Dom Bosco Recursos

Don Alberto Caviglia - vita di Francesco Besucco scritta da Don Bosco

OPERE E SCRITTI
EDITI E INEDITI
DI
DON BOSCO
NUOVAMENTE PUBBLICATI E RIVEDUTI
SECONDO LE EDIZIONI ORIGINALI
E MANOSCRITTI SUPERSTITI
A CURA DELLA PIA SOCIETÀ SALESIANA
VOLUME SESTO
LA VITA DI BESUCCO FRANCESCO
SOCIETÀ EDITRICE INTERNAZIONALE

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INDICI DELL´OPERA
105 Indice de « La vita di Besucco Francesco » scritta da Don Bosco
263 Indice de « La vita di Besucco Francesco» scritta da
Don Bosco e il suo contenuto spirituale - « ...un docu¬mento inesplorato » - Studio

Visto per la Società Salesiana SaC. GUIDO FAVINI Torino, 8 settembre 1964
Nulla osta
Sec. Dott. GIUSEPPE ZAVATTARO, Ispettore Torino, 10 settembre 1964
Visto : nulla osta
Fr. CESLAO PERA, O. P., Rev. Del. Cur, Arc. Torino, 23 novembre 1964
IMPREVIATUR
Can. VINCENZO ROSSI, Vic, Gen. Torino, 26 novembre 1964
PROPRIETÀ RISERVATA ALLA SOCIET1. EDITRICE INTERNAZIONALE DI TORINO - OFFICINE GRAFICHE
MAGGIO 1965 (M. E. 35646)

A vent´anni dalla definitiva stesura, si danno alle stampe gli ultimi due volumi degli studi del compianto prof. Don Alberto Caviglia sugli scritti di Don Bosco.
Il volume VI è totalmente dedicato alla vita del «Pastorello delle Alpi», il giovane .Besucco Francesco, allievo dell´Oratorio di San Francesco di Sales, in Torino, dall´agosto del 1863 al 9 gennaio del 1864.
Non stupisca l´ampiezza dello studio, che a prima vista potrebbe far pensare ad una cornice più grande del quadro, tanta è l´erudizione pedago
- Bica, teologica ed ascetica che Don Caviglia vi sfoggia. In realtà, ci si trova di fronte ad una spiritualità, formata da un modesto parroco di montagna e cesellata da Don Bosco, che regge magnificamente, nono¬stante la tenera età, ai confronti con la spiritualità dei santi canoniz¬zati, sotto molti aspetti.
La lettura meditata li farà non solo rilevare, ma gustare, come li fece gustare all´appassionato studioso, discepolo di Don Bosco. Preve¬niamo i lettori, come abbiamo già fatto pel vol. V, che le Memorie del¬l´Oratorio di San Francesco di Sales, citate ancora da Don Caviglia come inedite dal manoscritto del Santo, furono pubblicate dalla SEI nel 1946, tre anni dopo la conclusione dell´ultimo studio.
E ci scusiamo anche se non abbiamo aggiornato i titoli di Santi che furono canonizzati dopo la morte di Don Caviglia. La ragione è evidente.
Un rilievo forse conviene tener presente ; Don Caviglia ha limitato la critica storica propriamente detta all´essenziale. Un po´ per le difficoltà di ricerche che egli incontrò ai suoi tempi; ma soprattutto perché egli ebbe maggior preoccupazione di documentare l´ascetica della scuola di Don Bosco, il quale non fu mai un semplice pedagogista, ma sempre « apostolo della gioventù », plasmatore di « buoni cristiani ed onesti citta¬dini» come soleva dire, e spesso plasmatore di autentici « santi».
Torino, 8 settembre 1964
Festa della Natività di Maria SS.
SAC. GUIDO FAVINI
Salesiano

LA VITA DI BESUCCO FRANCESCO
SCRITTA DA DON BOSCO
INTRODUZIONE ALLA LETTURA
SOMMARIO. - Ragguaglio bibliografico. - Il titolo. - Carattere storico. - La Rela¬zione di Don Francesco Pepino. - Perchè Don Bosco l´accetta. - I Santi del Breviario. - L´età giovanile. - La storicità. - Il valore documentario del libro. - I fini di Don Bosco.
IL PASTORELLO DELLE ALPI - ovvero - Vita del giovane - BESUCCO FRANCESCO - d´Argentera - pel sacerdote - Bosco GIOVANNI uscì tra le Letture Cattoliche; anno XII, luglio-agosto, fasc. V-VI : Torino, Tipografia dell´Oratorio di S. Francesco di Sales, 1864.
L´edizione era corredata di un ritratto di BESUCCO FRANCESCO D´ARGENTERA (J. Heinemann, lit.), sotto il quale sta la scritta pari
menti litografata: « Io muoio col rincrescimento di non aver abba¬stanza amato il Signore come si meritava ».
Col semplice cambio della copertina, fuori serie, ne furono spacciate molte copie colla stessa data.
Nel medesimo anno, non sappiamo per quale concessione, ne usciva
un´edizione a Firenze, a spese della Soc. Toscana per la diffusione dei buoni libri: in-16° di pag. 32 (1).
Una e 2a edizione, riveduta e accresciuta » fu fatta nel 1878, in-320 di pag. 164, Tip. Salesiana, Torino.
Questa fu ristampata, senza numerazione, nel 1881, su carta fina: e ancora nel 1886, come Terza edizione, fuori della serie delle Lett.
(1) Cfr. Civiltà Cattolica, vol. 61, Bibliografia. L´edizione di Torino è annun¬ziata nei rispettivi vol. 58, 59. In seguito la Civ. Catt, non annunziò nessun´altra edizione di questo libro. Potrebbe darsi che l´edizione fiorentina sia stata promossa dal buon prof. Francesco Pera (cfr. nostra Nota, in vol. III, pag. Lxvm), che nel 1862 visitando Don Bosco gli esprimeva la sua ammirazione per la semplicità dello stile delle Vite fino allora pubblicate, ch´egli, come Ispettore scolastico, faceva leggere nelle scuole.

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Catt. (1), di pag. 164, in-32°; e ancora nel 1893, senza numero d´edizione (2).
Sicché non errò l´accuratissimo editore che nel 1932 (Torino, Soc. Edit. Int., in-32° gr.) la ripubblicava come Edizione quarta. Purtroppo le edizioni successive alla P non riprodussero più il ritratto.
Noi possiamo senz´altro affermare che quella del 1878 fu l´edizione definitiva, curata in bozze da Don Bosco stesso, e che fu stereotipata (3). Un esemplare della P edizione fuori serie (1864), ch´è in mia mano, porta scritto sulla copertina: Da stereotipare solo
Bozze a D. Bosco
e su altro lato : Corpo 9 senza interlinea
da stereotipare solamente.
È appunto l´esemplare dato al prato per quella edizione, ed ha a suo luogo i nomi dei compositori a cui sono assegnate le singole parti. Per una fortuna non comune a troppi altri libri di Don Bosco, il testo rimase invariato dalla 2a edizione fino al presente. Nè solo nelle edi¬zioni stereotipe del 1878-´86-´93, ma, e ne sia lode all´editore, anche nella recentissima (4).
L´edizione tipica (2a ediz.) non si differenzia dalla la se non per lievi e opportuni ritocchi verbali e ortografici, e per l´aggiunta d´alcuni importanti particolari nel racconto della visione ultima (capo XXXI).
Il suesposto ragguaglio bibliografico si presta, anche da solo, a qualche non inutile osservazione. Anzitutto per la data di pubblicazione, a soli sei mesi dalla morte del Besucco (9 gennaio 1864-luglio 1864): mentre
(1) Registrata in Bollettino delle pubblicazioni ricevute per diritto di stampa dalla Biblioteca Naz. Centr. di Firenze, anno 1886, N. 6679: Bosco GIOVANNI, Il Pastorello delle Alpi, ovvero Vita del giovane Besucco Francesco di Argentera, Ediz. Terza, Torino, Tip. Salesiana, 1886, in-24°, pag. 164.
(2) Registrata in PAcLnAn.l, Catal. Generale delle Librerie Italiane dal 1847 al 1899. Indice per nomi d´autore, vol. I: Bosco Giov. - Il Pastorello, etc. Torino, Tip. Salesiana, ´93, in-24°, pag. 164, L. 0,20. — Ibid., Indice per materie: Bio¬grafie: Besucco (Francesco); Bosco Giov. (´93).
(3) Quell´anno medesimo Don Bosco rivedeva sulle bozze la Vita di Savio Domenico, e quella rimase la ediz. V, stereotipa e definitiva, parimenti (e lodevol¬mente) riprodotta dalla S.E.I. nel 1934 con scrupolosa esattezza.
(4) Collazionando le varie edizioni, si trova che la 3a edizione (1886) è la fedele riproduzione della 25, tantochè conserva ancora la grafia originale di certe parole (paroco, parochia) e respinge la j intervocalica (aiuto); mentre le sue varianti dalla la edizione restano nella 4a. Certe osservanze grafiche (maiuscole, abbreviazioni) sono del tipografo della 4a edizione, e così i rari alinea interposti.

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la Vita del Savio (morto 9 marzo ´57) usci dopo un anno e nove mesi (inizio del gennaio ´59), e quella del Magone (morto 16 gennaio ´59) tardò due anni e otto mesi (settembre 1861). Alla prestezza certo con¬tribuì l´aver avuto subito sotto mano la minuta relazione dell´Arciprete d´Argentera sulla vita del giovanetto in patria sua; e del resto il fatto della visione in punto di morte, conosciuta da tutti, forniva buon motivo per non lasciar più oltre insoddisfatta l´aspettazione dell´Oratorio e del paese, dove s´era formata l´opinione come di un santo (1).
Tuttavia lo scarso numero delle edizioni e ristampe (sei in tutto nel corso di quasi 70 anni) non dice molto per la sua popolarità. Ed è invero, delle tre Vite di giovanetti, la meno popolare, e ne vedremo il perchè.
Invece un fatto, che parrebbe del tutto trascurabile, ci apre la via a considerare il libro più addentro.
A differenza delle altre Vite dettate da D012 Bosco per l´edificazione cristiana dei giovani, questa che fu l´ultima, ed è pure la più ampia e minuziosa, si presenta con un titolo ameno : Il Pastorello delle Alpi. Non possiamo credere che ciò sia stato fatto per il solo fine di lusingare l´interesse dei giovani lettori, o per un vezzo letterario che fu di moda ancor per lungo tempo. Allo stesso modo avrebbe potuto intitolare tre anni prima Il monello di Carmagnola il suo Magone, e non so come, senza rischio di prevenire il giudizio di Santa Chiesa, il suo Savio Domenica.
Il titolo messo questa volta ci sta a scolpire dal primo momento il carattere della figura che presenta: tipo ingenuo di natura vergine, e potremmo dire rude e primitiva, come le scoscese vergini vette alpine onde proveniva, fatta capace d´una virtù squisita e d´un´ascensione spi¬rituale che raggiunge non umili vette di santità (2).
E forse c´è da vedervi una ragione più profonda: come sarebbe di voler mostrare che, quando l´amor di Dio prende a lavorare un´anima, qualunque sia la natura esteriore che l´avvolge, ne trae frutti di gran
Prefaz.: a ... per appagare le vive istanze dei suoi compatriotti e dei suoi amici, e per secondare le vostre dimande D.
(2) I termini santità, santo, che ricorrono in questa trattazione, non vogliono intendersi nel senso canonistico (salvo quando si discorre di Santi canonizzati): ma nel senso di quella sanctitas a cui ogni cristiano è chiamato, e di quella perfezione a cui deve tendere per operare la propria salute e corrispondere alla vocazione di seguace di Cristo. Come cioè vogliono il Vangelo e gli Apostoli, e come dimostra la natura stessa della vita cristiana e la tradizione dottrinale della Chiesa, oltre agli argomenti di ragione. Cfr. TANQUEREV, Comp. di Teol. Ascetico-Mistica, cap. IV, nn. 353-366 (Ediz. ital., Desclée, Roma, 1932; pagg. 229-238). Ripetiamo, in ogni caso, la protesta di ossequio ai Decreti di PP. Urbano VIII, espressa anche da Don Bosco nel suo libro, a pag. 193, Ediz. 1864.

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lunga superiori ed anzi inattesi alle vedute umane; in parole più povere, che, quando c´entra la grazia di Dio a disporlo e la mano dell´educatore a guidarlo, può farsi santo anche il povero figlio del più umile popolo e del paese più dimenticato delle montagne.
E con questa considerazione, entro senz´altro in materia, a comin¬ciare dalla storicità del racconto. Perché, se quel titolo può contenere
implicitamente un programma, non deve indurci a credere che il libro sia fatto, come dicono, a tesi, sacrificando la verità storica o forzandola a piegarsi ai propri intenti.
No : la tesi balza, spontaneamente dalla realtà di una vita che l´ha vissuta, e la verità storica assurge a valore di argomento probativo. Così avviene (o dovrebbe avvenire) d´ogni vita di Santo, o di ogni santa vita oggettivamente narrata. Chi legge deve concludere da sé.
E ancora una volta, come già per il Comollo, per il Savio, per il Magone, Don Bosco sta sull´affermare l´assoluta storicità del suo rac
conto. La prefazione è, su questo punto, esplicita e ferma. A chi gli domanda
« a quali fonti » abbia attinto le notizie, risponde : « Pel tempo che il giovane Besucco visse in patria, mi sono tenuto alla relazione trasmes
sami dal suo Parroco, dal suo maestro di scuola, e da´ suoi parenti
ed amici. Si può dire che io non ho fatto altro che ordinare e trascri¬vere le memorie a questo scopo inviatemi. Pel tempo che visse tra noi,
ho procurato di raccogliere accuratamente le cose avvenute in presenza di mille testimoni oculari : cose tutte scritte e firmate da testimonii degni di fede ».
E quanto ai fatti non comuni « che recano stupore a chi legge» la risposta è anche più ferma : appunto perché tali, li scrive « con premura particolare » : chè altrimenti non meriterebbero di essere pubblicati. Ed anzi si propone egli stesso la questione del «grado di scienza ordina¬riamente superiore a questa età » : scienza, diciamo noi, ch´è sviluppo precoce di conoscenza delle cose di Dio; e la spiega, sì, con le felici disposizioni naturali : ma poi ricorre « al modo speciale con cui Iddio lo favorì de´ suoi lumi », e ciò ai fattori soprannaturali, che egli per principio riconosce.
Diligenza, adunque, e serietà di storico che vuol essere veridico e fedele, e perciò creduto. Al punto che per non a dar motivo di critica da parte di chi rifugge di riconoscere le meraviglie del Signore ne´ suoi servi», rimanda « a tempo più opportuno » il riferire certi fatti (capo XXIV).

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Senonchè, se non può mettersi in dubbio la fedeltà di Don Bosco storico, è difficile, leggendo le pagine che riproducono anche troppo fedel¬mente la relazione del Parroco e dei conterranei, liberarsi dall´impres¬sione che o non tutto sia vero, o non fino a quel grado : che ci sia, se non proprio dell´invenzione, almeno dell´esagerazione, dandosi eccessiva importanza o rilievo a fatti che non meritano o sono abbastanza comuni.
La materia derivata da tali relazioni occupa i primi 15 capitoli della biografia, e ne forma la prima parte, dov´è descritta la vita del giovanetto Besucco fino al giorno in cui entra nell´Oratorio di Torino. Don Bosco, pure inserendo qua e là qualche spunto proprio, come rac¬cordo di tratti disgiunti, o per chiarimento e integrazione di notizie, si attiene senz´altro al quaderno del buon arciprete Don Francesco Pepino, parroco del paese e padrino del giovanetto, e lo segue con intera fedeltà, accettandone la materia, e conservandone la forma.
E sono appunto la singolarità della materia e la ricercatezza della forma, quelle che dànno, in un primo momento, ragione al dubbio sulla verità e giustezza della narrazione. Si ha l´impressione d´una figura studiata di perfezione, non dico giovanile, ma addirittura infantile, che dai tre ai tredici anni segue una linea di quasi impeccabilità, e più ancora; come lo sforzo di mostrare nel giovanetto, che alle prime ore dell´adole¬scenza si rivela santo, una predisposizione, quasi una predestinazione, alla santità, che si dimostra in ogni più minuto particolare. E i parti¬colari sono molti e minuti, nell´infanzia e nella prima fanciullezza; ed essi sono veduti attraverso un´interpretazione dove si scopre, nè del resto si nasconde, l´intenzione di farli servire ad un concetto prestabilito.
Tale sensazione viene confermata, in chi legge, dalla forma che il buon Arciprete ha dato alla sua esposizione. È quel fare studiato di stile scolaresco, che stilizza tutto, e sottolinea tutto, e non lascia posto che rare volte al parlar comune : anzi traduce in grammatica le espres¬sioni che ognuno sente dover essere state, nel dialetto, vive e naturali (p. es. un : « Vedete che vi voglio bene? » diventa un : «Vedete quanto vi amo ! ») : toglie insomma ai fatti e alle parole quel senso del vero e del reale che in questo genere è tutto, e che in mano di Don Bosco ha dato tanta attraenza alla Vita del Magone.
C´è di più, per non dire altra parola. Ed è l´arrotondamento dei discorsi e dei ragionamenti del fanciullo. Lo spunto reale o l´idea, che indubbiamente fu espressa dal piccolo alpigiano, prima incolto e poi poco istruito, diventa ordinariamente il tema di un discorsetto ordinato e rotondo, quale non leggiamo nè in Savio nè in Magone, pure più istruiti e più svegli di lui. Parrebbe di sentire una pagina recitata.

