non darò al corpo più di cinque ore di sonno ogni notte. Lungo il giorno, specialmente dopo pranzo, non prenderò alcun riposo. Farò qualche eccezione in casi di malattia.
8° Ogni giorno darò qualche tempo alla meditazione, alla lettura spirituale. Nel corso della giornata farò breve visita o almeno una preghiera al SS.mo Sacramento. Farò almeno un quarto d'ora di preparazione, ed altro quarto d'ora di ringraziamento alla S. Messa.
9° Non farò mai conversazioni con donne fuori del caso di ascoltarle in confessione o di qualche altra necessità spirituale".
Sono testi che andrebbe bene confrontare con i "Ricordi confidenziali ai Direttori" e i ricordi ai missionari (di cui diremo).
Don Bosco direttore spirituale dei chierici
A questo punto può essere interessante dedicare la nostra attenzione anche al modo con cui don Bosco, una volta diventato sacerdote-educatore-formatore, ha trattato coi giovani aspiranti al sacerdozio, con i seminaristi; mi servo delle lettere che ha scritto loro.
Anzitutto egli si mostra come amico e padre, e pertanto disposto a far tutto il possibile per aiutare ciascuno a realizzare la vocazione a cui è stato chiamato. Il suo impegno è massimo perché essi perseverino nella loro vocazione e con ciò stesso, per la mentalità di don Bosco, raggiungano la salvezza eterna. La paternità di don Bosco è tutta spirituale, fatta di confidenza illimitata, di affetto e di orazione reciproca. Lo si percepisce chiaramente già dalla forma con cui inizia le sue lettere: "Carissimo figlio, figlio mio amatissimo, sempre caro nel Signore". Tutto ciò sublima la dimensione veramente spirituale delle relazioni di don Bosco, la cui familiarità ed amicizia non nascono solo da simpatia umana, ma hanno la loro radice in Cristo. Analogamente si potrebbe dire per la conclusione: "Amiamoci nel Signore, amami nel Signore, tuo aff.mo in Gesù Cristo, prega per me che ti sono con affetto di padre in G.C.". Don Bosco è effettivamente un amico, soprattutto dell'anima, su cui i chierici possono contare: "Se le occorre qualche cosa... per cui le possa essere utile, conti pure sopra di me", e che procura, aiutato da Dio, di assicurare la salvezza eterna: "Coraggio, caro Baratta, o in un modo o nel
coll'aiuto di Dio, voglio assicurarti la via del Paradiso".
Ma anche la salvezza delle anime altrui don Bosco condivide con i chierici: "Tu, o mio caro Passeri, sei sempre stato la delizia del mio cuore, ed ora ti amo ancora di più, perché ti sei totalmente dedicato alle Missioni, che è quanto dire: hai abbandonato tutto per consacrarti al guadagno delle anime [...] Coraggio, adunque, o mio caro Passeri, preparati ad essere un buon prete, un santo salesiano. Io pregherò molto per te, ma tu non dimenticare questo amico dell'anima".
Ad un altro chierico scrive: "Non dubito che tu sarai sempre il ch. Peretto, quell'amico di don Bosco che voleva aiutarmi a guadagnare molte anime al Signore. Ora ti sei gettato nell'impresa. Dunque
benedico il Signore che ti conservi nella buona volontà di essere buono, virtuoso e salvarti l'anima. Io non mancherò di volerti bene e pregare per te. Sono contento della tua condotta. Continua, scrivimi sovente. Ritieni però che in terra lavoriamo per il Cielo".
Tra don Bosco e i chierici esiste dunque un profondo vincolo di paternità spirituale, che tende, come obiettivo fondamentale, alla loro felicità totale e spirituale, ossia alla salvezza dell'anima. Questo vale anche per i giovani che don Bosco non conosce: "Non ci conosciamo in faccia agli uomini, ma ci intendiamo nel servizio del Signore. Quel Signore che ti chiamò ad esser salesiano, ma fervoroso ed esemplare salesiano, ti aiuti a guadagnarti molte anime pel Cielo".
I valori profondamente spirituali passano però attraverso la mediazione umana, attraverso una relazione sincera, intima, fatta di confidenza data e ricevuta. Don Bosco insiste molto sulla sincerità e sull'apertura di cuore come condizioni indispensabili non solo per l'amicizia, ma soprattutto per un dialogo spirituale profondo. A un chierico che gli aveva esposto i suoi dubbi di vocazione risponde: "Ci parleremo quanto prima. A Lanzo potremo aprirci sinceramente il cuore". Ed a un altro scrive: "Se dici colle parole quello che hai nel cuore, avrai in me un amico, che farà tutto il bene che potrà". Al chierico Giovanni Cimano chiede l'apertura totale di cuore: "Abbi sempre di mira che tu sei con un amico, il quale non altro desidera che il tuo bene spirituale e temporale. Ciò otterremo coll'aiuto del Signore e col tenerci sempre il cuore aperto".
Essere amico di don Bosco è sinonimo di essere confidente, manifestare i propri sentimenti, intenti, progetti come punto di partenza per un orientamento spirituale che conduca alla felicità terrena e spirituale, come si legge nella lettera a Giovanni Garino: "Come ti dissi già altra volta, io ho bisogno da te di una confidenza illimitata, cosa che certamente mi concederai, se pensi alla sollecitudine usata e che vieppiù userò in avvenire in tutto ciò che potrà contribuire al bene dell'anima tua ed anche al tuo benessere temporale".
Uno degli aspetti su cui don Bosco insiste quando scrive ai chierici è la perseveranza nella vocazione. Molte sue lettere sono rispo
sta proprio a problemi, dubbi, situazioni avanzategli dai chierici in merito alla loro vocazione. Spesso è lo stesso don Bosco che prende l'iniziativa di scrivere per incoraggiare e stimolare, specialmente nei momenti di difficoltà. Al chierico Sonetti che ha problemi interiori, don Bosco, invitandolo alla tranquillità, spiega le ragioni di tali lotte interiori e gli garantisce il suo appoggio unito alla preghiera: "Non darti la minima inquietudine su quanto mi scrivi. Il demonio vede che gli vuoi scappare definitivamente dalle mani, perciò si sforza di ingannarti. Seguita i miei consigli e va' avanti con tranquillità. Intanto potrai farti passare la malinconia cantando questa canzone di S. Paolo [...]".
Ad un altro chierico che già si era consigliato personalmente con lui e che non era soddisfatto, per cui andava in cerca di altri consiglieri, scrive: "Rinnovo quanto già vi dissi di presenza. Andate avanti nello stato ecclesiastico, cui Dio vi chiama. Ma ricordate che moltiplicando i consiglieri, moltiplicate i vostri fastidi".
Don Bosco si impegna a rimuovere e semplificare i piccoli o grandi problemi che possono bloccare il dono totale della vita per la salvezza delle anime. La sua parola è sempre di incoraggiamento e di stimolo: "Avanti, non temere niente". Prospetta poi l'obiettivo: "Sei sempre buono, o mio Calcagno? Io spero di sì. Ma non volgere indietro lo sguardo. Miriamo il Cielo che ci attende. Là abbiamo un grande premio preparato. Lavora, guadagna anime e salvati la tua". Interviene nel momento opportuno, sempre con delicatezza, ma anche con fermezza, rispettando il ritmo di maturazione di ciascuno e la sua libertà, senza sostituirsi nella decisione personale. Quando poi uno si decide, don Bosco è contento. "La tua lettera mi toglie una spina dal cuore, che mi impedì di farti quel bene che finora non ti ho potuto fare. Va bene. Tu sei nelle braccia di don Bosco, ed esso saprà come servirsi di te per la maggior gloria di Dio ed a bene dell'anima tua".
La sollecitudine ed azione di don Bosco per la perseveranza nella vocazione dei chierici non si limita a semplici risposte a problemi, a illuminare dubbi o incoraggiare entusiasmi, ma comporta anche
un orientamento e una formazione dottrinale, in cui, in modo diretto e preciso, pone l'accento sul punto debole, suggerisce il rimedio adeguato e spinge ad acquistar certe virtù secondo gli individui ed i casi. Soprattutto insiste sulla castità, obbedienza, umiltà, lavoro, testimonianza di vita, timor di Dio e sanità. Si direbbero aspetti non solo adeguati per la perseveranza nella vocazione, ma elementi essenziali della vita religiosa salesiana e sacerdotale. Soffermiamoci un momento solo su alcune, castità ed obbedienza in particolare.
L'umiltà, la carità e la castità sono le tre pietre preziose con cui l'aspirante al sacerdozio deve adornare la sua anima. Scrivendo al chierico Parigi gli propone la pratica delle suddette tre virtù come condizione del progresso spirituale per la crescita nel cammino della santità: "si vis progredì in viam mandatorum Dei, perge quemadmodum aliquo abhinc tempore coepisti. Quomodo si volueris animam tuam pretiosis margaritis exornare, amicitiam constitue cum humilitate, caritate, et castitate. Eo sanctior eris, quo strictior erit haec amicitia".
Quali i mezzi per coltivare la virtù della castità? Don Bosco presenta la sobrietà nel cibo, l'osservanza del digiuno prescritto, riposo e levata mattutina prontamente, impegno nello studio, fuga dall'ozio, segno della croce, giaculatorie, orazione, vigilanza, fuga delle occasioni. Mezzi semplici e pratici, ma che don Bosco considera validi se fatti bene con perseveranza: "Questi disturbi diabolici saranno fugati col segno della S. Croce, col Gesù Maria Misericordia, col Viva Gesù e soprattutto col disprezzarli e col vigilate et orate e colla fuga dell'ozio e di ogni occasione prossima".
Don Bosco considera la castità come una virtù, uno stato abituale, assolutamente necessario per accedere al sacerdozio, una condizione sopra la quale non transige. Ad un chierico che vicino all'ordinazione gli espone le sue difficoltà in questa virtù risponde: "Ho ricevuto la tua lettera. Lodo la schiettezza e ringrazio il Signore della buona volontà che le ispira. Secondi pure gli avvisi del confessore; quis vos audit, me audit, dice G.C. nel vangelo. Si adoperi per corrispondere agli impulsi della divina grazia che le batte al cuore. Chi sa che il Signore non la chiami a sublime grado di virtù. Ma non illudiamoci: se non riporta compiuta vittoria di quell'inconveniente, non vada avanti né cerchi mai di inoltrarsi negli ordini sacri se
non almeno dopo un anno in cui non ci siano state ricadute". Seguono poi i soliti mezzi: preghiera, fuga dell'ozio e delle occasioni, frequenza dei sacramenti, devozione a Maria SS e S. Luigi, lettura di libri buoni. Qualche tempo dopo, un chierico ha gli stessi problemi. Forse don Bosco lo conosce meglio o forse poco, sta di fatto che riduce il tempo di prova ed il tono è diverso: "Per rispondere direttamente alla pregiatissima sua lettera avrei bisogno di sapere il tempo da cui non ci furono più ricadute. Mio sentimento «coram Domino» sarebbe che non si assumessero ordini finché non siano trascorsi almeno sei mesi di prova. Non intendo però di proibirlo di seguire il parere di persone che l'hanno incoraggiato di andare avanti".
In questo secondo caso il tono è vago e meno cordiale, senza cessare di essere delicato e più riservato e laconico. Si limita ad esprimere la sola sua opinione con molta umiltà, senza prendere posizione e lasciando spazio alla libertà di coscienza dell'individuo.
L'obbedienza è una delle virtù su cui don Bosco insiste di più. La presenta come la base ed il sostegno di ogni virtù, mezzo per ottenere pace del cuore, superare gli scrupoli e condizione necessaria per essere ammesso agli Ordini. Non parla dell'obbedienza in modo generico ed astratto, ma in relazione ai singoli individui. Così scrive a Luigi Calcagno: "Lavora, guadagna anime e salva la tua. Sobrietà ed ubbidienza per te sono tutto". Ad un altro, mentre raccomanda di essere un salesiano modello, presenta l'obbedienza come la prima virtù per lui: "Tu procura solamente di essere salesiano modello. L'ubbidienza è la base ed il sostegno di ogni virtù". Don Bosco esige dai chierici un'ubbidienza umile, pronta e illimitata, senza critica e mormorazioni. Al chierico Guidazio aggiunge anche la propria esperienza:
"Tu sarai sempre inquieto e dirò infelice fino a tanto che non metterai in pratica l'ubbidienza promessa e ti abbandonerai intieramente alla direzione dei tuoi superiori. Finora il demonio ti ha crudelmente travagliato spingendoti a fare il contrario. Dalla tua lettera e dai discorsi tenuti tra noi non appare alcun motivo per dispensarti dai voti. Qualora questi esistessero, dovrei scrivere alla Santa Sede cui sono riservati. Ma coram Domino io ti consiglierei alla considerazione dell'abneget semetipsum, e ricordati che vir obediens loquetur victoriam. Credi alla mia espe
rienza. Il demonio vorrebbe ingannare me e te; riuscì in parte contro di te; contro di me a tuo riguardo ha fallito completamente. Abbi piena fiducia in me come io l'ho avuta in te; non di parole ma di fatti, di volontà efficace, di ubbidienza umile, pronta, illimitata. Queste sono le cose che faranno la tua felicità spirituale e temporale e porteranno a me veraci consolazioni".
* * *
Fermiamoci qui. Questo è quanto don Bosco suggeriva ai suoi giovani chierici. Oggi noi abbiamo nuovi criteri di ammissione ai voti, che tengono in debito conto il progresso delle scienze umane, la riflessione teologica, le condizioni di vita del sacerdote nella società odierna, le esperienze di tante altre congregazioni. Ma credo che non si discostino molto nelle cose essenziali dal pensiero di don Bosco. Basterebbe solo andare a leggere nelle nostre Costituzioni rinnovate gli articoli circa il voto di obbedienza e di castità, circa la confidenza col direttore spirituale, col confessore. Ne parleremo.
"Noi dovremmo parlare poco di don Bosco e molto come don Bosco" (don Giuseppe Quadrio, sdb, servo di Dio)
Finiti gli studi, don Bosco entra immediatamente in azione. Nel breve volgere di due anni ha già fatto la scelta decisiva, quella che lo accompagnerà per tutta la vita: dedicarsi anima e corpo all'educazione dei giovani.
Nell'autunno 1844 infatti — dopo aver lasciato il Convitto ecclesiastico — viene assunto come cappellano presso l'Ospedaletto di S. Filomena che la marchesa Barolo avrebbe aperto solo nell'estate successiva per bambine e ragazze ammalate. Nel frattempo continua il lavoro con i giovani — che aveva già iniziato al Convitto — presso il "Rifugio" della Barolo, dove collabora con altri cappellani che lavorano per ragazze a rischio o già vittime di violenze.
Al "Rifugio" nasce l'Oratorio di S. Francesco di Sales — dal santo cui era dedicato un locale destinato a cappella del futuro Ospedaletto — che dopo 15 anni avrebbe dato il nome alla società salesiana. L'affinità col santo di Ginevra, conosciuto in seminario a Chieri, si consolida qui e contribùirà a delineare la futura spiritualità salesiana, fatta di carità apostolica come fine, di mansuetudine come metodo e di zelo ardente come anima di tutto.
Ancor prima del novembre 1846 — quando don Bosco si trasferisce definitivamente a Valdocco con la mamma, dopo aver superato una malattia che lo aveva portato sull'orlo della tomba — ci troviamo di fronte ad un sacerdote della diocesi di Torino che, in qualche modo, ha fatto una scelta di Vita consacrata: accetta una povertà radi
cale, rifiutando varie offerte di lavoro pastorale, legittimamente pagate, all'interno delle strutture ecclesiastiche, per contare solo sulla beneficenza; coltiva una castità al di sopra di ogni sospetto, tenuto conto che lavora con giovani difficili, vittime talora di esperienze ambigue o negative tra compagni e con adulti; professa obbedienza al suo vescovo, da cui dipende in tutto e per tutto e finalmente vive un'ardente carità verso i giovani, per i quali si sente chiamato a dar la vita.
In quel novembre 1846 poi inizia, con mamma Margherita al suo fianco, un'avventura che si concluderà all'alba del 31 gennaio 1888. Presto sorgerà un Oratorio fatto di preghiera e di gioco, poi via via un pensionato, un ospizio, un'opera complessa di varie scuole umanistiche e diversi laboratori, con la massima concentrazione di giovani in Italia (circa 800 minori), limitata dalla povertà dei mezzi e scarsezza delle persone, ma illimitata nei sogni e nei progetti del suo fondatore.
In un frammento della sua "storia dell'anima", don Bosco confesserà (1854) il segreto obiettivo del suo operare: "Quando mi sono dato a questa parte di sacro ministero intesi consacrare ogni mia fatica alla maggior gloria di Dio ed a vantaggio delle anime, intesi di adoperarmi per fare buoni cittadini in questa terra, perché fossero poi un giorno degni abitatori del cielo. Dio mi aiuti di poter continuare fino all'ultimo respiro di mia vita. Così sia".
Un testo quanto mai lineare ed essenziale, dei primissimi anni cinquanta — Piano di regolamento per l'Oratorio maschile di S. Francesco di Sales in Torino nella regione di Valdocco (che don Bosco non pubblicò mai) — ci riporta alle reali origini del primo oratorio, privo cioè di quelle sovrastrutture, interpretazioni e commenti di cui sono carichi i testi successivi, preparati da lui stesso per la pubblicizzazione, ad intra e ad extra della società salesiana. Proprio in quanto esso esprime le sue intenzioni e l'iniziativa che intende promuovere, allo stadio elementare, primigenio, senza tutte le concretizzazioni posteriori, si presta meglio ad indicare la ricchezza delle virtualità e della proponibilità pedagogica.
"Ut filios Dei, qui erant dispersi, congregaret in unum. Joan. c. 11 v. 52.
Le parole del santo Vangelo che ci fanno conoscere essere il divin Salvatore venuto dal cielo in terra per radunare insieme tutti i figliuoli di Dio, dispersi nelle varie parti della terra, parmi che si possano letteralmente applicare alla gioventù de' nostri giorni. Questa porzione la più dilicata e la più preziosa dell'umana Società, su cui si fondano le speranze di un felice avvenire, non è per se stessa di indole perversa. Tolta la trascuratezza dei genitori, l'ozio, lo scontro de' tristi compagni, cui vanno specialmente soggetti ne' giorni festivi, riesce facilissima cosa l'insinuare ne' teneri loro cuori i principii di ordine, di buon costume, di rispetto, di religione; perché se accade talvolta che già siano guasti in quella età, sono piuttosto per inconsideratezza, che non per malizia consumata. Questi giovani hanno veramente bisogno di una mano benefica, che si prenda cura di loro, li coltivi, li guidi alla virtù, li allontani dal vizio. La difficoltà consiste nel trovar modo di radunarli, loro poter parlare, moralizzarli. Questa fu la missione del figliuolo di Dio; questo può solamente fare la santa sua religione. Ma questa religione che è eterna ed immutabile in sé, che fu e sarà mai sempre in ogni tempo la maestra degli uomini, contiene una legge così perfetta, che sa piegarsi alle vicende dei tempi, e adattarsi all'indole diversa di tutti gli uomini".
L'esordio del documento e altri passi centrali indicano subito che alla base della scelta di fare Oratorio c'è anzitutto la volontà salvifica di Dio, espressa nell'incarnazione del Figlio, mandato appunto per raccogliere in unità, attorno a sé, gli uomini, "i figliuoli di Dio", dispersi nei meandri dell'errore e delle false strade di salvezza. La Chiesa è chiamata a rispondere nel tempo a tale divina missione della salvezza, che è resa possibile da una duplice serie di ragioni: una di indole teologica (offerta dalla solidità e flessibilità della religione) e una di carattere pedagogico, consistente nella fondamentale educabilit del soggetto giovanile. L'oratorio si inserisce nell'economia della salvezza, è una risposta umana ad una vocazione divina e non tanto un'opera fondata sulla buona volontà di una persona.
Così don Bosco, sulla soglia dei 40 anni, ha già preso coscienza che Dio lo ha chiamato e lo chiama a tale missione per i giovani e, sia pure gradualmente, si convince che nell'Oratorio si trova lo scopo della sua vita.
Esemplare al riguardo è il profilo che traccia di S. Vincenzo de' Paoli in un'operetta dei primi anni del suo apostolato sacerdotale
(1849) che si rifaceva a quanto abbiamo detto a proposito della "Imitazione di Cristo": "Per ultimare il suo ritratto basterà aggiungere, ch'egli si era proposto Gesù Cristo a modello; attingeva nel vangelo tutta la sua morale, tutta la sua civiltà, tutta la sua politica [...] disse una volta «non trovo cosa che mi piaccia se non in Gesù Cristo» [...] Persuaso [Vincenzo] che il discepolo non è perfetto se non quando assomiglia al suo maestro [... ] si prefisse di averlo continuamente dinanzi agli occhi [...] Bisogna risolversi ad imitare G. C. e seguirlo ne' patimenti, altrimenti non verremmo mai a partecipare della sua gloria. Qui vult gaudere cum Christo oportet pati cum Christo".
S. Vincenzo de' Paoli fu, senza dubbio, una figura di grandissimo significato per don Bosco: non soltanto sul piano teoretico, ma nella prassi quotidiana e nella realizzazione dell'ideale sacerdotale: modello di prete, instancabile nelle attività apostoliche verso tutte le svariate forme di povertà e di abbandono, "padre dei poveri per la prontezza l'estensione e la perseveranza della sua carità, ma anche per i sentimenti di tenerezza e umiltà con cui l'accompagnava". S. Vincenzo poi — commenta don Bosco — "si animò sull'esempio di S. Francesco di Sales, la cui estrema dolcezza lo colpì al bel primo trattenimento avuto con lui; finalmente a forza di vigilanza divenne sì dolce e sì affabile, che sarebbe stato in questo genere il primo uomo del suo secolo, se il suo secolo non avesse avuto il santo Vescovo di Ginevra".
Ma subito nel "piano" di don Bosco, accanto alla dimensione religiosa, se ne scorge un'altra; quella sociale: "l'insinuare ne' teneri loro cuori i principi di ordine, di buon costume, di rispetto". Non per nulla qualche anno prima, in una lettera circolare de11851, don Bosco aveva scritto: "Così mentre vi ha chi lodevolmente si adopera per diffondere gli scientifici lumi, per far progredire le arti, per prosperare le industrie e per educare i giovani agiati nei collegi e ne' licei, nel modesto Oratorio di San Francesco di Sales si compartisce largamente l'istruzione religiosa e civile a coloro, che quantunque siano stati meno favoriti dalla fortuna, hanno pure la forza ed il desiderio d'essere utili a se medesimi, alle loro famiglie ed al paese".
Le stesse idee aveva per altro espresso ancora all'epoca dell'Oratorio "volante" (13 marzo 1846), alla massima autorità di Torino, il vicario di città Michele Benso di Cavour: "L'insegnamento [del Catechismo] si riduce praticamente a questo: 1. Amore al lavoro. 2.
Frequenza ai Santi sacramenti. 3. Rispetto ad ogni superiorità. 4. Fuga dai cattivi compagni". La risposta del padre del famoso conte tessitore dell'unità d'Italia Camillo Benso non poté che essere positiva: "Nessun dub[b]io può esservi del vantaggio di un Catechismo [...] e riceverò volentieri il sig. sacerdote Bosco".
"La difficoltà consiste nel trovar modo di radunarli, loro poter parlare, moralizzarli"
Così scrive don Bosco e l'affermazione è comprensibilissima. Ma accanto a tale difficoltà, ve ne erano delle altre, come ad esempio quelle "oggettive" di carenza di risorse economiche e di ambienti, ma anche quelle "soggettive" di redigere un regolamento che riducesse in "unità di spirito e di disciplina" diversi stili educativi. Leggiamo nel documento, già citato, del 1851:
"Fra i mezzi atti a diffondere lo spirito di religione ne' cuori inulti ed abbandonati, si reputano gli Oratori. Sono questi oratori certe radunanze in cui si trattiene la gioventù in piacevole ed onesta ricreazione, dopo di aver assistito alle sacre funzioni di chiesa. I conforti che mi vennero dalle autorità civili ed ecclesiastiche, lo zelo con cui molte benemerite persone vennero in mio aiuto e con mezzi temporali e colle loro fatiche, sono segno non dubbio delle benedizioni del Signore, e del pubblico gradimento degli uomini. Trattasi ora di formare un piano di Regolamento che possa servire di norma ad amministrare questa parte di sacro ministero, e di guida alle persone ecclesiastiche e secolari che con caritatevole sollecitudine in buon numero ivi consacrano le loro fatiche. Più volte ho cominciato, ed ho sempre desistito per le innumerabili difficoltà che eransi a superare. Ora e perché si conservi unità di spirito e conformità di disciplina, e per appagare parecchie autorevoli persone, che a ciò mi consigliano, mi sono deciso di compiere questo lavoro comunque siasi per riuscire".
Nella citazione si coglie immediatamente la "critica" alla situazione cittadina torinese di quegli anni quaranta: il modello parrocchiale ereditato da una cultura di paese, in uso all'epoca, non era più in grado ne' di "radunare" le masse giovanili urbane, residenti per lo più nella periferia cittadina, in stato di abbandono in qualche caso materiale, più spesso morale e religioso.
Si imponeva di conseguenza una nuova strategia pastorale, un'inedita proposta di formazione come risposta ad una trasformazione radicale della situazione urbana di Torino, che in dieci anni (18381848) aveva visto aumentare la sua popolazione di circa il 17% (da 117.000 a 136.000); e ancor di più in percentuale sia le abitazioni (2600/3200) che le famiglie (26.000/33.000); senza contare un insieme di popolazione fluttuante che gravitava attorno alla città (militari, studenti, operai stagionali...). Sul totale non più de110% parlavano e comprendevano correttamente la lingua italiana; i giovani fra i 10 e 20 anni erano il 20% (22.000), sempre in crescita nel corso degli anni, soprattutto per il loro utilizzo come mano d'opera a basso costo nel settore tessile ed edilizio.
La risposta della comunità cristiana cittadina in genere era dogmatica, quando non era di pura condanna dell'immigrazione stessa vista come fuga dal paese alla ricerca di pericolose novità, con la conseguente perdita dei sistemi anteriori di referenza e dunque anche della pratica della fede. Prevaleva il rifiuto della città, vista come luogo di male, che distruggeva i valori della cultura cattolica, impediva quei rapporti personali semplici ma tanto coltivati e utili nei paesi di origine.
Don Bosco non disarma, anzi reagisce di fronte a tale "lettura" della situazione. Lo sviluppo economico non lo considera di per se stesso un ricettacolo di vizio, una scuola di perdizione. L'istruzione popolare — attesa con ansia dai liberali ma suscitante le apprensioni degli ambienti dei conservatori — non la vede come un male da esorcizzare, quanto come una risorsa da valorizzare per la formazione umana e cristiana dei giovani.
Va però precisato che non sono tanto le incipienti tendenze liberali del tempo ad animare il suo zelo apostolico e il suo spirito di "missionario dei giovani senza parrocchia", quanto le motivazioni proprie della tradizione caritativa cattolica, ispirata al Vangelo, sollecita al bisogno materiale e spirituale dei poveri, degli orfani, degli abbandonati. Don Bosco è figlio del suo tempo e risente di tale profonda ispirazione evangelica. Una volta preso atto che le strutture ecclesiastiche "organizzate" non reggono al confronto con gli squilibri sociali e ai mutamenti culturali, tenta nuove vie, apre nuovi fronti per giovani sradicati dal loro habitat naturale e, d'accordo
con le autorità ecclesiastiche, prospetta nuovi e più coraggiosi orizzonti educativi.