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I sentimenti stessi del buon Padrino, che ha tanto fatto spiritualmente e caritativamente per quel suo figlioccio, sono espresssi, nel capo XV, all´addio, come la perorazione d´un discorso di lusso.
Ecco perché il libro riesce alla lettura, e proprio nella prima parte, poco persuasivo e meno attraente, e fu perciò meno fortunato. Quando, dal capo XVI in poi, prende Don Bosco a parlar di suo, è subito un´altr´aria, e il libro corre, come tutti gli altri dello stesso genere dettati da lui.
Ma l´uno e l´altro fatto si spiegano, e non in danno della causa. La minuziosità dei particolari, e l´attenzione ai piccoli primi fatti e al cammino della piccola anima sulla via del bene, non è che il ricordo affettuoso d´un cuore che ama teneramente il piccolo figlioccio che, per parentela spirituale, gli appartiene più d´ogni altro, e gli è messo nelle mani dai genitori fin dal battesimo. È un occhio più materno che paterno che lo vigila e segue in ogni passo, e ne stampa in cuore i ricordi. E quando più tardi è chiamato a rievocarli, riflette sui primi adombramenti della bontà nativa che si viene palesando nella luce ormai chiara e vivida della virtù maturata, e ve ne scorge i semi ed i germogli. Che vi sia della compiacenza, è naturale tanto in lui quanto è in chiunque veda riuscir bene la sua genitura spirituale.
Che poi il buon curato dell´ultimo villaggio di montagna (proprio l´ultimo presso la cresta dell´Alpe!) non possegga molta scioltezza e freschezza di dettato, e gli tocchi risuscitare i ricordi di scuola (della vecchia scuola, che fu pure quella da cui Don Bosco stentò a liberarsi), per istendere in forma le sue memorie, e vi ricorra sapendo che vanno nelle mani di uno scrittore e debbono essere stampate, non è cosa che debba recar meraviglia, e c´è anzi da rallegrarsi che quel po´ di lettera¬tura non abbia intaccata la verità della sostanza. Caro Don Pepino ! voleva tanto bene a quel santino della sua parrocchia, ch´egli aveva tirato su con tanta cura e, diciamolo noi, con tanta sapienza spirituale, che l´affezione lo ha portato, ora ch´era morto, a vestirlo da festa, lavo¬rando a presentarlo con tutto il meglio che sapeva. E noi vogliamo bene anche a lui.
La spiegazione è simpatica, penserà qualcuno, ma non dice fino a qual punto s´ha da credere al racconto. Ed ecco la risposta.
Traduciamolo in volgare, e leggiamo, attraverso la forma impropria, e il non lucido ordine, g la verità effettuale delle cose », e tutto è a posto. Se Don Bosco l´ha accettato com´era (egli parla di trascrivere), e l´ha inserito nel suo libro, è segno che vi ha visto il vero, e possiamo stare alla sua fede. E se non ha pensato, come secondo noi (e ci perdoni il buon Santo !) avrebbe dovuto, a tradurlo in linguaggio naturale e a darvi una forma più scorrevole, o a rifonderlo interamente, per accordarlo

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alla sua maniera (ma si aveva il tempo in quel 1864?), ciò deriva appunto dal suo scrupolo di storico, che lo obbliga a riferire (trascrivere) i documenti come sono. Ne ha un po´ sofferto il libro, ma ci guadagna la verità.
Che anzi, Don Bosco ha visto il vero e l´ha accettato, anche là dove forse il solito qualcuno potrebbe vedere dell´esagerato o dell´inverosimile. Questo va detto specialmente per le cose dell´età puerile e fanciulla. Gli si trova una serietà, una coscienza, una riflessività e ponderatezza, una disaffezione dalle cose puerili, una religiosità, uno spirito di mor¬tificazione e penitenza, di troppo superiori a quell´età primissima, e non comuni del resto neppure in anni più avanzati : cose tanto meno spiegabili poi, se si pensa alla sua condizione di rude alpigiano, di poche scuole, e pastorello o pecoraio che si voglia dire.
Il buon Padrino ne ha fatto un santo innanzi tempo? No : ha sem¬plicemente detto per lui, senza usarne le frasi, quel che il Breviario dice d´una moltitudine di Santi : ab ineunte aetate, a teneris annis, a primis annis, a puerili aetate, ab ipsa infantia, futurae sanctitatis indicia (specimen) dedit: e va dicendo.
Ed io ho voluto (sarà pedanteria?) sfogliare tutto il mio Breviario,
e rivedere la IV lectio di tutti i santi Confessori del Calendario Romano
e della mia Archidiocesi di Torino, fino a Don Bosco : e n´ho trovati più d´una quarantina dei più conosciuti, la prima età dei quali si pre¬senta non solo nel senso generico delle frasi ora ricordate, ma nei fatti
e nelle inclinazioni virtuose e pie, precisamente affine o eguale a quella del piccolo Besucco. Qualcuna poi di tali liturgiche biografie si direbbe che stesse sott´occhio al buon Padrino mentre metteva insieme i ricordi del suo figlioccio.
Se il mio lettore ne ha l´agio, voglia, per esempio, rivedere i santi Pasquale Baylon e Felice da Cantalice, pastorelli l´uno e l´altro, e Gio¬vanni Giuseppe della Croce, Giuseppe Benedetto Labre, Giovanni Nepo¬muceno, Leonardo da Porto Maurizio, Giovanni Leonardi, Raimondo Nonnato ; in particolare, per la penitenza e mortificazione, Paolo della Croce e Michele de Sanctis, per non dire dell´astinenza singolarissima di Veronica Giuliani ancora lattante. E quanto all´opinio sanctitatis che circonda il piccolo santo, velasi per Raimondo Nonnato : ut omnes in puero adultam virtutem admirarentur; per Pasquale Baylon, che : beatus a plerisque etiam tum appellaretur (un Santino !); e non dico dei molti che : prima aetate grave quiddam et matunun prae se tulit, come il Leonardi.

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Che se facessimo altrettanto per quel che si dice della prima adole
scenza, dai 12-13 anni in là, l´enumerazione, com´è naturale, dovrebbe più che raddoppiarsi.
E il piccolo Pastorello di Argentera rivela già a 3 anni linci reli¬giosità cosciente, e già a 4-5 anni non prende cibo prima d´aver detto
le orazioni bin, in piemontese), ed è, bambino ancora, avido d´im
parar preghiere e le insegna agli altri; le sue malinconie svaniscono a parlargli di Dio, ed è inappuntabile, anche per fanciullino, nella docilità; e rimprovera chi si attarda : la sua condotta ha quasi dell´infallibile. A 7-8 anni fa quasi il maestro di spirito (capo VI), e calpesta il ri¬spetto umano (capo XI), e dà risposte da uomo fatto, ed impegna una santa rissa colle sassate per difendere la sua innocenza : a 9 anni dà consigli al fratello coscritto e si profferisce a sostituirlo nel lavoro. Fin da principio, mettiamo dai 5 anni, dimostra un intenso spirito di mortificazione e penitenza, di custodia dei sensi, di austerità e di gravità, di raccoglimento. È la gravitas lodata in molti santi ancor fanciulli : per esempio in Francesco di Sales : morum innocentia et gravitate, e in moltissimi che puerilibus nugis abhorrebant (1). Fan¬ciulletto ancora suol far la quaresima (cap.) XIII) come Michele de Sanctis, e si contenta di tutto. Nell´innocenza e nell´aborrimento d´ogni cosa o parola contraria, è angelicamente sensibile, come S. Luigi e Sta¬nislao Kostka, e, diciamolo noi, come Don Bosco fanciullo : e il suo parlare, purtroppo arrotondato dal Padrino relatore, è pur quello che nei Santi, a cui ho accennato, indicava precoce maturanza di santità e di giudizio, e dava loro autorità ed efficacia tra i coetanei.
Ed io vorrei avere spazio per mettere a confronto quel ch´è detto del Besucco nella sua fanciullezza prima e seconda, cioè da 6 a 12 anni, con quanto si sa di Pasquale Baylon e di Giovanni Giuseppe della Croce. Come il nostro pastorello, anche il pastore aragonese, che predilige la sua occupazione perché umile ed innocente, è temperante, assiduo nel
pregare, dà consigli ai coetanei e ne compone le liti, e risponde agli spro¬positi, e li sveglia dall´oziare, ed è rispettato da loro. Così il Della Croce,
napoletano, spicca per la ritiratezza, la mortificazione, l´amore e l´in¬stancabilità nella preghiera, e per le divozioni caratteristiche a Maria SS.,
al SS. Sacramento, alla Passione di Gesù Cristo : le tre divozioni del nostro.
E il Nepomuceno, fanciulletto, era sempre in chiesa, diremmo noi, e il suo piacere era di servire le Messe, come il piccolo Francesco (capi II,
(1) Si confronti: S. Alfonso, Raimondo Nonnato, Brunone, Lorenzo da Brin-disi, Ludovico di Tolosa, Giovanni della Croce, Giuseppe Benedetto Labre, Gio-varmi Giuseppe della Croce, ecc.

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VII, VIII); e come lui, Leonardo da Porto Maurizio era bello a vedersi quando pregava in chiesa e in casa, e caro ad ascoltarlo quando pregava forte o esortava i compagni al bene.
Tutte cose adunque possibili a quell´età e condizione, e confermate dalla storia nei Santi, e dalla parola del relatore nel suo piccolo alpigiano.
Ma, si dirà, quelli furono Santi. Cioè Iddio permise che in quelli giungesse a maturità la messe, di cui nella vita giovanile appariva la seminagione e i primi germogli: futurae sanctitatis indizia: indizi d´una santità che poi si esplicò nelle opere esteriori e si perfezionò nei susse¬guenti periodi della vita. Accanto a questi Santi, del resto, ve ne sono molti altri che non dimostrarono a quell´età una preparazione così intensa,
e non mancano quelli dei quali la fanciullezza non dice nulla, e l´adole¬scenza non è neppure una promessa di santità futura. Se poi quei Santi che ho nominati fossero morti all´età in cui morì il Besucco (lascio per ora il confronto con Savio Domenico) sarebbero stati canonizzabili o canonizzati? La prima età di tali Santi non fu che la promettentissima,
e certamente santa, preparazione per una vita che loro permise di com¬pletarsi e perfezionarsi ancora : vita che la Provvidenza sottrasse a questi che morirono fanciulli, perché forse già celestialmente contenta di loro. Dio non ha bisogno di veder matura la messe, perché già la prevede nella sementa e nella prima coltivazione.
Non altrimenti ragiona, con bella e giusta originalità, Filippo Cri¬spolti, al capo secondo del suo San Luigi Gonzaga.
Ecco perché Don Bosco ha accettato, senz´ombra di dubbio, tutto quello che il santo Arciprete gli ha riferito. Non l´ha trovato né invero¬simile nè esagerato, e le parole della Prefazione non solo vogliono dare una spiegazione umana del manifestarsi nel giovanetto d´una scienza superiore all´età; ma ancora dicono del « modo speciale con cui Iddio lo favori dei suoi lumi ». E questa spiegazione basta a togliere ogni dubbio.
E si noti. In questo genere di cose, per formata esperienza, Don Bosco quasi patisce di autocritica, e va a rilento nell´accogliere e pubblicare notizie che hanno del meraviglioso e dello straordinario, e nel presentare addirittura come santi i suoi figliuoli. Che se poi i fatti esistono e la santità si rivela in prove non dubbie, allora fa il suo dovere di storico,
e dice le cose come sono. E si potrebbe provarlo con buon numero di citazioni, prese dai suoi scritti di questo genere. Si vedano le riserve
e le proteste di storicità nel Comollo, nel Savio, nel Magone, e perfino nel Pietro, là dove la materia è veramente sua. Per ogni aspetto, adunque, e in ogni sua parte, sia essa originale
e sia derivata, la storicità della Vita di Besucco è sicura e completa.

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Né a questa nuoce, e l´abbiam veduto fin dal principio, l´intento edifi¬cativo. È una mira speciale, che nulla toglie al primario scopo a cui bisogna che miri ogni storico che si rispetti. Opera accuratissima e soli¬dissima, se altra mai, è la Vita di S. Luigi Gonzaga del Cepari : eppure fu scritta con l´intendimento di sollevare ed edificare il lettore eccitandolo all´imitazione (1).
É un punto sul quale non è mai superfluo l´insistere, visto che, appunto in grazia dell´intento esemplificativo ed edificante, si volle altra volta obiettare contro l´autenticità del contenuto di un´altra Vita, d´impor¬tanza capitale, scritta da Don Bosco.
Da codesta veridicità o storicità del contenuto deriva il valore del libro che abbiamo tra mano.
Lasciamo da parte il valore letterario e la popolarità maggiore o minore di esso : cose che possono valutarsi e spiegarsi secondo i diversi modi di vedere. L´interesse e l´importanza del libro, rispetto alla lette¬ratura di Don Bosco, e cioè nella somma dei riflessi del suo pensiero, sta in altro. E sarebbe far torto all´autore che lo ha scritto con una espressa intenzione, se non tenessimo conto del suo valore documentario, a dimostrare la dottrina, se vogliamo così chiamarla, che il Santo vi ha consegnata.
Non dunque come libro di lettura, ma come espressione e voluta affermazione, a volte come una formulazione d´idee, si presenta alla nostra considerazione. E in questo senso possiamo dire che il piccolo libro è un prezioso documento.
Senza di questo, le Vite scritte da Don Bosco nonostante la loro
storicità — non avrebbero valore più che qualsiasi altro dei tanti rac¬conti educativi od esemplari e di prediche biogra fate, che andrebbero con le tane altre della piccola letteratura moralizzatrice, carne il Jean Pierre (passato, come sappiamo, nel Pietro di Don Bosco), e come il Germano l´ebanista, e altre consimili letture.
Ma il nostro libro, come quelle altre Vite, è, ripeto, un documento costruttivo della pedagogia spirituale e morale del Santo Educatore; e non solo in quanto essa si concreta nella formazione di un´anima indi¬vidua, ma in quanto l´autore, più che in ogni altro libro congenere, scende alla teoria, ed espone le sue idee con l´espressa intenzione d´in¬segnarle. Dico. più che in altro libro; ma dovrei dire come in nessun altro libro di questo genere l´intento didascalico e l´ordinamento della
(1) CRISPOLTI, op. cit., pagg. 26-27.

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materia in uno schema programmatico esplicitamente enunciato, si dimostra cosi chiaramente da significare la volontà espressa di comuni¬care un sistema d´idee.
Ed è questa la peculiarità del libro, e quasi la sua personalità o fisionomia.
Al capo XVII Don Bosco propone al suo nuovo alunno il programma della vita che è via sicura ad esser veramente buono, molto buono,
e vivere felici e far bene all´anima propria : Allegria, studio, pietà. Su codesto trinomio è impostata tutta la restante condotta del libro,
seguendo, anche nell´addurre i dati biografici, l´ordine dei suoi termini,
e le suddivisioni o aspetti di quanto essi involgono.
Da questo punto in poi la Vita del Besucco diventa, quasi senz´av¬vedersene, pragmatografia didascalica, ora intrecciando ora immedesi
mando i dati storici colle linee concettuali: sempre (e vuol tenersi ben
presente) mantenendosi nella realtà storica senza personificazioni di parabola : giacché è il soggetto stesso, che, avuto quel programma solenne, vuol viverlo nei suoi termini ad ogni costo e in ogni senso; e il suo profilo
morale e spirituale si vien disegnando giusta quelle linee, e la storia reale e vissuta è buon argomento e opportunità per lo scrittore pedagogo a svolgere e dimostrare il suo concetto.
Questa, ripetiamolo con insistenza, è la più spiccata particolarità, l´individualità della Vita di Besucco, e ne costituisce il valore docu¬mentario ed esemplificativo. Anche perchè, non so se debba avvertirlo, Don Bosco vi intese consapevolmente ed espressamente.
Al tempo di questa pubblicazione, nel 1864, Don Bosco era, se mi è lecito dirlo, al termine della sua autoformazione pedagogica : voglio
dire che le sue idee erano ormai stabilite e formulate definitivamente nel suo pensiero. Quel ch´è detto qui rimane invariato, e certi periodi
e tratti di queste pagine passano perfino ad arrotondare il Giovane Provveduto nelle ultime edizioni curate ancora da lui.
Due fini si è proposto l´autore o, se si volesse, due dati scaturiscono da questa biografia. Il primo, ed ovvio, è la presentazione di un nuovo tipo di santità giovanile, di una forma spirituale distinta dalle altre che l´han preceduta nella piccola letteratura di Don Bosco : come ad insegnare ai giovanetti un modo, un anche così, di essere buoni e farsi santi.
Ed è il tipo di una santità (intendo sempre la parola in senso non canonistico) riflessa e cosciente fin dagli inizi, e sorretta, prima dalla mano amorevole di un pio prete che la comprende; poi, perfezionata nel sistema di un Educatore : esemplarità di vita nel regime della famiglia,

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ed esemplarità della piccola vita d´un regime educativo : virtù di fan¬ciullo e virtù di adolescente : ad ogni modo, sempre una santità nella disciplina : santità di passi misurati ed eguali, senza lotte e senza drammi, e che apparirebbe senza voli, se non si rivelasse, ad un certo momento, verso la fine, librata in alto.
Non già che pensi ad una tipologia della santità giovanile, riducendo la biografia ad una prosopopea didascalica, che, d´altra parte, non aveva bisogno di fare, dopo il Savio e il Magone, storici si, ma tipici per ogni tempo. Ma per lui l´interesse consisteva nell´essere il Besucco un altro tipo di vita imitabile e consigliabile da aggiungere ai già lodati e proposti : giacché la virtù e la grazia di Dio non hanno una forma sola, e sono in ciascuno un avveramento multiformis gratiae Dei (1). E Besucco ha pur esso la sua originalità.
Fosse anche stato una copia conforme dei precedenti, il farne cono¬scere uno di più non era superfluo. Ma una replica non era; mentre l´interesse era accresciuto dal fatto che, quanto a sé, il Besucco voleva appunto divenirlo. E non fu, perché la sua era santità autentica, che veniva dal di dentro, e non una superficiale imitazione di maniera. E rimane il fatto, anzi l´espressa intenzione, di far vedere, e di ottenere, che l´esempio dei suoi giovani santi era, e fosse, capace di produrne degli altri.
L´altro fine, o effetto che si voglia dire, é di mostrare il suo sistema, quasi il segreto della pedagogia spirituale, nell´opera di perfezionamento d´una virtù che ha già camminato per buoni sentieri verso la meta, e che abbisogna di trovare la via più diritta, e perciò più breve, e un passo più ordinato per raggiungerla.
E se al primo scopo si adempie con la presentazione oggettiva del racconto biografico : all´altro si risponde sia praticamente col descrivere la vita e riferire i pensieri del giovane alpigiano nei pochi mesi (2) passati sotto la guida di Don Bosco, e la parte avuta dal Santo nel dirigerlo : sia in forma esplicita, enunciando concetti e principi, che, se valgono generalmente per l´educazione morale e cristiana di ogni giovane, nel caso particolare poi sono il vero principio organico dal progresso e perfezionamento del Santo alunno dell´Oratorio.
E ad altro effetto riesce ancora il libro, che non fu, a mio credere, estraneo all´intenzione dell´Autore : quello di provare coi fatti che la santità, o, se si voglia, la virtù cosciente e non solo istintiva, è possibile ad ogni età anche la più tenera, anche se non giunga alla statura degli uomini fatti. Non è più il caso di discutere ora questa tesi, dottamente
(1) Ep. I .Petri, IV, 10.
(2) Dal 2 agosto 1863 al 9 gennaio ´64: cinque mesi e sette giorni.

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trattata dal Hertling, in un noto lavoro (1). Ma Don Bosco poteva vederne l´opportunità, mentre perdurava ancora ai tempi suoi in alcune parti del mondo ecclesiastico la renitenza ad ammettere alla Comunione i fanciulli prima dell´inizio dell´adolescenza, e in qualche luogo perfino a farli confessare, o a dar l´assoluzione ai fanciulli, come non respon¬sabili (2).
Messo cosi nella sua propria luce il piccolo libro, e rimettendo alle postille occasionali le notizie ed osservazioni sulla struttura ed economia di esso, mi sembra aperta la via all´esame del contenuto, seguendo appunto le intenzioni dello scrittore. E queste, come s´è detto, mirano a presen¬tarci il tipo o figura spirituale del Pastorello delle Alpi, e l´opera propria di Don Bosco nel formarlo, e le concezioni o idee dalle quali il lavoro educativo s´informa : tre elementi d´una sola sintesi, che ci dà nella storia dell´anima di un fanciullo santo il documento e la prova del con¬tributo apportato dal Santo Pedagogo alla dottrina e alla pratica del¬l´educazione cristiana. Ma di questa disamina del contenuto pensiamo sia meglio farne uno studio a parte.
DON ALBERTO CAVIGLIA
(1) L. VON HERTLING, SI, Utrum pueri canonizari possint? Dissert. in Periodica de re morali, canon, liturg., etc. Romae-Brugis,1935, mense Aprili, fase. II, pagg. 66-75.
(2) Cfr. Lettre de S. E. le Cardinal Antonelli adressée à plusieurs .úvéques franpais,
le 12 mars 1866, par l´ordre du St Pere : Qu´avant Ie temps de Ia première Com
munion on refuse aux jeunes enfants l´absolution sacramentelle, les laissant cinsi, on ne saurait dire en vertu de quels principes théologiques, jusqu´à l´àge de douze et m&me de quatorze ans, dans un état vraiment dangereux au point de v ue spi¬rituel N. Riferita in SCAVINI-DEL VECCHIO, Theol, Mor. Universa, edit. quarta (1874), vol. IV, App. LIX, pag. 565.
AVVERTENZA. — Le Note dell´Autore, che accompagnano il testo, sono lasciate a loro luogo, e segnate (a).



Giovani carissimi,
Mentre aveva tra mano a scrivere la vita di un vostro compagno, la morte inaspettata del giovane Besucco Francesco, mi fece sospendere quel lavoro per occuparmi di lui medesimo. Egli è per appagare le vive istanze de´ suoi compatrioti e de´ suoi amici e per secondare le vostre dimande, che ho divisato di mettermi a raccogliere le più interessanti notizie di questo compianto vostro compagno, e dí presentarvele ordinate in un libretto, persuaso di farvi cosa utile e gradita.
Taluno di voi potrà chiedere a quali fonti io abbia attinte le notizie, per accertarvi che le cose ivi esposte siano realmente avvenute.
Vi soddisferò con poche parole. Pel tempo che il giovane Besucco visse in patria, mi sono tenuto alla relazione trasmessami dal suo Parroco, dal suo maestro di scuola e da´ suoi parenti ed amici. Si può dire, che io non ho fatto altro che ordinare e trascrivere le memorie a questo uopo inviatemi. Pel tempo che visse tra noi ho procurato di raccogliere accu¬ratamente le cose avvenute in presenza di mille testimoni oculari : cose tutte scritte e firmate da testimonii degni di fede.
È vero che ci sono dei fatti, i quali recano stupore a chi legge, ma questa è appunto la ragione per cui li scrivo con premura particolare, poiché, se fossero soltanto cose di poca importanza, non meriterebbero di essere nemmeno pubblicate. Quando poi osserverete questo giovanetto a manifestare nei suoi discorsi un grado di scienza ordinariamente superiore a questa età, dovete notare che la grande diligenza del Besucco per imparare, la felice memoria nel ritenere le cose udite e lette e il modo speciale con cui Iddio lo favori de´ suoi lumi contribuirono potentemente ad arricchirlo di cognizioni certamente superiori alla sua età.
Una cosa ancora vi prego di notare riguardo a me stesso. Forse troppa compiacenza nello esporre le relazioni che passarono tra me e lui. Questo à vero e chiedo benevolo compatimento : vogliate qui ravvisare in me un padre che parla di un figlio teneramente amato; "un padre, che dà
CAVIGLIA BOLSCLo Francesco

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campo ai paterni affetti, mentre parla a´ suoi amati figli. Egli loro apre tutto il suo cuore per appagarli, ed anche istruirli nella pratica della virtù, di cui il Besucco si rese modello.
Leggete adunque, o giovani carissimi, e se nel leggere vi sentirete mossi a fuggire qualche vizio, o a praticare qualche virtù, rendetene gloria a Dio, solo Datore di veri beni.
Il Signore ci benedica tutti e ci conservi nella sua santa grazia qui in terra, affinché possiamo giungere un giorno a benedirlo eternamente in Cielo.
CAPO I
Patria - Genitori - Prima educazione del giovane Besucco
Se mai ti accadesse, o lettore, di camminare da Cuneo alla volta delle alte giogaie delle Alpi, dopo lungo, ripido e faticoso cammino tu giungeresti sull´alta vetta delle medesime, ove in una specie di altipiano ti si presenta alla vista una delle più amene e pittoresche vedute (1). A notte tu vedi la cresta più elevata delle Alpi, che è il colle della Maddalena, così detto per tradizione da que´ popolani, che credono essere questa Santa venuta di Marsiglia ad abitare sopra queste quasi inabitabili montagne. La sommità di questo colle forma un largo piano ove giace un lago assai esteso da cui nasce il fiume Stura. A sera il tuo sguardo si perde in una lunga, larga e profonda vallata detta Valle delle basse Alpi, che già appartiene al territorio francese. A mat¬tino il tuo occhio è deliziato da una moltitudine di colli uno più basso dell´altro, che quasi gradinata semicircolare vanno abbassandosi fino a Cuneo ed a Saluzzo. A giorno poi e precisamente ottanta metri dai confini di Francia, ma sempre sul medesimo piano, giace l´alpestre villaggio di Argentera, patria del pastorello Besucco Francesco, di cui intraprendo a scrivere la vita.
Egli nacque in umile edificio di questo paese da poveri, ma onesti e religiosi genitori il primo marzo 1850. Suo padre chiamavasi Matteo e sua madre Rosa. Attesa la loro povera condizione si indirizzarono al Parroco, che ha titolo di Arciprete, affinchè volesse battezzarlo e guardarlo come figlioccio. In quel tempo governava già con zelo la parrocchia dell´Argentera l´attuale Arciprete di nome D. Pepino Fran¬cesco che ben volentieri si prestò al pietoso uffizio (2). Madrina fu la madre dello stesso Arciprete di nome Anna, donna di vita esemplare, e che non mai si rifiutava ad opere di carità. Per ordine espresso dei geni¬tori gli fu imposto nel Battesimo il nome del padrino, cioè Francesco, al quale volle l´Arciprete aggiunger quello del Santo occorso nel giorno

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della sua nascita, s. Albino. Appena il nostro giovinetto giunse all´età in cui potè essere ammesso alla santa comunione, non lasciava mai in quel giorno, 10 di marzo, di accostarsi ai santi Sacramenti, e per quanto gli era possibile passava tutta la giornata in opere di cristiana pietà.
Conoscendo sua madre quanto importi il cominciar per tempo a dare buona educazione alla figliuolanza non risparmiava sollecitudine per insinuare sodi principii di pietà nel tenero cuore del caro figlioletto. I nomi di Gesù e di Maria furono le prime parole, che ella studiò di fargli imparare. Non di rado fissandolo in volto e portando il pen¬siero sulla vita futura di Francesco, tutta tremante pei gravi pericoli, cui sogliono andare esposti i giovanetti, commossa esclamava: Caro Franceschino, io ti amo assai, ma assai più del corpo amo l´anima tua. Vorrei prima vederti morto, che vederti offendere Dio! Oh! potessi ío essere consolata da te col vederti sempre in grazia di Dio! (3). Queste e simili espressioni erano il condimento quotidiano che ani¬mava lo spirito di questo fanciullino, il quale contro ogni aspettazione cresceva robusto in età e nello stesso tempo in grazia appresso di tutti. Allevato con questi sentimenti non è a dire di quanta consolazione Francesco riuscisse a tutta la famiglia. Tanto i genitori di Francesco quanto i suoi fratelli godono di poter attestare come il loro fratellino si compiacesse, appena cominciò parlare, di nominare sovente i Ss. nomi di Gesù e di Maria, che furono i primi nomi ben pronun¬ciati da quella innocente lingua. Fin dalla più tenera età manifestò gran gusto nell´imparare orazioni e canzoncine spirituali, che compia¬cevasi canterellare in compagnia della sua famiglia. Era poi una delizia il vedere con quanta gioia tutte le feste prima del vespro si unisse cogli altri fedeli a cantar le lodi a Maria e a Gesù. Pareva allora nella pienezza delle sue consolazioni. L´amore alla preghiera sembrò nato con lui. Dall´età di soli tre anni, secondo le attestazioni dei genitori, dei fratelli e delle sorelle, non diede mai occasione di esserne invitato, ed egli stesso ne domandava l´insegnamento. La mattina e la sera all´ora consueta s´inginocchiava e recitava da sè quelle brevi preghiere, che già aveva imparato, nè alzavasi finché non ne avesse imparato alcun che di più.
CAPO II
Morte della madrina - Affetto alle cose di chiesa - Amore alla preghiera
Il giovanetto Besucco portava grande affetto alla sua madrina, la quale sia pei piccoli regali che gli faceva, sia pei segni speciali di benevolenza che gli usava, teneva come una seconda madre. Correva

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egli solamente il quarto anno di sua età, quando Anna Pepino cadde gravemente inferma. Il suo affezionato figlioccio dimandava spesso di poterla visitare, pregava per lei, e le faceva mille carezze. Sembra che egli di lontano abbia avuto segni straordinari della morte di lei, che spirava l´anima sua il 9 maggio 1853.
Non ostante così tenera età da quel giorno cominciò a recitare mattina e sera un Pater per la defunta madrina, uso che ritenne sempre. Egli lo assicurò più volte dicendo: Mi ricordo e prego tutti i giorni per la mia madrina, sebbene io abbia molta speranza che ella goda già la gloria del Paradiso. Appunto in riconoscenza della pietà, che Francesco dimostrava alla cara sua madre, l´Arciprete lo amò con predilezione e lo tenne d´occhio per quanto gli fu possibile.
Qualora Francesco avesse veduto quelli di sua famiglia a far pre¬ghiere, tosto mettevasi in atteggiamento divoto, alzando gli occhi e le innocenti sue manine al Cielo quasi presago di quei grandi favori, che in seno versato gli avrebbe il misericordioso Iddio.
La mattina, contro la consuetudine dei ragazzi, non voleva assag¬giare cosa alcuna se prima non avesse recitate le sue orazioni. Venendo fin dall´età di tre anni condotto alla chiesa, non mai successe il caso, in cui disturbasse i vicini, che anzi osservandone perfino i movimenti divoti procurava d´imitarli. Cosicché accadeva sovente, che coloro i quali l´osservavano con queste sorprendenti disposizioni dicessero: Sembra incredibile tanta compostezza in un fanciullo di quella età.
Egli prestava;i volentieri a tutti gli uffizi di chiesa di qualunque genere, a segno che pareva nato fatto per compiacer tutti, anche con grande suo incomodo. Infatti molte volte d´inverno accadde che per la quantità della neve caduta non potesse intervenir persona di sorta all´unica Messa del Parroco per servirla. Soltanto l´intrepido Fran¬cesco affrontando coraggioso ogni pericolo facevasi strada colle mani e coi piedi in mezzo alla neve, e giungeva solo alla chiesa. Al primo vederlo l´avresti creduto un animale, che camminasse o meglio si avvoltolasse in mezzo alla neve, la cui altezza superava di molto quella di Francesco. Matteo Valorso, testimonio oculare, depone, che circa la metà del mese di gennaio 1863, chiamato dal parroco a servirgli Messa, al momento di accendere le candele all´altare, con sua sorpresa vide entrare uno in chiesa di cui a stento ravvisava le sembianze umane. Ma quale non fu la sua meraviglia, quando scoprì in quel co¬raggioso il nostro giovinetto, che contento della felice riuscita dei suoi sforzi esclamò: finalmente ci sono. Servì difatti la Messa, dopo la quale sorridendo disse al Parroco: « Questa ne vale due, ed io l´ho ascoltata con doppia attenzione, e ne sono tanto contento. Seguiterò a venirvi a qualunque costo ». E chi non avrebbe amato sì grazioso giovinetto ?

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Con queste disposizioni cresceva il fanciullino in età ed in grazia presso Dio e gli uomini. All´età d´anni cinque sapeva già perfetta¬mente le orazioni della mattina e della sera, che recitava tutti i giorni insieme colla famiglia, il quale uso ritenne finchè dimorò nella casa paterna. Mentre mostravasi ansioso di pregare, mostravasi eziandio assai premuroso nell´imparare preghiere o giaculatorie. Bastava che Francesco udisse alcuno a recitare una preghiera, ancora a lui ignota, che non gli si toglieva dai panni se non dopo che l´aveva imparata; quindi tutto allegro, come avesse scoperto un tesoro, la insegnava a quei di sua casa. Ed allora giubilava molto osservando la nuova sua preghiera entrata in consuetudine nella famiglia, o recitata da´ suoi compagni. Le due seguenti erano per così dire il suo Mattutino e la sua Compieta.
Appena svegliato, fatto il segno della s. Croce, balzava dal letto recitando forte, od anche cantando la seguente orazione: « Anima mia, alzati su: guarda al Ciel, ama Gesù: ama chi ti ama, lascia il mondo che t´inganna: pensa che hai da morir, tuo corpo ha da marcir: e perchè sii esaudito, di´ a Maria tre volte l´Ave Maria» (4).
Siccome nei primi anni non poteva comprendere il significato di questa orazione, così importunava ora iI padre, ora la madre, o qualche altro, che gliela spiegassero. Quando poi era giunto a comprenderla diceva: Adesso la recito con maggior divozione. CoI tempo questa preghiera divenne la regola di sua condotta.
La sera poi incamminandosi al riposo, come la mattina recitava con espressione assai viva la seguente: « A coricarmi io mi vo, non so se mi leverò: quattro cose dirnanderò: Confessione, Comunione, Olio Santo, Benedizione Papale. Nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo ».
Compiacevasi in modo particolare di ragionare delle cose di reli¬gione, degli esempi di virtù da altri praticati, che egli subito cercava di imitare. Se talvolta era alquanto malinconico, e volevasi rallegrare, ba¬stava parlargli di cose spirituali, o del profitto, che poteva ricavare nel frequentare la scuola.
CAPO III
Sua obbedienza - Un buon avviso - Lavora la campagna
La sua obbedienza agli ordini dei genitori, dice il Parroco, era così pronta che sovente ne preveniva i desiderii in modo, che non ebbero mai ripulsa dal medesimo, e nemmeno ravvisarono la più piccola indolenza nell´eseguire i loro comandi. Le sue sorelle ancora

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affermano essere non rare volte accaduto, che per inavvertenza, o perchè occupate in altri lavori, avendo esse alquanto differita l´esecu¬zione degli ordini dei genitori, ne furono sempre rimproverate dal loro fratellino. Atteggiandosi in tali circostanze in atto supplichevole,
« e che ? esclamava — è già una mezz´ora che nostra madre vi
comandò quella cosa, e voi aspettate ad eseguirla ? Non è bene dar motivo di disgusto a chi tanto ci ama ».
Era poi tutto dolcezza ed amore verso i fratelli e le sorelle, non mai offendendosi quantunque fosse dai medesimi rimproverato. Con loro compiacevasi d´ordinario trattenersi a divertimento, perchè egli giu¬dicava non potere dai medesimi imparare altro che bene. Confidava loro ogni pensiero, e perfino li pregava ad invigilare sopra de´ suoi difetti. « Qui mi rincresce — dice il Parroco — di non poter descrivere la buona armonia, che regnava in questa famiglia composta in allora di otto persone le quali potevano dirsi esemplari in tutta la loro con¬dotta, sia per la ritiratezza in casa, sia per la loro frequenza e divo-zione alle sacre funzioni ».
Cinque anni fa (5) essendo partito pel servizio militare il suo mag¬gior fratello Giovanni, il nostro Francesco non cessava di dargli santi avvertimenti per sua nonna, affinché si mantenesse buono come era in casa. « Procura — conchiudeva di essere vero divoto di Maria SS.
Essa certamente ti aiuterà. Io dal mio canto non mancherò di pregare per te. Fra poco ti scriveremo delle lettere ». Tutto ciò diceva in età appena di anni nove. Quindi rivolto ai genitori, che in quel figlio perdevano il braccio più forte pei lavori di campagna, « voi piangete — loro diceva — ma Iddio ci consolerà in altro modo col conservarci la sanità, ed aiutarci nei nostri lavori. Io poi farò tutto il possibile per aiutarvi ». Che gran lavoratore di campagna! Eppure fu così; con grande stupore di tutti attendeva in modo straordinario ai lavori che gli erano comandati, volendo anzi intraprenderne molti altri, che i parenti credevano incompatibili colle sue forze. In mezzo ai lavori di campagna manteneva sempre inalterata la sua giovialità, non ostante la stanchezza, inseparabile dal suo ardore nei medesimi. Se qualche volta suo padre per celia dicevagli: Francesco sembri assai stanco dal lavoro, egli ridendo rispondeva: «Ah! mi sembra che questi lavori non siano fatti per me. Mio padrino mi dice sempre che studii; chi sa che egli non mi aiuti ». Nè passava mai giorno senza parlare in famiglia del suo desiderio di frequentare le scuole. Andava a scuola nell´in¬vernale stagione, ma non dispensavasi mai dai servigi domestici, come pur troppo si usa dai ragazzi, per attendere ai divertimenti nelle ore libere dallo studio. Il tenore della sua vita pel tempo in cui frequentò la scuola in Argentera fu il seguente.