Tale evoluzione fu determinata dalle esigenze della situazione. La povertà culturale dei giovani provoca l'apertura di una scuola elementare domenicale, poi serale, indi diurna, soprattutto per chi non può frequentare quella pubblica. Seguono altre scuole, laboratori vari e via di questo passo verso la complessa "casa annessa" all'Oratorio di S. Francesco di Sales. Questo ne fa di strada: da semplice luogo di ritrovo dei giorni di festa per il catechismo e i giochi nei primi anni del quarto decennio del secolo (1841-1846), a partire dal 1847 diventa luogo di formazione globale; poi per un certo numero di giovani privi di mezzi di sussistenza si trasforma in "ospizio" o casa, in cui si sviluppa un programma più completo, fatto di possibilità dei sacramenti, di istruzione religiosa elementare (letture formative) di svago, (strumenti di gioco, sport, escursioni), di interessi (canti, musica), di festività religiose e civili, di doni (qualche regalo, un pezzo di pane...). Prende contemporaneamente il via un'intensa attività nel campo della stampa religiosa e apologetica con la diffusa pubblicazione periodica delle Letture Cattoliche (1853ss) di carattere largamente popolare. Da11855 al 1870 si delinea un'ulteriore svolta decisiva nelle imprese assistenziali e educative di don Bosco. Con la trasformazione graduale dell'Oratorio di Valdocco in internato-collegio sia per artigiani (1852-1862) che per studenti (1855-1859), prende corpo un grosso filone di attività che spingerà al secondo posto l'iniziale opera dell'oratorio, sempre "primaria" ma solo sul piano ideale. Al cortile-chiesa si sono aggiunte altre strutture: aule scolastiche e laboratori, per offrire la possibilità di apprendere un mestiere evitando di frequentare fabbriche di città troppo sovente immorali e sempre pericolose per giovani già gravati di un passato difficile. E poi via via si fondano altre case salesiane, altri collegi-convitti, altri piccoli seminari affidati alla ormai sorta. società salesiana. Sono i collegi di Mirabello (1863) e di Lanzo (1864) e poi della Liguria (1870-1871). E il fenomeno della cosiddetta "collegializzazione" (ospizi, collegi per studenti, internati con scuole
per artigiani, più tardi pensionati, scuole per esterni) che almeno per un secolo assorbirà le maggiori (e migliori) energie della Società Salesiana e darà un "volto nuovo", una seconda versione tipica al suo "Sistema preventivo ". Infine una nuova straordinaria apertura, non prevista nelle prime Costituzioni approvate dalla S. Sede nel 1874, fu l'iniziativa missionaria (dal 1875), introdotta in Argentina, con un primo interesse per gli emigranti.
Ma già con il primo Oratorio (casa Pinardi) sono presenti alcune importanti intuizioni che saranno successivamente acquisite nella loro valenza più profonda. Infatti l'Oratorio di questa fase, sia pure organizzato in modo provvisorio ed affidato per tanti aspetti ad una certa episodicità pedagogica, vede però già presenti, in nuce, gli elementi germinali della più complessa sintesi umanistico-cristiana che don Bosco prospetterà in seguito. Vale a dire:
• Una struttura flessibile — come egli pensa all'Oratorio (non necessariamente parrocchiale, né interparrocchiale) — che si colloca tra Chiesa, società urbana e fasce popolari giovanili. Esattamente il "il ponte" auspicato da papa Giovanni Paolo II.
• Il rispetto e la valorizzazione dell'ambiente popolare.
• La religione posta a fondamento dell'educazione secondo l'insegnamento della pedagogia cattolica trasmessa dall'ambiente del Convitto.
• L'intreccio dinamico tra formazione religiosa e sviluppo umano, tra catechismo ed educazione: o anche convergenza tra educazione ed educazione alla fede (Integrazione fede-vita).
• La convinzione che l'istruzione costituisce lo strumento essenziale per illuminare la mente.
• L'educazione, così come la catechesi, che si sviluppa in tutte le espressioni compatibili con la ristrettezza del tempo e delle risorse: alfabetizzazione di chi non ha mai potuto fruire di una qualsiasi forma di istruzione scolastica, collocamento al lavoro, assistenza lungo la settimana, sviluppo di attività associative e mutualistiche (Società di mutuo soccorso, Conferenze di S. Vincenzo).
• La piena occupazione e valorizzazione del tempo libero.
• L'amorevolezza come stile educativo e, più in generale, come stile di vita cristiana.
Posto il principio che le iniziative assistenziali e educative di don Bosco in favore dei giovani si susseguono sul piano pratico con una certa "occasionalità", le sue "risposte" ai problemi non sono date in base a un "programma" organico e messo in atto in base a una visione previa e complessiva del quadro sociale e religioso dell'800. Egli si imbatte successivamente in problemi particolari, a cui dà risposte altrettanto immediate e localizzate. Solo gradualmente le varie condizioni giovanili lo porteranno a proporsi complessivamente "il problema giovani".
Analogamente alla tipologia delle "opere" che si svilupparono a Valdocco (e altrove) vanno tenute presenti le fasce dei giovani educati colà (e altrove) durante la vita di don Bosco. Al riguardo ci si deve però affidare a induzioni empiriche.
A costituire il primo mondo oratoriano — oratorio festivo: scuola di catechesi, giardino di ricreazione — sembrano concorrere sia gli ex-corrigendi (probabilmente un numero molto limitato) che, in maggior numero, giovani immigrati (estranei culturalmente e linguisticamente al mondo religioso torinese) e in genere giovani senza forti legami con le rispettive parrocchie. L'Oratorio si configura come centro di alfabetizzazione, soprattutto per immigrati o comunque abbandonati, specialmente nei giorni non lavorativi. Eccetto la prima eventualità, è la situazione normale di tutti gli oratori successivi (con annesse scuole domenicali e serali o anche diurne, società di mutuo soccorso, società operaie, associazioni di varie specie).
Apparentati socialmente e culturalmente ma forse a un gradino più alto, sono accolti dal 1847 nell'oratorio e nella "casa annessa" studenti e artigiani lontani dalla "patria", che vanno in città per apprendere un mestiere o compiere studi che li abilitano a un impiego. Valdocco diventa così centro di raccolta di ragazzi da collocare al lavoro o desiderosi di frequentare scuole della città; aperto ulteriormente ad altre possibilità di assistenza, di formazione professionale e culturale, di educazione.
A un certo numero di giovani appartenenti a questa categoria o in particolari difficoltà oppure con qualche maggior disponibilità
economica e che lo richiedessero viene anche offerta la possibilità di apprendere il mestiere in laboratori organizzati all'interno dell'ospizio o di compiere gli studi in scuole diventate collegi. Questa popolazione rientra normalmente a norma di regolamento nelle due diverse categorie sociali: la "classe povera" e il "ceto medio".
Esigenze particolari favoriscono pure l'istituzione di scuole (elementari, tecniche, umanistiche, professionali, agricole), esternati, collegi anche per ceti medio-alti dove si tratta di contrastare analoghe iniziative laicali o protestantiche o di assicurare un'educazione integralmente cattolica secondo i canoni fondamentali del sistema preventivo (per esempio, in Italia: Lanzo, Varazze, Alassio, Este; in Uruguay: Villa Colón).
Una categoria a sé è costituita da quei giovani tra "i più poveri e pericolanti" che si trovano nei luoghi di missione, mancanti della luce della fede, immersi nelle tenebre dell'idolatria, considerata, secondo moduli ottocenteschi, dominio incontrastato del demonio. È la massima delle povertà, si trattasse pure di figli di "capi" o dello stesso "capo dei capi" come Cefirino Namuncurà. Naturalmente l'azione missionaria salesiana non si fermerà ai giovani, ma tenta di coinvolgere tutto il mondo che li circonda, né si limiterà all'azione strettamente pastorale, ma si interesserà di tutti gli aspetti della loro vita, civile, culturale, sociale. Lo precisa don Bosco stesso in una sua lettera del 1° novembre 1886: i Salesiani intendono portare "la religione e la civiltà tra quei popoli e nazioni che l'una e l'altra tuttora ignorano".
Infine, vengono privilegiati senza distinzione di classi i giovani che manifestassero propensione per lo stato ecclesiastico o religioso. Per don Bosco sono il dono più prezioso che si poteva fare alla Chiesa e alla stessa società civile.
Evidentemente, anche solo limitando l'analisi all'Italia dell'Ottocento, di fatto e programmaticamente, rimangono complessivamente estranei all'azione di don Bosco "giovani poveri e abbandonati" anche in dimensione particolarmente gravi ed estese. Le limitate forze disponibili, oltre a legittime scelte educative, ostacolavano più vasti ed eterogenei impegni.
Fra le situazioni umane, talora addirittura tragiche, delle quali don Bosco non si interessò, almeno direttamente, si possono citare: la fascia emergente dei giovani, sempre più impegnati nell'industria nascente, da assistere, proteggere, formare socialmente e sindacalmente; il mondo della delinquenza giovanile vera e propria esistente a Torino, quale appare dalle ricostruzioni storiche; le opere per il ricupero dei minori delinquenti o prossimi alla delinquenza, con alcune delle quali peraltro è entrato in trattative più o meno chiare; l'immenso continente della povertà e della miseria non solo nelle città, ma anche, e spesso ancor più, nelle campagne; il vasto arcipelago dell'analfabetismo; il mondo della disoccupazione e dei disabili mentali e fisici.
* * *
È significativo che la proclamata preferenza per i più poveri sia ritenuta compatibile sul piano non solo pratico, ma anche regolamentare, con la massiccia destinazione di scuole e collegi alla "classe media". Don Bosco non si rifiuta per qualsiasi genere di persone, anche se tende ad occuparsi della classe povera e del ceto medio come quelle che maggiormente abbisognano di soccorso e di assistenza. Comunque il meccanismo delle "rette" da pagare non consentiva grandi aperture verso i veri poveri o i medio-poveri, se non per limitati gruppi di ragazzi sostenuti dalla beneficenza pubblica o privata.
Ma, in definitiva, di fronte a una società sempre più minacciosa e diseducante, sembra che don Bosco ritenga bisognosa di aiuto in misura crescente tutta la gioventù, per se stessa fragile, spesso "abbandonata" (trascurata, sottovalutata dagli stessi genitori) e "pericolante". I ragazzi in quanto tali finiscono per essere considerati tutti "a rischio", senza distinzione di classi sociali, di livelli economici e culturali.
Lo stesso dinamismo evolutivo fa sì che un particolare metodo educativo, proposto e adottato per l'educazione e la rieducazione di gruppi i più svariati (giovani oratoriani, studenti delle scuole pubbliche, collegiali, seminari, corrigendi, addirittura carcerati), diventerà un "sistema" pubblicizzato e presentato come metodo universale di educazione giovanile. Ma su di esso avremo modo di riflettere ancora.
"Lo scopo dí questa Società è il bene spirituale dei soci mediante l'esercizio della carità verso al prossimo e specialmente verso alla povera gioventù" (don Bosco)
Se ci sono stagioni della vita di don Bosco ben note sono quelle della sua infanzia, della giovinezza e delle prime esperienze apostoliche, tutte per altro spesso presentate nella prospettiva ludica: saltimbanco sui prati dei Becchi, atleta insuperabile nel collegio di Chieri, prestigiatore negli anni del Convitto, idolo dei giovani del primo Oratorio. Ma non sembra questo il cammino ideale per giungere alla migliore conoscenza della durezza di quel lungo ed arduo cammino che lo ha portato ad essere fondatore, dalla esigente spiritualità, di due Istituti religiosi (SDB, FMA), di un'Associazione di laici (Cooperatori) e contemporaneamente gestore, dalla sorprendente attività, di innumerevoli istituzioni giovanili.
La scelta dei giovani, da don Bosco effettuata poco più che trentenne (1844-1846), per poter diventare la "missione" dei Salesiani, aveva bisogno del necessario humus della consacrazione. Solo che praticamente non molto dopo (1855) si felina il racconto delle sue "Memorie dell'Oratorio" ed a quel punto spesso si fermano molti libri, libretti, film su don Bosco... E gli altri 30 anni? Forse furono meno "intriganti" dei primi 40, ma certamente sono essenziali per conoscere "tutto don Bosco" e non solo "una parte", quella apparen
temente più eroica. Anche perché senza questo "secondo don Bosco", il don Bosco fondatore per intenderci, anche il primo non avrebbe lasciato una traccia tanto profonda nella storia.
Don Bosco non ha mai scritto un trattato di teologia della vita religiosa: e come poteva farlo non avendo alcuna esperienza e studio in merito? Ma al riguardo non mancano suoi scritti e ce ne serviamo come base di questa nostra meditazione. Di proposito, come sempre, ci atteniamo al solo don Bosco: lascio a voi il necessario aggiornamento richiestoci esplicitamente dai numerosi e ricchi documenti emanati dalla Santa Sede e dalla congregazione.
Nel primo articolo delle sue Costituzioni per i Salesiani, don Bosco sottolinea l'inscindibile intreccio di consacrazione e missione: "Lo scopo di questa Società è il bene spirituale dei soci mediante l'esercizio della carità verso al prossimo e specialmente verso alla povera gioventù".
L'idea del Salesiano nello stesso tempo "consacrato ai giovani" e "religioso" — ben prima che se ne facesse oggetto di ampio dibattito in sede di Capitolo Generale Speciale (1971) — era stata indicata in modo limpido dal Cenno Istorico sulla Congregazione di S. Francesco di Sales, presentato da don Bosco nel marzo 1874 alle autorità romane coinvolte nell'approvazione delle Costituzioni. La congregazione salesiana intendeva accogliere, ovviamente per "formarli religiosamente", gli individui di vita morigerata, i quali volevano dedicarsi al bene della gioventù, soprattutto dei fanciulli più poveri e pericolanti. Di conseguenza, a cominciare dal noviziato, le "classiche" pratiche spirituali (preghiere, meditazioni, conferenze ascetiche e morali), erano integrate da quella che don Bosco definiva "la parte più importante della prova": ossia "fare il Catechismo", "assistere i fanciulli dello stabilimento", "fare qualche scuola diurna o serale", "preparare i più ignoranti ai sacramenti".
I Salesiani sono dunque consacrati a Dio per i giovani; la loro vita, consegnata a Dio, viene da loro spesa per gli altri. Così come fece don Bosco, che fu prete (di Dio) dei giovani, prete per i giovani prediletti da Dio, un Dio che assumeva il volto dei giovani e gli pro
grammava la giornata, gli impegni, gli appuntamenti, le ore di riposo, la vita, l'eventualità di lasciarci pure la pelle.
Una circolare del Natale 1883 costituisce, se si vuole, un ulteriore e chiaro compendio dottrinale sulla vita religiosa caratterizzata dalla compenetrazione delle due "consacrazioni", a Dio e ai giovani: "Noi ci siam fatti religiosi non per godere, ma per patire, e procacciarci meriti per l'altra vita; ci siamo consacrati a Dio non per comandare, ma per obbedire; non per attaccarci alle creature, ma per praticare la carità verso il prossimo mossi dal solo amor di Dio".
La fedeltà alla duplice dimensione dell'esistenza salesiana trae origine dall'originaria "scelta vocazionale". Di essa don Bosco sottolinea tre lineamenti fondamentali: una rassicurante risposta alla concreta chiamata di Dio alla "salvezza", un libero e generoso impulso interiore di carità operosa verso il prossimo, soprattutto giovane, un legittimo desiderio di una realizzazione di sé, delle proprie potenzialità di natura e di grazia.
Nelle pagine dell'Introduzione alle Costituzioni è sottolineato soprattutto il primo aspetto, con l'approdo a un quasi obbligo morale di accogliere la vocazione come una "grazia speciale". Essa "toglie dai pericoli del mondo", dove "tutto è posto nella malignità"; offre tranquillità di navigazione "in mezzo alle fiere burrasche" della vita; è "l'arca di Noè" che libera dai tre modi con cui "il nemico dell'umano genere esercita la sua malignità contro gli uomini", ossia la "concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita". E se accogliere la vocazione sembra per don Bosco comportare un notevole grado di obbligatorietà, nella prassi e nelle indicazioni quotidiane essa tende invece sensibilmente a ridursi: Iddio "stabilisce a ciascuno una via, la quale percorrendo, egli può con molta facilità conseguire la sua eterna salvezza"; se non la seguisse "correrebbe grave pericolo di non avere poi le grazie necessarie per salvarsi". Dunque non è l'unica via, ma è la più facile e sicura.
Ma c'è poi anche il versante tipicamente salesiano della scelta libera, suggerita dalla carità fraterna. Le innumerevoli parlate ai gio
vani e ai Salesiani in formazione, dedicate al tema della vocazione, coniugano l'una e l'altra "salvezza", quella propria e quella altrui. Don Bosco mette, tuttavia, in guardia da qualsiasi pressione: "Non è il caso mai di suggerire «fatevi preti o non fatevi», ma occorre «istruirli»". Anzi raccomanda: "Si indaghi dunque quelli che hanno propensione per la congregazione, ma non si spinga mai nessuno a entrarvi". Non è estranea comunque la ricerca di uno stato di vita felice, dove si trovano pace, sicurezza, cultura, qualificazione professionale, convivenza fraterna, allegrezza.
Per i candidati coadiutori va oltre. Dopo aver loro presentato la vocazione religiosa salesiana a "chiunque il quale abbia voglia di salvarsi l'anima", aggiungeva: "Confidando sempre nella divina Provvidenza, madre pietosa, io posso assicurarvi che non ci mancherà nulla di ciò che ci è necessario né in tempo di sanità né in tempo di malattia, né in tempo di gioventù né in tempo di vecchiaia". E continuava descrivendo le ampie possibilità di bene e il prestigio acquisito da Salesiani laici andati in America, che all'Oratorio "non avevano niente di particolare".
Praticamente non esistono studi significativi su don Bosco come "consacrato", in quanto "entrato in religione", ha professato i voti (davanti al crocifisso), li ha vissuti "da religioso" e come tale ha fatto vita comune con i Salesiani, ha condiviso con essi l'esperienza della vita di pietà e di carità, si è inserito come "consacrato" nel tessuto sociale ed ecclesiale. Eppure nel presentare la vita religiosa ai suoi "figli", don Bosco lascia intravedere, implicite ed esplicite, le forti convinzioni del suo spirito, ossia la maggior gloria di Dio e, per promuoverla, la salvezza delle anime, o, per dirlo in altre parole, imitare, riprodurre Gesù Cristo Salvatore nel suo coepit facere et docere e seguirlo poi nei suoi "misteri" fino alla morte.
Ne riparleremo subito. Qui basti ricordare che il fine principale della consacrazione religiosa salesiana sono le anime da conquistare a Cristo, mediante la propria azione e che tale "missione" non può essere pienamente svolta dal Salesiano che non senta la perfezione, la santità personale quale supremo assillo della propria vita.
Vi si aggiunga che il Padre Celeste, Cristo Maestro, la Vergine Maria, "madre e sostegno della nostra Congregazione", sono da don Bosco sentiti e indicati come i protagonisti della storia sua e della congregazione che ha fondato: "Dio pietoso e la sua Madre SS. ci vennero in aiuto nei nostri bisogni. Ciò si verificò specialmente ogni volta che eravamo in bisogno di provvedere ai nostri giovanetti poveri ed abbandonati, e più ancora quando essi trovavansi in pericolo delle anime loro".
Ma già a conclusione di una circolare alla comunità salesiana del 15 agosto 1869 — dunque appena approvata dalla Santa sede la congregazione — scriveva: "Animo miei cari figliuoli! Noi abbiamo una grande impresa tra mano, molte anime attendono la salvezza da noi; tra queste anime la prima deve essere la nostra, e poi quella dei nostri soci e quelle di qualunque fedele cristiano cui ci accada di poter recare qualche vantaggio Dio è con noi. La grazia di N.S.G.C. sia sempre con noi e ci conceda lo spirito del fervore e il prezioso dono della perseveranza nella società. Amen".
Alla sua morte don Bosco trasmetteva ai suoi, come testamento, proprio la certezza dell'indefettibile "presenza" di Gesù nella congregazione: "Il vostro primo Rettore è morto. Ma il vostro vero superiore, Cristo Gesù non morrà. Egli sarà sempre nostro maestro, nostra guida, nostro modello; ma ritenete che a suo tempo egli stesso sarà nostro giudice e rimuneratore della nostra fedeltà nel suo servizio".
Come si vede, don Bosco non si colloca troppo lontano dal programma pastorale volto alla personale santificazione, suggerito da papa Giovanni Paolo II nella sua Istruzione "Ripartire da Cristo"del 2002.
Già all'origine della scelta "religiosa" don Bosco dava molta importanza al suo aspetto "funzionale", sottolineato anche, a suo dire, da Pio IX: senza voti non vi sarebbero gli opportuni legami tra soci e tra superiori ed inferiori. Ma sarebbero stati comunque notevoli ed essenziali i riferimenti evangelici e teologici, relativi alla "consacrazione" e all'imitazione di Cristo, che si trovano nei suoi scritti.
I voti, comunque, spezzano le "catene" che rendono schiavi del "secolo" (soddisfazioni sensuali, gravi impacci delle cose temporali, propria volontà); in secondo luogo, legano strettamente "col capo supremo della Chiesa e per conseguenza con Dio medesimo", distaccando dalle cose terrene; conseguentemente, creano una forte compattezza comunitaria.
La "consacrazione" dei voti, poi, comporta alla radice arricchimenti sul piano della grazia: "moltissimo si accresce il merito delle opere nostre", "ci ridona l'innocenza battesimale", "è come se si subisse il martirio", "poiché ciò che nei voti manca d'intensità è supplito dalla durata". Da qui sorge la considerazione finale: "In ogni nostro uffizio, in ogni nostro lavoro, pena o dispiacere, non dimentichiamo mai che essendoci consacrati a Dio, per lui solo dobbiamo faticare e da lui soltanto attendere la nostra mercede".
L'obbedienza, virtù e voto, richiede l'incondizionata sottomissione alla volontà di Dio. Essa, ispirata a san Paolo (Fil 2,3) "deve essere secondo l'esempio del Salvatore, che la praticò anche nelle cose più difficili, fino alla morte di croce, e, qualora tanto volesse la gloria di Dio, dobbiamo noi pure obbedire fino dare la vita". Ma, siccome chiede "grande confidenza col superiore", possiede anche un grande potenziale operativo. L'egoismo individuale" cede alla ricerca del "bene comune" della Congregazione, ritenendo l'onore di ognuno onore di tutti, coltivando e mantenendo un vigoroso spirito di corpo.
Don Bosco non finisce di inculcare e lodare l'obbedienza che passa da pura pratica amicale e familiare a vera oblazione religiosa. In questa ottica, afferma enfaticamente, citando S. Girolamo, S. Bonaventura, S. Gregorio: "Nel voto della ubbidienza sta il complesso di tutte le virtù": "tutta la perfezione religiosa consiste nella pratica dell'ubbidienza"; "l'ubbidienza conduce al possesso di tutte le altre virtù e tutte le conserva". Nei primi armi ottanta don Bosco lamenta una certa flessione nell'obbedienza, dichiarando "intollerabile" che ci fosse chi "senza dire nulla non fa[cesse] la cosa di cui era incaricato" perché questo avrebbe prodotto "danno immenso alla congregazione". E in risposta a chi affermava che l'osservanza delle regole costava fatica, osservava: "Miei cari, vogliamo forse andare in
Paradiso in carrozza? Noi appunto ci siamo fatti religiosi non per godere, ma per patire e procacciarci meriti per l'altra vita; ci siamo consacrati a Dio non per comandare, ma per ubbidire; non per attaccarci alle creature, ma per praticare la carità verso il prossimo, per amor di Dio; non per farci una vita agiata, ma per essere poveri con Gesù Cristo, patire con Gesù Cristo sopra la terra per farci degni della sua gloria in cielo".
Quanto alla povertà, è significativo che il primo Capitolo Generale (1877) approdasse alla pubblicazione parziale degli Atti con al centro il tema dell'economia, cioè del risparmio, dell'austerità. Si sa, del resto, che nello stemma della Congregazione, don Bosco volle incluso non il motto proposto "lavoro e preghiera", ma "lavoro e temperanza".
11 testo costituzionale comunque presenta la povertà, virtù e voto, piuttosto nell'ottica della vita comune, pur facendo riferimento al "distacco da ogni bene terreno". Anche la circolare sulla povertà, inviata ai Salesiani nell'imminenza dell'approvazione definitiva, è tessuta di sole norme pratiche, di inviti all'economia e al risparmio, resi necessari dalle molte spese per nuove opere edilizie e raumento di ogni genere di commestibili", con qualche mitigazione finale.
Alla base c'è, come sempre, un forte richiamo al Vangelo. In congregazione il religioso salesiano è "considerato letteralmente come chi nulla più possiede, essendosi fatto povero per divenir ricco come Gesù Cristo. Egli seguita l'esempio del Salvatore, che nacque nella povertà, visse nella privazione di tutte le cose, e morì nudo in croce".
Ma non mancano le motivazioni di fatto. La congregazione e le sue opere vivono di beneficenza e i Salesiani hanno deciso, anche istituzionalmente, di vivere di essa, senza contare su cespiti sicuri di entrata, fondazioni, rendite o simili. "Noi viviamo della carità dei nostri benefattori", da cui sgorgano determinate conseguenze: "Si ritenga come principio da non mai variarsi di non conservare alcuna proprietà di cose stabili ad eccezione delle case e delle adiacenze che sono necessarie per la sanità dei confratelli o della salubrità degli allievi. La conservazione di stabili fruttiferi è una ingiuria che si
fa alla divina provvidenza che in modo maraviglioso e dirò prodigioso ci venne costantemente in aiuto".
Il salesiano poi "colla povertà si libera dai gravi impacci delle cose temporali", rendendo la sua azione più sciolta ed efficace, tanto più che don Bosco la intende effettivamente austera, senza mezze misure o compromissoria: "tutto quello che eccede alimenti e indumenti per noi è superfluo, è contrario alla vocazione religiosa".
Per quanto riguarda la castità, ancor più che per l'obbedienza e la povertà, don Bosco si riferisce più spesso ad essa come virtù che al voto. Conferenze e discorsi tenuti ai Salesiani sono in buona parte simili, se non identici, quando si tratta di novizi, di giovani professi o di giovani in genere. Ai Salesiani, però, egli fa presente la delicatezza della loro missione tra i giovani, maggiore se questi provengono da ambienti moralmente degradati.
Nell'Introduzione alle Costituzioni abbonda in encomi della virtù e in avvertimenti sui pericoli, in parte già presenti nelle stesse Costituzioni. Indica anche delle terapie, analoghe a quelle suggerite a tutti, indistintamente: l'evitare la famigliarità colle persone di altro sesso, non contrarre amicizie particolari coi giovani, tener a freno i sensi del corpo, speciale temperanza nel mangiare e nel bere, ecc.
In conferenze riservate ai Salesiani parla dei "mezzi negativi e positivi" in termini analoghi a quelli usati per i giovani. Il punto di partenza è costituito, anche a suo giudizio, dal metodo della "fuga". "Io raccomando sempre di stare in mezzo ai giovani, or dico di fuggirli. Intendiamoci, si deve stare con loro, in mezzo a loro, ma non mai da soli a soli, non mai con uno più che con un altro. Diciamo francamente: la rovina di congregazioni religiose addette all'istruzione della gioventù deve attribuirsi a ciò". E qui il paradosso della castità salesiana: al più generoso coinvolgimento affettivo, all'"amorevolezza" deve abbinarsi il più radicale distacco, alla vulnerabilità emotiva si deve coniugare il rigore dell'autodisciplina. Ma l'insistenza di don Bosco è soprattutto sui "mezzi positivi": "la meditazione, gli esami di coscienza", "piccole cose, facili ed efficaci" riassunte nell'onnicompensivo programma "l'esatto adempimento dei propri doveri", vale a dire studio, assistenza, far scuola, puntualità a pranzo, alla ricreazione, precisione dell'orario.
La battaglia di don Bosco sul fronte della moralità è instancabile e non cessa di richiedere le più svariate cautele nei comportamenti, nelle parole, nei libri, nelle stampe, nelle decorazioni, nelle rappresentazioni teatrali. "Che mai neppure il più piccolo neo traspaia di noi", insisteva don Bosco nel corso del secondo Capitolo Generale (1880).
Legata a luoghi e strutture sostanzialmente comuni, la comunità religiosa (che è immersa nella comunità dei ragazzi) in quanto tale vive soprattutto di legami interiori tra membri che condividono identici ideali, hanno professato gli stessi voti, intrattengono particolari rapporti con i superiori in forza dell'obbedienza "religiosa", hanno propri momenti di riflessione e formazione religiosa e pochi particolari tempi di preghiera. A delinearne ufficialmente la fisionomia specifica, provvidero successivamente le Deliberazioni dei Capitoli Generali, ma su tutto e in tutto doveva aleggiare lo "spirito", definito, nella sua essenza, nelle Costituzioni: "Tutti i congregati tengono vita comune stretti solamente dalla fraterna carità e dai voti semplici che li stringono a formare un cuor solo ed un'anima sola per amare e servire Iddio".
I rapporti gerarchici venivano dopo e come naturale conseguenza: anche l'obbedienza è carità. Nel secondo Capitolo Generale (1880) don Bosco ribadiva l'esigenza di contrastare infiltrazioni di severità soprattutto nella scuola e di promuovere lo spirito di carità e di dolcezza di S. Francesco di Sales, che egli riteneva in declino soprattutto nella scuola: alunni mal visti, "non ben trattati", trascurati, espulsi dall'aula. Da ciò nascevano dissidi tra l'insegnante e il superiore, se questi cercava di mitigare gli interventi repressivi. Concludeva: "Io mi raccomando tanto che questo vero spirito di dolcezza e di carità si eserciti da voi e si faccia di tutto per propagarlo nei soci delle vostre case e specialmente tra i professori. L'incoraggiarci così a vicenda con carità e dolcezza sarà sempre il sostegno delle nostre case"; "Si raccomanda anche a ciascun Direttore, che pratichi e trasfonda lo spirito di S. Francesco di Sales".
È noto come alle voci provenienti dall'Argentina a metà degli an
ni ottanta circa l'eccessiva severità e disciplina tendenti a soppiantare l'amorevolezza salesiana e circa lacerazioni fra confratelli della stessa casa, don Bosco immediatamente scrivesse a tre superiori locali, don Cagliero, don Costamagna e a don Tomatis, perché richiamassero tutti alla pratica integrale del Sistema preventivo e al mantenimento delle tradizioni di Valdocco.
Nelle ultime Memorie-Testamento spirituale don Bosco dedicava un capitoletto al concetto a lui familiare del cor unum et anima una. Ne scattava l'immediata denuncia del male più distruttivo, "la peste peggiore" e cioè le critiche, la mormorazione, l'insofferenza; e la conseguente terapia: "l'unione tra direttore e sudditi, l'accordo tra i medesimi", il "consiglio" e l'aiuto reciproco, la fedeltà al rispettivo ufficio. Ovviamente molto dipendeva anche dal modo di porsi del superiore, come si fa notare agli ispettori nel quarto Capitolo Generale (1886): "Don Bosco raccomanda che vada sempre in nome del Superiore e faccia osservare le regole non in forza dell'Io voglio, ma in forza del dovere dalle regole imposto. L'io guasta tutto".
Sulle Costituzioni come codice, che tutti, superiori e sudditi, devono ugualmente osservare con spirito religioso, don Bosco insiste nella conferenza pubblica del febbraio 1876. Non era più tempo di "andare avanti con un governo tradizionale e quasi patriarcale"; bisognava attenersi alle regole, recentemente approvate, conoscerle, studiarle, praticarle. Se ne sarebbero avuti due guadagni: un lavoro "collettivo e non solo individuale" e un governo del direttore paterno "quale da noi si desidera". Perciò, come emerge da un intervento al secondo Capitolo Generale (1880), l'osservanza doveva coinvolgere la comunità salesiana ai vari livelli gerarchici: occorre che essa "cominci da chi compone il Capitolo Superiore, perché da questo possa estendersi ai direttori, ai prefetti, a tuffi i soci della congregazione" compresi gli insegnanti e i capi laboratorio "inclini a rendersi autonomi e insofferenti di ordini superiori".
J1 cardine di tutto è considerata la figura del direttore, un auspicabile "clone" di don Bosco direttore dell'oratorio di Valdocco. Al direttore e ai suoi compiti sono destinati, oltre i Ricordi confidenziali, le varie "conferenze", i regolamenti, le deliberazioni dei Capitoli generali, le direttive e osservazioni date nelle visite ufficiali e private di don Bosco e di don Rua. "Il Direttore è il Superiore di ciascuna ca
sa. Esso ha cura di tutto l'avanzamento spirituale, scolastico e materiale della casa a lui affidata, e si terrà a questo fine alle regole stabilite al capitolo X delle nostre Costituzioni".
Un più accentuato affiato spirituale hanno i ricordi che don Bosco lascia al "direttore di una casa coi suoi confratelli" nelle citate Memorie-Testamento. Un intero paragrafo, suddiviso in 10 punti è a lui dedicato, così come un altro intero paragrafo, sempre articolato in 10 punti, riguarda i "confratelli dimoranti in una medesima casa". Lascio a voi la meditazione su di essi.
La saldezza e fecondità della vita comunitaria, "religiosa" ed "educativa", secondo don Bosco, doveva trovare particolare sostegno in due pratiche, affidate anzitutto alla responsabilità del direttore: i rendiconti e le conferenze.
Il testo costituzionale sul tema del rendiconto aveva subito una laboriosa trasformazione: da forme troppo invasive a quella definitiva in armonia con la prassi canonica. Il testo approvato nel 1874 approdava a una formula intermedia: "Ognuno abbia somma confidenza nel suo superiore; sarà perciò di grande giovamento ai soci il rendere di tratto in tratto conto della vita esteriore ai primari superiori della Congregazione. Ciascheduno loro manifesti con semplicità e prontezza le mancanze esteriori commesse contro le regole, ed anche il suo profitto nelle virtù, affinché possa riceverne consigli e conforti, e, se farà d'uopo, anche le convenienti ammonizioni".
Nel secondo Capitolo Generale (1880) una sessione è interamente occupata da una riflessione di don Bosco sull'unità di direzione necessaria a una Congregazione in rapida espansione, a garanzia dell'unità di spirito e di azione. Occorreva la sinergia di superiori e sudditi. I direttori e gli ispettori "si considerino come d'una sola famiglia e come aventi insieme un solo affare da sforzarsi insieme per farlo andar bene". "Ogni socio tenga il direttore come padre affettuoso o un fratello maggiore, il quale è posto direttore apposta per aiutar essi a disimpegnare bene i propri uffizi. Non nascondano ad essi né bene né male, ma appalesino tali quali sono".
Un appassionato monito è rivolto, ancora una volta nelle Memo
rie-Testamento Spirituale, al direttore: "Non dimentichi mai il rendiconto mensile per quanto è possibile; ed in quell'occasione ogni direttore diventi l'amico, il fratello, il padre dei suoi dipendenti. Dia a tutti tempo e libertà di fare i loro riflessi, esprimere i loro bisogni e le loro intenzioni. Egli poi dal canto suo apra a tutti il suo cuore senza mai far conoscere rancore alcuno; neppure ricordare le mancanze passate se non per darne paterni avvisi, o richiamare caritatevolmente al dovere chi ne fosse negligente".
Parallela è l'insistenza di don Bosco sulle cosiddette "conferenze mensili". Il tema è presente nel primo Capitolo Generale (1877): "I Direttori trattino in capitolo, invitino gli stessi maestri ad esporre quello che l'esperienza loro ha suggerito e a suo tempo riferiscano. A tale uopo si facciano non meno di tre conferenze all'anno coi medesimi maestri". E ancor più nel secondo Capitolo Generale (1880): "Queste conferenze [per confratelli ogni 15 giorni] sono come un secondo tratto d'unione perché i confratelli e direttore possano essere un corpo solo ed un'anima sola". Invece negli atti pubblicati nel 1882, ed esattamente nel Regolamento pel direttore, era incluso uno scarno articolo che prescriveva: "Faccia almeno tre conferenze all'anno con tutto il personale insegnante ed assistente. Riceva immancabilmente tutti i mesi il rendiconto da tutti i Soci".
La comunità religiosa salesiana non è né monastero, né convento, né residenza, né centro operativo; è invece una comunità-famiglia sia sotto il profilo pedagogico (comunità educativa) sia in quanto convivenza di "consacrati" (casa religiosa). Vi si vive e lavora "in casa propria" con il massimo di dedizione, poiché tutto è di tutti, operatori e destinatari. In questa prospettiva la comunità diventa capace di continua innovazione e rigenerazione. Si rinnova, adattandosi a nuovi mondi e ad ambienti estremamente differenziati ed espandendosi; si rigenera mediante l'acquisizione di nuovi collaboratori. La sollecitudine per la dilatazione dell'opera nelle due direzioni è un ulteriore tratto caratteristico del profilo del salesiano.
La ricerca di "vocazioni" è poi compito di tutti, singoli e comunità, e don Bosco invitava a usare tutte le risorse del sistema preventivo: sacramenti, preghiera, amorevolezza, famigliarità. Nel secondo Capitolo Generale, di fronte a determinate difficoltà, proponeva i due classici rimedi: "E prima di tutto io vedo necessario che
vicendevolmente noi ci trattiamo con molta carità e dolcezza ed usiamo lo stesso trattamento con tutti i soci". E ancora: parlar sempre bene dei preti, allontanare costantemente i cattivi compagni, tenere lontano libri cattivi, dai maestri, dai sorveglianti, dai direttori anche dal pulpito parlare con frequenza di vocazione e far capire come questo punto sia come la ruota maestra da cui dipende la vita, far leggere i "nostri libretti", la vita ad esempio di Savio Domenico, Magone, "lavorare noi molto", così come appaiono dovunque i Salesiani: non predicano e confessano soltanto, ma "fanno scuola, catechismi, prediche, sono dappertutto, fanno tutto".
Nelle Memorie-Testamento Spirituale ritorna con insistenza ed esplicitamente il tema delle vocazioni come un proprium della congregazione: "Dio chiamò la povera congregazione salesiana a promuovere le vocazioni ecclesiastiche fra la gioventù povera e di bassa condizione. Le famiglie agiate in generale sono troppo mischiate nello spirito del mondo, da cui disgraziatamente restano assai spesso imbevuti i loro figliuoli, cui fanno perdere così il principio di vocazione che Dio ha posto nel loro cuore". E quasi riepilogando don Bosco scrive: "Ricordiamoci che noi regaliamo un gran tesoro alla Chiesa quando noi procuriamo una buona vocazione: che questa vocazione o questo prete vada in diocesi, nelle missioni o in una casa religiosa non importa. È sempre un gran tesoro che si regala alla Chiesa di G. C.".
* * *
Ci fermiamo qui, anche se siamo ben consapevoli che dovremmo aggiungere vari capitoletti, fra cui quello sul salesiano "religioso" nella Chiesa e "libero cittadino" nella società civile. Rimane però assodato che la spiritualità "religiosa" del Salesiano si caratterizza con il suo fondersi con la "missione giovanile". In lui alle virtù classiche tradizionali dell'homo Dei si assommano quelle richieste dalla sua condizione di homo hominum, meglio, di homo juvenum. Dovremmo tenerlo sempre presente, ne va della nostra identità salesiana, messa a rischio dalla facile omologazione con differenti spiritualità di altri istituti, talune per altro incerte e confuse. Nella Vita consacrata si deve mirare alla Comunione dei diversi carismi, alla pubblica testi
monianza della loro Comunione, ma non alla loro sovrapposizione o uniformità a qualche predeterminato comune standard. I documenti del Magistero sono ovviamente per tutte le Famiglie Religiose, ma ciascuna di esse ha e deve mantenere gli elementi decisivi della sua specificità carismatica, profetica ed istituzionale. Pena l'appiattimento, magari al ribasso, dell'originale "essere ed operare" di don Bosco (e di tanti altri fondatori).
"La più grande impresa della nostra Congregazione è quella della Patagonia"(don Bosco)
La congregazione salesiana nasce dallo spirito "missionario" di don Bosco, che ancora prete diocesano, alla pastorale strutturata preferisce la ricerca di quanti sono "lontani" e "fuori". La sua "missione giovanile interna" diventa in effetti la piattaforma ideale delle "missioni estere". La svolta missionaria avviene, come si sa, piuttosto tardi, nel 1875, allorquando la "Congregazione degli oratori", ormai definitivamente approvata, diventa in qualche modo anche "Istituto per le missioni estere" ed il salesiano missus ad iuvenes si fa missus ad gentes.
L'impazienza pastorale non consente a don Bosco di fermarsi ai traguardi raggiunti e lo spinge a dare, con nuove mète, un accresciuto dinamismo alla sua Società religiosa. "Parlando del gran bisogno che si ha di missionari e di tanti milioni d'uomini che sono ancora da convertire — registra il cronista in data 20 maggio 1875 cadde il discorso specialmente sull'Asia (...). La sola Cina (impero cinese) ha quasi 500 milioni d'anime, quasi 200 milioni le Indie. Noi ci crediamo già qui in Europa chissà che cosa. Ebbene il solo impero cinese ha una volta e mezzo più d'abitanti che l'intera Europa. Noi siamo già soliti parlare del Piemonte, contarne e studiarne la storia e osservarne tutti i progressi ed i regressi, ed il Piemonte non è che come un granello in mezzo ad un lago. "E l'atomo del nostro oratorio qui in Valdocco? — riprese sorridendo il Sig. D. Bosco — ep
pure ci dà tanto da fare e da questo cantuccio si pensa a mandare qua, là".
Inoltre vi era in don Bosco la volontà di liberarsi da troppi legami localistici e legalistici, civili e canonici, tant'è che a chi temeva che, col suo estendersi oltre oceano, finisse con l'impoverire l'Italia, replicava: "Non vedono che qui li sospendono i preti; per dar loro la confessione bisogna che smuovano cielo e terra; mando a domandar la facoltà di predicare e non la danno che limitatissimamente. Bisogna che mi cerchi un terreno in cui si possa più agevolmente lavorare". In questo contesto l'iniziativa americana si coniuga con la contemporanea espansione dell'opera in Francia.
Per l'America latina egli pone a capo dell'impresa uomini di grande valore: il leader indiscusso don Giovanni Cagliero (poi vescovo, cardinale), il modesto ma tenace e infaticabile don Francesco Bodrato, il creativo e attivo don Luigi Lasagna (vescovo, morto tragicamente a 45 anni in un incidente ferroviario nel 1895, di cui si sono recentemente pubblicati tre volumi di lettere), don Giacomo Costamagna (poi vicario apostolico e vescovo in Ecuador), don Giuseppe Vespignani, spiccata personalità nel mondo salesiano americano e all'interno della Direzione generale della congregazione.
Dal punto di vista storico sono essi che portano avanti l'effettivo lavoro sul campo: ossia l'impianto e la gestione immediata delle opere, l'azione educativa, l'evangelizzazione. Ma don Bosco è costantemente presente ad ogni passo. Alle missioni egli dà inizialmente e continua a dare, pur con i tanti limiti dovuti alla penuria di mezzi e di personale, il necessario supporto, operando intensamente per suscitare vocazioni, per fornire il personale indispensabile, per sollecitare la beneficenza. Ai singoli e collettivamente manda lettere di animazione spirituale. Privilegia i primi responsabili delle opere (ispettori, direttori), ma non trascura i singoli. A sé riserva pure l'arduo compito di tener viva, nei suoi e nei confronti delle autorità ecclesiastiche e civili, al di qua e al di là dell'Oceano, la realtà missionaria in corso. Arriva a darle anche la fondazione giuridica con l'istituzione pontificia — per quanto imperfetta e incompiuta del primo Vicariato e della prima Prefettura apostolica in Patagonia e nella Terra del Fuoco.
Una volta accettati in tempi brevissimi i due campi di lavoro (pastorale ed educativo) in Argentina — mentre più lunghe ed inconcludenti erano state le trattative per altre aree geografiche — don Bosco fa entrare ben presto nel discorso il termine "missioni". La circolare del 5 febbraio 1875 ai Salesiani chiede loro individualmente la disponibilità: "Fra le molte proposte che vennero fatte per l'apertura di una missione nei paesi esteri, parve di preferenza potersi accettare quella della Repubblica Argentina. Quivi oltre la parte già civilizzata si hanno ancora estensioni di superficie interminabili abitate dai popoli selvaggi, tra cui lo zelo dei Salesiani colla grazia del Signore può essere esercitato [...]. Or trattandosi di preparare il personale da spedire a fare questo primo esperimento, desidero che la scelta cada sopra soci che vi vadano non per ubbidienza, ma di tutta libera elezione".
Il motivo delle "missioni" diventa il tema dominante della propaganda, a cominciare dai discorsi tra Salesiani a Valdocco fino alla corrispondenza privata. A fine di agosto, in una supplica al prefetto della Congregazione di Propaganda Fide presentava la gestione del collegio di S. Nicolas come cosa "specialmente in vantaggio delle Missioni". Quindi, premettendo che era la prima volta che la Congregazione salesiana apriva "case nelle missioni estere", chiedeva "tutti quei favori, grazie spirituali e privilegi che la Santa Sede accorda ai religiosi che vanno alle missioni estere" e "quei sussidi in danaro, in libri specialmente spagnoli, o ad uso di chiesa o di scuola".
Nel discorso di addio 1'11 novembre 1875 don Bosco prende come tema le parole del Vangelo: "Ite in mundum universum, docete omnes gentes, praedicate evangelium meum omasi creaturae" e afferma: "Con queste parole il divin Salvatore dava un comando; non un consiglio, un comando di andare nelle missioni a predicare il suo Vangelo". Prosegue: "per obbedire a questo precetto si è ideata questa Missione preferendola ad altre ideate e proposte, sia nella Cina sia nell'India sia nell'Australia, sia nell'America stessa H. In questo modo noi diam principio ad una grande opera; non già che si
abbiano pretensioni o che con questo si creda di convertire l'universo intero in pochi giorni, no; ma chi sa che non sia questa partenza e questo poco come un seme da cui abbia a sorgere una grande pianta [...] Io lo spero". A questo punto li proclama missi dalla Chiesa e dal suo Capo: "Si, partite pure, andate ad annunziare il vangelo e ad amministrare i sacramenti in quelle regioni, ma ricordatevi che la Chiesa è una, tanto in Europa come in America. La Provvidenza che ci governa qui, vi governa là. Gesù Cristo è salvatore delle anime che sono qui come di quelle che sono là". Si rivolge, infine, ai partenti, rivelando un particolare interessante sui famosi "Ricordi" a loro riservati: "A tutti in particolare ho già detto a viva voce quello che il cuore m'inspirava e che io credeva più utile per loro; a tutti poi lascio per scritto ricordi generali che siano come mio testamento per coloro che vanno in quei lontani paesi".
Tale missio si rinnova nelle spedizioni degli anni seguenti.
Lasciando Torino, ciascun missionario portava con sé i "Ricordi". Tale documento sintetico, i discorsi d'addio e altri successivi testi possono offrire i lineamenti di una spiritualità eminentemente cattolica e salesiana. È una spiritualità missionaria complessa, nella quale si intrecciano le esigenze e le qualità di missi ad iuvenes e quelle di missi ad gentes.
Il Da mihi animas, tradotto in "Cercate anime, ma non danari né onori, né dignità", è a capo dei "Ricordi". La missione salesiana nasce e si attua in continuità vitale con "il precetto del divin Salvatore di andare a predicare il suo Vangelo". Ne è anello di congiunzione il papa; è per questo che "appena si cominciò a parlare di queste missioni subito si interrogò la mente del Sommo Gerarca e tutte le cose si fecero con piena intelligenza di Sua Santità; e poi che i nostri missionari prima di partire andarono a riverire il S.to Padre ed a prendere la sua apostolica benedizione". È cattolicità del tutto consona alla sensibilità salesiana: "Il mio cuore gode anche d'una grande consolazione nel vedere propagare il regno di Gesù Cristo, nel vedere rassodata la nostra Congregazione, nel vedere che nella nostra pochezza anche noi mettiamo in questo momento il nostro sassoli
no nel grande edifizio della Chiesa". Nel citato discorso dell'il novembre 1875, don Bosco aveva descritto a vive tinte la fame di assistenza spirituale dei sacerdoti, diffusa in Argentina, e l'attrazione verso la religione di Gesù Cristo delle "grandi orde di selvaggi": "I loro costumi non sono feroci", se sentono "predicare la religione di Gesù Cristo si arrendono facilmente".
In forma sintetica i 20 "Ricordi" riconfermano nei missionari i tratti fondamentali della "spiritualità" salesiana. Essi sono richiesti, con impegno raddoppiato, a chi si suppone operare in ambienti particolarmente difficili da più punti di vista: religioso, morale, sociale, culturale, politico.
Si colloca in primo piano la "moralità". Vi si riferiscono almeno quattro dei venti ricordi: "2. Usate carità e somma cortesia con tutti, ma fuggite la conversazione e la famigliarità colle persone di altro sesso o sospetta. 3. Non fate visite se non per motivi di carità e di necessità. 4. Non accettate mai inviti di pranzo se non per gravissime ragioni. In questi casi procurate di essere in due [...] 9. Fuggite l'ozio e le questioni. Gran sobrietà nei cibi, nelle bevande e nel riposo".
Viene poi opportunamente raccomandata, in nazioni straniere, la particolare deferenza verso ogni autorità civile ed ecclesiastica: "6. Rendete ossequio a tutte le autorità civili, religiose, municipali e governative. 7. Incontrando persona autorevole per via, datevi premura di salutarla ossequiosamente. 8. Fate lo stesso verso le persone ecclesiastiche o aggregate ad istituti religiosi [...] 10. Amate, temete, rispettate gli altri ordini religiosi e parlatene sempre bene. È questo il mezzo di farvi stimare da tutti e promuovere il bene della congregazione".
Tra popoli in pieno sviluppo, ma insieme cresciuti dall'immigrazione e assediati dai "selvaggi", diventa pressante il comandamento della povertà degli operatori a servizio degli indigenti. Per cui ecco tre altri "Ricordi": "5. Prendete cura speciale degli ammalati, dei fanciulli, dei vecchi e dei poveri, e guadagnerete la benedizione di Dio e la benevolenza degli uomini [...] 11. Abbiatevi cura della sanità. Lavorate, ma solo quanto le proprie forze comportano. 12. Fate che il mondo conosca che siete poveri negli abiti, nel vitto, nelle abitazioni, e voi sarete ricchi in faccia a Dio e diverrete padroni del cuore degli uomini".
A plasmare questo salesiano in situazioni caratterizzate da straordinarie esigenze concorrono "Ricordi" che propongono comportamenti personali e comunitari vivificati dalla carità, alimentati dalla pietà, promotori di fecondità vocazionale. Alla carità sospinge il "Ricordo" 13: "Tra di voi amatevi, consigliatevi, ma non portatevi mai né invidia, né rancore, anzi il bene di uno, sia il bene di tutti; le pene e le sofferenze di uno siano considerate come pene e sofferenze di tutti, e ciascuno studi di allontanarle o almeno mitigarle". Vi si può aggiungere, ampliando i destinatari, il "Ricordo" 19: "Nelle cose contenziose prima di giudicare si ascoltino ambe le parti".
Alla pietà richiamano ben quattro "Ricordi": "14. Osservate le nostre Regole, né mai dimenticate l'esercizio mensile della buona morte. 15. Ogni mattino raccomandate a Dio le occupazioni della giornata nominatamente le confessioni, le scuole, i catechismi, e le prediche. 16. Raccomandate costantemente la divozione a M. A. ed a Gesù Sacramentato. 17. Ai giovanetti raccomandate la frequente confessione e comunione".
La passione per le vocazioni è mantenuta desta dal "Ricordo" 18: "Per coltivare la vocazione eccl.ca insinuate: 1° amore alla castità, 2° orrore al vizio opposto, 3° separazione dai discoli, 4° comunione frequente, 5° carità con segni di amorevolezza e benevolenza speciale".
I120° e ultimo "Ricordo" invita ad elevare costantemente pensieri ed aspirazioni al sommo dei Novissimi: "Nelle fatiche e nei patimenti non si dimentichi che abbiamo un gran premio preparato in cielo".
Tratti di "spiritualità missionaria" nella corrispondenza con i "superiori in missione"
I contenuti dei "Ricordi" vengono ulteriormente ribaditi e arricchiti nelle lettere ai missionari stessi. Resta confermata la fedeltà alla vocazione originaria, le opere giovanili; è incoraggiato il coinvolgimento nell'urgente ministero tra il popolo e gli emigranti; viene insistentemente ravvivato il "sogno missionario" con ripetute esortazioni all'ardimento verso nuovi spazi, al coraggio, al sacrificio.
Gli inizi in Argentina e in Uruguay furono il trampolino di lancio
per un successivo, imprevisto, sviluppo nell'America Latina. Però l'azione missionaria vera e propria decolla, in dimensioni relativamente modeste, solo nel 1880. I protagonisti dei primi anni di attività in Argentina e, da11877 in Uruguay, dovettero "inventare" quasi tutto, con personale e mezzi inadeguati. Sorsero ben presto non piccoli problemi per l'inadeguatezza di alcuni, il disadattamento di altri e qualche defezione. Tuttavia, cresciuti alla scuola di un uomo coraggioso e lungimirante come don Bosco e sorretti dal fascino che su di essi continuava ad esercitare anche oltreoceano, essi impressero alla loro azione un ritmo intenso e produttivo.
Tra di loro occupano, come si è detto, un posto privilegiato nei riferimenti epistolari quelli che saranno gli "ispettori" e direttori.
Di notevole importanza, nei primi due anni, è la corrispondenza con don Cagliero, capo missione, che continua ad essere uno dei membri più autorevoli del Capitolo Superiore. Eccone qualche accenno. La lettera del 12 febbraio 1876 risulta particolarmente importante. In essa don Bosco manifesta vivo rincrescimento per una lettera che don Tomatis aveva inviato da San Nicolas a don Francesia, direttore a Varazze "in cui egli esprime come egli non sia tanto d'accordo con qualcheduno e che fra breve tempo egli ritornerà in Europa". Don Bosco allora sottolinea con forza due aspetti che considera preminenti della spiritualità missionaria: "Digli due cose: 1° Che un missionario deve ubbidire, soffrire per la gloria di Dio e darsi massima sollecitudine per osservare quei voti con cui si è consacrato al Signore. 2° Che quando si avesse motivo di malcontento, il dica col suo Superiore o lo scriva immediatamente a me, e così avrà norma di operare".
Al diretto interessato scrive successivamente. Dopo avergli espresso dispiacere per la lettera scritta a Varazze, gli delinea il suo profilo del "missionario": "Ascoltami, caro D. Tomatis: un missionario deve esser pronto a dare la vita per la maggior gloria di Dio; e non deve poi esser capace di sopportare un po' di antipatia per un compagno, avesse anche notabili difetti? Dunque ascolta quello che ci dice S. Paolo: Alter alterius onera portate, et sic adimplebitis legem Christi. Caritas benigna est, patiens est, omnia sustinet. Et si quis suo-rum et maxime domesticorum curam non habet, est infideli deterior. Dunque, mio caro, dammi questa gran consolazione, anzi fammi questo
gran piacere, è D. Bosco che te lo chiede: per l'avvenire Molinari sia tuo grande amico, e se non lo puoi amare perché difettoso, amalo per amor di Dio, amalo per amor di Dio. Lo farai non è vero? Del resto io sono contento dite, ed ogni mattina nella S. Messa raccomando al Signore l'anima mia, le tue fatiche".
A don Tomatis, del quale pure è stato pubblicato l'interessante e ricco epistolario, don Bosco scriverà più volte anche in seguito: "Qualche linea anche a te tornerà certamente gradita essendo scritta dal vero amico dell'anima tua [...]. Tu poi vedrai, e te lo comando, di essere il modello nel lavoro, nella mortificazione, nell'umiltà e nell'ubbidienza ai neovenuti. Non è vero che lo farai? Vorrei però che tu mi scrivessi qualche lunga lettera che fosse come un rendiconto degli esercizi spirituali e mi dicessi schietto vita, virtù, miracoli presenti, passati e futuri. Che ne dici? Caro D. Tomatis, voglia bene a D. Bosco come esso porta grande affezione a te". A lui, una volta nominato direttore a San Nicolas, riserva quei consigli che era solito dare ai Direttori: "1° Abbi gran cura della tua sanità e di quella dei tuoi sudditi; ma fa' in modo che ninno lavori troppo e stia in ozio. 2° Procura di precedere gli altri nella pietà e nell'osservanza delle nostre regole; e adoperati affinché siano dagli altri osservate, specialmente la meditazione, la visita al SS. Sacramento, la Confessione settimanale, la Messa ben celebrata, e pei non preti la frequente comunione. 3° Eroismo nel sopportare le debolezze altrui. 4° Agli allievi molta benevolenza, molta comodità e libertà di confessarsi".
Ritornando a don Cagliero, don Bosco in altra lettera gli raccomanda rinnovata fedeltà alla specifica "missione" salesiana: "Questo vuole il Signore in questo momento da noi! Case e collegi di bassa condizione, ricoveri in cui siano accettati selvaggi o semiselvaggi se possono aversi. Grande sforzo per coltivare le vocazioni". Più avanti sollecita all'avanzata missionaria: "In generale ricordati sempre che Dio vuole i nostri sforzi verso i Pampas e verso i Patagoni e verso i fanciulli poveri ed abbandonati"; "gran fermento per andare nelle missioni: avvocati, notai, parroci, professori chiedono farsi Salesiani ad hoc. Fate ogni sforzo per avere allievi o adulti vissuti in mezzo ai selvaggi. Se taluni volessero venire in Europa per fare gli studi o apprendere mestieri, mandali pure".
Intanto, il "sogno americano" si dilata e, con esso, temerariamente il "sogno missionario". All'inizio del 1877, scrivendo a un certo Boassi, don Bosco si rallegra che fosse in "relazioni famigliari con D. Pedro e sua moglie imperatrice del Brasile", aggiungendo: "Se ne avrà comodità, suggerisca loro una delle nostre case in quel vasto impero".