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CAPO IV
Episodi e condotta di scuola
Sebbene i genitori di Francesco avessero molto bisogno del suo servizio, tuttavia persuasi che la scientifica istruzione è un mezzo
efficacissimo per imparare la religione, lo avviarono per tempo a scuola (6). Ecco pertanto qual fu la sua condotta scolastica. Alzavasi alla mattina di buon´ora recitando l´indicata orazione: Anima mia, alzati, su, ecc., fermandosi ben sovente a meditarne il significato. Appena levato o solo o colla famiglia recitava le lunghe sue orazioni, quindi attendeva allo studio fino al tempo della scuola, dopo la quale con sollecitudine ritiravasi nella casa paterna per attendere ad alcuni lavori di famiglia. A tanta diligenza corrispondeva il profitto che otte¬neva in classe, e sebbene non dimostrasse grande ingegno, tuttavia supplendovi colla diligenza nei doveri, e coll´esatta occupazione del tempo nel fare i temi e nello studiare le lezioni vi fece notabilissimo progresso.
Il maestro aveva in generale proibito a´ suoi allievi di andare giro¬vagando nelle stalle durante la invernale stagione. In ciò Besucco fu oggetto di ammirazione a tutti. Non solo osservò scrupolosamente la ritiratezza, ma col suo esempio trasse molti compagni ad imitarlo con grande vantaggio della scienza e della moralità, e con viva soddisfa¬zione di Valorso Antonio, maestro, dei genitori e degli allievi.
Raramente dopo il pranzo usciva di casa a divertimento, e se n´era quasi intieramente dimenticato alcuni mesi prima che venisse all´Oratorio.
Esilarato alcuni istanti il suo giovanile temperamento ritornava allo studio finché suonasse la scuola, nella quale per testimonianza del citato suo maestro dimostrò mai sempre tutta la possibile diligenza ed attenzione a quanto insegnavasi, e rispetto inalterabile. Esso pro¬curava di aiutare il maestro nell´insegnare a leggere ai fanciulli prin¬cipianti, e lo faceva con disinvoltura e con edificazione. In tutto il tempo che frequentò la scuola comunale fu sempre riguardato dai compagni quale esempio di morigeratezza e diligenza. Essi avevano concepito tanta stima pel nostro Francesco che guardavansi fino di lasciar sfuggir parole meno dicevoli alla sua presenza. Erano certi che le avrebbe disapprovate e fattene loro severe dimostranze, come accadde non poche volte. Che se alcuno più giovane di lui lo richiedeva di istruzione fuori della scuola, era sua passione il prestarsi di buon cuore, animandolo ancora a richiederlo ben sovente. Ma nello stesso

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tempo non mancava mai di pascolarne lo spirito con avvisi salutari ed animarlo alla divozione.
Dalla relazione fatta dallo zelante suo maestro raccolgo ancora alcuni fatti che qui letteralmente trascrivo. « Ogni qual volta fossero sorte risse fra i suoi condiscep oli si lanciava tosto in mezzo di loro per acquetarli. "Amici come siamo — loro diceva — non conviene percuoterci, tanto meno per queste inezie che non hanno alcun nome: vogliamoci bene, sappiamo compatirci gli uni gli altri come comanda Iddio". Queste ed altre simili parole bastavano d´ordinario a mettere la pace tra i compagni litiganti. Se osservava le sue parole non essere capaci di pacificarli, abbandonavali all´istante.
Quando udiva darsi il segno della scuola o delle sacre funzioni egli invitava i suoi compagni a desistere dai divertimenti. Giuocando un giorno alle bocce udì il suono della campana che li chiamava al catechismo. Francesco disse tosto: "Compagni, andiamo al catechismo, finiremo la partita dopo la funzione parrocchiale". Ciò detto disparve dai loro occhi. Terminata la funzione si restituì ai compagni, ai quali dolcemente rimproverò la perdita di questa pratica di pietà e d´istru¬zione; intanto per renderseli vie più amici comprò loro delle ciliegie. A questi segni di generosità e di cortesia quei compagni promisero che in avvenire non avrebbero mai più trascurate le cose di religione per attendere ai divertimenti.
Se a caso avesse udito taluno a pronunziar parole indecenti mostra-vasi tosto in volto mortificato; quindi lo abbandonava o facevagli severo rimprovero. Spesse volte fu udito dire: "Cari compagni, non dite tali parole! con queste voi offendete Dio e date scandalo ad altri". Attestano anche i medesimi compagni che Francesco li invitava ben sovente a far qualche visita al SS. Sacramento ed a Maria SS. e che si prestava volenteroso ogni qual volta poteva compiacere i medesimi in ciò che riguardava la scuola.
Altre volte sentendo suonare 1´ Ave Maria : "Orsù, amici, — di¬ceva — recitiamo l´Angelus e poi seguiteremo il nostro divertimento". Il medesimo invito ripeteva ai compagni nei giorni di vacanza per farli assistere alla santa Messa.
Nella mia qualità di maestro comunale d´Argentera debbo, per. maggior gloria di Dio, dichiarare che il pio giovanetto Besucco, nei cinque anni in cui frequentò la mia scuola, non fu mai secondo ad alcuno nella diligenza nel recarsi alla scuola. Se mai avesse osservato compagni negligenti, sapeva così ben avvertirveli che quasi da volere a non volere divenivano più diligenti. Nella scuola poi il suo contegno non poteva essere migliore, sia nell´osservare il silenzio, sia nella

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costante attenzione a quanto insegnavasi. Prestavasi inoltre con gran piacere a far leggere i più piccoli e ciò faceva con si bel garbo e con tanta amorevolezza che era da loro assaissimo amato e rispettato ».
(Fin qui il maestro).
CAPO V
Vita di famiglia - Pensiero notturno
Ritornato appena dalla scuola correva ad abbracciare i suoi geni¬tori, esibendosi pronto ai loro cenni fino all´ora di prender cibo. Nella frugale mensa non trovava mai alcun motivo di lamento o per la qualità
o per la quantità dei cibi. In tutte le sue azioni non dimostrava volontà alcuna e scorgendo altri in famiglia non soddisfatti nei proprii desideri, loro diceva: « Quando sarete padroni farete poi a modo vostro, ma per ora dobbiamo uniformarci alla volontà dei nostri cari genitori. Siamo poveri e non possiamo vivere e comparire ricchi. A me non importa niente vedere i miei compagni ben vestiti, mentre io non posso avere bella vestimenta. La più bella veste che possiam deside¬rare è la grazia di Dio ». Egli aveva pe´ suoi genitori rispetto sommo; li amava col più tenero amar figliale, loro ubbidiva ciecamente, nè cessava mai dal magnificare quanto essi facevano per lui. Pel che era da loro tanto amato, che sembrava troppo molesto il tempo in cui non l´avevano in loro compagnia. Se qualche volta i fratelli e le sorelle
o per divertimento o per altro motivo gli dicevano: Tu, Francesco, hai ben ragione di essere contento, perché sei il Beniamino di tutti. Si, è vero — rispondeva — ma io procurerò sempre di essere buono e meritarmi il loro e il vostro amore. La qual cosa era tanto vera, che ricevendo qualche piccolo regaluzzo, o guadagnando qualche moneta per servizi ad altri prestati, giunto a casa, o rimetteva il guadagno nelle mani dei genitori, oppure ne faceva parte ai fratelli od alle sorelle dicendo: Vedete, quanto vi amo! Vegliando la sera nella propria stalla, da cui usciva rarissimamente, per non associarsi con altri com-pagni, impiegava il tempo divertendosi coi famigliari, studiava le sue lezioni, oppure compieva qualche altro suo dovere scolastico. Di poi ad un´ora determinata invitava tutti a recitare la terza parte del Rosario colle solite orazioni, prolungandole pel vivo desiderio di trattenersi con Dio recitando molti Pater noster. Nè mai dimenticava di racco¬mandare speciale preghiera per ottenere da Dio sanità a suo padre ed a´ suoi fratelli che nell´inverno dimoravano fuori del paese a fine di guadagnare col lavoro delle loro mani di che sostentare la famiglia.

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Chi sa, diceva sovente piangendo, quanto freddo soffrirà nostro padre per noi! oh quanto sarà mai stanco, e noi stima qui tranquilli man¬giando il frutto de´ suoi sudori! Ah! preghiamo almeno per lui.
Di suo padre assente discorreva ogni giorno, e, per dir così, lo accompagnava ovunque col pensiero ne´ suoi viaggi.
Soleva eziandio nelle veglie applicarsi alla lettura di libri divoti, che procurava farsi provvedere dal padrino e dal maestro, che ben volentieri gliene somministravano. Più volte nel giorno o lungo la sera, vedendo la stalla piena di gente, loro diceva: Oh! ascoltate il bello esempio che ho trovato in questo libro; e lo leggeva ad alta e sonora voce, a segno che pareva un predicatore. Che se gli cadeva tra le mani la vita di qualche pio giovanetto, oh! allora questo era il suo caro libro, che diventava il soggetto de´ suoi discorsi e della sua imitazione. « Fosse vero che potessi anch´io diventar tanto buono, quanto costui! sì che sarei fortunato, non è vero, mia cara madre ? ». « Due anni fa — dice il Parroco — lesse la vita di s. Luigi Gonzaga, e da quel tempo ne divenne imitatore, specialmente nell´occultare le buone azioni che faceva. Ma alcuni mesi dopo, essendogli stata rega¬lata la vita di Savio Domenica e di Michele Magone (7), specialmente leggendo la vita di quest´ultimo diceva con gioia: "Ho trovato il vero ritratto delle mie divagazioni; ma almeno Iddio mi concedesse di potermi emendare de´ miei difetti, ed imitare Ia buona condotta ed il santo fine del mio caro Magone", così lo chiamava. E qui gli nacque — continua il Parroco — curiosità straordinaria di farsi spiegare il modo, con cui doveva imitare quel giovanetto, e mi richiese se non sarebbe stato possibile di farlo entrare nello stesso stabilimento, in cui parevagli, che avrebbe tanto profittato nella virtù. È questo il frutto principale che il nostro Francesco ricavò dalla lettura dei libri buoni. Dio volesse che tutti i miei fanciulli parrocchiani attendessero a queste buone letture. Sarebbero al certo di grande consolazione ai loro genitori ».
Siccome la mattina Francesco invitava l´anima sua innocente a sollevarsi al cielo, così la sera la intratteneva nelle tenebre del sepolcro con qualche pio e devoto pensiero. Interrogato più volte che facesse posto a letto, rispondeva: Mi figuro di mettermi nel sepolcro, ed allora il primo pensiero che mi viene in mente è questo: Che sarà di te, se cadrai nel sepolcro dell´inferno ? Spaventato da questo riflesso, mi metto a pregare ben di cuore Gesù, Maria, s. Giuseppe ed il mio Angelo Custode, e non finisco più di pregare, finché non sia addor¬mentato. Oh! quanti bei proponimenti faccio mai la sera posto a letto per timore di dannarmi. Se mi sveglio la notte seguito a pregare, e mi rincresce molto se il sonno nuovamente mi sorprende.

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CAPO VI
Besucco e il suo Parroco - Detti - Pratica della confessione
Sebbene il nostro Besucco sia stato fin da fanciullo prediletto dal Signore, tuttavia dobbiam dire che la vigilanza dei genitori, la sua buona indole, la cura amorevole che di lui si prese il proprio Parroco giovarono potentemente al felice risultato della morale sua educazione. Fanciullino ancora era già da´ suoi genitori condotto alla chiesa; gli prendevano le mani, lo aiutavano a far bene il segno della Croce, gli additavano il modo ed il luogo, in cui doveva inginocchiarsi, e l´assi-stevano colla massima amorevolezza. Appena ne fu capace era dai medesimi condotto a confessarsi. Ed egli mosso dall´esempio, dai con¬sigli, dagli incoraggiamenti dei parenti si affezionò per tempo a questo Sacramento in modo che ben lungi dal provare l´ordinaria appren¬sione, o specie di ripugnanza, che i ragazzi sogliono manifestare nel presentarsi a persona autorevole, egli ne provava invece tutto il piacere. Ma la fortuna di questo giovanetto è in gran parte dovuta al proprio Parroco D. Francesco Pepino (8). Questo esemplare sacerdote occu-pava con zelo le sue forze, e le sue sostanze a bene de´ suoi parroc¬chiani. Persuaso che non si possono avere buoni parrocchiani, se la gioventù non è bene educata, niente risparmiava, che potesse tornare a favore dei fanciulli. Faceva loro il catechismo in qualsiasi stagione o tempo dell´anno; li ammaestrava intorno al modo ed alle cerimonie stabilite per servire la s. Messa; faceva anche la scuola, e non di rado andava di loro in cerca alle proprie case, sui lavori, e negli stessi luoghi dei pascoli. Quando gli avveniva di ravvisare qualche fanciullo che palesasse attitudine allo studio, alla pietà, ne formava specialissimo oggetto delle sue sollecitudini. Per la qual cosa appena si accorse delle benedizioni che il Signore spandeva copiose sopra del nostro caro Besucco, nol perde più di vista, e volle egli stesso dargli le prime cognizioni del catechismo, e a suo tempo prepararlo alla prima con¬fessione. Con maniere amorevoli e proprie di un tenero padre si gua¬dagnò il cuore di lui per modo, che il giovanetto provava le sue delizie ogni qualvolta poteva conversare coll´amato suo padrino, o udire da lui qualche parola di conforto o di pietà.
Lo scelse per suo stabile confessore, e continuò a confessarsi da lui in tutto il tempo che visse in Argentera. Il Parroco lo consigliò a cangiar qualche volta confessore, e gliene porse ben anche occasione ma egli lo pregava di volerlo sempre confessare egli stesso. Con lei, diceva, caro Padrino, ho tutta la confidenza. Ella conosce il mio cuore.

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Io le manifesto sempre ogni segreto. Io l´amo molto, perchè Ella molto ama l´anima mia.
Io credo, che la più grande fortuna per un giovanetto sia la scelta di un confessore stabile, cui apra il suo cuore, confessore che si prenda cura dell´anima di lui, e che coll´amorev olezza, e colla carità lo inco¬raggi alla frequenza di questo Sacramento.
Non solamente il nostro Francesco dipendeva dal suo Parroco nelle cose di confessione, ma eziandio in tutto ciò che avrebbe potuto con¬tribuire al suo bene spirituale e temporale. Un semplice consiglio od anche un solo desiderio esternato dal suo Padrino era per lui un comando, che con gioia premurosamente eseguiva. È poi sommamente amena ed edificante la maniera, che egli teneva nella frequenza di questo Sacramento. Alcuni giorni prima parlava della sua prossima confessione, protestando coi fratelli e colle sorelle di volerne quella volta ricavare profitto. Ad essi tanto più nei primi anni raccomandavasi, affinchè gli insegnassero a confessarsi bene, interrogavali, come essi facevano a conoscere le mancanze commesse, e a ricordarsi dei peccati in sì lungo spazio di tempo, che era circa un mese. Faceva poi grandi meraviglie che dopo la confessione si potesse di nuovo offendere Iddio, al quale si è promessa fedeltà. Quanto mai è buono, diceva, Dio a perdonarci i nostri peccati non ostante la nostra infedeltà ad osservare i fatti proponimenti; ma quanto è più grande l´ingratitudine, che con¬tinuamente usiamo ai tanti benefizi, che ci fa! Ah! dovremmo tremare al solo riflettere alle nostre infedeltà. Io per me sono disposto a fare e a soffrire ogni cosa prima di offenderlo nuovamente. La sera prece¬dente alla confessione interrogava suo padre, se la mattina vegnente non aveva qualche lavoro pressante a fare. Richiesta la ragione gli diceva, che aveva piacere di andarsi a confessare. Al che di buon animo accondiscendeva sempre il genitore e Francesco passava quasi tutta quella notte nel pregare o nell´esaminarsi per meglio disporsi, quantunque la sua vita fosse una continua preparazione. La mattina poi senza più parlare con alcuno recavasi in chiesa, ove col massimo raccoglimento preparavasi alla grande azione. Lasciava per altro sem¬pre che si confessassero quelle persone che dubitava aver poco tempo per fermarsi in chiesa. Questa sua condiscendenza verso gli altri, spe¬cialmente nel rigore dell´inverno, mi obbligò non poche volte, dice il Parroco, a chiamarlo io stesso al confessionale, vedendolo già tutto intirizzito dal freddo. Fu talvolta richiesto del suo lungo attendere prima di confessarsi. Io posso aspettare, rispondeva, perchè i miei genitori non mi rimproverano del tempo passato in chiesa; ma forse gli altri potrebbero annoiarsi, o ricevere qualche rimbrotto in casa, tanto più le donne che hanno ragazzi. I fratelli e le sorelle alle volte

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per facezia gli dicevano: Tu vai sovente a confessarti per ischivar la fatica. — Quando voi altri andrete a confessarvi, rispondeva egli, io vi supplirò di buon grado in tutto ciò che posso. Oh! si andate pur sovente, che io ne sono ben contento! E qui qual maestro di spirito non rare volte loro diceva: Quella pigrizia che alle volte si sente, quella incer¬tezza per la confessione, quel differirla da un giorno all´altro sono altrettante tentazioni del demonio. Sapendo esso quanto potente ed efficace rimedio sia la frequente confessione per correggerci dei nostri difetti, fa ogni sforzo per tenercene lontani. Oh! quando trattasi di fare il bene abbimi sempre paura del mondo; alla fine dei conti non è il mondo che ci dovrà giudicare dopo la morte: è Dio che ci dovrà giudicare, a lui solo e non ad altri dovremo dar conto delle nostre opere, e non al mondo: da lui solo dovremo aspettarci eterna ricompensa. Quando sono confessato, diceva altre volte ai famigliari, provo tanta contentezza che desidererei fino di tosto morire per liberarmi dal pericolo di offender di nuovo Iddio. II giorno in cui si accostava ai Ss. Sacramenti privavasi quasi sempre d´ogni divertimento. Inter¬rogato dal Parroco perchè ciò facesse, rispondeva: Quest´oggi non debbo contentare il mio corpo, perchè il mio Gesù fece goder tante e sì dolci consolazioni all´anima mia. Quello che mi rincresce si è di non esser capace di ringraziare il mio Gesù Sacramentato dei benefizi continui che mi fa. Passava intanto quella giornata in un santo raccoglimento e per quanto gli era possibile in chiesa.
Da sicure informazioni mi risulta che il buon Francesco per meglio disporsi a ricevere degnamente i Ss. Sacramenti soleva dire: Questa confessione può essere l´ultima di mia vita, ed io voglio farla come se realmente fosse l´ultima.
CAPO VII
La santa Messa - Suo fervore - Conduce il gregge sulle montagne
Non è fuor di luogo il notare come i genitori di Francesco gli lasciassero piena libertà di andar tutti i giorni a udire la s. Messa; anzi parendo talvolta dubbioso, se dovesse andare o no ad ascoltarla per timore di trascurare qualche suo dovere, lo mandavano eglino stessi. Della qual cosa molto contento soleva dire a´ suoi genitori: Oh! siate certi, che il tempo impiegato nell´udir la s. Messa si com¬penserà abbondantemente nella giornata, perchè Iddio è buon rimu¬neratore, ed io lavorerò più volentieri. Che se avvenivagli qualche

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mattina di non potervi assistere, soleva recitare in compenso questa popolare preghiera, che è molto divulgata in quel paese: l´avea impa¬rata in età di quattro anni. « La messa suona, s. Marco l´intuona, gli Angeli la cantano, e Gesù Bambino porge l´acqua e il vino. Fatemi, o Gesù, un po´ parte della Messa del corrente mattino ».
Il padre di Francesco soleva per facezia interrogarlo come avrebbe fatto a passare quella giornata senza messa, ed egli colla massima semplicità rispondevagli: Iddio mi aiuterà lo stesso, perchè ho detta la mia orazione, e poi pregherò un poco di più questa sera.
Credeva assai facilmente ai detti altrui, così che per divertimento i suoi compagni talvolta gliene facevano credere delle grosse. Ma quando si accorgeva di essere burlato si mostrava tutto contento.
Non mai si vide dar segni di vanagloria per la stima, in cui era tenuto dai genitori, conoscenti e dal Parroco. Buon per me, diceva alcuna
volta, che non mi conoscono, atrimenti non mi vorrebbero tanto bene.
La sua attività nello studio, che lo rendeva superiore a´ suoi compagni, ben lungi dal farglieli disprezzare, faceva loro usare ogni possibile
indulgenza nella recita delle lezioni. Se veniva alcuna fiata rimpro
verato di qualche ragazzata sia che fosse o non fosse colpevole, tutto contrito rispondeva: Non la farò più, e mi farò più buono. Voi mi
rimproverate, ma so che mi compatite. E qui correva ad abbracciare
ed accarezzare i suoi genitori il più sovente colle lagrime agli occhi. Essi non ebbero mai occasione di castigare questo loro figlio. Nella
stagione estiva attendeva in compagnia della famiglia ai lavori di cam¬pagna, nei quali godeva poter sollevare alcun poco i fratelli e le sorelle, per quanto il comportavano le sue forze.
Nel tempo del riposo non volendo neppure stare ozioso iniziava alcuni discorsi di religione, oppure interpellava suo padre su qualche dubbio, od oscurità in materia spirituale.
Nella preghiera con piacere si tratteneva andando e venendo dalla campagna. Ben sovente accadde a me, e ad altri, dice il Parroco,
d´incontrarlo per via tanto assorto nella preghiera che neppure accor
gevasi di averci vicini. Se fuor di casa incontravasi in qualche pericolo od occasione di essere scandalizzato per le imprecazioni o bestemmie
udite, o pei cattivi discorsi che non poteva non udire, tosto faceva
il segno della santa Croce, oppure diceva: Dio sia benedetto, bene¬detto il suo santo Nome. Se gli riusciva incominciava egli stesso discorsi
diversi. Avvertito qualche volta dai suoi parenti a guardarsi dal seguir le massime di alcuni perversi compagni, loro rispondeva: Vorrei che piuttosto mi seccasse la lingua in bocca a preferenza di servirmene a disgustare il mio Dio.