Dopo pochi giorni confida a don Cagliero un progetto, piena di futuro e di illusioni, che partiva, a suo dire, da due proposte del papa, da lui accettate: "Un Vicariato Apostolico nella Patagonia, per es. a Carmen, o a s. Cruz, o a Puntarenas, o meglio ancora un solo Vicariato che si estenda a tutti tre"; "Ma e di D. Cagliero quid? — continuava —. Alle Indie. Pel principio del 1878 andremo ad assumere il Vicariato Apostolico di Mangalor nelle Indie, che ha circa tre milioni di anime".
Naturalmente, i progetti asiatici restarono frenati: "In vista delle case che si vanno moltiplicando, e quindi assottigliando il personale, si sospende al tuo ritorno il progetto del Ceilan, Mangalor, Australia etc.". In agosto 1877 don Cagliero ritorna in Europa. Interlocutori americani saranno altri. Ma di fatto rimane a Torino il "super-ispettore" per l'America.
Il primo ispettore in loco sarà, fino alla morte avvenuta i12 agosto 1880, don Francesco Bodrato. Le pochissime lettere a lui dirette da don Bosco contengono però orientamenti per la direzione "paterna" dei Salesiani alle sue dipendenze: "1. Fare ogni sacrifizio per conservare la carità e l'unione coi confratelli. 2. Quando avrai da fare correzioni o dare consigli particolari non mai farlo in pubblico, ma sempre inter te et illum solum. 3. Quando hai fatto una correzione, dimenticare il fallo e dimostrare la primiera benevolenza al delinquente". Altra volta scrive: "Raccomanda ai nostri cari confratelli: 1° Lavorare quanto comporta la sanità e non di più; ma ognuno si guardi dall'ozio. 2° Raccomandare osservanza delle nostre Regole. Guai a noi se le studiamo senza praticarle".
Fra le lettere di don Bodrato pubblicate dall'Istituto Storico Salesiano ce ne sono alcune a don Bosco. Nelle due ultime lettere di esse (1880) don Bodrato sottolinea con forza particolare quanto la figura del fondatore significasse per lui e per i Salesiani in America e
il rapporto di filiale devozione che lo lega al superiore maggiore. Ne abbiamo accennato nella Introduzione. Il fondatore stesso appare "messaggio vivente" dello stile operativo di tutti. "Noi viviamo di don Bosco [...] Bisogna invertire quella frase che dice: «Gloria Pa-tris filius sapiens» [...] Oh se fosse qui D. Bosco quanto bene farebbe colla Tipografia! Noi siamo ancora bambini benché io sia nei bei 57 anni [...] Da tutto ciò V. P. può ben arguire che il nome di D. Bosco è una specie di prestigio, un quid misterioso che contiene una certa forza secreta attraente [...] Mi tenga presente nella sua memoria nel fausto giorno del suo onomastico, Dio solo conosce il mio desiderio, ed Ella, caro Padre, sa chi è D. Bodratto. Ubbidiente ed affezionato a D. Bosco fino alla morte, dispostissimo sempre ai suoi cenni. Ella mi consideri come uno dei suoi veterani e mi adoperi per ciò che valgo". Affiora in esse però anche tanta sofferenza: "Tuttavia d'altra parte vedo un gran bisogno di conferenziare con D. Bosco riguardo a cose che mi è difficile scriverle, difficilissimo farle comprendere e che meritano discussione".
Con l'arrivo in America dei membri della terza spedizione, emergerà sempre più nella corrispondenza di don Bosco don Giacomo Costamagna, che (con don Vespignani) diverrà rapidamente figura di spicco della storia salesiana in America. Alla fine del 1880 egli succede a don Bodrato come direttore del collegio San Carlo di Buenos Aires e ispettore. A don Costamagna raccomanda: "Fa' quello che puoi, ma solamente quello che puoi. Riponi piena fiducia nel Signore, dicendo come S. Paolo: Omnia possum in eo, qui me confortat [...] Promuovi la carità fra i nostri Confratelli".
Solidarietà, unità, coraggio sono raccomandati ai corrispondenti in America, in particolare, dopo la morte di don Bodrato. "Ora fatti vedere coraggioso — scrive a don Vespignani —. Pazienza, preghiera, coraggio; ecco il nostro programma in questo momento. Fa' tutto quello che puoi per incoraggiare e togliere il malcontento. Dirai agli studenti ed ai nostri ascritti che io attendo grandi cose da loro. Moralità, umiltà, studio, ecco il loro programma".
Nel gennaio 1880 cinque Salesiani e quattro Figlie di Maria Ausiliatrice, con a capo don Giuseppe Fagnano, — dal novembre 1883 Prefetto Apostolico — partivano alla volta della Patagonia, dando
inizio al lavoro "missionario" vero e proprio. In una lettera a don Fagnano, gran lavoratore e faccendiere piuttosto autonomo, don Bosco così esordisce: "Ho finalmente ricevuta la tua lettera del 6 settembre, ed è la prima che ricevo da te dal tempo che sei andato in Patagonia". Lo assicura che la sua andata in Patagonia, non gradita dall'interlocutore, era stata voluta "di tutta mia intelligenza [...] urgendo inviare uno di assoluta confidenza e capace di sbrigarsi dagli affari, ma sicuro nella moralità [...] Né dubbio né sfiducia od altro vi ebbero parte". Più avanti ribadisce, profetizzando il futuro: "La più grande impresa della nostra Congregazione è quella della Patagonia. Saprai tutto a suo tempo. Non posso però celarti che una grande responsabilità pesa sopra di te". Sempre a don Fagnano ricorda il motto incluso nello stemma della Congregazione: "Tu ricorda sempre a tutti i nostri Salesiani il monogramma da noi adottato: Labor et temperantia"
Sull'altro fronte si rivolge a don Luigi Lasagna per consolarlo: "Non fu possibile avere tipografi. Quelli che sono idonei, mancano di coraggio e coloro che hanno coraggio, mancano di capacità". Altrettanto deciso è il richiamo che fa al succitato don Tomatis in una lettera a don Costamagna: "Non so darmi ragione di D. Tomatis. Egli ha obbligo di scrivere e far scrivere al Superiore intorno al personale del suo collegio. Dirmi lo stato morale, materiale e speranze o timori delle cose nostre. Senza di questo non possiamo camminare se non fra le incertezze. Pure io ne so niente". E con spirito di fede concludeva: "Dio ci benedica tutti e dei Salesiani mi faccia altrettanti santi e di te un santone".
Mentre i missionari sono in viaggio verso l'America, don Bosco conclude una lettera diretta a don Cagliero con parole che testimoniano la sua sollecitudine per loro: "Raccomando che ognuno abbia cura della sanità e scrivendomi dirai se niuno ha sofferto il viaggio e se presentemente si trovano tutti in buona salute. Nel dare notizie vostre agli altri cari nostri, procura, se è possibile, che si leggano insieme i «Ricordi» che vi ho dato prima della vostra partenza". Effettivamente, i motivi dei "Ricordi" ritornano spesso nel
le lettere di direzione e animazione, arricchiti da altri, che gli stanno ugualmente a cuore.
A don Taddeo Remot ti suggerisce: "Quando il demonio va a disturbarti nei tuoi affari, fa altrettanto verso di lui con una mortifica
zione, con una giaculatoria, col faticare per amor di Dio. Ti mando
due compagni di cui spero sarai contento. Usa loro molta carità e pazienza. Io poi sono contento di te. Continua. Obbedienza nella
tua condotta. Promuovere l'ubbidienza negli altri: ecco il segreto
della felicità nella nostra Congregazione". Con lo stesso don Re-motti si rallegra della "schiettezza" con cui più volte gli ha scritto, e
gli fa alcune raccomandazioni: "1° Sopportare i difetti altrui anche
quando sono a nostro danno. 2° Coprire le macchie degli altri, non mai mettere in burla alcuno quando egli ne rimane offeso. 3° Lavo
ra, ma lavora per amor di Gesù; soffri tutto, ma non rompere la carità". "Arrivederci in terra, se così piace ai divini voleri; diversamente il Cielo ci sta preparato e la Misericordia divina ce lo concederà".
Ferma e precisa è la lettera a un coadiutore "tentato di abbandonare la Congregazione": "Non fare questo. Tu consacrato a Dio con
voti, tu Salesiano Missionario, tu dei primi ad andare in America, tu
grande confidente di D. Bosco vorrai ora ritornare a quel secolo dove vi sono tanti pericoli di perversione? Io spero che non farai que
sto sproposito. Scrivi le ragioni che ti disturbano, ed io quale padre darò consigli all'amato figlio, che varranno a renderlo felice nel tempo e nell'eternità".
Incoraggiante è la breve missiva al giovane sacerdote Valentino Cassini, che ha saputo essere di salute alquanto cagionevole: "io non
voglio risparmiare cosa alcuna per tuo bene. Se fosse necessario,
cercherò di farti venire a passare qualche tempo per mano Don Mazzarello e tra tutti due accendete un gran fuoco di carità, le cui fiam
me avvampino per tutto il collegio ed altrove. Tu poi non dubitare della mia benevolenza, che è assai grande per te e per tutti i miei cari figli di America. In quanto alle cose di coscienza continua come hai scritto. Dopo la tempesta verrà tempo sereno".
Col chierico Antonio Paseri è molto affettuoso: "Tu, o mio caro Paseri, sei sempre stato la delizia del mio cuore, ed ora ti sono ancora più, perché ti sei totalmente dedicato alle Missioni, che è quan
to dire: hai abbandonato tutto per consacrarti tutto al guadagno delle anime. Coraggio adunque, o mio caro Paseri. Preparati ad essere un buon Prete, un santo salesiano".
Invece al chierico Calcagno raccomanda: "Non volgere indietro lo sguardo. Miriamo il Cielo che ci attende. Là abbiamo un gran premio preparato. Lavora, guadagna anime e salvami la tua. Sobrietà ed obbedienza per te sono tutto. Scrivimi sovente".
Una letterina di augurio riserva poi al primo chierico salesiano uruguayano Juan Pedro Rodriguez Silva: "Quel Signore che ti chiamò ad essere Salesiano, ma fervoroso ed esemplare Salesiano, ti aiuti a guadagnargli molte anime pel cielo, ciò farai col tuo buon esempio, coll'esatta osservanza delle nostre Regole".
Infine una serie di raccomandazioni sono contenute nella lettera a un direttore-parroco: anzitutto, l'osservanza delle nostre regole, "oltre al testo delle regole riporterai vantaggio dalla frequente lettura delle deliberazioni prese nei nostri Capitoli Generali [...] Ma come Curato usa tutta la carità ai tuoi preti affinché ti aiutino con zelo nel sacro ministero, ed abbi una cura speciale dei fanciulli, degli ammalati, dei vecchi. Che se nelle Missioni ed in qualunque altro modo tu giungi a ravvisare qualche giovanetto che dà qualche speranza pel sacerdozio, sappi che Dio ti manda tra mani un tesoro. Ogni sollecitudine, ogni fatica, ogni spesa per riuscire in una vocazione non è mai troppa: si calcola spesa sempre opportuna".
* * *
Le missioni salesiane fecero la "fortuna" di don Bosco. L'immagine positiva propagandata dal Bollettino Salesiano suscitò ovunque entusiasmi, vocazioni e sostegni economici. Non furono certo tutte rose e fiori: Salesiani non sempre all'altezza, preparazione spirituale e professionale insufficienti, problemi economici, situazioni politiche e religiose difficili, ecc. Gli epistolari dei missionari ne danno prove più che convincenti e la loro lettura non mancherebbe di far del bene. Ma alla fine la società salesiana si radicò in America Latina (ed altrove) e riscosse più successi che insuccessi. La loro "storia vera" purtroppo non è ancora stata scritta, anche perché mancano troppe fonti importanti all'appello degli studiosi. Speriamo e pre
ghiamo che lo si faccia in tempi possibilmente brevi con l'apporto di tutti i Salesiani (e non Salesiani) che nel loro passato trovano lezioni di vita anche per l'oggi. Per "ritornare a don Bosco" non sarebbe forse male passare anche attraverso quanti ne hanno seguito, con maggior o minor fedeltà, le arme. Ma questo è un altro discorso, che ci auguriamo si possa aprire in occasione dell'ormai non troppo lontano centenario della morte di uno dei suoi figli migliori, il suo primo successore, il beato don Michele Rua.
"Semplice e umile lavoratore nella vigna del Signore"
(papa Benedetto XVI)
Siamo così giunti al termine del nostro itinerario biografico-spirituale di don Bosco. L'abbiamo visto crescere in una famiglia governata da una madre esemplare educatrice cristiana, in un paese aperto ai santi principi della fede, nella cittadina di Chieri all'interno di un collegio da un severo stile di vita cristiana e di un seminario in grado di offrirgli quella formazione filosofica-teologica di base che avrebbe poi consolidato, in funzione pastorale, nel Convitto di Torino. Insediatosi nella periferia di questa città nel 1846, diede vita ad un'Opera che ha semplicemente del prodigioso sul piano del numero e dell'ampiezza delle iniziative, del seguito ottenuto, dell'immaginario collettivo. Folle di fedeli gli scrivevano, lo cercavano, si accostarono a lui per toccarlo, seguirlo nella messa e nella predicazione, chiedere preghiere come prete santo, taumaturgo, benedetto da Dio, tutto consacrato alla salvezza dei giovani, appoggiato alla prodigiosa intercessione di Maria Ausiliatrice.
Non ci resta che procedere ad una prima sintesi operativa in chiave di attualità, quella indicataci dal titolo: la missione salesiana oggi. Ne seguiranno altre tre, di carattere più pedagogico e confacenti a tutta la Famiglia salesiana.
Anzitutto è ormai chiaro il significato del termine "missione". Non si tratta di un gruppo di persone inviate all'estero per qualche "affare"; neppure con questo termine si vuole indicare un gruppo di
persone lontane da casa per convertire altri ad una certa religione. Neppure è un campo di attività. Si tratta invece di guardare al termine stesso latino: mittere, mandare qualcuno, da parte di qualche altro, per fare qualche cosa.
Sintetizzando, la missione salesiana, vale a dire lo "spendere la vita nell'attuazione del progetto salvifico di Dio in Cristo accolto e proposto da don Bosco", può essere inteso in vari modi:
• In senso teologale: Dio, chiamandoci personalmente, ci consacra col dono dello spirito e ci invia. Quello salesiano è un servizio recepito e vissuto come missio Dei, che domanda di essere "pregato" ed "evangelizzato".
• In senso ecclesiale: la nostra missione partecipa di quella della Chiesa, che realizza il disegno salvifico di Dio e l'avvento del suo Regno. Il nostro è un servizio recepito e vissuto come missio Ecclesiae, e pertanto è svolto nella Chiesa (fedeltà ad essa), con la Chiesa (in comunione ecclesiale), per la Chiesa (a favore della sua crescita).
• In senso comunitario: un servizio recepito e vissuto come missio comunitatis con due particolari impegni: salvaguardare la fedeltà al carisma del fondatore e mettere in opera la comunione di ogni apostolato, anche quello affidato al singolo.
• In senso storico: la nostra vocazione ci chiede di essere solidali col mondo e la sua storia; le necessità dei giovani di oggi muovono ed orientano la nostra azione pastorale.
• In senso mistico: operiamo per la salvezza delle anime, redente dal sangue di Cristo. Il salesiano fa esperienza di paternità di Dio; riceve ed àncora il suo progetto attingendo, nello Spirito Santo, alla carità di Cristo; costruisce l'unità della sua vita fondendo ogni tensione in un progetto spirituale che si identifica col Cristo Salvatore.
• In senso ascetico: il salesiano si dà alla sua missione con operosità instancabile, con temperanza, con senso austero della vita...
• In senso concreto: inviato, avendo in mano degli strumenti, dei mezzi... anche economici.
Tutte queste dimensioni della nostra "missione" potrebbero essere oggetto di specifiche meditazioni. Ci dobbiamo accontentare di una riflessione "trasversale".
Per compiere tale missione — in qualche modo analoga per tutti gli istituti di Vita attiva — sono possibili almeno tre opzioni, tutte e tre realizzate negli ultimi decenni del secolo scorso.
La diaspora: dopo il 1968 molti religiosi si sono immersi nel mondo, fino a perdere la loro visibilità. La consacrazione è divenuta patrimonio "segreto": senza uniforme, privilegi, sicurezza delle istituzioni. Essi dovevano essere riconosciuti solo per il modo di essere, anche perché parlare a nome delle strutture, con la divisa, si rischiava di essere rifiutati. Ed ecco allora l'ampio diffondersi degli Istituti secolari, privi di "mezzi di pressione" e di persuasione, forti solo dell'evidenza della fede e della carità.
La pura evangelicità: contro la "prepotenza" dell'ispirazione monastica si sono aboliti i chiostri, la clausura... per dedicarsi alla sola trasparenza, all'assoluto di Dio, al solo ascolto orante della fede e della Parola, al semplice appello alla vita consacrata a prescindere dalla pastorale diretta.
Ma si pose il grosso problema che il carisma di molti fondatori si era espresso nella concretezza di attività quanto mai tangibili, tant'è vero che la crisi delle opere è diventata spesso quasi crisi del diritto di esistere. Ecco allora la terza via, quella della mediazione, la nostra: noi non possiamo fingere che don Bosco sia stato un religioso, un sacerdote che si è interessato dell'educazione fortuitamente. No, don Bosco fu religioso, sacerdote in quanto educatore. Per noi vita consacrata è dedizione a Dio e ai giovani, anche se continuamente cambia il modo di lavorare e non sappiamo a quale sponda approderemo. La scelta di questa terza via, rispetto alle altre due è meno certa, è più problematica, forse anche meno suggestiva, ma è la nostra.
Fenomenologia dei comportamenti di fronte al "nuovo"
Nella fenomenologia storica degli Istituti religiosi si assiste ad un curioso paradosso: mentre essi sono stati suscitati da Dio a percepire, a "leggere" e "dire" profeticamente il nuovo che affiorava, tuttavia, una volta istituiti, è stato costante il rischio (per cui si fanno riforme e nascono riformatori) di privilegiare sempre la dimensione della tradizione: non la novitas, bensì l' antiquitas. Questa è trop
po spesso considerata come criterio pressoché unico di verità. Lungo la storia si è così perso il dinamismo di essere "profezia dei tempi futuri", come si sente dire, per adagiarsi "nell'estasi del mantenimento", rischiando così di perdere di vista la realtà dell'esistenza. Invece l'essenziale collegamento con la realtà è il vero fondamento e il luogo di reperimento della novità.
Una congregazione che si rinchiudesse nella considerazione del dono carismatico fattogli finirebbe per collassare. Un'ispettoria salesiana che si chiude in opere e strutture che precostituiscono il servizio e la risposta, trova difficile guardare fuori "oltre il muretto", difficilmente vede le domande che vengono dalle nuove situazioni e povertà giovanili, facilmente finisce per vedere solo i propri giovani "poveri" (esattamente solo quelli che possono essere fatti rientrare nelle "proprie opere"), gli altri rischiano di essere "invisibili" ai loro occhi.
Quindi si deve essere innovativi, non per essere "à la page", per essere applicati a qualche cosa di gratificante e di riconosciuto dalla pubblica opinione, ma per un fattore di fedeltà dinamica. Le nostre opere non possono configurarsi semplicemente come un puro servizio offerto alla società per interventi che essa dovrebbe tenere.
Il compito "permanente" degli Istituti religiosi sarà forse quello di essere — a livello operativo — "provvisorie antenne profetiche" che sanno scoprire i nuovi orizzonti della gioventù povera, sanno indovinare nuove soluzioni, sanno farsi carico in modo "prototipico" delle situazioni più urgenti e difficili, in modo "provvisorio", cioè fino a quando la recezione di quel bisogno sorto in quel momento non sarà diventato "normale" intervento da parte della società e dello Stato. "Rendersi inutili qui" perché è arrivato chi doveva arrivare e poi "rendersi presenti là", dove nessuno ancora è arrivato.
Quattro "novità" da ben considerare Odierna crisi di credibilità ad intra e ad extra
La congregazione salesiana ha fatto dei forti passi in avanti, e non poteva non farli, visto che i giovani del 2000 sono ben altro rispetto a quelli del secondo Ottocento, ma anche, ad esempio a quel
li della nostra giovinezza. I sociologi distinguono nella sola seconda metà del secolo XX almeno cinque distinte fasi in cui si è espressa la cosiddetta "condizione" o "cultura" giovanile: la fase del boom economico, del sessantottismo, del riflusso nel privato degli armi ottanta, della voglia di divertirsi degli anni novanta, dell'indipendenza, autonomia, sfoggio del look, dell'high tech del 2000.
Ora in ambito salesiano se il Capitolo Generale 18 (1958) non aveva accolto in profondità le trasformazioni del dopoguerra, per cui le disposizioni e le risoluzioni non risultarono molto distanti da quelle degli anni venti e seguenti, da11965 in poi non si è fatto altro che tentare quella svolta che è poi confluita nella onnicomprensiva "pastorale", un termine fino allora estraneo alla letteratura salesiana, ma da quel momento introdotto stabilmente; successivamente anche coniugato con "carità pastorale" e tradotto con "cuore oratoriano".
Risultato però imprevisto — non certo in conseguenza della svolta — è la crisi di credibilità, l'immagine sbiadita, la scarsità di vocazioni, il futuro incerto, non solo in Europa, di cui siamo tutti ben coscienti. È certo che siamo su una corsia di veicoli lenti, disattesi e sottovalutati. Troviamo difficoltà a parlare al cuore dei giovani; siamo scossi dall'irrilevanza della fede nella costruzione della loro vita; constatiamo una scarsa sintonia con il loro mondo; percepiamo che non riusciamo ad essere significativi ed a comunicare a fondo con loro; notiamo che essi sono inseriti senza difese in un mondo in cui la frattura tra la fede e la vita attraversa drammaticamente tutti gli ambiti e i livelli dell'esperienza umana (culturale, sociale, antropologico, morale, tecnico-scientifico, giuridico, politico); ci rendiamo conto che l'agognata libertà sembra aver perso le sue ragioni, per cui tutto in loro finisce per risolversi in opinione o in sensazioni superficiali. Per lo meno in Occidente si è un po' presi da un senso di sgomento non solo di fronte al vecchio mondo che sembra ritornare ai vizi del paganesimo, ma anche di fronte alla congregazione che invecchia, che sembra priva di slancio. Si ha la sensazione che qualche cosa stia crollando e che non si sappia come fare per non essere travolti.
Inoltre a livello personale vediamo forse con scarsa chiarezza il ruolo a cui ci dedichiamo e siamo lontani dall'entusiasmo contagioso e dal legittimo sentire delle prime generazioni di Salesiani che
hanno vissuto ed esportato con successo nel mondo il carisma di don Bosco. Molti di noi forse non sono pienamente convinti dell'utilità della nostra missione oggi, così come la svolgiamo; forse non troviamo impegno di lavoro adeguato e significativo, perché non sappiamo reinvestire e rinnovare.
Anche a proposito delle nostre opere, i laici non sintonizzati con il nostro carisma spesso le apprezzano solo per la rapidità ed incisività dell'intervento, per l'aspetto utilitaristico del servizio. Vedono in esse la filantropia, ma non la carità e l'ispirazione evangelica, per cui talvolta le considerano alla stregua di imprese lucrative o magari solo di prestigio nel franare dello Stato assistenziale. I credenti stessi troppo sovente dubitano del loro valore anche quando le aiutano e se ne servono. Nella loro vita personale poi non si ispirano all'esperienza religiosa della congregazione.
Fino al Concilio Vaticano II ci si riferiva alla Chiesa universale: da allora in poi l'ecclesiologia si è spostata sulle chiese locali, sulla comunione delle chiese locali ed i religiosi devono adeguarsi. Quindi non basta più essere attenti alle curie generalizie, occorre vivere dentro la Chiesa locale, convivere-condividere, dando e ricevendo: il carisma singolo è da consegnare come patrimonio alla comunità ecclesiale di cui siamo parte. Non si può essere della chiesa, senza essere in una chiesa; non basta lavorare per essa, occorre vivere di essa. Ovviamente anche la Chiesa in cui ci troviamo deve riconoscere il servizio ecclesiale del nostro carisma.
Ma non illudiamoci: non pare che le nostre opere sensibilizzino più di tanto le Chiese locali. Se prima ci si lamentava della separatezza dei religiosi dentro la Chiesa, oggi sembra in atto una loro progressiva emarginazione. Si rischia di essere strumentalizzati per dare una mano ad altri in difficoltà, più che essere riconosciuti titolari di un servizio specializzato. È un fatto che il parrocchialismo dominante nel clero cerca di subordinare a sé tutte le energie disponibili, nell'ideale di avere molti militanti a favore delle proprie iniziative. Ogni carisma è invece necessario l'uno all'altro: è inutile se sotterrato. Perché ci sono difficoltà nelle datate, ma pur sempre valide,
Mutuae Relationes, per cui sono state fatte oggetto di revisione? Solo per cattiva pattuizione degli ambiti di intervento o invece per diverse concezioni ecclesiologiche?
I Salesiani appartengono al presbiterio insieme alla loro comunità, che ne costituisce il soggetto apostolico. Non si sono fatti Salesiani per autorealizzarsi. Non è difficile però per i singoli costruirsi un loro spazio pastorale molto significativo, ma senza riferimento alcuno alla comunità, con la conseguenza che le loro iniziative sono viste dalla comunità ecclesiale e civile come frutto di un singolo operatore, di un "libero professionista" e non come espressione di un'identità congregazionale precisa.
Da tempo ormai si va verso progetti di "pastorale del territorio", più che di pastorale totalmente dipendente da un unico centro presumibilmente pensante. Fino a ieri si operava in "casa", dentro le nostre opere. Spesso poi la casa era un'isola: luogo religioso, "riservato", luogo di silenzio, quasi una enclave; ora, e sempre più, si va al di là delle opere, in luoghi aconfessionali, secolari: siamo immersi nel mondo sia in casa che fuori. Pertanto più che la comunità sarà il singolo a testimoniare la fede, il carisma, anche se la comunità in quanto tale, come s'è appena detto, deve avere la sua parte. Nelle nuove condizioni di lavoro il singolo non potrà sempre avere alle spalle la comunità che lo difende, lo protegge e ne compensa le deficienze. Gli si richiede sì capacità, maturità personale, professionalità, senza anonimato, ma anche forte carica di spiritualità.
Un esempio per chiarire. Per tanto tempo la povertà era considerata individuale, dentro proprietà solide; vigeva il principio di economia per cui il guadagno o il risparmio era investito in opere e non ci si rendeva troppo conto del valore del proprio lavoro. Oggi tutto ciò è esploso; il proprio lavoro è pagato e sappiamo quanto vale; ci sono le pensioni, le assicurazioni... (H che dovrebbe farci più coscienti degli angosciosi problemi della disoccupazione e dell'incertezza della vita che riguarda chi non ha fatto voto di povertà!). Si tratta dunque di una svolta non indifferente nella nostra vita.
Don Bosco ha imparato presto l'arte del coinvolgimento; ne abbiamo già accennato. Oggi le cause di un tale inserimento di laici come collaboratori in case salesiane sono le stesse di un secolo fa, unite però ad altre "inedite". Anzitutto la rinnovata coscienza dell'identità battesimale, missionaria del laico nella Chiesa. Inoltre l'ondata del volontariato laico in "terre di missione", declericalizzando di fatto la missione, ha fatto capire come lo sviluppo dei popoli non può essere solo impegno dei sacerdoti e dei consacrati, per altro da sempre impegnati nelle frontiere più a rischio.
La collaborazione poi è un'esigenza diffusissima: un laicato non più solo ausiliare o aggregato, quasi in seconda fila, richiesto più di obbedienza che di contributo creativo, ma laicato animato ed animante, a parità di collaborazione. Si supera così la prassi, consolidata da secoli, di un paternalismo più o meno marcato. Quello che si deve temere non è il confronto fra varie sensibilità, ma l'uniformità, l'omologazione, la presenza di un laicato yes man, che "gestisce la sacrestia", che sta in silenzio e che non si assume responsabilità in proprio nella pubblica agorà ecclesiale e sociale.
È evidente che noi Salesiani saremo sempre meno il soggetto che detiene la "maggioranza azionaria", a fronte di massa laicale che preme nelle nostre opere; ma è altrettanto evidente che un nucleo animatore salesiano (non necessariamente di Salesiani consacrati) non potrà mai mancare. Deve far riflettere il fatto che la dominante dei movimenti ecclesiali più in vista è che essi sono animati dall'interno da nuclei particolari, che però esistono per orientare tutto il vasto movimento libero che li contorna e li giustifica. Sono popolari e non elitari e separati.
Una consegna trasmessa da don Bosco ai suoi figli merita di essere attentamente considerata: "Il Salesiano non geme mai sui propri tempi". Opera invece, sia pure nei limiti del possibile, convinto come don Bosco che l'ottimo è nemico del bene" e che "il bene si fa come si può" (se non lo si può fare "bene", come sarebbe auspicabile). Ecco allora qualche suggestione.
A. Ritornare ai giovani. Dire missione salesiana è dire "predilezione", "consacrazione" per i giovani. Per i Salesiani è sempre "l'anno della gioventù". È tra i giovani che don Bosco ha elaborato il suo stile di vita, il suo patrimonio pastorale, il suo sistema educativo, la sua spiritualità. Volver al patio è stato il motto di un'ispettoria salesiana in Argentina qualche anno fa: in diretto contatto, in prima linea, con i giovani; in sintonia con essi. Guai se perdessimo il contatto con i giovani! Dobbiamo riesumare lo specifico nostro ruolo di "missionari dei giovani", senza lasciarci troppo burocratizzare e metodologizzare. Dobbiamo "ripartire" dai giovani, se vogliamo "ripartire" da don Bosco, che i giovani se li andava a cercare anziché aspettare che glieli portassero.
Ed oggi in Italia i giovani "poveri ed abbandonati" di don Bosco sono quelli delle "emergenze giovanili": immigrati, disoccupati, soprattutto al sud, emarginati socialmente presenti in ogni città, espulsi dalla scuola, figli unici con ogni tipo di intrattenimento individuale ma totalmente desocializzati, incapaci a stare in compagnia di altri, che preferiscono appartarsi per sentire musica...
I nostri attuali destinatari potrebbero essere i giovani presenti là dove invece noi siamo troppo assenti, come nella galassia dei media o delle grandi concentrazioni di studenti universitari, là dove siamo poco presenti come nel mondo delle grandi disponibilità "estive" per campi di lavoro o per il volontariato sociale, nazionale ed internazionale, là dove siamo scarsamente significativi come nell'offerta di luoghi di spiritualità o di persone disponibili "per lo spirito" e non solo per fare "festa insieme".
Ovviamente nessuno di noi si nasconde i limiti "strutturali" e "congiunturali" che abbiamo in questo momento, come la presenza di pesanti strutture pensate per altre epoche, l'età media dei confratelli, la preparazione "datata" per molti di loro (vale a dire per un mondo ed un'educazione che non c'è più), la mentalità rigida di molti di fronte al mondo giovanile sempre diverso per definizione, quasi inesplorabile, imprevedibile, sotto il profilo delle idee e del comportamento.
Ma esistono forse anche altri limiti "personali e comunitari", da considerare con attenzione. Negli appunti che la tradizione ha chiamato Testamento spirituale Don Bosco ha lasciato scritto: "Quando
cominceranno tra noi le comodità o le agiatezze, la nostra pia società ha compiuto il suo corso. Il mondo ci riceverà sempre con piacere fino a tanto che le nostre sollecitudini saranno dirette ai selvaggi, ai fanciulli più poveri, più pericolanti della società". Oggi, ispirandoci a lui, dovremmo avere il coraggio di dire che quando una comunità salesiana "si chiude" davanti alla TV o ai computer per ore e ore, è segno che (almeno in quel posto) la congregazione ha finito il suo corso; che quando un'opera salesiana si riduce a quattro ragazzi con un pallone, due calcetti, una sala da videogiochi e da computer... che quando una casa, un'ispettoria trova tempo, non per andare a trovare giovani da coordinare alle proprie iniziative, ma per fare troppe gite culturali o pseudo-pellegrinaggi o esercizi spirituali itineranti... essa "ha compiuto il suo corso".
Anche lo sviluppo di una casa salesiana e il numero di giovani in essa educati sono il termometro della sua ragion d'essere in un particolare luogo. Non dimentichiamoci mai la dinamica di crescita dell'Oratorio di Valdocco: opere diverse crebbero sul ceppo originario, il personale fu in continua crescita (sacerdoti della città saltuariamente presenti, chierici, che però non perseveravano, laici che aiutavano dall'esterno e successivamente giovani da don Bosco formati, che dal 1859 diventarono Salesiani), così come crebbe il numero dei ragazzi: si passò dai 3 giovani nuovi all'anno ne11851, agli oltre 400 ne11866; le poche decine di ragazzi degli anni cinquanta divennero le centinaia degli anni sessanta in poi, fino a pervenire al numero di circa 800 (esclusi gli oratoriani esterni, che con quelli degli altri oratori torinesi raggiungevano varie migliaia).
B. Qualificarsi. È evidente che la fedeltà alla nostra "missione", per essere incisiva, deve essere posta a contatto con i "nodi" della cultura di oggi, con le matrici della mentalità e dei comportamenti attuali. Siamo di fronte a sfide colossali, che esigono serietà di analisi, pertinenza di osservazioni critiche, confronto culturale approfondito, capacità di condividere psicologicamente situazioni difficili; in caso contrario daremmo risposte banali, irrilevanti, insignificanti, risibili, ripetitive. Oggi sulle reali condizioni giovanili — per quanto sempre cangianti e diversificate per situazioni e problemi — si possono avere informazioni sistematiche grazie a raffinati strumenti di ri
cerca e di analisi sociologica e psicologica. E queste informazioni ci dicono che l'età giovanile si è dilatata oltre misura, che stante le attuali condizioni giovanili e il contesto conflittuale in cui crescono andrebbero considerati "abbandonati", "pericolosi e pericolanti", per dirla come don Bosco, quasi tutti i giovani del mondo. Altrettanto si può attenuare circa le effettive "potenzialità" del fanciullo, ragazzo, adolescente, giovane, giovane-adulto per i quali deve essere messo in atto uno specifico processo educativo all'interno del pluralismo educativo in cui essi crescono. Quello che è certo è che non possiamo fare affidamento solo ai documenti dei Capitoli Generali o alle lettere del Rettor Maggiore. Papa Benedetto XVI poi ci interpella direttamente con il suo esplicito invito a riflettere sulle "ragioni della fede": ora il nostro sistema educativo non ha forse la "ragione" come prima colonna per l'educazione dei giovani (alla fede)?
Comunitariamente possiamo e dobbiamo chiederci: chi sono esattamente i giovani cui "consacriamo" personalmente e in comunità la nostra vita? Che cosa vogliono loro e che cosa vogliamo noi (e Dio) per loro? Li conosciamo veramente i giovani di oggi? Quelli delle anonime ma frequentatissime discoteche e palestre, quelli delle superaffollate "notti bianche", delle aggregazioni per mode (capelli, vestiti, tatuaggi...) e per idoli (musica, personaggi televisivi...), dei cellulari ultima generazione, delle chat, sms, newsgroup, del continuo viaggiare, anche alla ricerca di luoghi di spiritualità. Abbiamo cercato e trovato la strada per entrare nei luoghi che i giovani frequentano? Don Bosco sapeva "parlare ai giovani", si sintonizzava con loro. Siamo capaci di farlo anche noi? Oltre alle tradizionali lingue classiche e moderne, conosciamo la lingua, meglio, i linguaggi, sempre in rapidissima evoluzione, propri dei giovani? Siamo sulla stessa lunghezza d'onda o no? Utilizziamo "sistemi operativi" compatibili o meno con quelli da loro adottati?
A nuovi giovani corrispondono nuovi problemi, nuove responsabilità. Domandiamoci: Quale è la nostra professionalità pastorale sul piano teoretico? Ed a livello di prassi? La nostra professionalità educativa salesiana trova il banco di prova nella creatività, duttilità, flessibilità, nell'antifatalismo, nella capacità di rischiare anche oltre le mura della nostra casa, nell'imparare a lavorare in équipe, nel formarci a nuove modalità di lavoro. Un servizio educativo oggi esige
specifiche competenze, per l'interfaccia pubblico-privato che comporta, per la pianificazione di strutture educative, per la partecipazione a progetti con finanziamenti pubblici. Insomma non è più possibile "procedere alla buona", anche se va evitato il rischio che, in attesa di possedere una congrua strumentazione scientifica, diventiamo vecchi e inesorabilmente sempre più estranei al mondo giovanile. Ovviamente tale strumentazione culturale ha bisogno che chi se ne serve — cioè noi — la verifichi sulla propria pelle, creda che essa non supplisce all'anima e non dispensa assolutamente dalla ricchezza del cuore, della mente, della coerenza evangelica.
Don Bosco personalmente ha sviluppato forme educative già note e ne ha "inventato" delle altre. Nel periodo 1845-1859, assorbito come era dai mille problemi dei suoi Oratori — quando ancora non esisteva la congregazione — ha trovato il tempo per scrivere e pubblicare una massa di scritti (oltre 80 libri e fascicoli), arrivando quasi a farne adottare uno, la Storia sacra, nientemeno che nelle scuole statali del Regno. È proprio impensabile oggi per un salesiano trovare, oltre il proprio ruolo professionale, adeguato spazio per attività significative anche culturali, per lo meno popolari o di medio livello? La storia della congregazione offre splendidi esempi al riguardo.
Altrettanto si dica dell'educazione "corale", cui accenneremo anche più avanti. Oggi, ancor più di ieri, ci rendiamo conto che la responsabilità educativa non può essere che collettiva, partecipata, condivisa al più largo raggio possibile. Possiamo e dobbiamo chiederci: quale è il nostro "punto di aggancio" con la "rete di relazioni" in cui vivono i nostri giovani? Quale il nostro preciso contributo di partecipazione e di collaborazione all'interno di tale rete? Ci serviamo in un modo creativo dei mezzi di comunicazione per educare, dal momento che sono mezzi molto potenti per creare mentalità. Riusciamo ad immaginare cosa avrebbe fatto con Bosco se avesse avuto a disposizione l'internet? È essenziale lavorare in modo sinergico con altri agenti educativi, dedicando molto più impegno e più energie alla formazione, nelle nostre CEP, dei collaboratori laici.
C. Rivedere le presenze e i servizi con la genialità operativa che don Bosco ci ha trasmesso. Occorre di continuo passare da una "po
litica di emergenza" a una "politica di programmazione", evidentemente adeguata alle risorse disponibili. La creatività dell'invenzione non può rimanere nell'ambito del singolo, ma deve attingere dimensioni e responsabilità strutturali. È necessario rinnovare continuamente i criteri che guidano le scelte operative, tenendo presente la complessità di situazioni in cui operiamo; in tal modo si recupera l'identità e la specificità della nostra missione (esattamente come le aziende, che attraverso vere ristrutturazioni e non semplici adattamenti si adeguano al mercato per non restarne fuori, evidentemente senza voler con ciò identificare il concetto di gestione di un'impresa con quello di convivenza religiosa, tanto i fini sono diversi). Ne derivano delle continue svolte, che se non propriamente storiche, cambiano comunque il volto di un'Ispettoria.
Oltre poi fare attenzione a non chiudersi, quasi ripiegandosi su se stessi è necessario, come si diceva, allargare il raggio di azione e diffondere un'immagine positiva di noi stessi, alla stregua di don Bosco che lo fece in modo talora decisamente temerario.
Ci possiamo domandare: dove sono oggi l'elemento di rischio, il coraggio, la fantasia, la massa d'urto che fu don Bosco al suo tempo? Dove sono le sue posizioni profetiche, in difesa dei diritti dei giovani (e di quello che chiamava il "basso popolo") e in difesa dei diritti di Dio (profezia, senza arroganza, ma con risolutezza). Dove e come operano al riguardo la decine di migliaia di Cooperatori salesiani, gli ancor più numerosi ex allievi, che sul piano della visibilità sociale e culturale sembrano talora avere il dono dell'invisibilità?
Le diverse chiusure di opere effettuate da don Bosco non furono l'indice di un ripiegamento e di sconfitta, ma di un riassetto e di un rilancio, dimostrato dall'amplificazione sempre più larga di opere miranti alla foimazione giovanile: tutte iniziative che a ben vedere misero in evidenza il continuo coordinamento, l'ulteriore sviluppo... Forse non si può dire lo stesso del nostro "ridimensionamento", del nostro "ristrutturarsi", nel quale la chiusura di troppe opere, anziché apparire funzionale ad una scelta razionale in ordine ad un diverso sviluppo, è segno inequivocabile di un'inevitabile scomparsa, sia pure sofferta, di un carisma in un determinato territorio. Ma il "chiudere qui", senza "aprire là", se in qualche modo "risolve"
forse un problema "qui, ora", non "rilancia" però nulla per domani,
"né qui né altrove".
Chissà che non sia necessario invertire la direzione del tradizio
nale flusso salesiano! Anziché difendere a denti stretti o iniziare con notevolissimi costi umani opere per erogare servizi lunghi nel tempo ad un gruppo definito di giovani — opere che comportano pesante gestione economica, adeguamento a esigenti legislazioni civili, alta managerialità e competenze professionali molto lontane dai contenuti della formazione anteriore — chissà che non sia meglio attrezzarsi culturalmente per creare aggregazioni "qualificate" nei luoghi e nei modi già usuali per i giovani! Del resto è ormai di qualche decennio fa l'idea che ogni salesiano gestisse un gruppo ed è assodato che la "missione salesiana", con le varie dimensioni cui abbiamo su accennato, non coincide necessariamente con le inizia
tive e le attività pastorali.
Chissà poi se la Congregazione nel suo insieme oggi non debba rivedere l'estrema varietà delle sue opere per "concentrare" i suoi
sforzi in determinate direzioni, cogliendo "i segni del tempo" nei moderni "movimenti ecclesiali" che sembrano meglio rispondere
alle richieste della gioventù di oggi. Alcuni di loro, a ben vedere, hanno semplicemente colto e rilanciato in modo innovativo una o più intuizioni del nostro ricco patrimonio storico-pedagogico-spirituale. Se ne potrebbe, e forse, se ne dovrebbe fare un'attenta ana
lisi.
L'inversione di marcia nella ristrutturazione o fondazione di ope
re esige evidentemente un piano di sviluppo delle medesime, un piano di formazione delle persone destinate alla loro gestione, un piano di valutazione delle risorse umane, economiche e strutturali disponibili. In caso di carenza di queste, occorre realisticamente
semplificare strutture e servizi, ridurre le troppo vaste e magari generiche finalità. È inutile mantenere in piedi, a tutti i costi, opere che hanno esaurito il loro ciclo vitale. L'Italia e l'Europa sono cosparse di ex case religiose... Si può morire di inazione, arrivando troppo tardi
nello stilare diagnosi e nell'adottare terapie adeguate, ed è triste vedersi obbligati a ristrutturare le proprie opere semplicemente in conseguenza di condizionamenti esteriori, senza che entri in gioco la volontà esplicita delle persone, senza che intervengano motivazio
ni evangeliche e teologiche che pure dovettero essere alla base di quegli insediamenti.
Due i rischi da evitare: quello di perdere l'unità-identità di congregazione, per voler fare ogni cosa senza esserne in grado, per voler abbandonare cose stabili per altre passeggere non ben pensate, per disperdere risorse a breve termine; ovvero quello di cedere al "fondamentalismo", ossia assolutizzare e rendere perenni opere o aspetti limitati e contingenti di esse, finendo per accontentarsi del già posseduto, del già conosciuto, di una tradizione fossilizzata, difesa, magari in buona fede, in nome della fedeltà al passato.
D. Last, but not least, rinvigorire evangelicamente il proprio vissuto, recuperare cioè tutte le dimensioni spirituali della nostra "missione"; in sintesi: fare della rivelazione di Dio ai giovani e al popolo la ragione della nostra vita, secondo la logica delle virtù. teologali. Il salesiano, uomo di fede, si abbandona con gioia fiduciosamente nelle mani di Dio rivelatosi in Gesù e diventa capace di accettare tutte le circostanze della vita, in modo da consentire a Dio di manifestarvi la sua azione salvifica. Si rende sì conto che nessuna situazione corrisponde in modo adeguato al volere di Dio, ma si sforza di vivere e di operare in modo da compiervi sempre la volontà di Dio. Il salesiano, uomo di speranza, attende Dio ogni giorno per essere capace di accogliere il suo dono futuro in tutte le situazioni, anche di fallimento "Nessuno ci potrà separare dall'amore di Cristo" (Rm 8,39). Il salesiano, uomo di carità, rende il suo presente spazio dell'amore di Dio: Deus caritas est.
La sua "unione con Dio" non è quella del funzionario di una società, o di chi ragiona alla stregua del semplice lettore del giornale
preferito e dello spettatore dell'ultimo talk show televisivo; bensì
quella di chi vive un'intensa vita interiore col suo Dio in mezzo ad un'attività instancabile (contemplativo dell'azione), di chi si consacra al lavoro apostolico generoso, di chi rifiuta il confort, la ricerca di
consolazione, la gratificazione del successo, di chi accetta tutte le fatiche (lavoro e temperanza), di chi sprizza amore all'Eucaristia, alla Confessione, alla Vergine, al Papa, insomma di chi vive in Dio la propria vita, di chi "partecipa" alla vita divina.
Senza una intima esperienza di Dio, il ritornare ai giovani, il qua
lificarsi e il rivedere le presenze ed i servizi sono destinati al fallimento, in quanto sarebbero privi della sola e prioritaria condizione. Dobbiamo essere convinti che il Vangelo si trasmette "per contagio" là dove c'è vera relazione umano-spirituale, paziente, fiduciosa, fedele e gioiosa. Oggi, certo, le modalità del rapporto interpersonale sono diverse da quelle del passato. Ma i giovani (e gli adulti) entrando nel cuore del salesiano devono scoprirvi non un aggiornatissimo tecnocate, non un abile ma vacuo comuni catore, neppure un funzionario ecclesiastico o anche un operatore pastorale, ma un uomo "appassionato di Dio", una persona ricca in umanità, completa, che rivela loro la bellezza del Vangelo. L'identità carismatica e quella profetica del salesiano non solo vanno di pari passo con quelle istituzionali, ma le rendono possibili.
* * *
Concludiamo allora questa meditazione-istruzione con le parole delle Memorie-Testamento Spirituale di don Bosco, che offrono la chiave di interpretazione dell'attivismo salesiano inteso come carità totale, usque ad effusionem sanguinis, fino all'unione mistica con Dio in un amore oblativo illimitato: "Quando avverrà che un salesiano soccomba e cessi di vivere lavorando per le anime [l] allora direte che la nostra congregazione ha riportato un gran trionfo e sopra di essa discenderanno le benedizioni del cielo".
"Gli uomini non nascono, si formano" (Erasmo)
Don Bosco continua ad interessare tanta gente, in molti Paesi, ad oltre un secolo dalla sua morte (1888). Lo si ritiene una figura tuttora significativa, anche al di là dell'area salesiana. Ma sembra anche di percepire qualche perplessità sull'attualità del suo "messaggio, sulla sua "modernità" quasi non fosse più "attuale" e "moderna" la sua intuizione di dedicarsi all'educazione dei giovani, la sua convinzione che "bisogna che cerchiamo di conoscere i nostri tempi e di adattarvisi". E sono proprio i nostri tempi a chiederci di "ripartire da lui", ripartendo dall'educativo, salesianamente aperto al trascendente. Ovviamente si tratterà di comprendere che cosa significhi educazione oggi, ma intanto la base è solida, religiosamente e civilmente, come vediamo subito.
Lo abbiamo già accennato: l'importanza storica di don Bosco è da rintracciarsi, prima che nelle "opere" e in certi elementi metodologici relativamente originali - tutto in qualche modo è stato ed è possibile sottoporre a critica anche in ambito cattolico - in alcune intuizioni fondamentali.
Prima di tutto l'intuizione, intellettuale ed emotiva, della portata universale, teologica e sociale, del problema della gioventù. specialmente "abbandonata" (cioè dell'enorme porzione di gioventù di cui non ci si occupava o ci si occupava male), cui assicurare un futuro dignitoso. Si legge in un numero del "Bollettino Salesiano" edi
to sotto la sua diretta supervisione: "I fanciulli e i giovinetti sono lE fondamenta, la semenza della società religiosa e civile. Chi non sa che di qui a dieci, a quindici, a venti armi i bimbi, che ora ci fanno corona, formeranno il nerbo del popolo? Quindi quale sarà la gioventù presente, tale sarà il popolo, tale la società avvenire" (Boll. Sal. 1878, n. 7, p. 2).
In secondo luogo don Bosco intuì, sul piano operativo-concreto, la necessità di interventi al riguardo su larga scala, nel mondo cattolico e nella società civile, come necessità primordiale per la vita della Chiesa e per la stessa sopravvivenza dell'ordine sociale.
Sulla base della prima intuizione, passò personalmente a realizzare la seconda, attraverso un progetto educativo tendenzialmentE mondiale, in grado di coinvolgere larghissime schiere di operatori sul campo: collaboratori, benefattori, ammiratori, credenti e non credenti. Con la sua ampiezza di vedute, di iniziative e di realizzazioni, riscosse grande successo, nonostante grosse difficoltà di partenza: la mancanza di risorse economiche (sempre inadeguate alle SUE realizzazioni), il suo modesto bagaglio culturale ed intellettuale (ir un momento in cui c'era bisogno invece di risposte di alto profilc teorico), l'essere figlio di una teologia e di una concezione socialE con fortissimi limiti (e pertanto inadeguata a rispondere alla secolarizzazione e alle profonde rivoluzioni sociali in atto: si pensi sole a Marx).
Ora "ripartire da don Bosco" significa condividerne le intuizioni per elaborarle ed attualizzarle "ai nostri giorni"; significa rileggerlo in chiave nuovamente "fondazionale", fermo restando che riusciremo a "fare noi oggi, come don Bosco ieri" solo se sapremo "essere noi oggi, come don Bosco ieri".
Se fra le tante definizioni del secolo XIX c'è quella di "secolo della pedagogia", e se quello cosiddetto "breve", il XX, è stato definite il "secolo dei giovani"; come si potrà definire il secolo XXI? Ovviamente non si sa, ma è certo che, nella logica dei due precedenti, sembra iniziare sotto il segno della "educazione", o meglio, dell'emergenza educativa. Lo stanno a dimostrare le richieste provenienti dal
la Chiesa, dalla comunità civile mondiale e anche dalla nostra stessa quotidiana esperienza.
Quanto alla prima, scriveva papa Giovanni Paolo II già nel 1988 nella lettera ai Salesiani: "Forse mai come oggi educare è diventato un imperativo vitale e sociale insieme, che implica presa di posizione e decisa volontà di formare personalità mature. Forse, mai come oggi, il mondo ha bisogno di individui, di famiglie, e di comunità che facciano dell'educazione la propria ragion d'essere e ad essa si dedichino come a finalità prioritaria, alla quale donano senza riserve le loro energie [...] Essere educatori comporta una vera e propria scelta di vita". A sua volta il successore, Benedetto XVI, alla Chiesa italiana, che al convegno di Verona (ottobre 2006) esprimeva la volontà di volersi dedicare all'educazione "con nuovo impegno", ribadiva la medesima convinzione: "In concreto [...] una questione fondamentale e decisiva è quella dell'educazione della persona. Occorre preoccuparsi della formazione della sua intelligenza, senza trascurare quelle della sua libertà e capacità di amare [...] Un'educazione vera ha bisogno di risvegliare il coraggio delle decisioni definitive, che oggi vengono considerate un vincolo che mortifica la nostra libertà, ma in realtà sono indispensabili per crescere e raggiungere qualcosa di grande nella vita [...] Voglio esprimere qui tutto il mio apprezzamento per il grande lavoro formativo ed educativo che le singole Chiese non si stancano di svolgere in Italia, per la loro attenzione pastorale alle nuove generazioni e alle famiglie. Tra le molteplici forme di questo impegno non posso non ricordare, in particolare, la scuola cattolica".
Passando invece alla comunità civile internazionale, alla vigilia del terzo millennio, il rapporto UNESCO della commissione internazionale per il XXI secolo, presieduta da Jacques Delors, dal significativo titolo "Nell'educazione un tesoro" scriveva: "Di fronte alle molte sfide che ci riserva il futuro, l'educazione ci appare come un mezzo prezioso e indispensabile che potrà consentirci di raggiungere i nostri ideali di pace, libertà e giustizia sociale [...] Essa dovrà svolgere un ruolo fondamentale nello sviluppo personale e sociale".
L'affermazione è molto forte. In altre parole arriva a sostenere che l'educazione stessa costituisce la sfida del terzo millennio. E non si tratta di piccoli numeri, se si pensa che la sola gioventù con meno
di 18 anni costituisce il 38% della popolazione mondiale, e nei 50 paesi meno sviluppati essa costituisce metà popolazione. A sua volta il Forum mondiale dell'Educazione tenutosi nell'aprile 2000 a Dakar con la partecipazione di 1100 delegati provenienti da 164 paesi ha lanciato per il 2015 il programma Education for Ali (Efa) articolato con sei precisi Efa-goals, il primo dei quali, all'interno di un progetto anteriore in favore dell'educazione di base ma di qualità per tutti, recita: Expanding and improving comprehensive early childhood care and education, especially for the most vulneratile and disadvantaged children. Come non pensare immediatamente ai giovani "poveri ed abbandonati" di don Bosco?
Da parte nostra infine sappiamo di essere anche oggi, come nell'800, in presenza di una società in crisi, nel senso di un rapido passaggio da una società all'altra per cui in un mondo in rapida evoluzione vengono facilmente meno i necessari punti di riferimento su cui si regge la società. Si capisce allora perché il problema numero uno che si pone oggi alle nostre società è quello dell'educazione, non tanto della politica e dell'economia. In alcuni ambienti si è addirittura parlato di educazione al tramonto, da "ultimo bivio di educazione": l'esito finale della postmodernità porterebbe il nome di "disumanizzazione" dell'uomo, di nichilismo, anziché di nuovo umanesimo, di "costruzione" di "uomini nuovi".
Non è un problema di semplice istruzione scolastica o di avviamento al lavoro; ciò che è in crisi è la capacità di una generazione di adulti di educare i propri figli. Per tanti anni da università, scuole, TV e giornali si è predicato (e si predica) tuttora che la libertà è assenza di legami e di storia, che si può diventare grandi seguendo il proprio gusto e piacere. È diventato normale pensare che tutto è uguale, che nulla in fondo ha valore se non le solite cose: soldi, potere, posizione sociale, piacere. Si vive come se la verità fosse un optional, per cui i giovani vivono annoiati, a volte violenti, in balia di mode e potere, esposti a manipolazioni, trascuratezza, abbandono. La loro incertezza ed insicurezza sono figlie di una cultura che ha sistematicamente demolito le condizioni e i luoghi classici dell'educazione: la famiglia, la scuola, la Chiesa, la società civile nel suo complesso, condizionata da ideologie aberranti ed aggredita da fanatismi ed estremismi di ogni genere. Tale è oggi la situazione ge
neralizzata un po' ovunque in Europa e nei paesi più sviluppati. Prova ne sia che gli spiriti più avvertiti sentono nuovamente il bisogno di "maestri" dotati di un pensiero "forte", che rimetta l'uomo al suo posto, che aiuti a superare la crescente distanza tra civiltà e fede, tra scienza e coscienza, fra persona, stato e società.
E la situazione è ancor peggiore nelle nazioni meno sviluppate, là dove il diritto fondamentale, e dunque non negoziabile, all'educazione e all'istruzione dei piccoli, viene ritenuto facilmente non vitale. Invero la storia ci insegna che anche al tempo del primo Oratorio di don Bosco vi erano fior di ministri di Stato contrari all'alfabetizzazione obbligatoria. Oggi in tanti paesi tale diritto è ancora conculcato per l'opposizione di chi vede la persona istruita come un concorrente alle sue posizioni di potere e di prestigio e per la carenza delle necessarie condizioni economiche sia da parte delle famiglie che dello Stato.
Di inquietudine educativa era attraversato il secolo XIX, come ha acutamente osservato il massimo studioso del Sistema preventivo di don Bosco, Pietro Braido. Ma credo che lo si possa affermare pure del secolo XXI (e forse di ogni secolo), vista la quantità e la qualità di recenti studi e ricerche nei quali si afferma non solo la possibilità della prevenzione educativa, ma anche la costante rinascita della pedagogia non repressiva e soprattutto l'efficacia della prevenzione come forma di educazione. Se ci fosse poi bisogno di conferma, basterebbe analizzare le esperienze preventive in atto un po' ovunque in molti ambiti della società.
Ovviamente esistono varie espressioni e forme diverse di preventività educativa, alcune riduttive e parziali ed altre di alto spessore culturale, che tendono a (ri)costruire idee, valori, itinerari pedagogici e spirituali adeguati alla complessa società di oggi, nella quale lo stesso prevenire, nella sua duplice accezione, positiva e negativa, ha assunto dimensioni incomparabili rispetto alle realizzazioni e formulazioni di don Bosco. Limitiamoci a due riflessioni, una di carattere più generale e una relativa al mondo giovanile.