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Quando andava alla pastura delle pecore portava sempre seco qualche buon libro divoto, o scientifico, che procurava di leggere in presenza di altri compagni quando essi avevano piacere di ascoltarlo, altrimenti leggeva da sé, o si occupava nella preghiera osservando a puntino il comando del Salvatore, di pregare senza intermissione.
Il padre di Francesco per provvedere alla famiglia il necessario sostentamento prese la custodia del gregge comunale (9), al quale ufficio di quando in quando destinava eziandio il figliuolo specialmente nei giorni festivi, affinché gli altri fratelli potessero almeno in qualche festa intervenire alle funzioni parrocchiali. L´ubbidiente Francesco accettava di buon grado quell´incarico dicendo: Se non posso in questo giorno intervenire alle sacre funzioni, procurerò di santificare la festa in qualche altro modo. Tu intanto, diceva al fratello, ricordati di me in chiesa. Giunta poi l´ora delle sacre funzioni, egli soleva condurre il gregge in luogo sicuro, quindi formata una croce su qua¬lunque oggetto, davanti a quella s´inginocchiava per farvi preghiera o lettura. Talvolta andava a nascondersi in un antro della montagna, dove prostrato innanzi a qualche sacra immagine, che sempre con¬servava in un libro divoto, recitava le medesime preghiere, come se fosse realmente presente alle funzioni di chiesa: poscia faceva la Via Crucis. La sera cantava da solo il vespro, recitava la terza parte del rosario, ed era per lui grande festa, quando poteva trovar compagni, che lo aiutassero a lodare Iddio. In questi atteggiamenti fu dai mede¬simi compagni sorpreso ben sovente in preghiera e meditazione cosi fervorosa, che il suo sembiante pareva quello di un angelo. Se gli avveniva di trovar compagni indulgenti pregavali a dar d´occhio alle sue pecore dicendo aver egli qualche cosa a fare, e così se ne allon¬tanava per un certo tempo. Ma conscii i compagni della sua consue¬tudine per lo più vi si prestavano volentieri.
Più tardi egli ricordava con gran piacere i pascoli del Roburento e del Dreco, che sono le montagne, sopra cui Francesco soleva con¬durre il gregge al pascolo (10).
Quando mi trovava, soleva dire, nelle solitudini del Roburento io provava eziandio colà le mie delizie. Io volgeva gli occhi in que´ profondi dirupi, che conducevano il mio sguardo in una specie d´oscura voragine; e questo mi ricordava gli oscuri abissi e le eterne oscurità dell´inferno. Qualche uccello dal basso delle valli volava talvolta fin sopra al mio capo; e questo mi faceva venire in pensiero, che noi dobbiamo dalla terra sollevare gli affetti del cuore in alto verso Dio. Rimirando il sole a spuntar sul mattino diceva in cuor mio: Ecco la nostra venuta nel mondo. Il tramonto poi della sera mi annunziava la brevità e la fine della vita che viene senza che noi ci badiamo.

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Quando poi mi metteva a rimirare le alte cime della Maddalena e di altri monti bianchi di neve, facevami venir in mente l´innocenza della vita, che ci solleva fino a Dio e ci merita le sue grazie, le sue benedi¬zioni, il gran premio del paradiso. Dopo queste ed altre considerazioni mi volgeva verso aI seno di qualche monte e mi metteva a cantar lodi alla Madonna. Quello era per me uno de´ più cari momenti, imperciocchè io cantava e l´eco degli antri della montagna ripeteva la mia voce, ed io godeva come se gli angeli del paradiso mi aiutassero a cantar le glorie della grande Madre di Dio.
Questi erano i pensieri che occupavano il cuore del pio pastorello, quando conduceva le pecore sopra le montagne d´onde non poteva recarsi a prendere parte alle sacre funzioni di chiesa.
Ma alla sera appena giunto a casa, si ristorava alquanto, di poi correva tosto alla chiesa per compensare (sono sue parole) la mancanza di divozione di quel giorno. Oh! quante scuse domandato avrà in quelle visite a Gesù Sacramentato!
Non mancava mai di farsi il segno della s. Croce e recitare qualche preghiera ogni volta che passava avanti a qualche chiesa, e molto più se vi era il SS. Sacramento.
Che se custodiva solamente il gregge paterno, come in primavera ed in autunno, allora di consenso coi genitori conduceva le sue pecore a casa, o le consegnava ad altri compagni per accorrere alle funzioni parrocchiali della mattina e della sera. Oh! perché non tutti imitano si santa industria del nostro Francesco per non mancare nè ai doveri di religione, nè agli affari di casa. Pur troppo si osserva che molti si dispensano per futili motivi di frequentare le funzioni parrocchiali nei giorni festivi. L´esempio del buon giovanetto aggiunge efficacia a le raccomandazioni dei sacerdoti, che predicano ed inculcano la santi-ficazione delle feste.
CAPO VIII
Conversazioni - Contegno in chiesa - Visite al SS. Sacramento
Nelle conversazioni e ricreazioni coi compagni egli era gioviale quanto altri mai. Sceglieva d´ordinario quei divertimenti, che adde¬strano il corpo alla fatica, solendo dire ai compagni ed ai genitori: Dovendo poi partire pel militare servizio mi addestro per tempo e potrò certamente riuscire un buon bersagliere (11). Fuggiva gli alterchi, e per evitarli tollerava talvolta insulti ed anche maltrattamenti. Non di rado per non venire a contesa abbandonava l´indiscreta compagnia

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lungate ( `). È rarissimo il caso, in cui venendo processionalmente ad intercedere favori non siano stati esauditi. Non poteva ancora il pio ragazzo pronunziare distintamente queste due parole: Benedetto Cristo (nome che si dà al crocifisso miracoloso), che richiedeva già dai geni¬tori un Pater al bep Crist. Nacque _con lui questa divozione. Oltre a quelle frequenti visite recitò nella stessa confraternita per tre anni (1861-62-63) nelle sere estive il Rosario. Per soddisfare a questo pio desiderio del Rosario e per udire la santa messa tutti i giorni talora dimenticava il desinare o la cena, dicendo voler prima pensare all´anima che al corpo. Questa sua mortificazione per attendere alle opere di pietà era divenuta così abituale, che gli stessi parenti usavano molta attenzione per non darci causa. Terminato il Rosario Francesco non usciva cogli altri di chiesa, ma fermavasi ancora in essa notabile tempo a fine di appagare l´ardente suo desiderio di onorare Iddio e la sua SS. Madre. Credevasi a ciò tenuto, perchè vedevasi da Dio in modo particolare favorito, come più volte lo attestò al suo Parroco, assicu¬rando ancora, che sempre sentiva d´essere realmente alla presenza di Dio.
II pensiero della presenza di Dio gli diventò così famigliare negli ultimi anni di sua vita, che potevasi dire in continua unione col mede¬simo. Ora che Francesco non è più fra noi, scrive il Parroco, ci pare tuttavia di vederlo al suo luogo attorno ai sacri altari, sentirlo dirigere le pubbliche preghiere, tanto ci eravamo abituati a contemplarlo in ogni occasione di qualche esercizio di cristiana pietà. Nell´anno 1860 richiesto a voler coadiuvare all´Opera pia della divozione a Maria SS. nel mese di maggio, egli vi si prestò volenteroso. Tutte le sere del mese recitava pubblicamente la terza parte deI Rosario, oltre le ordi¬narie e particolari preghiere che a voce chiara da lui recitavansi e che i fedeli accompagnavano. Grande era la frequenza e tutti ammi¬ravano la straordinaria divozione che spiccava nel nostro Francesco. Se il Parroco abbisognava di particolari aiuti nel disimpegno del suo dovere, o per animare qualche infermo alla confessione o prepararlo a ricevere il Viatico, raccomandava ogni cosa alle preghiere di Fran-cesco ed era sicuro del favorevole risultato. Avvenne difatto un caso particolare di un certo, conosciuto da tutti come trascurato nelle cose dell´anima, che nell´ultima sua malattia non voleva riconciliarsi con Dio. Ma con grande ammirazione si arrese ben presto, dopo che il Parroco lo aveva raccomandato alle preghiere di Francesco.
(*) Vedi in fine del libro in forma di Appendice la storia del benedetto Crocifisso (a).

CAPO X
Fa il Catechismo - Il giovane Valorso
Mancando il solito catechista ai fanciulli nei giorni festivi, per quattro anni Francesco ne fece le veci. Tanto impegno e tanta solle
citudine dimostrava nell´insegnarlo, che i medesimi ragazzi lo desi¬deravano, professandogli grande rispetto. Per questo già da tre anni era dal Parroco trascelto a fare il Catechismo in numerosa classe nella quaresima. Soddisfatta la sua classe, ben lungi dall´andarsi a sollazzare coi compagni, egli invitavali ad andar seco ad ascoltare Ia spiegazione che del Catechismo facevasi alla classe dei più adulti. In questa istru¬zione e in tutte le prediche egli pendeva propriamente dal labbro del sacerdote. Non di rado avvenne che terminata la predica prendeva il Parroco in disparte, richiedendolo in qual modo potesse corrispon¬dere alle prediche udite.
Giunto a casa aveva per costume di raccontare ai genitori e a tutta la famiglia quanto aveva udito in chiesa. Tutti erano grandemente maravigliati nel mirare un giovanetto di sì fresca età a ricordarsi di tante cose.
In questa come in tutte le altre sue pratiche religiose seguiva un altro suo compagno e cugino dell´Argentera morto nel 1861 di nome Valorso Stefano. Costui era tanto amante delle pratiche di divozione, che la sua perdita fu sentita in tutto il paese. Radunai allora, dice il Parroco, vani giovanetti e li interpellai, se vi era alcuno, che si sen¬tisse di sottentrare nella diligenza e nella pratica dei religiosi esercizi di chiesa al compianto pio giovinetto. Guardaronsi un istante gli uni gli altri e tosto gli sguardi di tutti si voltarono verso di Francesco. Con volto rosso per verecondia, ma con animo risoluto egli si avanza verso di me dicendo: Eccomi pronto a sottentrare al mio cugino nelle pratiche religiose che mi verranno da lei indicate. Per quanto potrò prometto e voglio non solo emulare la diligenza per gli Uffizi di chiesa praticati dal defunto mio cugino; ma se Iddio me ne darà la grazia, procurerò di sorpassarlo. Io porto le sue vestimenti, che mi furono regalate, e spero di vestirmi aziandio di tutte le virtù di lui.
Francesco cominciò la sua pia carriera coll´invitare i suoi compagni a fare una novena di preghiere all´altare di Maria SS. per l´anima del. predetto Valorso, assistendo in ciascun giorno alla s. Messa. Chi mai avrebbe detto, che una seconda novena si sarebbe presto fatta a questo stesso altare in suffragio dell´anima di lui, che fu primo a darne

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l´esempio ? Feci menzione di questo fatto per far conoscere la molta arrendevolezza del nostro Francesco per tutto ciò che potesse tornare ad onor di Dio, ed a vantaggio dell´anima dei trapassati.
CAPO XI
La Santa Infanzia - La Via Crucis - Fuga dei cattivi compagni
Nell´anno 1857 si fece ascrivere alla Pia Opera della Santa Infanzia. Godeva egli molto di essersi fatto ascrivere, ma una spina gli feriva il cuore, cioè la mancanza del soldo che ciascuno deve mensilmente pagare. Se ne accorse il Parroco, che tosto lo liberò da ogni angustia col somministrargli quanto occorreva per quel bisogno, e ciò faceva volentieri per così premiarlo della lodevole sua condotta (14). Amava leggerne gli annali; e godeva assai nel mirare la pia sollecitudine e le industrie di tanti ragazzi nel coadiuvare tale opera. Non di rado Francesco piangeva per dolore di non poter recare ai poveri bambini infedeli quel soccorso che avrebbe desiderato. Ora per compensare la scarsità de´ suoi mezzi naturali pel bene di quest´opera offeriva a Dio fervorose preghiere, e procurava che altri si ascrivessero ad essa, raccontando specialmente ai compagni gli esempi di tanti bam¬bini stati salvati.
Nell´anno 1858 calpestando ogni umano rispetto aggiunse alle sue divozioni quella di fare tutte le feste la Via Crucis dopo la Messa parrocchiale. Tale uso ritenne finché partì per l´Oratorio. Ma l´ammi¬rabile divozione con cui compieva questa pratica religiosa lo rendette non rare volte oggetto di disprezzo ad alcuni compagni. Trovarono essi un amaro rimprovero alla loro poco cristiana condotta nella divo¬zione di Francesco, perciò tacciandolo d´impostore, di bacchettone, lo esposero ad una specie di persecuzione, a fine di raffreddarlo nel¬l´esercizio delle sue belle pratiche di pietà. Ma animato dai genitori, e confortato dal confessore non badò più ad alcuno e disprezzando le dicerie, le derisioni dei maligni fuggiva perfino il loro incontro, e proseguì sempre intrepido a praticare la Via Crucis con grande edificazione e vantaggio dei numerosi fedeli, che vi assistevano. Da quel tempo soleva dir sovente alle sorelle, che egli non badava più ad alcuna diceria del mondo e che anch´esse non si lasciassero mai intimidire nel fare il bene. Rispondendogli esse che alcuni gli davano il titolo di fratino, bigotto, ecc. E sapete, diceva, perché sono così deriso dal mondo ? Perché io mi sono deciso a non più appartenere

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al mondo. Noi siamo al mondo per piacere e servire unicamente a Dio e non per servire e piacere al mondo. Procuriamo adunque di gua¬dagnarci il Paradiso. Questo è appunto il fine, per cui Iddio ci lascia nel mondo.
Con questi santi pensieri in mente e sulle labbra, quando udiva alcuno a disapprovare il bene che faceva, per tutta risposta volgendogli le spalle ritiravasi nella casa paterna; mettendo in questo modo in pra¬tica ciò che diceva ogni mattina nel levarsi: Lascia il mondo che t´in¬ganna. Per questo il mondo maligno non lo amava, perché Francesco era distaccato dal mondo.
Nei famigliari discorsi, in cui il suo Parroco compiacevasi di trat¬tenersi con esso, usciva spesse volte ad interpellarlo, se avrebbe ancora ritardato molto quel giorno da lui cotanto desiderato, nel quale potesse anch´egli accostarsi alla s. Comunione. Forse presto, rispondeva il Parroco, se studierai bene il catechismo, e se mi darai sempre buone prove del profitto che fai nella virtù. Tardarono pochi mesi che il giovinetto casto qual altro Giuseppe in premio della sua virtù meritò di essere ammesso alle nozze dell´Agnello immacolato, senza badare tanto alla tenera età di anni otto e mesi sei.
Trovandosi alla custodia delle pecore con altri due ragazzi poco di lui più giovani in una campagna vicina al paese nella primavera del 1858, questi fecero alcuni atti immodesti alla presenza del nostro Francesco. Offeso da quell´indegno procedere li rimproverò acremente dicendo:
« Se non volete farvi del bene col buon esempio, almeno non datevi scandalo. Fareste voi tali cose alla presenza del nostro Arciprete, o de´ nostri genitori ? Se non osate farle in presenza degli uomini come si oserà poi alla presenza di Dio ? ». Ma quando vide che tor¬navano inutili i suoi detti tutto sdegnato si allontanò dalla perversa compagnia. Ma che ? uno di quei scellerati vedendolo a fuggire gli corse dietro per indurlo al male. Il povero Francesco scorgendosi inseguito si fermò ed affrontò il seduttore con calci, pugni e schiaffi. Neppure con questi mezzi potendo liberarsi dal pericolo si servì di un mezzo piuttosto da ammirare che da imitare. Giunto presso ad un mucchio di pietre si pose a gridare: O che ti allontani o che ti rompo il capo. Ciò detto, come furioso si pose con tutte le sue forze a gettar sassi contro al nemico dell´anima sua. Il compagno dopo aver riportate non leggere contusioni nella faccia, nelle spalle e sopra la testa se ne fuggì. Allora Francesco spaventato dal pericolo, ma contento della vittoria riportata, si recò frettolosamente a casa per mettersi in sicuro e per ringraziare Iddio che dal pericolo l´aveva liberato.