In termini astratti per educazione si intende quel processo di trasmissione di conoscenze, norme, valori ed abilità, messo in atto dagli adulti nei confronti delle generazioni più giovani, allo scopo di farle diventare membri a pieno titolo di una società e di una cultura, assicurando così la continuità delle stesse. Tale educazione si declina in mille maniere, a seconda del contenuto oggettivo (affettiva, sessuale, artistica, fisica, civica, morale, religiosa, sociopolitica, alimentare, tecnica...), di alti obiettivi specifici (alla democrazia, alla legalità, alla mondialità, alla salute, all'ecologia...), dei tempi (prescolare, scolastica, exstrascolastica, familiare, ecclesiale, permanente), delle modalità (formale, informale, intellettuale, popolare, familiare...), ecc.
Ora ci si rende immediatamente conto che in una società strutturalmente complessa come la nostra, "società" e "cultura" sono formule che sottointendono diverse realtà in continuo movimento, frutto di incontro-scontro fra loro, non sempre facilmente integrabili ed amalgamabili. Inoltre all'interno di una società culturalmente policentrica, si sono moltiplicate le relazioni e i soggetti sociali, le logiche e i valori che strutturano i rapporti, per cui i cittadini, indotti a fare riferimento a molteplici centri culturali e di interesse, vivono una crisi del senso di appartenenza sociale, i cui effetti sociali sono visibili nella nota mentalità individualistica, nell'evidente ridimensionamento del protagonismo familiare e nel trionfante relativismo. Vi si aggiungano l'indifferentismo religioso, le visioni antropologiche che danno risposte diverse e talora contraddittorie alle domande di fondo, un laicismo esplicitamente avverso ad ogni forma di manifestazione pubblica della religiosità, la presenza della Chiesa e della fede, percepite come ostacoli per lo sviluppo umano integrale e come un freno alla libertà umana e si comprende allora ancor meglio come si viva nella cultura dell'indifferenza e vengano "ridotti in frammenti" i soggetti deboli, incapaci di comporre in unità i pezzi della propria vita e dunque bisognosi di "assistenza preventiva".
Se poi dall'ampio piano sociale passiamo a quello più ristretto del mondo giovanile vediamo che i problemi della desocializzazione degli adolescenti della Torino ottocentesca, dovuta al fatto che i giovani avevano lasciato la loro famiglia, non frequentavano
né la scuola né la parrocchia e dunque si "autoeducavano" sulla strada, sono, in un certo qual modo, analoghi a quelli dei giovani di oggi.
La famiglia è sempre meno socializzata e coltiva più che mai l'ideale di costituirsi come una piccola isola dove poter preservarsi da ogni conflitto sociale. Essa si pone come luogo in cui si possono esprimere e realizzare i propri desideri, e non più come istituzione sociale primaria nella quale si apprendono le regole elementari del vivere insieme. L'enorme utilizzo dei moderni oggetti di confort e comunicazione (TV, computer, cellulare, lettore DVD... tutti accesi in camera allo stesso tempo) gioca decisamente a sfavore della socializzazione giovanile. La facilità del loro uso non significa vera condivisione di ideali, ma spesso, solo di chiacchiere. Con la famiglia in crisi, molto allora ricade sulla scuola, ma anche questa non è preparata ad educare, tant'è che vive costantemente in fase di riforma. Tale scuola "in difficoltà" è lo specchio di una convivenza sociale che non funziona tanto, dal momento che la trasgressione del piccolo è accettata con il sorriso e quella del giovane — dei centri sociali e dei no-global per indicare i più radicali — si cerca semplicemente di eliminarla dal proprio vivere quotidiano. Assistiamo ad un deficit di cittadinanza pure nello spazio pubblico, per cui il cittadino non si sente più coinvolto in una responsabilità collettiva relativamente all'educazione della generazione successiva.
Il reciproco scambio delle parti in tale responsabilità educativa ha come conseguenza che molti giovani crescono secondo "una pedagogia della strada" o della discoteca, con un sempre più debole senso di socialità, carichi di conflitti irrisolti, affetti da comportamenti istintivi. Il risultato è che le tre prime idee che oggi un adolescente associa al domani sono di paura: la paura dell'inquinamento, della disoccupazione, del terrorismo. E la causa principale di tale malessere della gioventù deriva in qualche modo dallo sguardo negativo che gli adulti rivolgono al domani e che trasmettono ai giovani. Ora una società che non permette alla gioventù di formulare progetti per l'avvenire, è una società che impedisce la costruzione del senso della vita. Si impone dunque un'educazione "preventiva".
Di fronte a simili sfide don Bosco sembra disporre di una parola sempre attuale. Nell'utopia di un movimento educativo vasto come il mondo egli ha sognato la collaborazione e la complementarità di tutti i cattolici militanti e di tutti gli uomini di buona volontà interessati al futuro dell'umanità, una sorta di società educante che assumesse l'educazione come una missione.
Si tratta anzitutto di valorizzare la funzione educativa (con relativa responsabilità corale) di tutti gli adulti che, a vario titolo incidono sull'educazione dei giovani e sulla loro capacità di compiere scelte esistenziali: genitori, insegnanti, operatori sociosanitari, amministratori locali, operatori del tempo libero, volontari, professionisti, responsabili politici. Non è questione di addetti ai lavori: è dovere di tutti coloro cui sta a cuore il bene del proprio popolo, di ogni "agenzia educativa", tutti ormai convinti che nessuno spazio educativo è autosufficiente per insegnare o imparare il difficile "mestiere di uomo". Non basta che alcuni volenterosi accendano "il fiammifero dell'educazione", se altri non fanno che spegnerlo. Tutti sono invitati ad assumersi le proprie responsabilità. Ci si deve mettere in sinergia con le altre realtà che incidono sul mondo giovanile, ivi compreso lo Stato e le forze politiche, nei cui confronti non sono da escludersi, ad esempio, vere attività di lobbying e advocacy in campo, ad esempio, dei diritti dei minori, di quelli degli immigrati, di scuola ed istruzione, di lotta alla droga, allo sfruttamento minorile...
In secondo luogo si devono mettere in opera adeguati strumenti giuridici, risorse economiche, orientamenti etici, strutture capaci di coordinare tutte le forze attive disponibili e riconducibili ad una rete di opportunità tale che sia l'intera società ad investire in educazione di qualità, riportando i giovani al centro dell'attenzione sociale, politica, culturale, ecclesiale... I mezzi di comunicazione antichi e moderni sono potenti fattori di educazione e dovrebbero essere utilizzati in modo creativo, ampio ed efficace dagli educatori, onde raggiungere in poco tempo migliaia di persone e diffondere idee e programmi di valore.
Si porrà certo il grave problema economico, ma il salesiano non dovrebbe spaventarsi più di tanto nell'apprezzarne la necessità e l'utilità, se pensa al giudizio di don Bosco su di esso apparso nel "Bollettino Salesiano" de11880 (n. 2, p. 2): "Se dimandassimo quale sia la più grande potenza del mondo, forse non tutti col rispondere darebbero nel segno. Rispondiamo noi e diciamo che la più grande potenza della terra è il danaro. Testimonio ne abbiamo non solamente la quotidiana esperienza, non solamente il consenso di tutti gli uomini, ma Iddio stesso, che ha fatto scrivere: Pecuniae obediunt omnia: H. Né solo è la più grande, ma è ancora nell'umano consorzio la potenza più necessaria; così che tra gli uomini col danaro si fa tutto, senza danaro nulla si fa. Esso è necessario a coloro medesimi, che ne vivono più distaccati. Potrebbero eglino mangiare, vestire, convivere insomma senza danaro o da loro posseduto, o dai propri benefattori e patroni? E le opere umanitarie, gli ospizi, gli ospedali e via dicendo potrebbero forse sussistere senza di esso, e venire in sollievo di tante miserie, che quale funereo ammanto ricoprono la terra? — A questa necessità volle assoggettarsi lo stesso divin Salvatore [...]. È dunque evidente che la moneta è la più grande e la più necessaria potenza del mondo".
Infine occorre che tutte le forze che intendono rifarsi ad un Sistema educativo come quello di don Bosco facciano appello ad un quadro teorico di riferimento, modulato sulle nuove esigenze della storia (solidarietà, dialogo, democrazia, partecipazione, pace, libertà, globalizzazione...) e sulle recenti conquiste delle scienze umane, fermo restando che nessuna di esse ha una ricetta o formula magica. Deve potersi condividere il concetto che il futuro della persona passa proprio attraverso l'educazione ricevuta, che l'uomo è il fattore decisivo e fondamentale del faticoso e meticoloso processo che chiamiamo "educazione" e che un'educazione integrale non può che fare riferimento a ciò che è degno dell'uomo, ivi compresa la ricerca del suo destino e della sua vocazione.
A fronte dei modelli educativi presenti sul "mercato delle idee" si deve optare per uno che sia ispirato ad un umanesimo significativo, capace di dare speranza, di sfidare "il senso del non senso"; un modello che creda al primato della persona su tutto il resto (Stato, Società, economia...), che pensi che "una testa ben fatta" sia me
glio di una testa fatta in qualche modo e che l'uomo è una "persona in relazione verticale ed orizzontale", in grado di scoprire non solo le ragioni della mente, ma anche le "ragioni del cuore" (Pascal), ossia di scegliere il bene, il vero, il bello, il giusto.
Se è incontestabile nelle intenzioni operative di don Bosco il primato dello spirituale, della "salvezza religiosa" dei giovani, fu però evidente in lui anche la tensione ad offrire ai destinatari tutto ciò di cui avevano bisogno per vivere con pienezza la loro esistenza. Senza mai averlo redatto come tale — a lui interessava operare per la "civile, morale, scientifica educazione dei suoi giovani" — il suo "progetto educativo" prevedeva processi di educazione religiosa, di alfabetizzazione, di formazione al lavoro, di socializzazione primaria dei giovani.
La "salvezza integrale" dei giovani don Bosco la perseguì attraverso due forme che nel linguaggio odierno si potrebbero definire "promozione umana e promozione spirituale", o anche, teologicamente "carità temporale e carità spirituale".
Quanto alla prima, essa si rivelò indispensabile per i giovani "poveri ed abbandonati" delle classi popolari, quelle con poche possibilità di avanzamento sociale. Don Bosco provvide loro (nell'ordine) spazi ricreativi, formativi, scolastici, vitto, vestito, alloggio, mestiere e protezione, laboratori con scuola e sostegno corporativo, studio e poi ancora passatempi e impegni per il tempo libero, atmosfera di gioia, amicizia, cameratismo, protagonismo giovanile, partecipazione, attivismo, volontariato...
E noto poi il ruolo centrale attribuito nell'ambiente salesiano all'istruzione professionale di base, dai "primitivi" laboratori di don Bosco alle "scuole professionali" del tempo di don Rua gestite su basi più razionali, metodiche e scientifiche. Il soggetto primo del lavoro, ovviamente, era il ragazzo, con i suoi bisogni, le sue attese e la dignità della sua persona. Dunque, nessuna incertezza sul primato dell'uomo sul lavoro, del lavoratore sul capitale, della coscienza sulla tecnica, della solidarietà sugli interessi individualisti o corporati
vistici. Il "mestiere" non doveva essere schiavitù, ma neppure un hobby; solo preciso dovere, fonte di soddisfazione, fattore di bene materiale, morale, individuale, familiare e sociale. Analogo il discorso per le scuole umanistiche che preparavano ad un impiego superiore.
La complessità e varietà di interventi educativi (ricreativi, culturali, assistenziali sociali), tendevano a far maturare il giovane, orientandolo verso una visione ottimistica e ricca di esperienze, ispirata a sano realismo e non a frustranti utopismi: "Io non voglio che i miei figli siano enciclopedici; non voglio che i falegnami, fabbri, calzolai siano avvocati; né che i tipografi, i legatori e i librai si mettano a farla da filosofi e da teologi; tanto meno intendo che i miei professori e maestri studino De arte politica, come se avessero a diventare ministri ed ambasciatori. A me basta che ognuno sappia bene quello che lo riguarda; e quando un artigiano possiede le cognizioni utili ed opportune per ben esercitare la sua arte, quando un professore è fornito della scienza che gli appartiene per istruire adeguatamente i suoi allievi, costoro, dico, sono dotti quanto è necessario per rendersi benemeriti della società e della religione e hanno diritto quanto altri di essere rispettati".
Veniva poi per tutti i giovani — ma non solo per loro — la "carità spirituale", ossia l'impegno per la salvezza dell'anima, che, come s'è detto, occupava il primo posto. Tutto l'operato di don Bosco, in casa e fuori casa, era volto a formare a una mentalità fondamentalmente indirizzata verso principi e orientamenti evangelici. Per lui l'"alienazione" peggiore — siamo nel tempo di Marx — era quella di ordine spirituale, per cui doveva essere fatto ogni sforzo per salvare i giovani dal peccato, dall'eresia, dall'indifferenza religiosa. Logicamente per raggiungere obiettivi di tale importanza era necessario che l'educazione religiosa non si riducesse a momenti estemporanei, poco fruttuosi, in definitiva inconcludenti, ma che i ragazzi si preparassero alla vita con un percorso lento e anche faticoso di educazione e di studio; inoltre l'educatore salesiano doveva vivere una fede dinamica espressa in scelte coerenti e verificabili, consapevole che nell'ambito dell'educazione evangelizzatrice "la persona stessa è il messaggio".
Il gap fra l'accettazione teorica del cattolicesimo e la sua osservanza pratica fu da don Bosco stesso attribuito, nel 1886, alla mancanza di "educazione del cuore" (mentalità cristiana) da parte della scuola: "La causa è una sola, essa sta tutta nell'educazione pagana che si dà generalmente nelle scuole. Questa educazione, faunata tutta su classici pagani, imbevuta di massime e sentenze esclusivamente pagane, impartita con metodo pagano, non formerà mai e poi mai, ai giorni nostri segnatamente in cui la scuola è tutto, dei veri cristiani. Ho combattuto tutta la mia vita contro questa perversa educazione, che guasta la mente ed il cuore della gioventù ne' suoi più begli anni: fu sempre il mio ideale informarla su basi sinceramente cristiane".
Don Bosco lamentava di non essere stato abbastanza compreso, di non essere riuscito ad avviare quell'opera di riforma nell'educazione e nell'insegnamento, a cui aveva consacrato tutte le sue forze almeno da11847, quando aveva scritto nella prefazione alla sua prima edizione della Storia Sacra: "in ogni pagina ebbi sempre fisso quel principio: illuminare la mente per rendere buono il cuore". Oltre trent'anni dopo il "Bollettino Salesiano" criticava apertamente la formazione del tutto aconfessionale data nelle scuole dell'epoca: "quale matrigna snaturata ella divide [come la falsa madre del noto brano di Salomone] i fanciulli a mezzo, ne coltiva in parte la mente, ma ne trascura il cuore; briga per farli scienziati, ma non per farli virtuosi; li addestra a procurarsi i beni fugaci della vita presente, ma loro punto non addita i mezzi per giungere al possesso dei beni veraci della vita futura" (Boll. Sal. 1881, n. 9, p. 1). E la posizione del successore, don Michele Rua, appena morto don Bosco, era la medesima: "Ricordiamoci poi che noi mancheremmo alla parte più essenziale del nostro compito, se ci riducessimo solo ad impartire l'istruzione letteraria, senza unirvi l'educazione del cuore. A questo soprattutto dobbiamo mirare, a formare dei nostri allievi, dei buoni cristiani, degli onesti cittadini, coltivando pure le vocazioni che fra loro s'incontrano".
Nell'azione educativa di don Bosco, si sa, le due finalità, umane e spirituali, vissero concretamente e simultaneamente, in quanto per lui non vi era dubbio alcuno che la vita terrena fosse connessa con la vocazione celeste. Vi risparmio le citazioni. Lo ribadiranno 100 an
ni dopo sia il Concilio Vaticano II (GS Proemio) che i Salesiani allorché affermeranno che non è possibile educare senza evangelizzare e che non si dà vera educazione senza catechesi: "Educhiamo evangelizzando ed evangelizziamo educando".
Il sistema educativo di don Bosco — che mira a formare, come è noto l'onesto cittadino e il buon cristiano" — si fonda su una visione del cittadino e del cristiano propria del suo tempo, e non poteva non esserlo.
Solo che il suo tempo non è più il nostro e così l'onesto cittadino del terzo millennio non è più quello dell'ottocento piemontese-italiano, allorché non si concepiva una "politica attiva" se non solo ad opera di una minoranza ricca e privilegiata, di cui difficilmente avrebbero fatto parte i preadolescenti o gli adolescenti poveri o del ceto medio raccolti da don Bosco nelle sue case. L'onesto cittadino" attuale neppure è quello che, nell'analisi del disagio sociale dei giovani, tende, come don Bosco, a ricercarne le cause unicamente nelle responsabilità morali e religiose dei singoli e non nei condizionamenti e determinismi di indole economica, politica, sociale, giuridica, ecc. E neanche è solo quello che semplicemente obbedisce alle leggi, non dà problemi alla giustizia, pensa unicamente ai "fatti suoi". Il passaggio dall'assolutismo monarchico al parlamentarismo liberale prima e alla democrazia poi, il sorgere della "questione sociale", del socialismo, del marxismo, del sindacalismo, il sessantotto, la dottrina sociale della Chiesa, la richiesta universale di cittadinanza attiva e democratica, la crisi delle evidenze etiche ecc. hanno lasciato pesantemente il segno.
Nella stessa prospettiva è evidente anche che il "buon cristiano" di oggi non è più quello che concepivano don Bosco e gli ambienti a lui vicini: un minimo di formazione religiosa, recezione consuetudinaria dei sacramenti, devozioni ai santi quali modelli e ideali di vita cristiana, lettura esclusiva di "buoni" libri, obbedienza assoluta alle legittime autorità ecclesiastiche dentro l'unica arca di salvezza (la Chiesa cattolica), una vita di progresso nelle virtù che poi si sa
rebbe felicemente conclusa con una morte virtuosa. Un secolo di riflessione teologica e un Concilio Vaticano II sarebbero passati invano e la multireligiosità e multiconfessionalità del mondo di oggi non indicherebbero nulla. L'acquisizione dottrinale recente della rivalutazione della vocazione e della missione dei laici nella Chiesa e nel mondo, ricevuta per mandato direttamente da Cristo nel battesimo e nella confermazione, e non per mandato del parroco e del vescovo, ha conseguenze quanto mai ampie sia nell'ambito ecclesiale che in quello dell'impegno temporale.
Bisogna dunque prendere atto che la ben nota formula di "onesti cittadini e buoni cristiani" è oggi da rifondare sul piano antropologico e su quello teologico, è da reinterpretare storicamente e politicamente. Una rinnovata antropologia dovrebbe individuare, tra i valori della tradizione, quali siano da mantenere nella società postmoderna e quelli invece nuovi da proporre; una rinnovata riflessione teologica dovrebbe precisare i rapporti fra fede e politica e fra diverse fedi; una rinnovata analisi storico-politica dovrebbe comporre educazione e politica, educazione e impegno sociale, politica e società civile (ne parleremo); un rinnovato Sistema preventivo dovrebbe indicare i tratti dell'"onesto cittadino" di oggi, i tratti del "buon cristiano" di un'epoca, come la nostra, del difficile rapporto fede-ragione, del venir meno della coscienza morale come qualche cosa di valido oggettivamente, della diffusione di una cultura che taglia deliberatamente le proprie radici storiche e costituisce la contraddizione più radicale non solo del cristianesimo, ma delle tradizioni religiose e morali di buona parte dell'umanità.
Inoltre si dovrebbe ben valutare se sono ancora accettabili, in un contesto secolarizzato, pluralistico, plurietnico e plurireligioso, la subordinazione, come era nella mens di don Bosco, del fine temporale a quello trascendente, la preminenza dei valori individuali rispetto a quelli sociali, dei fattori religiosi rispetto a quelli terreni, degli elementi cattolici rispetto a quelli semplicemente cristiani o neppure cristiani, dei "valori" europei rispetto a quelli propri di altre aree geografiche.
Educazione, prevenzione, evangelizzazione, inserimento nella società: ecco le idee generatrici dell'impegno salesiano dell'inizio del terzo millennio. Non si tratta di idee peregrine, se consideriamo che è da oltre trent'anni che le Costituzioni salesiane (art. 40) definiscono un'Opera salesiana, sul modello del primo Oratorio di don Bosco, come "casa che accoglie, parrocchia che evangelizza, scuola che avvia alla vita, cortile per incontrarsi da amici e vivere in allegria".
Nessuno può pensare che possa esistere un rinnovamento, soprattutto se profondo, senza spese e senza coraggio. Saremmo illusi se pensassimo ad un cambiamento indolore. Educare è urgente, è la grande sfida del tempo presente. Sarà comunque sempre un rischio, una scommessa, una "missione" esigente, impegnativa, una di quelle meno burocratizzabili che si possono pensare. Educatori non si nasce, si diventa per vocazione o per libera scelta "della ragione e del cuore", per amore.
"Volete fare una cosa buona? Educate la gioventù. Volete fare una cosa santa? Educate la gioventù. Volete fare una cosa santissima? Educate la gioventù. Volete fare una cosa divina? Educate la gioventù. Anzi questa, tra le cose divine, è divinissima"(Don Bosco ai Cooperatori)
"L'educazione è cosa di cuore", si è detto dai Salesiani e da altri commentatori del "Sistema Preventivo" di don Bosco dal 1935, allorché venne pubblicata la "circolare sui castighi", e lo si continua a ripetere, sempre attribuendo l'espressione a don Bosco, che invece non sembra l'abbia mai scritta, stando almeno al curatore dell'edizione critica della circolare suddetta, José Manuel Prellezo.
Ciò non significa che essa non sia vera. Don Bosco infatti, in un mondo tradizionalmente segnato dalle difficoltà di stabilire un adeguato rapporto intergenerazionale, rilanciò una "pedagogia dell'amore" intesa a stabilire con i giovani un rapporto basato sul credere in loro nonostante i loro sviamenti, sullo sperare con loro anche nelle situazioni più disperate, e sull'amarli ed sull'accettarli così come sono. Studiandolo nella sua realtà vissuta si scopre in don Bosco un istintivo e geniale superamento del paternalismo educativo inculcato da molta pedagogia dei secoli antecedenti ('500-'700), quando il discorso pedagogico rifletteva la società europea strutturata paternalisticamente (fedecommessi nobiliari, capi d'arte, capi fami
i Riprendo qui in buona parte la conferenza tenuta a Roma nel gennaio 2004 nel corso delle giornate di spiritualità di Roma. Una presentazione più ampia degli stessi contenuti l'ho invece offerta nel saggio Un sistema educativo sempre attuale (Torino, Elledici 2000).
glia, ecc.). In lui invece vi si trova una traduzione originale del comandamento evangelico dell'amore. Episodi ricorrenti ed espressioni ben note ai lettori di quell'album di famiglia che sono le "Memorie Biografiche" indicano la modernità del metodo, al di là delle etichette. Una citazione di una lettera ai giovani di Lanzo: "lasciate che ve lo dica, e niuno si offenda, voi siete ladri, io dico e lo ripeto, voi mi avete preso tutto [...] mi avete incantato colla vostra benevolenza ed amorevolezza, mi avete legato le facoltà della mente colla vostra pietà, mi rimaneva ancora questo povero cuore, di cui mi avevate rubato gli affetti per intiero gli affetti. Ora la vostra lettera [...] hanno preso possesso di tutto questo cuore, cui nulla più è rimasto, se non un vivo desiderio di amarvi nel Signore, di farvi del bene, di salvare l'anima di tutti".
Si capisce allora come di fronte ad un rapporto fra don Bosco ed i ragazzi del medesimo tipo di quello intessuto con Cristo, qualcuno (Xavier Thévenot) abbia parlato di dimensione sacramentale del rapporto educativo. Per il salesiano l'azione educativa verso i giovani è il luogo stesso del suo incontro con Cristo: "ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me" (Mt 25,40).
L'amore che sorregge tutto l'impianto educativo non deve soltanto essere vissuto e magari dichiarato, ma percepito. È il grande messaggio, redatto da don Lemoyne, a nome di don Bosco, nella famosa lettera da Roma del 1884 indirizzata ai Salesiani di Valdocco: "Che i giovani non solo siano amati, ma che essi stessi conoscano di essere amati". L'essenziale risiede sempre nell'amore dell'educatore percepito dal giovane, ma tale conclusione non è tanto un fatto di "sentimento" quanto nella libera "condivisione" degli itinerari pedagogici propostigli dall'educatore, con grande intelligenza e lungimiranza. Ecco perché i diffusi slogan "non basta amare...", "studia di farti amare...", "l'educazione è cosa di cuore" possono essere riduttivi, non risolutivi, addirittura fuorvianti se intesi come cifra unica o sintesi definitiva del sistema educativo di don Bosco. Accanto all'amore, che non può non esserci, si devono porre tante altre condizioni per un'educazione dei giovani, come per altro si è fatto più di un cenno nelle conferenze precedenti.
Si può poi legittimamente essere scettici di fronte all'idea che un
prete educatore del secolo XIX sia in grado di offrire una risposta pertinente ai ragazzi di oggi che vivono in situazioni sociali, economiche e culturali così differenti da quelle della Torino ottocentesca. Tanti, come noi del resto, sono convinti che il "Sistema Preventivo di don Bosco" sia consono ad un mondo che non esiste più; tuttavia sono altrettanto convinti che alcune sue convinzioni circa i giovani siano valide ancora oggi per le famiglie, per la scuola, per gli istituti educativi, per le comunità di accoglienza per i giovani in difficoltà, nella prevenzione contro la tossicodipendenza, per i consultori, per le associazioni umanitarie, per le parrocchie multiculturali e multietniche di oggi. Una "Prevenzione", intesa come intervento precoce e diffuso, ma non tanto in chiave negativa come contenimento dei disvalori, ma in chiave positiva, vale a dire promozione di iniziative atte a orientare le risorse sane delle singole fasce giovanili verso progetti allettanti e a predisporre loro valide opportunità di crescita, sembra sempre attuale.
Si tratterà ovviamente di svolgere le grandi virtualità del sistema preventivo per giovani "nuovi" del sec. )0(1 chiamati a vivere in una vastissima ed inedita gamma di situazioni e problemi, in tempi decisamente mutati, nei quali le stesse scienze umane sono in fase di riflessione critica.
"Generazioni senza padri e maestri" è una definizione dei giovani che ci sentiamo ripetere dai sociologi da almeno 30 anni. Che significa? Due cose. Anzitutto che i giovani rifiutano i genitori, gli adulti, e vogliono appena possibile il totale affrancamento dall'autorità paterna (e poi paradossalmente rimangono in famiglia fino ad oltre 30 anni). In secondo luogo che sono privi sia di riferimenti che possano aiutarli a individuare i fondamenti della loro esistenza, sia degli strumenti per poter dare un'adeguata risposta ai bisogni postmaterialistici. Le indagini sociologiche danno, come s'è già visto, uno scenario preoccupante della gioventù odierna, sfiduciata e senza progetto di vita, disponibili ad una socialità ristretta, senza la forza di assumere impegni collettivi e di fare scelte vincolanti per il futuro. In declino costante è la loro fiducia nelle istituzioni, per cui,
disillusi dagli adulti, anziché protestare, come qualche decennio fa, si ritirano nel mondo sicuro degli affetti, della famiglia e dei pochi amici. Vedono la società come pericolosa, la scuola come estranea, la politica come una cosa sporca, la solidarietà come un hobby per alcuni e così si predispongono a ripiegarsi facilmente sulle proprie sensazioni e sull'individualismo, mettendo tutto e tutti ad esclusivo proprio servizio.
Forse troppi educatori accettano passivamente questo fatto e si ritirano in disparte. Ebbene, don Bosco non sarebbe d'accordo. Ha scritto infatti: "i giovani hanno veramente bisogno di una mano benefica che si prenda cura di loro, li coltivi quindi nella virtù e li allontani dal vizio"; "In ogni giovane, anche il più disgraziato, vi è un punto accessibile al bene: dovere primo dell'educatore è cercare questo punto, questa corda sensibile e trarne profitto"; "I giovani (salve rare eccezioni) hanno sotto la scorza e scorie dell'ineducazione e della dissipazione, il cuore buono e l'animo riducibile se presi dal verso loro e guidati dal sistema cristiano della bontà".
Per don Bosco anche i giovani di oggi hanno bisogno di avere accanto un educatore, che lui voleva "padre, fratello e amico", aiuto e sostegno.
Anzitutto l'educatore deve esserci. Il giovane non può crescere da solo, in completa e totale autoeducazione; non è autosufficiente, neppure se cresce in un gruppo di coetanei. L'educatore però deve essere "accanto" al giovane, deve stare dentro il campo dove si gioca la difficile partita educativa; deve stare nella stessa barca del giovane: o si salvano o annegano assieme. E deve esserci con tutto se stesso, ossia con tutta la sua personalità, il suo passato, le sue paure, le sue ansie, le sue convinzioni, comprese quelle della coerenza fra modello comunicato e modello vissuto. Tutto ciò incide sulla formazione dell'educando. È la persona dell'educatore che educa.
In secondo luogo l'educatore deve coprire più ruoli, anche contemporaneamente, a seconda del bisogno del ragazzo (età, maturità, sesso, condizione psicologica, situazioni, esperienza, ecc.).
Il primo da assumere è il ruolo di padre, ossia del portatore di autorità ed autorevole perché credibile; polo di attrazione per il fanciullo in crescita e polo dialettico per il giovane alla ricerca della ridefinizione della propria identità. Un padre che però non deve sem
pre e comunque pensare a tutto al posto del minore, magari distribuire ordini e minacciare castighi quasi fosse giudice severo e inflessibile. Un padre che rimane sempre tale, ossia che non abdica mai alle proprie responsabilità, non delega i propri doveri, non cerca facili simpatie, evitando di dire verità scomode, chiudendo gli occhi su tutto, cedendo all'alibi del spontaneismo e al permissivismo (ma neppure ovviamente al pernicioso autoritarismo). È sempre forte la tentazione di mettersi alla pari dei ragazzi, col presunto obiettivo di responsabilizzarli. Si tratta non tanto di fare "per", il giovane, come fosse un semplice destinatario, ma "con" il giovane, considerato coprotagonista dell'azione educativa. Lo stabilirsi di questo rapporto d'alleanza con il giovane ha bisogno di un buon posizionamento da parte dell'educatore, che deve essere sufficientemente vicino da non essere indifferente, e sufficientemente distante da non risultare indifferenziato. L'arte educativa" consiste essenzialmente nel trovare questo punto di buona distanza e di buona prossimità, da stabilirsi però "con" il giovane.
Nello stesso tempo occorre che l'educatore-padre sia anche fratello ed amico, dalla forte dominante empatica, che parla la stessa lingua, che non giudica, che sperimenta le stesse difficoltà nella scoperta del proprio ruolo. Fratello-amico con cui si confrontano le proprie idee ed ideali, che non è solo una persona con cui si condivide e si organizza il tempo libero, ma costituisce occasione, motivo e strumento di confronto. Allora questo padre/fratello/amico aiuta nell'interpretare e far emergere quei bisogni dei giovani difficilmente esprimibili da loro stessi, quelli che essi sentono sulla loro pelle senza riuscire a identificarli: il gusto del bene, della giustizia, della bellezza, della solidarietà, della pace. Li sostiene nella non facile ricerca delle risposte alle domande fondamentali della vita. Offre loro un decisivo contributo allo sviluppo delle loro potenzialità inespresse, in quanto in loro ci sono tutte le disposizioni per realizzare la vita piena, ma lasciati a loro stessi potrebbero correre il rischio di non attuare tutte o completamente le loro possibilità di crescita.
I giovani hanno bisogno di essere rassicurati circa il carattere incondizionato dell'amore dell'educatore, che si rende garante d'un insieme di regole che tengono, nonostante i tentativi di trasgressione adolescenziale. In tal modo si genera fiducia, si genera autostima
e su questa spirale positiva nasce la responsabilità, su cui si costruisce il successo e la speranza del domani. I giovani hanno bisogno di essere responsabilizzati, perché è solo esercitando delle responsabilità che s'impara a divenire responsabili. Molti di loro soffrono oggi di non poter esercitare alcuna reale responsabilità. Si devono far loro interiorizzare certi valori ed esperienze, ossia farli arrivare là dove nascono e si radicano i comportamenti per sviluppare una personalità capace di decisioni proprie ispirate al bene. Non conta fare esperienze, se non si interiorizzano, se non si sedimentano per essere rielaborate interiormente, dando loro un significato.
I giovani vanno abilitati alla concretezza della vita sociale e religiosa; la teoria non basta se manca un addestramento al realismo dell'esistenza con crescente senso di serietà e di collaborazione. Le scuole, gli oratori non sono soltanto luoghi consolatori dove ci si trova bene, si trovano degli amici e delle attività piacevoli; essi devono anche rievocare la drammaticità della vita e delle scelte, devono aiutare i giovani ad evitare comportamenti sbagliati, a darsi delle regole di vita, a prendersi delle responsabilità, ad entrare in forme di vita diverse. Occorre accoppiare alla formazione della mente e del cuore l'acquisizione di abilità operative e relazionali. Essenziale è poi la motivazione per chi fosse privo della spinta all'interno a fare cose importanti e preziose, non dimenticando che l'essenziale risiede sempre nella percezione che ha il giovane, non nell'intenzione dell'educatore.
Il Gap generazionale è un dato acquisito, che abbiamo sperimentato da ragazzi con i nostri genitori, con i nostri educatori e che sperimentiamo noi adulti con le nuove generazioni. La conquista della propria autonomia è necessariamente emancipazione da qualsiasi autorità, iniziando dal primo no infantile. Ma il processo di crescita verso l'età adulta non è mai lineare, comporta sempre discontinuità, ambiguità, diffidenze, incoerenze, magari vere e proprie provocazioni. Ebbene don Bosco al riguardo ci insegna che sono due i segreti per riallacciare le due parti, per lanciare fra loro un ponte: la comunicazione e l'accettazione reciproca.
Anzitutto ci dice che quelle che potremmo chiamare "bizzarrie" rientrano nella normalità, e l'educatore non si turba più di tanto. Cercherà di ricucire l'eventuale "strappo", di riaprire il canale, interrotto ma indispensabile, della comunicazione. Una comunicazione che può avvenire attraverso un rapporto interpersonale ravvicinato, fatto di un autentico dialogo costruttivo guardandosi negli occhi mentre ci si parla; ovvero attraverso l'accettazione di un confronto dialettico con loro, anche dello scontro, inevitabile, difficile ma anche utile; non colpevolizzando in caso di opinioni diverse, educandosi mentre si educa, non indicando in modo unilaterale e irragionevole ciò che è bene ritenendosi così possessori e interpreti unici della verità. Inoltre si tratta di non fissare in modo del tutto autonomo i tempi e modi di collaborazione, i bisogni e gli interessi dei giovani, i comportamenti, gli atteggiamenti, i gesti, le decisioni che devono assumere. Va assolutamente evitato di concedere la fiducia a parole, ma poi di ritirarla in pratica, di trasformare momenti difficili in stati di permanente scoraggiamento, nei quali il filtro interpretativo della realtà è scuro e non lascia passare luce e colore della vita. L'educatore-comunicatore accetta la fatica del proprio ruolo, ben sapendo che esso non va esente da frustrazioni e da conflitti, da momenti di fallimento e di impotenza.
Una vera comunicazione esige necessariamente la reciproca accettazione. I giovani giustamente vogliono prendere in mano la loro vita, vogliono giustamente essere rispettati nel loro diritto di essere e sentirsi protagonisti. D'altro canto gli educatori che hanno il dovere di educare e far crescere i giovani, hanno altrettanto diritto di essere rispettati ed accettati. Dunque si richiede una reciproca accettazione, un'accettazione bipolare.
Don Bosco ci dice che l'educatore deve accettare i giovani così come sono e non come vorrebbe che fossero. Scriveva in un suo libro di preghiere per i giovani: "Basta che siate giovani, perché io vi ami assai". Accettare significa essere disposti a "capire" un comportamento particolare del giovane, vale a dire essere disposti a concedergli delle attenuanti, a riconoscere gli influssi del temperamento, dell'ambiente di vita, del gruppo di riferimento. Come adulto, l'educatore sa tollerare la sfiducia giovanile nei confronti dell'adulto stesso, sopporta tensioni e contraddizioni, fa attenzione intelligente e
amorosa alle aspirazioni, ai condizionamenti, alle situazioni di vita, ai modelli ambientali, alle tensioni, rivendicazioni, proposte collettive. Che il giovane non debba sempre aver ragione, è evidente; ma certamente ha delle ragioni che l'adulto deve considerare.
Don Bosco però ci dice che anche il giovane deve accettare l'educatore e il suo intervento in forza di una serie di motivi: razionalità e ragionevolezza, autorità e timore, ascendente personale e suggestione, altri dinamismi emotivi, forse anche calcolo utilitario. Per far questo il giovane deve superare eventuali ostacoli: lo stato d'urto con l'ambiente e con gli educatori oppure quello di delusione, di frustrazione, di disistima personale dell'educatore; l'istintiva resistenza all'intrusione di estranei nella propria vita; l'indisponibilità dovuta a pigrizia e orgoglio: insomma un insieme di meccanismi psicologici di difesa, perché il bene futuro costa la rinuncia a cose immediatamente piacevoli.
L'appello che lancia don Bosco a noi educatori di oggi, oltre a "stare con i giovani" ed a non aver paura di loro, è quello di andar loro incontro con un cuore che si lascia commuovere, con orecchie che ascoltano e sanno capire, con mani che afferrano e sostengono, con piedi che si adattano al loro passo sulle strade polverose della vita. Solo così si può essere accettati dai giovani. Ed ecco allora don Bosco declinare tale efficace approccio ai giovani con le famose tre parole: Ragione, Religione, Amorevolezza. Nessuna delle tre è sufficiente da sola, neppure l'ultima, se non è accompagnata dalle altre.
La ragione è il primo elemento dell'importante trinomio, e direi che esso è di incommensurabile attualità, alla luce dei primi atti del magistero del papa Benedetto XVI, improntato a rendere convincente la tradizionale sintesi cristiana di "religione, fede e vita", messa oggi in crisi dalla pretesa contradditorietà — se non addirittura reciproca esclusione — tra ragione e fede.
L'educatore in sintonia con don Bosco crede che la ragione è dono di Dio, ed è grazie ad essa che si possono scoprire i valori del bene, fissare gli obiettivi da perseguire e trovare mezzi e modi per rag
giungerli; e con ciò esclude automaticamente il ricorso all'imposizione violenta e all'accettazione indiscussa del comando.
Alla ragione e alla ragionevolezza (che diventa facilmente buon senso, sano realismo, autentico rispetto delle persone) si collega la
capacità dell'educatore di adattarsi ai vari ambienti e situazioni in cui si trova ad operare, di prestare una diversa attenzione ai singoli giovani, di convivere con i loro problemi, di accettare attese, anche lunghe, di superamenti di malintesi, prevenzioni, diffidenze e timori.
La ragione educativa tiene conto che i giovani amano il tempo libero, il gioco, la musica, il teatro, le passeggiate, il gruppo di amici, la playstation, il cellulare... Don Bosco affermava che occorreva che
gli educatori amassero quello che amavano i giovani, perché i gio
vani ricambiassero amando quello che amavano gli educatori. E allora come non ricordare l'ampio spazio e la dignità dati da don Bo
sco al momento ricreativo, allo sport, alla musica, al teatro e al cortile, all'esperienza di gruppo (che può essere il migliore o il peggior educatore)?
La ragione tiene conto che il lavoro educativo esige libertà e che senza di essa non c'è educazione. Don Bosco aveva un concetto pra
tico e realistico di libertà. Libertà non è capriccio, fare quello che si
vuole in balia del proprio sentire, non è emotività, gusto, umore del momento ma possibilità e dovere: possibilità come radice della li
bertà e dovere come attuazione di essa. Il giovane è libero quando è
capace di compiere il proprio dovere nella normalità, quando è coraggioso, quando sa proibirsi ciò che è male, ossia quando è capace
di pensare con la propria testa e di agire con responsabilità. Si tratta dunque di far crescere i giovani dall'interno, facendo leva sulla libertà interiore, contrastando i condizionamenti ambientali, le inclinazioni delle passioni, i formalismi esteriori, preparandoli al domani attraverso una solida formazione del carattere.
La ragione e la libertà, vanno educate attraverso lo studio, la scuola, l'istruzione rispettosa dei valori umani e cristiani. Oggi poi a
fronte della razionalità tecnologica, dell'evasione nell'emozionale immediato, del "pensiero debole" e insieme della domanda di "pensiero critico" all'interno di una "società liquida", la ragione è invitata a recuperare la pienezza del suo significato e delle sue funzioni:
osservare, riflettere, capire, provare, verificare, cambiare, adattarsi, decidere, sviluppare, valutare... In questo senso all'epoca di don Bosco e per buona parte del secolo successivo la "cultura" salesiana si è rivelata molto tradizionale, conservatrice, e per lo più unicamente funzionale ad una professione o studentesca o artigiana; anche la modalità di trasmissione di tale "cultura" è stata prevalentemente autoritaria, chiusa a libere letture, alla ricerca personale, al confronto e al dibattito.
Ed è invece con la "ragione" che si costruisce quell'antropologia aggiornata ed integrale di cui si parlava precedentemente. E con la ragione che l'educatore si rende conto che sbaglia quella società che abitua i giovani a vivere costantemente a livello affettivo e sensoriale, a detrimento della "ragione" intesa come conoscenza, memoria, riflessione, che fa di tutto perché i giovani non manchino di nulla, e in tal modo li induce a credere di dover soddisfare tutti i propri desideri, confondendoli con i bisogni. I giovani hanno bisogno di punti di riferimento, non di essere semplici ed infantili icone della società. Devono crescere fuori dell'alienazione consumistica, dell'idolatria del benessere che li sfibra e li svigorisce, che li rende costituzionalmente pigri.
Il secondo elemento è la religione. Per don Bosco la forma più alta della ragione umana è l'accettazione del mistero di Dio — il Dio della metafisica, o l'"Essere assoluto" identico al Dio della storia, il Dio-con noi — come afferma papa Benedetto XVI, che denuncia una ragione che respinge la religione nell'ambito delle sottoculture.
Don Bosco non "ragionava" certo con le categorie teologico-filosofiche di papa Benedetto. Lasciava ad altri la "religione speculativa" ed astratta, e preferiva quella "positiva", ossia la fede viva, radicata nella realtà, fatta di presenza e di comunione, di ascolto e di docilità alla grazia. Una religione cui i giovani sono introdotti gradualmente, che dialoga con la ragione e l'amorevolezza. Non per nulla "le colonne" dell'edificio educativo salesiano sono l'Eucaristia, la Penitenza, la devozione alla Madonna, l'amore alla Chiesa e ai suoi pastori. L'educazione si trasforma allora in una sorta di "itinerario" di preghiera, di liturgia, di vita sacramentale, di direzione spirituale e la religione-relígiosità si pone al culmine del processo educativo.
Don Bosco è convinto che non sia possibile una vera educazione senza un'apertura al trascendente, e conoscendo a fondo la debolezza e l'incostanza dei giovani offre loro come rimedio la religione che addita la santità come fine della vita. Santità che è semplicemente fare ogni giorno il proprio dovere, anche se "duro": santità "feriale", santità per tutti, santità del ragazzo che vive in stato di grazia abituale perché riesce, con lo sforzo personale e con l'aiuto dello Spirito, ad evitare il peccato nelle forme più comuni: cattivi compagni, discorsi cattivi, impurità, scandalo, furto, intemperanza, superbia, rispetto umano, mancanza ai doveri religiosi...
Quella che fu la preoccupazione di don Bosco di fronte ai fenomeni dell'indifferentismo, dell'anticlericalismo, della irreligiosità, del proselitismo protestante, del paganesimo non dovrebbe essere molto diversa da quella degli educatori del 2000, ai quali però si chiede un ben più sodo e approfondito confronto cultura-fede, non fosse altro per il fatto che fra loro e don Bosco si colloca il secolo che ha visto il modernismo, il movimento liturgico, la fondazione e il rinvigorimento della morale e della spiritualità, il reditus ad fontes del messaggio cristiano annunciato nella Scrittura, il Concilio Vaticano II, l'ecumenismo, la riscoperta del ruolo dei laici nella Chiesa... e anche, contemporaneamente, guerre e rivoluzioni politiche e sociali di dimensioni planetarie, ricorrenti fondamentalismi e cortocircuiti tra religione, stato, politica...
E siamo così al terzo principio cardine del metodo, all'amorevolezza, termine onnipresente nella letteratura salesiana, anche se inteso in modalità diverse.
Amorevolezza è amore dimostrato, è capacità di entrare in rapporto profondo con il giovane, di starci bene insieme, di saper "leggere" la vita (propria ed altrui) anche in termini di sofferenza, di tentativi magari andati a vuoto.
L'amorevolezza si traduce nell'impegno dell'educatore di essere, come s'è detto sopra: una persona totalmente dedita al bene degli educandi, presente in mezzo a loro, pronta ad affrontare sacrifici e fatiche nell'adempiere la sua missione, con disponibilità, simpatia, bontà, capacità di dialogo, cordialità, comprensione, senza quell'oppressione di presenza che avvicina eccessivamente il sistema
preventivo al sistema repressivo. È il rischio che lungo la storia ha corso la mitica "assistenza" salesiana, sovente unicamente intesa come assillante e onnipresenza fisica in grado di difendere un minore e proteggere un debole sprovveduto, senza porre sufficiente attenzione al rischio di bloccarne il naturale e legittimo processo di autonomia maturante.
Amorevolezza che diventa pure familiarità con la quale si definisce il rapporto corretto tra educatori e giovani. Le finalità da raggiungere e gli orientamenti metodologici da seguire acquistano concretezza ed efficacia se improntati a schietto "spirito di famiglia", cioè vissuti in ambienti sereni, gioiosi, stimolanti. E nella spontaneità ed allegria dei rapporti che l'educatore sagace coglie modi di intervento, tanto lievi nelle espressioni, quanto efficaci nei risultati per la continuità e per il clima di amicizia in cui si realizzano. Per non parlare dell'esperienza di gruppo, elemento fondamentale della tradizione educativa salesiana. Troppo spesso non si riflette sull'alleanza di gruppo. Don Bosco, con i suoi innegabili talenti di "commediante" e di "comunicatore" sapeva fare del gruppo un vero alleato.
L'amorevolezza tradizionale va ripensata tanto nei fondamenti, quanto nei contenuti e nelle sue manifestazioni, tenendo presente come oggi sia forte l'autocoscienza dei giovani, sempre più attenti a lasciarsi "catturare" affettivamente e pericolosamente dagli adulti, e come sempre oggi sia critica la situazione di molte famiglie, funestate dalla mancanza di relazioni fraterne (figli unici), dalla costante assenza della madre (inserita nel mercato del lavoro) e dai rapporti spezzati fra genitori (divorzi, separazioni).
Si rende così quanto mai necessario inventare una concreta e articolata "pedagogia preventiva familiare", che torni ad applicare, in situazioni mutate, i concetti chiave del "sistema", in particolare la problematica "amorevolezza", oscillante tra creatività affettiva, senso rassicurante di appartenenza, possessività ansiosa, rischiando fino la violenza. Lo stesso "spirito di famiglia" rivissuto e attualizzato, dovrebbe superare quelle forme di paternalismo e di familismo proprie del nostro passato per giungere ad attuare relazioni "libere" e liberanti, autenticamente personalizzanti.
Il sistema educativo di don Bosco ha anche bisogno oggi di rispondere alle legittime, esplicite e sempre più frequenti richieste di
forme di attivismo, di autogoverno, di autogestione, valutandole con attenzione e soddisfacendole nelle forme idonee. Si richiede oggi una maggiore personalizzazione in rapporto alla "libertà" effettiva dell'educando, alle sue richieste di autonomia nello scegliere obiettivi e mezzi per raggiungerle, alle "energie" di cui è portatore (vitalità, idealità, desideri, e anche irrequietezze, contraddizioni, ragioni, passioni) che vanno rispettate e aiutate a svilupparsi con risorse e modalità differenziate nelle diverse stagioni della vita. Ne conseguirà altresì una maggiore attenzione al pluralismo educativo in cui i giovani crescono.
E così pure si dovrebbero modernamente riempire le vistose lacune del Sistema Preventivo di don Bosco in fatto di educazione giovanile all'affettività, alla sessualità, all'amore umano, dal momento che esso, attuato per altro in un ambiente non misto secondo l'uso dei tempi, è sempre stato al riguardo reticente, unicamente teso al semplice controllo e al "silenzio", benché facesse dell'"amorevolezza" uno dei suoi capisaldi. E la responsabilità è grande, dal momento che siamo oggi di fronte ad una netta separazione tra la ragione e l'affettività: conoscere razionalmente il mondo è ridotto a misurare quelle che c'è secondo i nostri schemi o meccanismi mentali e la sfera affettiva è ridotta a un soggettivismo di tipo emotivo, appunto senza ragioni oggettive.
* * *
Educare in inediti scenari proponendo esperienze valide e coinvolgenti, far crescere i giovani dall'interno puntando sulla libertà interiore e contrastando i condizionamenti esteriori, "conquistare il cuore" dei giovani per invogliarli serenamente ai valori, correggendo le deviazioni e contenendone le passioni, prepararli al futuro accoppiando alla formazione della mente l'acquisizione di abilità operative, abilitarli alla concretezza della vita sociale ed ecclesiale: ecco il difficile compito dell'educatore che intende ispirarsi al sistema educativo di don Bosco, ecco perché "l'educazione non è solo cosa di cuore".
"Se il vangelo non diventa politica, cessa di essere vangelo"
(teol. M. D. Chenu)
Cerchiamo in questa ultima conferenza di approfondire un aspetto della nostra missione: l'educazione come opzione socio-politica. Non spaventiamoci di fronte a questa parola: don Bosco fu anche operatore sociale e politico, e lo fu essenzialmente attraverso l'educazione, attraverso la formazione culturale, professionale, morale e religiosa della gioventù. Ci faremo guidare, ancora una volta, dalla sua parola.
Don Bosco, "bruciato" dallo zelo per le anime, sentì la tragedia di un popolo che si allontanava dalla fede; senti come dramma l'indifferenza della gente verso la gioventù, cui invece si erano rivolte le sollecitudini del Signore Gesù. Ha reagito energicamente, ha denunciato l'ambiguità e la pericolosità della situazione, ha contestato — a suo modo si intende — i poteri forti del suo tempo, ma soprattutto ha trovato forme nuove di opporsi al male, resistendo alle forze negative della società. Con le scarse risorse di cui disponeva, ha saputo cogliere le poche possibilità offertegli dal momento storico per svilupparle e potenziarle.
Ebbe per sé e per i Salesiani la libertà e la fierezza dell'autonomia. Non volle legare la sorte della sua opera all'imprevedibile variare dei regimi politici. In proposito, fin dai primi anni 60, don Bosco intro
duceva nel testo delle Costituzioni un preciso articolo: "È principio adottato e che sarà inalterabilmente praticato che tutti i membri di questa società si terranno rigorosamente estranei ad ogni cosa che riguardi la politica, onde né colla voce, né cogli scritti, o con libri, o colla stampa non prenderanno mai parte a questioni che anche solo indirettamente possano comprometterli in fatto di politica". Egli era convinto con ciò di realizzare al meglio il progetto di religiosi educatori estranei a contrapposizioni partitiche, totalmente "incarnati" nella vita dei giovani, da preparare alla realtà concreta nella quale questi avrebbero dovuto misurare la validità della formazione umana, morale, professionale ricevuta e assimilata. Fra l'altro se le costituzioni del 1864 escludevano per i Salesiani la politica, per i cattolici italiani fedeli al papa da11861 vigeva il principio del "né eletti né elettori".
L'articolo succitato veniva cassato dall'autorità ecclesiastica romana, ma ne rimaneva lo spirito con i relativi comportamenti. Don Bosco intendeva salvaguardare, per sé e per i suoi, la possibilità di inserirsi pienamente nelle situazioni e condizioni sociali e politiche esistenti e, insieme, di operare in esse con la massima scioltezza senza doversi schierare per questo o quel "partito". Con le autorità, etiam discolis, si doveva comunque cooperare, soprattutto se ciò comportava ampie opportunità di lavoro "per la maggior gloria di Dio e la salute delle anime".
È preziosa in proposito la testimonianza di don Giuseppe Vespignani, relativa al suo primo impatto con don Bosco a Torino. "Da buon romagnolo tentai d'insinuare a don Bosco la necessità di una fondazione a Bologna, nostra metropoli, mostrandogliene l'opportunità col dire che vi era sorta allora la «Gioventù Cattolica», formata di elementi pronti a lottare per le istituzioni cattoliche e in difesa dei sacerdoti. Don Bosco mi lasciò dire, e poi con tutta calma rispose: — Noi non abbiamo questo spirito di ardore e di combattimento; noi non ci occupiamo di politica; solo cerchiamo di lavorare in mezzo alla gioventù e preghiamo che ci lascino tranquilli in questa nostra occupazione. Finché c'invitano o ci chiamano per altre cose, che non siano la nostra missione tra i fanciulli, non vi andremo, perché non saremmo al nostro posto".
In questa direzione era orientata la professione di "fede politica" che egli aveva reso in varie circostanze. Essa è ridotta all'essen
ziale in una lettera al ministro degli Interni Giovanni Lanza
febbraio 1872: "Io scrivo con confidenza e l'assicuro che mentre mi professo sacerdote cattolico ed affezionato al Capo della Cattolica Religione, mi sono pur sempre mostrato affezionatissimo al Governo, per i sudditi del quale ho sempre dedicate le deboli mie sostanze e le forze e la vita". O anche in quella al ministro di Grazia, Giustizia e Culto, Paolo Onorato Vigliani l'anno successivo (4 luglio 1873): "Sebbene io viva affatto estraneo alle cose politiche, tuttavia non mi sono mai rifiutato di prendere parte a quelle cose che in qualche maniera possano tornare vantaggiose al mio paese".
Illustrava ancora la sua posizione ai Salesiani nel primo Capitolo Generale (1877) a commento del "dare a Cesare ciò che è di Cesare", e anche nell'ultima seduta del terzo (1883) quando raccomandò "di conoscere e adattarci ai nostri tempi", cioè "rispettare gli uomini, quindi delle autorità dove si può si parli bene, dove non si può, si taccia. Se v'è qualche ragione si faccia valere in privato. E ciò che si dice delle autorità civili, si dica anche dell'Autorità ecclesiastica".
Nella prima conferenza ai cooperatori di Roma del marzo 1878 don Bosco ebbe modo di illustrare la possibile pacifica convivenza di due "politiche"; quella degli operatori tra i giovani e quella dei professionisti della cosa pubblica. Non c'è pericolo di contrasti — riteneva e assicurava — "perché l'opera dei Salesiani e loro Cooperatori tende a giovare al buon costume e diminuire il numero dei discoli, che abbandonati a se stessi corrono grande pericolo di andare a popolare le prigioni. Istruire costoro, avviarli al lavoro, provvederne i mezzi, e dove sia necessità, anche ricoverarli, nulla risparmiare per impedirne la rovina, anzi farne buoni cristiani ed onesti cittadini, queste opere, dico, non possono non essere rispettate, anzi desiderate da qualsiasi governo, da qualsiasi politica".
Infatti, secondo lo stile di don Bosco, l'impegno del salesiano è di cambiare le coscienze, di formarle all'onestà umana, alla lealtà civica e politica, e semmai in questa prospettiva "cambiare" la società, mediante l'educazione, dal di dentro. Don Bosco è un prete, un moralista; non è né sociologo, né sindacalista, né economista, né politi
co. Non si pone il problema se le coscienze possano essere formate in determinate strutture. Egli parte dall'idea che l'educazione può molto, in qualsiasi situazione, se è realizzata con il massimo di buona volontà, di impegno e di capacità di adattamento. Nonostante la "tristezza dei tempi", le vessazioni politiche, le "novità" dell'epoca, don Bosco ritenne la società piemontese (e poi italiana) piuttosto affidabile, sicura, ben stratificata e ordinata, non pericolosamente rivoluzionaria e violenta. Non restava dunque che operare con saggezza e intelligenza — forse anche con un po' di furbizia e scaltrezza — nell'ordine esistente, senza tentazioni "rivoluzionarie". Non era una posizione priva di rischi: l'adattamento poteva diventare acquiescenza e opportunismo; e, sul piano educativo, causa di vistose carenze nella formazione socio-politica dei giovani.