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Chi racconta questo fatto, dice il Parroco, l´osservò dal principio al fine da un luogo lungi appena 50 metri, ed appunto fu osservato per vedere fino a qual punto sarebbe giunta la virtù di Francesco.
CAPO XII
La prima Comunione - Frequenza a questo Sacramento
Il giorno dopo avendolo il Parroco interrogato sul caso sopra nar¬rato rispose tutto commosso: La grazia di Dio mi ha liberato da quella cattiva occasione, nè mai più andrò con simili compagni. Come per premio del coraggio dimostrato in quel pericoloso incontro il Parroco lo assicurò che lo avrebbe ammesso quanto prima a fare la SS. Comu¬nione. Molto contento di quella promessa, cominciò fin da quel giorno a prepararsi e colla fuga di ogni più piccolo difetto, che egli avesse conosciuto, e colla pratica di quelle virtù che erano compatibili col suo stato. Nella sua semplicità richiedeva sovente il Parroco ed i suoi parenti, che lo aiutassero a tanta azione, e diceva: Quando io mi accosterò alla SS. Comunione, mi figurerò di ricevere Gesù Sacramen¬tato dalle mani di Maria SS. alla quale ora sento maggior propensione a raccomandarmi.
Con grande premura raccomandossi alla vigilanza di un suo com¬pagno molto dato alla divozione, affinchè vegliasse su di lui attenta¬mente, perchè non commettesse alcuna irriverenza. La sua prepara¬zione non poteva al certo essere maggiore, poichè dalle deposizioni dei parenti, del Maestro, e dello stesso Parroco consta, che il nostro Francesco in tutto il tempo, che visse in famiglia, non mai commise alcuna cosa che si possa giudicare colpa veniale deliberata. La bella stola dell´innocenza fu la prima e la più essenziale preparazione, che egli portò nella sua prima Comunione.
Appena comunicato pareva estatico: cangiò di colore in faccia, il suo volto dimostrava la pienezza della gioia del suo cuore, e gli atti di amore verso Gesù in Sacramento fatti in tale occasione saranno stati proporzionati alla diligenza usata nel prepararsi a riceverlo.
Da quel tempo accostavisi ogni mese al sacramento della Peni¬tenza: alla Comunione poi si accostava quando dal confessore gli era permesso. Negli ultimi anni egli stesso fecesi guida ai più giovani per aiutarli a prepararvisi, ed a fare il ringraziamento. Dopo la Comu¬nione col massimo raccoglimento ascoltava la s. Messa, non essendo neppur sollecito quella mattina di servirla per esser più raccolto.

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Durante la Messa tutto assorto nel contemplare, come egli diceva, l´infinita degnazione di Gesù, non leggeva nemmeno il solito libro di divozione, ma impiegava quel prezioso tempo, nascosto il capo tra le mani, in continui atti d´amore in Dio. Prima di uscire di chiesa andava cogli altri compagni all´altare di Maria SS. a ringraziarla del¬l´assistenza, che loro aveva usato, e recitando con voce chiara e com¬mossa il Ricordatevi, ed altre non poche orazioni. Egli è a questo fuoco, che il nostro Francesco tanto s´infiammò d´amor di Dio che nulla più desiderava in questo mondo se non far la santa divina volontà. Io resto fuor di me, diceva, al considerare come al giorno della comu¬nione mi senta così vivo desiderio di pregare. Palmi di parlare perso¬nalmente col mio stesso Gesù; e ben poteva dirgli: Loquere, Domine, quia audit servus tuus (15).
Il suo cuore era vuoto delle cose del mondo, e Iddio lo riempiva delle sue grazie. Il giorno della Comunione era da lui passato unica¬mente in casa ed in chiesa, ove invitava anche altri amici a recarvisi la sera per terminar bene quella solenne giornata.
Negli ultimi anni veniva animato ad accostarsi alla santa Comu¬nione ogni domenica, ed occorrendo qualche solennità eziandio nel decorso della settimana, ma non ardiva accostarvisi senza prima essersi confessato. Era così grande l´umiltà sua, che non credevasi mai abba¬stanza purificato: per altro al cenno del confessore deponeva ogni perplessità, ed in tutto gli professava cieca ubbidienza e pari docilità.
CAPO XIII
Mortificazioni - Penitenze - Custodia dei sensi - Profitto nella scuola
Queste sue rare virtù erano difese, per così dire, da un continuo spirito di mortificazione. Fin da giovinetto (16) soleva digiunare seve¬ramente una buona parte della Queresima. Ai famigliari, che gli mostra¬vano indiscreti quei digiuni per la sua tenera età, soleva rispondere: « In Paradiso non si va senza mortificazione; perciò e vecchi e giovani, se vogliono andare in Paradiso, bisogna che ci vadano per la via della mortificazione. Questa mortificazione è poi necessaria ai giovanetti, sia per dare soddisfazione a Dio pei tanti disgusti che gli cagionano coi frequenti loro difetti, e sia per addestrarsi a quella vita mortificata, necessaria a tutti per salvarsi. Voi spesso mi dite che io sono molto difettoso: per questo voglio anche digiunare ». Queste e simili sapienti osservazioni faceva Francesco, come ne fanno ampia testimonianza i suoi genitori, fratelli e sorelle.

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Guidato dal medesimo spirito di mortificazione sapeva custodire i suoi occhi dagli sguardi pericolosi, e le orecchie dai discorsi scon¬venienti ad ogni cristiano, la lingua dalle parole inconsiderate. Se alcuna volta per inavvertenza sfuggivangli parole meno esatte, da se medesimo imponevasi qualche penitenza, condannando la sua lingua a segnare sul pavimento molte croci (17). Non rare volte ne furono testimoni oculari i suoi parenti, che lo sorprendevano in quel volon¬tario esercizio di mortificazione. Essi un giorno gli dimandarono, se quella era penitenza impostagli dal confessore. No, ingenuamente rispondeva, ma vedendo la mia lingua troppo veloce ad espressioni sconvenevoli, voglio strascinarla volontariamente nel fango, perchè la medesima non istrascini me nel fuoco eterno. Faccio anche questa penitenza, affinchè Dio mi conceda la grazia di andare in quel luogo, in cui ha detto mio Padrino di mandarmi, perchè possa studiare.
Quasicchè tutte queste sante industrie, non fossero sufficenti a salvarlo dalla terribile corruzione, che si osserva nelle conversazioni, il pio giovanetto negli ultimi anni di sua vita in famiglia rarissimamente accomunavasi ai compagni, cercando solo di trattenersi con quelli dai quali sapeva certo non correre alcun pericolo per l´anima sua.
Cresceva in lui ognora più il vivo desiderio di venire all´Oratorio di S. Francesco di Sales (*), ma una difficoltà gli si opponeva. Per essere accolti come studenti in questa Casa fa d´uopo, che i giovanetti
(*) La parola Oratorio si prende in vari sensi. Se si considera come adunanza festiva s´intende un luogo destinato a ricreare con piacevoli trastulli i giovanetti, dopo che essi hanno soddisfatto ai loro doveri di religione. Di questo genere sono in Torino l´Oratorio di S. Francesco di Sales in Valdocco; di S. Giuseppe a S. Salvarlo; di S. Luigi presso al viale dei Platani; del S. Angelo Custode in Van-chiglia; di S. Martino presso ai mulini municipali.
Diconsi anche oratorii feriali le scuole diurne e serali che ne´ locali mentovati si fanno lungo la settimana per quei giovanetti che per mancanza di mezzi, o perchè male in arnese non possono frequentare le scuole della città.
Presa poi la parola Oratorio in senso più esteso s´intende la casa di Valdocco in Torino nota sotto al nome di S. Francesco di Sales. I giovanetti possono essere ricevuti in questa casa o come artigiani o come studenti. Gli artigiani devono aver compiuto i 12 anni e non oltrepassare i 18; essere orfani di padre e di madre; totalmente poveri ed abbandonati.
Gli studenti poi non possono essere accolti se non hanno compiuto lodevol¬mente almeno la terza elementare e siano in modo eccezionale commendevoli per ingegno e per moralità.
L´istruzione morale e scientifica, l´ammissione alle scuole e ai trastulli, l´ac¬cettazione degli artigiani è gratuita. Si accettano anche gratuitamente gli studenti pel corso ginnasiale, purchè, come si disse, siano in modo eccezionale commendevoli per moralità e per attitudine allo studio, e facciano constare che non possono pagar nè tutta nè in parte la regolare pensione che sarebbe di fr. 24 mensili (a).

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abbiano fatto almeno quel corso di scuole elementari, che è necessario per entrare nella prima classe Ginnasiale. Ma le scuole del villaggio si estendevano solamente alla prima e a qualche materia della seconda elementare (18). Come superare adunque questa difficoltà? La supe¬rarono la buona condotta di Besucco e la carità del suo Parroco. Questi non esitò di aggiugnere alle parrocchiali occupazioni anche il peso della scuola quotidiana e per Besucco e per altri giovanetti di buona speranza (19). Il buon Francesco esultò a quell´invito del-l´amato Padrino e col consenso dei genitori cominciò a frequentare quella scuola con nuovo vigore, e con nuova diligenza, onde corri¬spondere al favore che gli era fatto. Con quanto profitto ciò abbia fatto il comprovò l´essere stato dipoi accettato in prima classe Gin¬nasiale. Quante volte colle lacrime agli occhi prorompeva in queste espressioni di ringraziamento al suo Parroco: Come mai potrò io corrispondere a tanta carità che mi è usata! — Erasi perciò fatta una legge di recarsi ogni giorno impreteribilmente prima della scuola innanzi all´altare di Maria SS., e là prostrato colla confidenza d´un figlio raccomandava alla Sede della sapienza se stesso e chi lo istruiva. Quali colloquii facesse allora il nostro Francesco, dice il suo Parroco, nol so; il certo si è, che molte volte uscendo di chiesa si osservò cogli occhi bagnati di lacrime, effetto indubitato della commozione provata. Interrogato a spiegare il motivo di quella sensazione, rispondeva: Vengo adesso da pregare Maria SS. per Lei, caro Padrino, affinchè le ottenga da Dio quella ricompensa, che io sono incapace di darle.
In tutto il tempo, in cui frequentò la mia scuola, asserisce il mede¬simo, neppure una volta mi diede motivo di rimproverarlo della sua negligenza, perchè faceva ogni suo possibile per corrispondere alle cure di chi lo instruiva.
CAPO XIV
Desiderio e deliberazione di recarsi all´Oratorio di S. Francesco di Sales
In questo tempo il Parroco mi scrisse raccomandando un suo parrocchiano di condotta esemplare, povero di beni di fortuna, ma molto ricco di virtù. Questo giovanetto, diceva egli, da più anni è la mia delizia ed il mio aiuto per le cose parrocchiali. Servire la Messa, prendere parte alle funzioni di chiesa, fare il Catechismo ai più piccoli, pregare con gran fervore, con esemplarità frequentare i santi Sacra¬menti sono in breve ciò che fa costantemente. Io me ne privo volen-tieri, perchè spero di farne un ministro del Signore.

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Nel desiderio di cooperare all´educazione di così caro giovinetto l´accettai di buon grado in questa Casa. Egli mi era eziandio stato raccomandato dal signor Eysautier luogo-tenente delle guardie reali (20), e me lo aveva raccomandato come un modello per istudio e per condotta morale. A questa notizia non potè più rispondermi l´innocente giovanetto, dice il Parroco, fuorchè colle lagrime, che esprimevano tutta la sua gioia e la sua riconoscenza. Ma qui sorse ancora una grave difficoltà ad eseguire iI concepito disegno, voglio dire la povertà dei genitori, i quali lottavano tra la buona disposizione del loro figlio, e la loro insufficenza dei mezzi umani. In questo dolo¬roso stato d´incertezza il Parroco lo animò a fare frequenti visite a Gesù Sacramentato, ed a Maria Santissima chiedendo istantemente qual fosse la loro volontà a suo riguardo. Ma raccomandati, gli disse, che ti manifestino la tua vocazione in modo chiaro per non fallire in affare di tanta importanza. — Dio esaudì le sue innocenti preghiere. Una mattina, dopo essersi accostato alla santa Comunione, venendo dopo Messa alla solita scuola parve più contento dell´usato. Ebbene, dissegli il Parroco, che buone nuove mi porti questa mattina, o Fran¬cesco ? Hai tu avuto qualche risposta alle tue dimande ? — Sì, che l´ho avuta questa volta, ed ecco in qual modo. Dopo la Comunione ho fatto le più vive promesse di voler servire Iddio per sempre, e con tutto il mio cuore, che gli offersi più volte. Pregai arco Maria SS. affinché mi aiutasse in questo bisogno. Quindi mi parve proprio di udire queste parole, le quali mi fecero provare una contentezza im¬mensa: Fa´ cuore, Francesco, che il tuo desiderio sarà soddisfatto. Era sì grande la sua persuasione d´aver udito questa risposta, che la con¬felaiiò molte volte anche in presenza di tutta la famiglia, e senza alcuna variazione. D´allora in poi soleva dire: Io sono certo di andare ove ella, caro padrino, intende inviarmi, perché questa è volontà di Dio. Che se qualche volta ancora i parenti mettevano in dubbio il loro consenso: Deh! esclamava, per carità non interrompete il mio destino, altrimenti io sarò un giovane disgraziato (21). Quindi racco¬mandavasi ora alla madre, al fratello, alle sorelle, ora al Parroco, e ad altre persone, affinché procurassero colle loro osservazioni d´otte¬nere il consenso del padre, il quale per altro desiderava internamente di appagare le giuste brame del figlio. Si vedeva in questo suo pro-cedere ben chiara la volontà del Signore, che chiamava Francesco nella sua vigna.
Sul finire del mese di maggio 1863 per manifesta disposizione della divina Provvidenza, essendo scomparse tutte le insorte diffi¬coltà (22), fu stabilito dai genitori di inviare Francesco all´Oratorio. Egli da quel momento manifestando ai genitori la sua contentezza

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diceva: Io sono il figlio della fortuna: oh quanto sono mai felice: siate certi, che vi voglio consolare colla mia condotta. Raddoppiando il fervore nella pietà e nello studio, scrive il Parroco, fece tanto pro¬fitto nel mese di giugno e luglio, quanto fatto ne avrebbe appena in un anno. Di che accorgendosi egli medesimo, diceva: Ella mi dice, signor Arciprete, che è contento di me, anche io ora non so spiegare, come in sì breve tempo possa imparare la mia lezione, e questo è segno evidente, che in ciò io faccio la volontà di Dio. — Ma qual ricompensa, soggiungeva l´Arciprete, mi darai poi tu per quanto faccio per te ? Sappi che io voglio essere pagato abbondantemente. — Si, certamente, prometto di pregare sovente Iddio e Maria SS. affinché le ottengano tutte quelle grazie che desidera; stia pur certo che non mai mi dimenticherò di lei, nè di quelli che fra poco mi saranno altrettanti padri. — La riconoscenza era una delle prerogative di questo grazioso fanciullo.
Eravamo all´ultimo giorno di luglio, vigilia della partenza del nostro caro Francesco per l´Oratorio. La mattina accostossi per l´ul¬tima volta in Argentera ai Ss. Sacramenti. «. Colle lagrime agli occhi il vidi per l´ultima volta — dice il Parroco — a rimirare il confessio¬nale e gli altari, chi sa con quale presentimento. Insolita gioia in quel volto sfavillò dopo la comunione. Il fervore ed il lungo tempo impie¬gato nel ringraziamento compensarono al certo abbondantemente le molte comunioni che ancor credevasi fare in questa chiesa. Tutto quel giorno fu festivo pel nostro Francesco, nè io san capace per la presente commozione a descrivere la scena tenerissima succeduta nella mia camera. Qui alla presenza di suo padre, il mio caro figlioccio in ginocchione struggevasi in atti di ringraziamento pei benefizi da lui amplificati, assicurandomi dell´eterna sua gratitudine ed arrendevo¬lezza a tutti gli avvisi dati.
In casa poi non pareva più di questo mondo, ogni momento andava esclamando: Sono fortunato, son felice. Oh! quanto debbo mai rin¬graziare Iddio d´avermi tanto favorito. Diede anche l´addio a tutti i suoi parenti, i quali rimasero stupefatti al vedere il loro nipotino e cugino provare nel suo cuore tanta contentezza. Ma tu, gli dicevano, sarai poi annoiato e malinconico per essere lontano da´ tuoi parenti, e chi sa, forse patirai il clima troppo caldo di Torino nell´estate. — No, non abbiate paura di me; quanto ai genitori, fratelli e sorelle purché sappiano buone nuove di me saranno contenti, ed io farò in modo colle mie lettere di consolarli. Io non temo di patire, e d´esser malinconico, perchè son certo di trovare in quel luogo tutto ciò che potrà rendermi contento. Immaginatevi quanto grande dovrà essere la mia gioia quando sarò sicuro di rimanere nell´Oratorio, se il solo

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desiderio e la speranza di andarvi mi rende già fuor di me stesso per la consolazione. Solamente vi raccomando di pregare per me, affinché possa sempre fare la volontà di Dio.
Incontrandomi per via in quel giorno tutto intenerito mi disse: Mi rincresce tanto di abbandonarla, ma la consolerò con darle buone notizie di me. Per la contentezza non potè più chiuder occhio in quella notte, che passò in continua orazione ed unione con Dio ».
CAPO XV
Episodi e viaggio a Torino
La mattina di buon´ora diede l´ultimo addio alla cara sua madre, ai fratelli ed alle sorelle piangenti mentre egli solo con aria serena e tranquilla, sebben commosso, incoraggiava tutti alla perfetta rasse¬gnazione alla volontà di Dio. Solamente allora diede in dirottissimo pianto, quando raccomandossi alle loro orazioni per esser costante nel corrispondere alla voce di Dio, che lo chiamava a sè. Il suo padrino lo salutò con queste ultime parole: Oh! sì, vanne amabilissimo Fran¬cesco, che quel Dio, il quale in una maniera meravigliosa ti toglie ora ai nostri terreni sguardi, il fa per chiamarti in quell´Oratorio medesimo, in cui potrai santificare l´anima tua, emulando le virtù, che già condus¬sero al bel Paradiso i fortunati giovani Savio Domenico e Michele Magone, alla cui vita e morte preziosa attingesti negli ultimi mesi di tua dimora fra noi quell´ardente desiderio, che ti condusse nel provvidenziale Oratorio di S. Francesco di Sales.
Con un piccolo corredo il padre accompagnò Francesco alla volta di Torino e partivano il primo agosto 1863. A misura che si allon¬tanavano da Argentera il buon genitore andava interpellando il figlio, se non gli rincresceva di abbandonare la patria, la famiglia, e princi¬palmente la madre. Francesco gli rispose sempre con dire: Io sono persuaso di fare la volontà di Dio andando a Torino, e quanto più mi allontano da casa, tanto più cresce la mia contentezza. — Cessate quelle momentanee risposte seguitava a pregare, e assicurò il padre, che il viaggio da Argentera a Torino fu per Francesco quasi una continua preghiera (23).
Il due agosto giunsero a Cuneo circa le ore 4 del mattino. Passando avanti al palazzo vescovile Francesco dimandò: Di chi è questa bella casa ? — È del Vescovo, gli rispose. — Francesco allora fe´ segno al padre di volersi fermare un momento. Fermatosi il figliuolo, il

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padre si avanzò alcuni passi. Rivoltosi poi indietro lo vide ginocchioni presso alla porta del Vescovo. Che fai tu ora ? gli disse. Prego Iddio per Monsignore, affinchè eziandio mi aiuti a farmi accettare nell´Ora¬torio di Torino e che a suo tempo si degni poi di annoverarmi fra i suoi chierici, e così esser utile per me e per gli altri.
Giunto a Torino il padre gli faceva notare le meraviglie di questa Capitale. Il padre stesso dopo aver osservate le vie simmetriche, le piazze riquadrate e spaziose, i portici alti e maestosi, le gallerie magni¬ficamente adornate di oggetti vari, preziosi e stranieri, dopo di aver ammirata l´altezza e la eleganza degli edifizi credeva di trovarsi nel¬l´altro mondo. Che ne dici, Francesco ? dicevagli pieno di meraviglia. Non ti sembra proprio di essere in Paradiso ? Al che Francesco sor-ridendo rispose: Tutte queste cose a me poco importano, chè di nulla sarà contento il mio cuore, finchè non sarò ricevuto in quel benedetto Oratorio, al quale fui inviato.
Finalmente entrò nel luogo tanto desiderato e pieno di gioia esclamò: Questa volta ci sono. Quindi fece una breve preghiera per ringraziare Iddio e la Beata Vergine del buon viaggio, che avea fatto, e dei desideri appagati.
Suo padre nel licenziarsi da lui era commosso fino alle lacrime, ma Francesco lo confortò dicendo: Non datevi alcuna pena per me; il Signore non mancherà di aiutarci: io pregherò ogni giorno per tutta la nostra famiglia. Vie più commosso il padre gli disse ancora: Ti occorre qualche cosa ? Si, caro padre, ringraziate mio padrino della cura che si prese di me: assicuratelo, che non dimenticherò giammai i suoi benefizi, e coll´assiduità nello studio, e colla buona mia condotta mi dimostrerò tale da renderlo soddisfatto. Dite a quei di casa che io son pienamente felice, e che ho trovato il mio paradiso.
CAPO XVI
Tenore di vita nell´Oratorio - Primo trattenimento
Tutto quello che ho fin qui esposto intorno al giovanetto Besucco forma per così dire la prima parte della sua vita; e in ciò mi sono tenuto alle notizie inviatemi da chi lo conobbe, lo trattò e visse con lui in patria. Quanto sarò per dire riguardo al nuovo genere di vita nell´Oratorio formerà la seconda parte_ Ma qui racconterò tutte cose udite, vedute co´ proprii occhi, oppure riferite da centinaia di gio¬vanetti che gli furono compagni per tutto il tempo che visse ancor

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mortale tra noi. Mi sono poi in modo particolare servito di una lunga e minuta relazione fatta dal sac. Rufino professore e direttore delle scuole di questa casa, che ebbe tempo e occasione di conoscere e
di raccogliere i continui tratti di virtù dal nostro Besucco praticati. Da lungo tempo adunque Francesco ardentemente desiderava di
trovarsi in quest´Oratorio, ma quando ci fu di fatto ne rimase sbalor
dito (24). Oltre settecento giovanetti gli divenivano in un momento amici e compagni nella ricreazione, a mensa, in dormitorio, in chiesa,
nella scuola e nello studio. A lui sembrava impossibile che tanti gio¬vanetti potessero vivere insieme in una sola casa senza mettere ogni cosa in disordine. Tutti voleva interrogare, d´ogni cosa voleva chie¬dere la ragione, la spiegazione. Ogni avviso dato dai superiori, ogni iscrizione sopra le mura erano per lui soggetto di letture e di medi
tazione e di profondo riflesso.
Egli aveva già passato alcuni giorni nell´Oratorio, ed io non l´aveva
ancor veduto, né altro sapeva di lui se non quel tanto, che l´Arciprete Pepino per lettera mi aveva comunicato. Un giorno io facevo ricrea¬zione in mezzo ai giovani di questa casa (25), quando vidi uno vestito quasi a foggia di montanaro, di mediocre corporatura, di aspetto rozzo, col volto lenticchioso. Egli stava cogli occhi spalancati rimirando i suoi compagni a trastullarsi. Come il suo sguardo s´incontrò col mio fece un rispettoso sorriso portandosi verso di me.
— Chi sei tu ? gli dissi sorridendo.
— Io sono Besucco Francesco dell´Argentera.
— Quanto anni hai ?
— Ho presto quattordici anni.
— Sei venuto tra noi per istudiare, o per imparare un mestiere?
— Io desidero tanto di studiare.
— Che scuola hai già fatto ?
— Ho fatto le scuole elementari del mio paese.
— Con quale intenzione tu vorresti continuare gli studi e non
intraprendere un mestiere ?
— Ah! il mio vivo, il mio gran desiderio si è poter abbracciare
lo stato ecclesiastico.
— Chi ti ha mai dato questo consiglio ?
— Ho sempre avuto questo nel cuore ed ho sempre pregato il
Signore, che mi aiutasse per appagare questa mia volontà.
— Hai già dimandato consiglio a qualcheduno ?
— Si, ne ho già parlato più volte con mio padrino; sì, con mio
padrino... — Ciò detto apparve tutto commosso, che cominciavano
spuntar sugli occhi le lagrime.
— Chi è tuo padrino ?

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— Mio padrino è il mio prevosto l´Arciprete dell´Argentera, che mi vuole tanto bene. Egli mi ha insegnato iI catechismo, mi ha fatto scuola, mi ha vestito, mi ha mantenuto. Egli è tanto buono, mi ha fatto tanti benefizi, e dopo d´avermi fatto scuola quasi due anni mi ha raccomandato a lei, affinché mi ricevesse nell´Oratorio. Quanto mai è buono mio padrino! quanto mai egli mi vuoi bene!
Ciò detto si pose di nuovo a piangere. Questa sensibilità ai benefizi ricevuti, questo affetto al suo benefattore fecemi concepire una buona idea dell´indole e della bontà di cuore del giovanetto (26). Allora richiamai eziandio alla memoria le belle raccomandazioni, che di lui eranmi state fatte dal suo Parroco e dal luogo-tenente Eysautier; e dissi tosto tra me: Questo giovanetto mediante coltura farà eccellente riuscita nella sua morale educazione. Imperciocchè è provato dal¬l´esperienza che la gratitudine nei fanciulli è per lo più presagio di un felice avvenire: al contrario coloro che dimenticano con facilità i favori ricevuti e le sollecitudini a loro vantaggio prodigate rimangono insensibili agli avvisi, ai consigli, alla religione, e sono perciò di edu
cazione difficile, di riuscita incerta. Dissi pertanto a Francesco: Sono molto contento che tu porti grande affetto a tuo padrino, ma non
voglio che ti affanni. Amalo nel Signore, prega per lui, e se vuoi
fargli cosa veramente grata, procura di tenere tale condotta che io possa mandargli buone notizie, oppure possa essere egli soddisfatto
deI tuo profitto e della tua condotta venendo a Torino. Intanto va´ co´ tuoi compagni a fare ricreazione. — Asciugandosi le lagrime mi salutò con affettuoso sorriso, quindi andò a prendere parte ai trastulli co´ suoi compagni.
CAPO XVII
Allegria
Nella sua umiltà Francesco giudicava tutti i suoi compagni più virtuosi di lui, e gli sembrava di essere uno scapestrato in confronto della condotta degli altri. Laonde pochi giorni dopo me lo vidi nuo¬vamente venire incontro con aspetto turbato.
— Che hai, — gli dissi, — mio caro Besucco ?
— Io mi trovo qui in mezzo a tanti compagni tutti buoni, io vorrei farmi molto buono al par di loro, ma non so come fare, ed ho bisogno ch´ella mi aiuti.
— Ti aiuterò con tutti i mezzi a me possibili. Se vuoi farti buono pratica tre sole cose e tutto andrà bene.
3 CAVIGLIA Bestacco Fran-cerco

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— Quali sono queste tre cose ?
- Eccole: Allegria, Studio, Pietà. È questo il grande programma, il quale praticando, tu potrai vivere felice, e fare molto bene al¬l´anima tua.
— Allegria... Allegria... Io sono fin troppo allegro. Se lo stare allegro basta per farmi buono io andrò a trastullarmi da mattina a sera. Farò bene ?
— Non da mattina a sera, ma solamente nelle ore in cui è per¬messa la ricreazione.
Egli prese il suggerimento in senso troppo letterale; e nella per¬suasione di far veramente cosa grata a Dio trastullandosi, mostravasi ognora impaziente del tempo libero per approfittarne. Ma che ? Non essendo pratico di certi esercizi ricreativi ne avveniva, che spesso urtava o cadeva qua o là. Voleva camminar sulle stampelle, ed eccolo rotolar per terra; voleva montar sulle parallele, ed eccolo cader capi¬tombolo. Giocava le bocce ? o che le gettava nelle gambe altrui, o che metteva in disordine ogni divertimento. Per la qual cosa potevasi dire che i capitomboli, i rovescioni, gli stramazzoni erano l´ordinaria conclusione dei suoi trastulli. Un giorno mi si avvicinò tutto zoppi-cante ed impensierito.
— Che hai, Besucco ? — gli dissi.
— Ho la vita tutta pesta — mi rispose.
— Che ti è accaduto ?
- Son poco pratico dei trastulli di questa casa, perciò cado urtando ora col capo ora colle braccia o colle gambe. Ieri correndo ho battuto colla mia faccia in quella di un compagno, e ci siam fatto insanguinare il naso ambidue.
Poverino! ùsati qualche riguardo, e sii un po´ più moderato. — Ma ella mi dice che questa ricreazione piace al Signore, ed io vorrei abituarmi a far bene tutti i giuochi che hanno luogo tra i miei compagni.
— Non intenderla così, mio caro; i giochi ed i trastulli devono impararsi poco alla volta di mano in mano che ne sarai capace, sempre per altro in modo che possano servire di ricreazione, ma non mai di oppressione al corpo.
Da queste parole egli comprese, come la ricreazione debba esser moderata, e diretta a sollevare lo spirito, altrimenti sia di nocumento alla medesima sanità corporale. Quindi continuò bensì a prendere volentieri parte alla ricreazione, ma con grande riserbatezza; anzi quando il tempo libero era alquanto prolungato soleva interromperlo per intrattenersi con qualche compagno più studioso, per informarsi delle regole e della disciplina della casa, farsi spiegare qualche dif

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ficoltà scolastica ed anche per recarsi a compiere qualche esercizio di cristiana pietà. Di più egli imparò un segreto per far del bene a sè ed a´ suoi compagni nelle stesse ricreazioni, e ciò col dare buoni consigli, o avvisando con modi cortesi coloro cui si fosse presentata occasione, siccome soleva già fare in sua patria in una sfera tuttavia assai più ristretta. Il nostro Besucco temperando così la sua ricreazione
con detti morali o scientifici, divenne in breve un modello nello studio e nella pietà.
CAPO XVIII
Studio e diligenza
Un giorno il Besucco in mia camera (27) lesse sopra un cartello queste parole: Ogni momento di tempo è un tesoro.
— Non capisco — mi chiese con ansietà — che cosa vogliano significare queste parole. Come noi possiamo in ogni momento di tempo guadagnare un tesoro ?
— È proprio così. In ogni momento di tempo noi possiamo acqui-starci qualche cognizione scientifica o religiosa, possiamo praticare qualche virtù, fare un atto di amor di Dio, le quali cose avanti al
Signore sono altrettanti tesori, che ci gioveranno pel tempo e per l´eternità.
Non proferì più alcuna parola, ma scrisse sopra un pezzetto di carta quel detto, di poi soggiunse: Ho capito. Comprese egli quanto fosse prezioso il tempo, e richiamando alla memoria quanto gli aveva raccomandato il suo Arciprete, disse: Mio padrino me lo aveva già
detto anch´egli che il tempo è molto prezioso e che noi dobbiamo occuparlo bene cominciando dalla gioventù.
D´allora in poi si occupava con assai maggior applicazione intorno ai suoi doveri.
Io posso dire a gloria di Dio, che in tutto iI tempo che passò in
questa casa non si ebbe mai motivo di avvisarlo od incoraggiarlo all´adempimento de´ suoi doveri.
Vi è l´uso in questa casa che ogni sabato si dànno e si leggono i voti della condotta che ciascun giovane tenne nella settimana nello studio e nella scuola. I voti di Besucco furore sempre uguali cioè optime. Dato il segno dello studio egli vi si recava immediatamente senza più fermarsi un istante. Quivi poi era bello il vederlo continuamente raccolto, studiare, scrivere colla avidità di chi fa cosa di suo maggior gusto. Per qualsiasi motivo non si moveva mai di posto, nè comunque

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fosse lungo il tempo di studio alcuno lo vedeva togliere il guardo da´ suoi libri o dai quaderni.
Uno de´ suoi grandi timori era che gli avvenisse contro sua volontà di trasgredire le regole; perciò specialmente nei primi giorni chiedeva sovente se si potesse fare questa o quell´altra cosa. Chiese per esempio una volta con santa semplicità se nello studio fosse lecito lo scrivere, temendo che quivi non si dovesse far altro che studiare. Altra volta se in tempo di studio era permesso mettere in ordine i libri. All´esatta occupazione del tempo egli aggiunse la invocazione dell´aiuto del Signore. Alcuna volta lo vedevano i compagni durante lo studio farsi il segno della santa Croce, alzare gli occhi verso il cielo e pregare. Richiesta la cagione, rispondeva: Spesse volte incontro difficoltà nello imparare, perciò mi raccomando al Signore affinché mi dia il suo aiuto.
Aveva letto nella vita di Magone Michele, che prima de´ suoi studi sempre diceva: Maria, sedes sapientiae, ora pro me. O Maria, Sede della sapienza, pregate per me. Egli volle fare altrettanto. Scrisse queste parole sopra i libri, sopra i quaderni e sopra parecchie liste di carta, di cui valevasi per segnacoli. Scrisse eziandio biglietti ai suoi compagni, ma o in principio del foglio, o sopra in pezzetti di carta a parte notava sempre il prezioso saluto alla sua celeste Madre, siccome egli soleva chiamarla. In un biglietto indirizzato a un compagno leggo quanto segue: Tu mi hai chiesto come io abbia potuto sostenermi in seconda grammatica (28), mentre che il mio corso regolare dovrebbe essere appena la prima. Io ti rispondo schiettamente che questa è una special benedizione del Signore, che mi dà sanità e forza. Mi sono per altro servito di tre segreti che ho trovato e praticato con grande
mio vantaggio e sono:
« p Di non mai perdere bricciolo di tempo in tutte le cose sta
bilite per la scuola o per lo studio.
2° Nei giorni di vacanza ed in altri in cui siavi ricreazione pro
lungata, dopo mezz´ora vado a studiare, oppure mi metto a discorrere di cose di scuola con alcuni compagni più avanzati di me nello studio. 30 Ogni mattina prima d´uscir di chiesa dico un Pater ed un´Ave a S. Giuseppe. Questo fu per me il mezzo efficace che mi portò avanti nella scienza e da che ho cominciato a recitare questo Pater, ho sempre avuto maggior facilità sia per imparare le lezioni, sia per superare le difficoltà che spesso incontro nelle materie scolastiche. Prova anche tu a fare altrettanto, conchiudeva la lettera, e ne sarai certamente
contento ».
Non deve pertanto recar meraviglia se con tanta diligenza abbia
fatto così rapido progresso nella scuola.

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Quando venne tra noi si perdeva quasi di speranza di poter reg¬gere nella prima ginnasiale, ma dopo soli due mesi riportava dei voti assai soddisfacenti nella sua classe. Nella scuola pendeva immobile dal labbro del maestro, che non ebbe mai occasione di avvisarlo per disattenzione.
Quello che dissi intorno alla diligenza di Besucco in materia di studio, si deve estendere a tutti gli altri doveri anche più minuti: egli era esemplare in tutto. Era stato incaricato di scopare il dormi¬torio. In questo uffizio si faceva ammirare per l´esattezza con cui lo disimpegnava senza dimostrare minimamente di sentirne peso.
Allora che per motivo di malattia non potè più levarsi di letto, chiese scusa all´assistente (29) perché non poteva compiere il solito suo dovere, e ringraziò con vivo affetto un compagno che lo supplì in quell´umile servizio.
Besucco venne all´Oratorio con uno scopo prefisso; perciò nella sua condotta aveva sempre di mira il punto cui tendeva, cioè di dedi¬carsi tutto a Dio nello stato ecclesiastico. A questo fine cercava di progredire nella scienza e nella virtù. Discorreva un giorno con un compagno intorno ai propri studi ed intorno al fine per cui ciascuno era venuto in questa casa. Besucco espresse il proprio pensiero, poi conchiuse: Insomma il mio scopo è di farmi prete; coll´aiuto del Signore farò ogni sforzo per poterlo conseguire.
CAPO XIX
La confessione
Dicasi pure quanto si vuole intorno ai vari sistemi di educazione, ma io non trovo alcuna base sicura, se non nella frequenza della confessione e della comunione; e credo di non dir troppo asserendo che omessi questi due elementi la moralità resta bandita. Il Besucco, come abbiamo detto, fu coltivato ed avviato per tempo alla frequenza di ambidue questi Sacramenti. Giunto qui all´Oratorio crebbe di buona volontà e di fervore nel praticarli.
Sul principio della novena della Natività di Maria SS. si presentò al suo direttore dicendogli: Io vorrei passar bene questa novena e fra le altre cose desidero di fare la mia confessione generale. Il diret¬tore come ebbe inteso i motivi che a ciò lo determinavano rispose di non ravvisare alcun bisogno di far simile confessione, ed aggiunse: Tu puoi vivere tranquillo, tanto più che l´hai già fatta altre volte

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dal tuo Arciprete. Si, ripigliò, io l´ho già fatta all´occasione della
mia prima comunione, ed anche quando ci furono gli esercizi spirituali al mio paese, ma siccome io voglio mettere l´anima mia nelle sue mani, così desidero di manifestarle tutta la mia coscienza, affinché meglio mi conosca, e possa con più sicurezza darmi quei consigli che pos¬sono meglio giovare a salvarmi l´anima. Il direttore acconsentì: lo lodò della scelta, che voleva fare d´un confessore stabile; lo esortò a voler bene al confessore, pregare per lui, e manifestargli sempre qualunque cosa inquietasse la sua coscienza (30). Quindi lo aiutò a fare la desiderata confessione generale. Egli compié quell´atto coi più commoventi segni di dolore sul passato e di proponimento per l´av¬venire, sebbene, come ognuno può giudicare, consti dalla sua vita non aver mai commessa azione, che si possa appellare peccato mortale. Fatta la scelta del confessore, noi cangiò più per tutto il tempo che il Signore lo conservò tra noi. Egli aveva con esso piena confidenza, lo consultava anche fuori di confessione, pregava per lui, e godeva grandemente ogni volta che poteva da lui avere qualche buon consiglio
per sua regola di vita.
Scrisse una volta una lettera ad un suo amico che gli aveva mani¬festato il desiderio di venire anch´egli in quest´Oratorio. In essa gli
raccomandava di pregare il Signore per questa grazia, e poi gli suggerì alcune pratiche di pietà, come la Via Crucis; ma più di tutto lo esortò a confessarsi ogni otto giorni ed a comunicarsi più volte la settimana.
Mentre lodo grandemente il Besucco intorno a questo fatto, rac¬comando coi più vivi affetti del cuore a tutti, ma in ispecial modo alla gioventù di voler fare per tempo la scelta d´un confessore stabile, né mai cangiarlo, se non in caso di necessità. Si eviti il difetto di alcuni, che cangiano confessore quasi ogni volta che vanno a con¬fessarsi; oppure dovendo confessare cose di maggior rilievo vanno da un altro, ritornando poscia dal confessore primitivo. Facendo così costoro non fanno alcun peccato, ma non avranno mai una guida sicura che conosca a dovere lo stato di loro coscienza. A costoro accadrebbe quello che ad un ammalato, il quale in ogni visita volesse un medico nuovo. Questo medico difficilmente potrebbe conoscere il male dell´ammalato, quindi sarebbe incerto nel prescrivere gli
opportuni rimedi.
Che se per avventura questo libretto fosse letto da chi è dalla divina Provvidenza destinato all´educazione della gioventù, io gli rac¬comanderei caldamente tre cose nel Signore. Primieramente inculcare con zelo la frequente confessione, come sostegno della instabile gio¬vanile età, procurando tutti i mezzi che possono agevolare l´assiduità a questo Sacramento. Insistano secondariamente sulla grande utilità