Rispecchiano parte della sua mentalità i ricordi lasciati ai Salesiani nelle ultime Memorie-Testamento spirituale nei confronti degli Esterni e Nelle difficoltà. Suggerisce flessibilità e prudenza. "Cogli esterni bisogna tollerare molto, e sopportare anche del danno piuttosto che venire a questioni. Colle autorità civili od ecclesiastiche si soffra quanto si può onestamente, ma non si venga a questioni davanti ai tribunali laici", preferendo piuttosto forme di arbitrato, che consentono di evitare spese e di mantenere "la pace e la carità cristiana". "Qualora in un paese od in qualche città vi si presenti una difficoltà da parte di qualche autorità spirituale o temporale, procurate di fare in modo da potervi presentare per dare ragione di quanto avete operato. La spiegazione personale delle vostre intenzioni buone diminuisce assai e spesso fa scomparire le sinistre idee che nella mente di taluni possono formarsi". Se si è legalmente colpevoli, "se ne dimandi scusa, o almeno se ne dia rispettosa spiegazione". "Questo modo di fare è assai conciliante e ben sovente rende benevoli gli stessi avversari".
Ecco infine il suo credo politico-pedagogico, vissuto, professato prima che formulato nel 1883 nel discorso agli ex allievi in un contesto di separazione fede-politica: "Noi non facciamo della politica [...] noi facciamo anche della politica, ma in modo affatto innocuo, anzi vantaggioso ad ogni governo [...] noi tendiamo a diminuire i discoli e i vagabondi, far scemare il numero dei piccoli malfattori [...] vuotare le prigioni [...] Questa è la nostra politica". La voluta estra
neità alla politica non significava però mancanza di senso nazionale, considerato il vivo amore alla famiglia reale, alle tradizioni, alla pace e la disponibilità all'assistenza attiva nei momenti di emergenza nazionale (colera, guerre, terremoti, ecc.).
Ovviamente non va dimenticato che don Bosco è fermo all'ideale dello stato confessionale e all'immagine della società stratificata delle "classi", nella quale convivevano, inevitabilmente ricchi e poveri, nella quale fiorivano il rispetto dell'autorità, l'amore alla fatica, la riconoscenza ai benefattori, l'intangibilità incondizionata della proprietà privata. Don Bosco anziché elaborare principi, manifesta tendenze, conservatrici più che democratiche, paternalistiche più egualitarie, clericali più che laiche, associazionistiche più che corporative e sindacali stiche. Egli aspira a un ordine morale pacifico, rispettoso di tutti, in cui gli ecclesiastici avessero la preminenza; il suo modello sociale era quello acquisito, tradizionale, gerarchico, non da creare, distinguibile fra spirituale e temporale, ma con il primato del primo sul secondo.
È poi evidente che la prospettiva socio-politica in don Bosco va integrata con considerazioni sulla dimensione religiosa e salvifica della sua azione educativa. Lo affermò e ribadì in molte conferenze ai cooperatori salesiani. Basti una citazione, quella del discorso a Torino del 1° giugno 1885 in favore dei Salesiani, in cui sostiene che l'opera salesiana va sostenuta "perché educa i giovanetti alla virtù, alla via del Santuario, perché ha per fine principale d'istruire la gioventù che oggidì è divenuta il bersaglio dei cattivi, perché promuove in mezzo al mondo, nei collegi, negli ospizi, negli oratorii festivi, nelle famiglie, promuove, dico, l'amore alla religione, il buon costume, le preghiere, la frequenza ai Sacramenti. In questi tempi i malvagi cercano di spargere l'empietà e il mal costume, cercano di rovinare specialmente l'incauta gioventù con società, con pubbliche stampe, con riunioni, che hanno per iscopo più o meno aperto di allontanarla dalla religione, dalla Chiesa, dalla sana morale".
È noto a tutti che il mondo è diventato piccolo, è un "villaggio", permeato da grandi innovazioni tecnologiche, mediatiche, globa
lizzanti e dai criteri culturali che queste suggeriscono: produttività, efficienza, calcolo, razionalità scientifica... Il quadro di lettura dei fenomeni sociali è ormai quello planetario, per cui le vecchie categorie interpretative sono superate. Basti pensare che oggi si parla di "decostruzione del pensiero", "mutazione antropologica", "globalizzazione", "codice etico universale", tolleranza, interculturalità, plurietnicità, nuove p aideie...
La Populorum Progressio già nel lontano 1967 ci aveva detto che il luogo di verifica della validità o meno di un sistema economico internazionale non era tanto la vertenza sindacale in casa propria, quanto il sistema economico internazionale, che sanciva una disumana dipendenza del Sud dal Nord. Ne conseguiva che operare la carità secondo criteri angusti, locali, pragmatici e approssimativi, dimenticando le più ampie dimensioni del bene comune (nazionale e planetario) era grave lacuna anche di ordine teologico.
La maturazione etica della coscienza contemporanea ha poi riscontrato i limiti di un assistenzialismo, che, obliando la dimensione politica del sottosviluppo, non riesce a mordere sulle cause della miseria, sulle strutture di peccato da cui scaturisce lo stato delle cose oppressive da tutti sempre denunciato (fin dal sinodo 1971). Concepire la carità solo come elemosina, aiuto d'emergenza, assistenza spoliticizzata significa muoversi nell'ambito del samaritanesimo che, al di là delle buone intenzioni, finisce col divenire deteriore perché funzionale a modelli di sviluppo che puntano al benessere di alcuni, indorando l'amara pillola per gli altri. C'è una filosofia degli aiuti che lascia intatti i privilegi dei benefattori e talora si risolve in operazioni a loro vantaggio: si dà qualcosa e si riceve di più. Varie associazioni umanitarie mondiali sembrano agenzie di collocamento di funzionari, ad alto stipendio, che "consumano" oltre la metà di quanto dovrebbe invece arrivare ai "destinatari" che ne giustificano l'esistenza.
Nel postconcilio le parole "povertà della Chiesa" e "Chiesa dei poveri" hanno avuto molti volti, anche contradditori. Il magistero comunque ha accresciuto la sua attenzione al terzo mondo. C'è però un rischio: che l'annuncio del Vangelo tenda a pagare il prezzo della riduzione del Vangelo a etica, in modo che sia da tutti condivisa per essere da tutti ascoltata. Il termine "Chiesa dei poveri" è stato
così assunto in chiave politica o in prospettiva etica, impoverendola del suo contenuto messianico. La si è usata per sostenere l'impegno rivoluzionario, raramente la si è fatta criterio di discernimento della vita ecclesiale, un luogo di riforma della Chiesa. Più spesso si è ridotta a virtù, che qualche volenteroso ha seguito senza mettere in questione la vita concreta della comunità. Insomma la povertà come consiglio per alcuni, non segno della Chiesa in quanto tale. Rimane un fatto che il Vangelo non lo abbiamo inventato noi, così come non abbiamo inventato il suo tragico impatto con la politica e l'economia. Il rispetto e la difesa dei diritti umani, radicati nella dignità di ogni essere umano, la destinazione universale dei beni, l'opzione preferenziale per i poveri interpellano la responsabilità sociale di tutti e di ciascuno.
La carità pastorale salesiana non ha nulla da dire al riguardo? Del resto che cosa ha fatto papa Giovanni Paolo II, allorché non ha lasciato tranquillo nessun angolo della terra? La fede tocca la storia, pur non riducendosi ad essa. Se l'amore del prossimo non è tutto il messaggio cristiano, si può forse negare che esso sia centrale ed essenziale? Chi può dubitare che la dimensione socio-politica è strutturale alle persone ed è una dimensione decisiva per la vita della società umana? Chi può dubitare che si debba arrivare a creare le condizioni in cui l'economia non è annullata, ma ricondotta ad un ordine di fini che non si esaurisce in essa, in quanto il suo fine ultimo è la persona umana nella sua crescita integrale e solidale a livello planetario? La Chiesa, i pensatori, i teologi, i professori, noi stessi non abbiamo forse dato troppo peso alla morale individuale, e non a quella sociale, pubblica, privilegiando alcuni comandamenti a scapito di altri? La dottrina sociale della chiesa non è stata troppo spesso elusa?
Il rapporto Chiesa-politica è stato precisato ancora ultimamente da papa Benedetto XVI nella sua prima enciclica: "La Chiesa non può e non deve prendere nelle sue mani la battaglia politica per realizzare la società più giusta possibile. Non può e non deve mettersi al posto dello Stato. Ma non può e non deve neanche restare ai margini nella lotta per la giustizia. Deve inserirsi in essa per la via dell'argomentazione razionale e deve risvegliare le forze spirituali, senza le quali la giustizia, che sempre richiede anche rinunce, non può
affermarsi e prosperare. La società giusta non può essere opera della Chiesa, ma deve essere realizzata dalla politica. Tuttavia l'adoperarsi per la giustizia lavorando per l'apertura dell'intelligenza e della volontà alle esigenze del bene la interessa profondamente" (Deus Caritas est, n. 28).
Ancora. Si è detto e scritto che di fronte allo Stato moderno, che ha assunto la tutela e l'assistenza sociale dei cittadini, la Chiesa non aveva ormai più spazio di intervento sul piano della carità e dell'assistenza. La realtà che oggi viviamo smentisce questa ipotesi che aveva nutrito le ideologie laiciste e stataliste. La Chiesa torna spessissimo ad esser punto di riferimento anche in seno allo Welfare state o a quello che di esso è rimasto.
Per lunghi anni abbiamo sentito dire che la carità e l'assistenza erano strumenti vecchi e inservibili, che non erano più utilizzabili nella società moderna e nello stato democratico. Oggi anche in ambienti laici si riconosce la funzione sociale del volontariato cristiano, del cosiddetto terzo settore — non profit — delle iniziative che partono dalle parrocchie, associazioni, istituzioni, chiese, movimenti...
In congregazione forse l'aspetto più innovativo e più "rivoluzionario" degli ultimi anni è stato indicato qualche anno fa dal Capitolo Generale 23 (1996, nn. 203-210-212-214) che parlava di "dimensione sociale della carità" e di "educazione dei giovani all'impegno e alla partecipazione alla politica", "ambito da noi un po' trascurato e disconosciuto".
Ci possiamo chiedere: è forse cambiato il nostro sistema di non fare se non la politica del "padre nostro"? Forse che dal pulpito dobbiamo anche noi parlar di tutto: violenza, terrorismo, politica, lavoro, ingegneria genetica, ecc.? Dobbiamo fare nostra la "teologia della Liberazione"? Ma quale "Teologia della liberazione"? D'altra parte non è che per caso l'iniziale scelta "educazionista" di don Bosco e il conseguente proposito personale degli educatori di escludere dalla propria vita la "politica militante", ha condizionato e limitato la dimensione socio-politica della formazione degli educandi? Un qualche peso non hanno per caso avuto anche degli educatori pro
pensi al conformismo per insufficiente cultura e per eccessiva lontananza dal mondo reale degli uomini? Poteva (e può) forse costituire una soluzione il generico ricorso alla formula dell'"onesto cittadino e buon cristiano", o all'altra, riduttiva, dell'onesto cittadino" perché "buon cristiano"?
È indubbio che le cose cambiano, anzi, che le cose sono cambiate, e pur nella fedeltà allo spirito originario e alle costituzioni rinnovate, qualche passo in avanti debba essere fatto, correndo evidentemente certi rischi, pena il restare indietro, fuori della storia, cioè tradire la nostra missione. Certo il silenzio farebbe piacere a tanti, come il silenzio dei cani è caro alla volpe penetrata nel pollaio. Ma gli orientamenti dei Capitoli Generali se non sono poi tradotti concretamente in fatti che hanno a che vedere con la giustizia, la pace, la cultura della solidarietà, l'impegno per la trasformazione della società secondo il Vangelo, non servono.
Come educatori non possiamo chiudere gli occhi sul fatto che, nonostante i grandi progressi della scienza e della tecnica, miliardi di persone vivono oggi in condizioni peggiori che 15 anni fa, che 89 paesi vivono oggi in una situazione peggiore che 10 anni fa, che il 25% della popolazione mondiale vive sotto la soglia della povertà, che 1.5 miliardi di persone vivono con meno di un dollaro al giorno, che 1 miliardo di persone sono analfabete. È stato calcolato che con 6.3 miliardi di dollari si potrebbe assicurare la scuola elementare a tutti gli abitanti del mondo (mentre solo negli USA 8.4 miliardi di dollari si spendono ogni anno in cosmetici).
Come educatori non possiamo restare a guardare indifferentemente allo scempio delle megalopoli del sud del mondo, alla mancanza di futuro per i giovani, al tradimento di legittime attese della povera gente, alla fame, all'inquinamento, alla violenza, spicciola o istituzionalizzata, alla crisi della giustizia, alla corruzione generalizzata, al persistere di una fiorente industria bellica, allo sfruttamento dei minori... insomma a tutti quegli elementi che fruttano lacrime, sangue, morte a milioni di creature ogni giorno. Civiltà dunque ben lontana da quella dell'amore proposta dal papa Paolo VI e ribadita dai suoi successori.
In armonia con tutto ciò sembra che si debba procedere ad una più coerente attuazione pratica della scelta educativa di don Bosco,
ad una riconsiderazione della qualità sociale della nostra educazione. Il sistema educativo di don Bosco si è rivelato talora debole anche dal punto di vista delle enunciazioni e delle formule — nel
creare esplicite esperienze di impegno sociale nel senso più ampio e, in esso, specificamente politico. Si impone uno specifico approfondimento teorico e vitale, ispirato a una più ampia visione dell'educazione stessa, insieme a realismo e concretezza. Non bastano proclami, manifesti, slogan. Occorrono anche concetti teorici e progetti operativi concreti da tradurre in programmi ben definiti e articolati. Del resto lungo i secoli il servizio della carità non è stato forse affidato alla Chiesa e in essa "a uomini e donne che sono scesi in campo contro la povertà, le malattie e le situazioni di carenza del settore educativo"? (Deus caritas est, nn. 22, 23, 25).
Chiediamoci infine: la congregazione salesiana, la famiglia salesiana, la nostra ispettoria sta facendo tutto il possibile in tale direzione? La nostra solidarietà con la gioventù è solo atto di affetto, gesto di donazione o anche contributo di competenza, risposta razionale, adeguata e pertinente ai bisogni dei giovani e della società odierna?
Un primo passo in avanti: educarci e educare alle virtù politiche
In generale sembra di notare un'impreparazione socio-politica del salesiano come del credente medio. Invece è necessario avere idee chiare su ciò che è politica: è il punto di partenza. Adoperarsi a pensare bene — diceva Pascal — è principio di tutta la morale. Va tenuto ben presente che la politica è la molteplice e varia azione economica, sociale, legislativa, amministrativa, culturale, destinata a promuovere organicamente e istituzionalmente il bene comune (Christifideles laici 42); che la politica è un modo di vivere l'impegno cristiano al servizio degli altri (Octogesima adveniens); che la politica è un dovere che impegna tutti nella difesa della persona umana; che la politica è un valore perché direttamente connesso con la dignità ed i fondamentali diritti della vita umana. Se dovere, deve essere adempiuto; se valore, deve essere espresso in atti ed opere che gli corrispondono.
Ora alcune scelte di campo possono essere fatte proprio dall'educatore: l'orientamento vocazionale alla militanza politica, inco
raggiando e motivando quanti rivelano attitudine alla gestione della cosa pubblica ed alle attività proprie di organismi di militanza sociale o politica; la promozione di un'educazione alla cittadinanza e del protagonismo giovanile non violento in ordine alla trasformazione delle strutture ingiuste della società; il dar rilievo al volontariato nazionale ed internazionale come verifica di tale protagonismo giovanile al servizio ai più deboli; l'incentivare affidi familiari, adozioni a distanza, case famiglia, comunità alloggio, centri di recupero dalla tossicodipendenza; il far sorgere forme associative locali, nazionali ed internazioni di commercio equo, di solidarietà con i paesi che vivono in condizioni meno umane "dove l'umano è sempre misurato sulla base del Vangelo". I Cooperatori salesiani poi, gli ex allievi data la loro vocazione laicale, non dovrebbero essere in prima linea in tale movimento permanente?
Si tratta altresì di insegnare ed educare i giovani all'apertura al mondo, all'intercultura, al dialogo e al rispetto interreligioso con viaggi ed attività di comprensione di altre culture, con scuole di mondialità, con corsi e seminari su temi specifici, con la proposta di esperienze particolari, con pubblicazioni di opuscoli, libri e riviste... Tutte attività che vogliono dotare i giovani di capacità di dialogo interculturale/interreligioso, di autonomia nella valutazione politica delle decisioni prese dal governo del proprio Paese o di altri Paesi, di capacità di vincere pregiudizi e razzismi aumentando la propria conoscenza, di attitudine a comprendere che stare chiusi nel proprio "particolare", nel proprio piccolo mondo non è più pensabile e anzi è fuorviante. Più che spegnere la TV o il computer, si tratta di "accendere il cervello".
Infine non si può essere solidali che ponendoci dalla parte del più debole. Da che parte stiamo? Nel modo di giudicare, di vivere, nello scegliere amicizie e linguaggi, nello stabilire priorità, nel rapportarci con le strutture pubbliche? Stiamo bene fra coloro che dicono: "I poveri li avremo sempre con noi" o, con qualche sofferenza, ci domandiamo come debba oggi essere letta la parabola del Buon Samaritano? Se non è necessario "scendere in campo" politicamente, è necessario "pensare politicamente" senza nostalgie sessantottesche, ma coltivando il senso di un progetto globale della società, anche "non politicamente corretto".
Si pongono davanti a noi per lo meno altri due obiettivi. Anzitutto far maturare nella coscienza individuale e collettiva nostra e dei nostri destinatari determinati valori, spesso e facilmente loro estranei, quali la volontà di uscire dal proprio egoismo per aprirsi ai bisogni altrui, di condividere il superfluo ed anche il necessario con chi soffre, di scoprire che siamo una grande famiglia (di Dio), e che dunque abbiamo lo stesso padre e siamo fratelli, di mettere in discussione il nostro sistema di vita troppo pieno di cose superflue, di intravedere i grandi problemi di giustizia e di pace che animano il mondo.
In secondo luogo: essere convinti che la vita si cambia nella quotidianità, nel modo giornaliero di vivere. È la pratica quotidiana delle opere di misericordia corporali e spirituali, affrontata in prima persona, senza deleghe ed evasioni sul piano personale né sul piano familiare-comunitario (c'è una voce "poveri" nel nostro bilancio?), né sul piano nazionale-ispettoriale? (in Italia ci fu anni fa il programma della Conferenza episcopale "partire dagli ultimi"; ma per caso non è rimasto uno slogan?), né sul piano internazionalecongregazionale (non c'è il rischio di limitarci alle belle intenzioni, ai discorsi moralistici, ai documenti dei Capitoli Generali)?
Siamo tutti convinti che le derive di una libertà umana senza verità oggettiva, lo smarrimento dei valori morali, il disordine della convivenza civile insidiano il patrimonio di civiltà del nostro Paese. Si tratta dunque di avviare fra le decine di migliaia di giovani che avviciniamo un nuovo processo di evangelizzazione, di diffusione della mentalità cristiana in tutti gli ambiti della vita, di elaborazione di una cultura cristianamente orientata.
È dunque nell'area delle idee e del costume, vale a dire nell'area sociale, che all'educatore salesiano si richiede una presenza nuova, per così dire "postpastorale" o "prepolitica" — coerente con il Vangelo e la dottrina sociale della Chiesa — in grado di contribuire a rifare il tessuto etico del paese. La sua sarà una presenza certamente di minoranza attiva, non tanto supplente alle carenze dello Stato sociale, ma coltivante il sogno donboschiano di una sorta di patto di
cittadinanza fondato su valori comuni condivisi, il più possibile cristiani.
Alla promozione umana, alla presenza anche con proprie iniziative nella società civile, seguirà — magari contemporaneamente — l'evangelizzazione esplicita soprattutto per quanti hanno già raggiunto la soddisfazione dei bisogni primari. Il che potrà significare per noi molte scelte, come già si è detto, come la revisione delle opere secondo criteri di significatività spirituale, la riqualificazione del personale per nuovi bisogni (salvo poi scoprire che appena finito si deve ricominciare daccapo), l'utilizzazione degli immobili a fini educativo-spirituali e non economici, l'avere il coraggio di decidere sempre in luce aeternitatis e di celebrare la speranza di un mondo migliore. E si potrebbe continuare...
*
Concludo con un'ultima citazione pertinente alla strenna del Rettor Maggiore per il 2007 circa la promozione della "Vita". Nel 1884, preoccupato di un triste fenomeno diffuso al suo tempo, don Bosco affidava ad un gruppo di sacerdoti diocesani il compito di fare del lavoro pastorale un annuncio e un servizio della vita con queste parole:
"Oggi giorno non si fa alcuna stima della vita. Chi si suicida per non sopportare i dolori e le disgrazie: chi arrischia la vita in un duello: chi la sciupa nei vizi: chi la giuoca in arrischiate e capricciose imprese, chi ne fa getto affrontando pericoli per eseguire vendette e sfogare passioni. Predicate adunque e ricordate a tutti, che noi non siamo i padroni della nostra vita. Dio solo ne è il padrone. Chi attenta ai proprii giorni fa un insulto al Signore, è la creatura che fa un atto di ribellione contro il suo Creatore. Voi che avete ingegno troverete idee e ragioni in abbondanza e modo di esporle, per indurre i vostri uditori ad amare la vita e rispettarla, nel gran pensiero che la vita temporale bene impiegata è foriera della vita eterna" (Boll. Sal. 1884, n. 8, p. 116).
Don Bosco in tutta la sua vita non aveva fatto altro che dare ai giovani, pericolosamente avviati su strade della perdizione e dello sperpero del meglio delle loro risorse vitali, un senso alla vita, recuperandoli ad un'esistenza gioiosa, che valesse la pena di essere vissuta. Ora lascia a noi il compito.
Al termine di queste meditazioni-istruzioni vorrei tentare una breve conclusione, a modo di "predica dei ricordi" con cui tradizionalmente si concludevano gli Esercizi Spirituali e che tracciava per i Salesiani di un'ispettoria un comune percorso di vita spirituale per un intero anno.
Aprire gli occhi sul mondo
All'inizio del millennio siamo di fronte ad un'epoca di profondissimi cambiamenti, con la recente discesa in campo di forze inedite, dirompenti e invasive, anche rispetto solo agli anni della guerra fredda e delle ideologie. Occorre che prendiamo atto che è cambiata la società, la famiglia, la persona, la Chiesa, la vita religiosa, i giovani, il linguaggio, la notte e il giorno, gli orari, il bioritmo personale e comunitario... Un passato remoto è morto definitivamente: una certa teologia, un certo concetto di vita religiosa, un certo modo di educare durato fino agli anni sessanta. Ma anche un "passato prossimo" sta morendo: quello delle prime teologie postconciliari, dei primi entusiasmi del rinnovamento della Vita Consacrata attraverso le Costituzioni rinnovate, quello di una certa serenità educativa dopo l'ubriacatura del sessantotto e il terrorismo degli anni di piombo. Non ci rimane che un presente, su cui costruire un futuro.
In ambito salesiano è successo, in qualche modo, lo stesso, fin dall'inizio della congregazione: anzitutto con le progressive "crisi esistenziali" di don Bosco che fecero da preludio alle scelte che abbiamo documentato (sacerdotale, educativa, congregazionale, missionaria) e poi, dopo di lui, con le "crisi della congregazione" in mo
menti particolari (su cui non abbiamo potuto soffermarci) ma che in qualche modo tutti conosciamo. Per limitarci a tre: quello dello sviluppo della Congregazione dopo la morte di don Bosco (quando si ipotizzava l'incapacità della medesima di sopravvivere al fondatore), quello della ripresa dopo il sessantotto (quando gli alti toni della contestazione sembravano preludere ad un'incontenibile crisi vocazionale, dovuta al sopravvento delle ragioni della tradizione rispetto all'innovazione), quello del ritrovamento dell'unità attorno al Re ttor Maggiore negli anni novanta (quando si assistette ad una frammentazione delle opere e ad un marcato individualismo dei confratelli). La congregazione ne uscì indenne e ha continuato la sua storia con momenti di fuga in avanti, momenti di stasi o addirittura ritorni al passato, momenti carismatici e momenti di crisi, momenti di debolezza e momenti di coraggio, momenti di ricco magistero e momenti di normale amministrazione, momenti storici ordinari e situazioni eccezionali.
Se dunque lungo gli oltre cento anni della nostra storia ci siamo trovati di fronte a secche alternative, oggi ci troviamo di fronte ad una di esse, ad un vero "punto di svolta", con la società civile globalizzata e i giovani a pezzi che ci ritroviamo, con la riduzione del personale cui assistiamo con impotenza (almeno in Europa), con la contrazione di opere, cui siamo "costretti" per motivi di forza maggiore.
L'alternativa che ci si presenta è semplice, almeno da intendere: o restiamo paralizzati dalla paura di fronte alle sfide del nuovo che avanza inesorabilmente, alle quali ci sentiamo impreparati a rispondere, oppure consideriamo tali sfide positivamente come nuove opportunità, cui rispondere con più coraggio e con più vitalità di quanto si è forse fatto nei tempi recenti. Ora fra lo stare a soffrire l'evidente conflitto e il cercare di intravedere il nuovo che nasce, tra la rassegnazione e la resistenza, tra la morte e la vita, non c'è dubbio scegliamo la seconda, perché Dio è novità imprevedibile nella storia, è il Signore della vita. Per fare ciò è necessario far emergere quanto di più profondo e carismatico c'è in noi, nella nostra vocazione: va
le a dire la decisione di spendere la nostra esistenza nell'attuazione del progetto salvifico di Dio in Cristo propostoci da don Bosco, personaggio sempre attuale, e la fedeltà ai "giovani poveri ed abbandonati", senza i quali cessiamo di essere Salesiani, perché solo accanto a loro ci sentiremo ricchi e saremo fecondi, mentre lontani da loro ci sentiremo poveri e diventeremo sterili.
Allora, sulla base delle considerazioni svolte in questi giorni, i Salesiani di questo inizio di millennio potrebbero essere chiamati a fare tre particolari operazioni che indico, in estrema sintesi, con tre neologismi forse non troppo difficili da memorizzare:
1. Destrutturare
La Congregazione, i Capitoli Generali, i Capitoli Ispettorali (noi stessi) sono un cantiere sempre aperto, non un cantiere in chiusura. Il necessario ridimensionamento deve per noi significare rinascita, ripresa di nuova vitalità. Destrutturare significa essere convinti che il soggetto operativo siamo noi e la nostra "missione divina", non la struttura ereditata, non l'Opera necessariamente contingente. Dio ci chiama ad essere attivi, creativi e non succubi e schiavi di realtà non più congrue ed idonee al miglior servizio ai giovani. Don Bosco ci è stato maestro in questo, lasciando la strada sicura, percorsa da altri, per inventarsi la sua, più difficile e rischiosa: ma era quella che il Signore gli ispirava!
2. Demassificare
La trascendenza è il primo atto della Vita consacrata, ma nello stesso tempo il volto di Dio, che portiamo in noi e che cerchiamo di vedere nei nostri giovani, è il segno della sua presenza fra noi. La "missione" affidatici dal Padre del cielo di essere nella Chiesa "segni e portatori dell'amore di Dio ai giovani, specialmente ai più poveri", deve avvalersi dell'incontro, dell'accoglienza visibile dei giovani dei muretti, delle piazze, delle aule scolastiche, dei nidi familiari...
Una forte visibilità del nostro dono toglierà dall'anonimato gli invisibili, i senza nome, gli emarginati, gli esclusi, i senza futuro...
3. Deglobalizzare
È un'operazione non semplice, ma vitale per capire culture e religioni diverse. Non esistono figli di un Dio minore o di una Cultura senza lettera maiuscola. Bianchi o neri, ricchi e poveri, credenti e lontani, tutti ci chiedono di "incarnarci", di essere presenti fra di loro, di portare i pesi gli uni degli altri. Ma di farlo con un'identità non sbiadita, confusa, anche se necessariamente vissuta in diversi contesti e culture, magari estranee o allergiche alla nostra fede nel Signore Gesù.
Credo che se riuscissimo in tale triplice operazione, il nostro potrebbe risultare un autentico "Ripartire da don Bosco" per il terzo millennio. È il più fervido e sincero augurio che ci possiamo scambiare.
Premessa pag. 5
Introduzione: Ripartire da don Bosco » 9
1. "Stare dentro la storia" di don Bosco, nella Chiesa di Cristo, a servizio del mondo » 17
2. Don Bosco: i segreti di un successo » 29
3. Quei formidabili primi vent'anni (1815-1835) » 45
4. Il decennio di preparazione (1835-1844) » 59
5. La scelta fondamentale: i giovani (1844-1846) » 71
6. La scelta vitale: consacrati e mandati per una missionecomunitaria (1854-1874) » 83
7. La scelta strategica: le missioni (1875) » 97
8. La missione salesiana oggi » 111
9. Ripartire dall'educativo » 127
10. L'educazione non è (solo) cosa di cuore » 143
11. La politica del Pater Noster è ancora attuale? » 157
Conclusione: "Ricordi" ai Salesiani del terzo millennio » 171