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della scelta d´un confessore stabile da non cangiarsi senza necessità, ma vi sia copia di confessori, affinché ognuno possa scegliere colui, che sembri più adattato al bene dell´anima propria. Notino sempre per altro, che chi cangia confessore non fa alcun male, e che è meglio cangiarlo mille volte piuttosto che tacere alcun peccato in confessione.
Né manchino mai di ricordare spessissimo il grande segreto della confessione. Dicano esplicitamente che il confessore è stretto da un segreto naturale, Ecclesiastico, Divino e Civile per cui non può per nessun motivo, a costo di qualunque male fosse anche la morte, manifestare ad alcuno cose udite in confessione o servirsene per sè; che anzi può nemmeno pensare alle cose udite in questo Sacramento; che il confessore non fa alcuna maraviglia, né diminuisce l´affezione per cose comunque gravi udite in confessione, al contrario acquista
credito al penitente. Siccome il medico quando scopre tutta la gra
vezza deI male dell´ammalato gode in cuor suo perché può applicarvi
l´opportuno rimedio; così fa il confessore che è medico dell´anima
nostra, e a nome di Dio coll´assoluzione guarisce tutte le piaghe del¬l´anima. Io sono persuaso che se queste cose saranno raccomandate
e a dovere spiegate, si otterranno grandi risultati morali fra i giovanetti, e si conoscerà coi fatti qual maraviglioso elemento di moralità abbia la cattolica religione nel sacramento della Penitenza.
CAPO XX
La santa Comunione
Il secondo sostegno della gioventù è la santa Comunione. Fortu¬nati quei giovanetti che cominciano per tempo ad accostarsi con frequenza e colle debite disposizioni a questo Sacramento. Il Besucco era stato da´ suoi parenti e dal suo Prevosto animato ed ammaestrato intorno al modo di comunicarsi sovente e con frutto. Mentre era ancora in patria soleva già accostarsi ogni settimana; di poi in tutti i giorni festivi, ed anche qualche volta lungo la settimana. Venuto nell´Oratorio continuò per qualche tempo a comunicarsi colla stessa frequenza, di poi eziandio più volte la settimana, e in alcune novene anche tutti i giorni.
Sebbene l´anima sua candida e la esemplarissima sua condotta Io rendessero degno della frequente Comunione, tuttavia a lui sembrava di non esserne degno. Le apprensioni crebbero da che una persona venuta in questa casa disse al Besucco, che era meglio accostarsi più di rado per accostarsi con più lunga preparazione e con maggior fervore.

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Un giorno egli si presentò ad un suo superiore, e gli espose tutte
le sue inquietudini. Questi studiò di appagarlo dicendo:
— Non dài tu con grande frequenza il pane materiale al corpo ?
— Sì, certamente.
— Se tanto frequentemente diamo il pane materiale al corpo che soltanto deve vivere qualche tempo in questo mondo, perchè non dovremo dare sovente anche ogni giorno il pane spirituale all´anima,
che è la santa Comunione ? (S. Agostino).
— Ma mi sembra di non essere abbastanza buono per comuni
carmi tanto sovente.
— Appunto per farti più buono è bene accostarti spesso alla santa Comunione. Gesù non invitò i santi a cibarsi del suo corpo, ma i deboli, gli stanchi, cioè quelli che abborriscono il peccato, ma che per la loro fragilità sono in gran pericolo di ricadere. Venite a me tutti, egli dice, voi che siete travagliati ed oppressi, ed io vi ristorerò.
— Mi sembra che se si andasse più di rado si farebbe la Comu
nione con maggior divozione.
— Non saprei dirlo; quello che è certo, si è che l´uso insegna a far bene le cose, e chi fa sovente una cosa impara il vero modo di farla: così colui che va con frequenza alla Comunione impara il modo
di farla bene.
— Ma chi mangia più di rado mangia con maggior appetito.
— Chi mangia molto di rado e passa più giorni senza cibo egli o cade per debolezza, o muore di fame, oppure il primo momento che mangia corre pericolo di fare una rovinosa indigestione.
— Se è così, per l´avvenire procurerò di fare la santa Comunione con molta frequenza, perchè conosco veramente che è un mezzo
potente per farmi buono.
— Va´ colla frequenza che ti sarà prescritta dal tuo confessore.
— Egli mi dice di andare tutte le volte che niente m´inquieta
la coscienza.
— Bene, segui pure questo consiglio. Intanto voglio farti osser¬vare che nostro Signore Gesù Cristo c´invita a mangiare il suo Corpo e a bere il suo Sangue tutte le volte che ci troviamo in bisogno spiri¬tuale, e noi viviamo in continuo bisogno in questo mondo. Egli giunse fino a dire: Se non mangerete il mio Corpo e non beverete il mio Sangue non avrete con voi la vita. Per questo motivo al tempo degli Apostoli i Cristiani erano perseveranti nella preghiera e nel cibarsi del pane Eucaristico. Nei primi secoli tutti quelli che andavano ad ascoltare la santa Messa facevano la santa Comunione. E chi ascoltava la Messa ogni giorno, eziandio ogni giorno si comunicava. Finalmente la Chiesa Cattolica rappresentata nel Concilio Tridentino raccomanda

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ai Cristiani di assistere quanto loro è possibile al SS. Sacrificio della Messa, e fra le altre ha queste belle espressioni: Il Sacrosanto Concilio desidera sommamente che in tutte Ie Messe i Fedeli che le ascoltano facciano la Comunione non solo spiritualmente, ma eziandio sacra¬mentalmente, affinchè in loro sia più copioso il frutto che proviene da questo Augustissimo Sacrificio (Sess. 22, C. 6).
CAPO XXI
Venerazione al SS. Sacramento
Dimostrava il suo grande amore verso il SS. Sacramento non solo colla frequente Comunione, ma in tutte le occasioni che gli si pre¬sentavano. Già si è detto come al suo paese si prestava col massimo piacere ad accompagnare il Viatico. Uditone appena il segno diman¬dava tosto il permesso a´ suoi genitori, che assai di buon grado lo appagavano; indi volava alla chiesa a fine di prestare quei servigi che erano compatibili colla sua età. Suonare il campanello, portare i lumi accesi, portare e tenere aperto l´ombrello, recitare il Confiteor, il Miserere, il Te Deum, erano per lui care delizie. Eziandio in patria si occupava volentieri ad aiutare i compagni più giovani di lui o meno istruiti a prepararsi per comunicarsi degnamente, e a fare dopo il dovuto ringraziamento.
Giunto qui nell´Oratorio continuò nel suo fervore, e fra le altre cose prese la commendevolissima abitudine di fare ogni giorno una breve visita al SS. Sacramento. Si vedeva spesso intorno a qualche prete o chierico, affmchè radunati alcuni giovani li conducesse in chiesa a recitare preghiere particolari davanti a Gesù Sacramentato. Era poi cosa veramente edificante l´industria con cui egli studiava di condurre seco in chiesa qualche compagno. Un giorno ne invitò uno dicendogli: Vieni meco e andremo a dire un Pater a Gesù Sacra¬mentato, che è là tutto solo nel tabernacolo. Il compagno, che era tutto affaccendato nei trastulli, rispose che non ci voleva andare. Il Besucco andò solo ugualmente. Ma il compagno preso dal rincre¬scimento di essersi rifiutato dall´amorevole invito del virtuoso amico, il giorno seguente gli si avvicinò e gli disse: Ieri tu mi hai invitato ad andare in chiesa e non ho voluto andarvi, oggi invito te affinchè tu mi venga a tener compagnia a far quello che non ho fatto ieri. Il Besucco ridendo rispose: Non darti pena di ieri, io ho fatto la parte tua e la parte mia: dissi tre Pater per me, di poi ne ho detto tre per

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te a Gesù Sacramentato. Tuttavia ci vado molto volentieri e adesso e in qualunque altra occasione tu desideri avermi per compagno.
Mi è più d´una volta accaduto di dovermi recare dopo cena in chiesa per qualche mio dovere, mentre appunto i giovanetti della casa facevano la più allegra ed animata ricreazione nel cortile. Non avendo tra mano il lume inceppai in cosa che sembravami sacco di frumento con rischio prossimo di cadere stramazzoni. Ma quale non fu la mia sorpresa quando mi accorsi aver urtato nel divoto Besucco, che in un nascondiglio dietro, ma vicino all´altare in mezzo alle tenebre della notte pregava l´amato Gesù a favorirlo de´ celesti lumi per conoscere la verità, farsi ognor più buono, farsi santo ? Serviva eziandio molto volentieri la santa Messa. Preparare l´altare, accendere i lumi, appre¬stare le ampolline, aiutare il sacerdote a vestirsi erano cose di massimo suo gusto. Qualora per altro qualcheduno avesse desiderato di servirla egli si mostrava contento e la udiva con grande raccoglimento. Quelli che lo hanno osservato ad assistere alla santa Messa od alla benedi¬zione della sera vanno d´accordo nell´asserire, che era impossibile il mirarlo senza sentirsi commossi ed edificati pel fervore che dimostrava nel pregare, e per la compostezza della persona.
Era poi ansiosissimo di leggere libri, cantare canzoncine che ri¬guardassero il SS. Sacramento. Fra le molte giaculatorie, che egli recitava lungo il giorno, la più familiare era questa: Sia lodato e rin¬graziato ogni momento il Santissimo e Divinissimo Sacramento. Con questa bella giaculatoria, diceva, io guadagno cento giorni d´indul¬genza ogni volta che la dico; e di più appena che la dico mi sfuggono tutti i cattivi pensieri che mi corrono per la mente. Questa giaculatoria per me è un martello con cui sono sicuro di rompere le corna al de¬monio, quando viene a tentarmi.
CAPO XXII
Spirito di preghiera
cosa assai difficile il far prender gusto alla preghiera ai giova¬netti. La volubile età loro fa sembrare nauseante ed anche enorme peso qualunque cosa richieda seria attenzione di mente. Ed è una grande ventura per chi da giovanetto è ammaestrato nella preghiera e ci prende gusto. Per esso è sempre aperta la sorgente delle divine
benedizioni.
Il Besucco fu nel bel numero di costoro. L´assistenza prestatagli dai genitori fin daí più teneri anni, la cura che se ne prese il sno maestro

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e specialmente il suo Parroco produssero il desiderato frutto nel nostro giovanetto. Egli non era abituato a meditare, ma faceva molte preghiere vocali. Proferiva le parole chiare e distinte e le articolava in modo, che sembrava parlasse col Signore e colla santa Vergine o con qualche Santo, cui indirizzava le sue orazioni. Al mattino appena dato il segno della levata si vestiva prontamente, e aggiustato quanto di dovere, discendeva tosto in chiesa, o s´inginocchiava accanto al letto per pregare fino a tanto che il campanello indicasse di recarsi altrove. In chiesa poi oltre la sua specchiata puntualità andava a prendere posto presso a quei compagni ed in quei siti dove non fosse in alcun modo distratto, e gli dava gran pena il vedere qualcheduno ciarlare o tenere un contegno dissipato. Un giorno appena uscito andò subito in cerca di uno che aveva commesso tal mancamento. Come lo ebbe trovato gli ricordò quanto aveva fatto; poi fattogli vedere quanto si fosse diportato male gli inculcò di stare nel luogo santo con maggior raccoglimento.
Nutriva poi un affetto speciale per Maria Santissima. Nella no¬vena della sua Natività dimostrava un fervore particolare verso di essa. Il direttore soleva dare ogni sera qualche fioretto da praticarsi in onore di Lei. Besucco non solo ne faceva egli gran conto, ma si adoperava affinchè fosse eziandio da altri praticato. Per non dimen¬ticarsene li scriveva sopra un quaderno. In questo modo, egli diceva, in fine dell´anno avrò una bella raccolta di ossequi da presentare a Maria. Lungo il giorno li andava ripetendo e ricordando a´ suoi com¬pagni. Volle sapere il luogo preciso dove Savio Domenico si poneva ginocchione a pregare dinanzi l´altare della Vergine Maria. Colà egli si raccoglieva a pregare con grande consolazione del suo cuore. Oh, se io potessi, diceva, stare da mattino a sera a pregare in quel sito, quanto volentieri il farei! Imperciocchè mi sembra di avere lo stesso Savio a pregare con me, e mi pare che egli risponda alle mie preghiere, e che il suo fervore si infonda nel mio cuore. Per lo più era l´ultimo ad uscire di chiesa, perché soleva sempre fermarsi un po´ di tempo davanti alla statua di Maria Santissima. Per questo motivo spesso gli accadeva di perdere la colazione con molto stupore di quelli, che vedevano un giovanetto sui quattordici anni sano e robusto di¬menticare il cibo corporale pel cibo spirituale della preghiera.
Non di rado specialmente nei giorni di vacanza d´accordo con al¬cuni compagni andava in chiesa per recitare le sette allegrezze, i sette dolori di Maria, le litanie o la corona spirituale a Gesù Sacramentato. Ma il piacere di leggere per tutti quelle preghiere non voleva mai ce¬derlo ad altri. Nei giorni di Venerdì se gli era possibile, faceva od al¬meno leggeva la Via Crucis, che era la sua pratica di pietà prediletta.

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La Via Crucis, soleva dire, è per me una scintilla di fuoco, che mi anima a pregare, mi spinge a sopportare qualunque cosa per amor di Dio.
Egli era così amante della preghiera, ed erasi cotanto ad essa abi¬tuato, che appena rimasto solo o disoccupato qualche momento si metteva subito a recitare qualche preghiera. Nel medesimo tempo di ricreazione non di rado si metteva a pregare, e come trasportato da moti involontari talvolta scambiava i nomi dei trastulli in giacu¬latorie. Un giorno vedendo il suo superiore gli corse incontro per salutarlo col suo nome e gli disse: O Santa Maria. Altra volta volendo chiamare un compagno con cui si trastullava disse ad alta voce: O Pater noster. Queste cose mentre da una parte erano cagione di riso fra i compagni, dall´altra dimostravano quanto il suo cuore si dilet¬tasse dalla preghiera, e quanto egli fosse padrone di raccogliere il suo spirito per elevarlo al Signore. La qual cosa, secondo i maestri di spirito, segna un grado di elevata perfezione che raramente si os¬serva nelle persone di virtù consumata.
La sera terminate in comune le preghiere, recavasi in dormitorio, dove ponendosi ginocchione sopra l´incomodo dorso del suo baule fermavisi un quarto d´ora od anche mezz´ora a pregare. Ma avvisato che tal cosa recava disturbo ai compagni, che già erano in riposo, egli abbreviò il tempo e procurava di essere a letto contemporanea¬mente agli altri. Tuttavia appena coricato egli giungeva le sue mani dinanzi al petto e pregava finché fosse preso dal sonno. Se gli accadeva di svegliarsi lungo la notte si metteva subito a pregare per le anime del purgatorio, e sentiva gran dispiacere quando sorpreso dal sonno do¬veva interrompere la preghiera. Mi rincresce tanto, diceva ad un amico, di non poter reggere un po´ di tempo in letto senza dormire. Sono proprio miserabile, quanto bene farei alle anime del purgatorio se
potessi pregare come io desidero!
Insomma se noi esaminiamo lo spirito di preghiera di questo giovanetto possiamo dire avere egli letteralmente eseguito il precetto del Salvatore, che comandò di pregare senza interruzione, imper¬ciocchè i giorni e le notti da lui erano passate in continua preghiera.
CAPO XXIII
Sue penitenze
Parlare di penitenza ai giovanetti generalmente è recar loro spa¬vento. Ma quando l´amor di Dio prende possesso di un cuore, niuna cosa del mondo, nissun patimento lo affligge, anzi ogni pena della

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vita gli riesce di consolazione. Dai teneri cuori nasce già il nobile pensiero che si soffre per un grande oggetto, e che ai patimenti della vita è riservata una gloriosa ricompensa nella beata eternità.
Ognuno ha già potuto vedere quanto fosse grande il desiderio di patire del nostro Besucco, siccome dimostrò fin dalla sua prima età. Qui nell´Oratorio raddoppiò il suo ardore.
Si presentò un giorno al suo superiore e gli disse queste parole: Io sono molto angustiato, il Signore dice nel Vangelo, che non si può andare in Paradiso se non coll´innocenza o colla penitenza. Coll´in¬nocenza io non posso più andare, perché l´ho perduta; dunque bi¬sogna, ch´io ci vada colla penitenza.
Il superiore rispose che considerasse come penitenza la diligenza nello studio, l´attenzione nella scuola, l´ubbidire ai superiori, il sop¬portare gli incomodi della vita quali sono caldo, freddo, vento, fame, sete. Ma, ripigliò l´altro, queste cose si soffrono per necessità. — Ap¬punto quello che si soffre per necessità, se tu aggiugni di soffrire per amor di Dio diventerà vera penitenza, piacerà al Signore, e sarà di merito all´anima tua.
Egli per allora si acquetò, ma dimandava sempre di voler digiu¬nare, di lasciare o tutta o in parte la colazione del mattino, di potersi
mettere degli oggetti che gli recassero dolore o sotto gli abiti o nel letto,
le quali cose gli furono sempre negate. Alla vigilia di Tutti i Santi
dimandò come speciale favore di poter digiunare a pane ed acqua, il
quale digiuno gli fu cangiato nella sola astinenza dalla colezione. Il che gli tornò di molto piacere, perché, diceva, così potrò almeno in qualche cosa imitare i Santi del Paradiso, che battendo la via dei pa¬timenti giunsero a salvare le anime loro.
Non occorre parlare della custodia dei sensi esterni e specialmente degli occhi. Chi l´ha osservato per molto tempo nella compostezza
della persona, nel contegno coi compagni, nella modestia in casa e
fuori di casa non esita di asserire che egli si possa proporre qual com¬piuto modello di mortificazione e di esemplarità esterna alla gioventù. Essendo proibito di far penitenza corporale egli ottenne di poterne fare di altro genere, cioè esercitare i lavori più umili nella casa. Il fare
commissioni ai compagni, portare loro acqua, nettare le scarpe, ser
vire anche a tavola quando gli era permesso, scopare in refettorio,
nel dormitorio, trasportare la spazzatura, portare fagotti, bauli, purchè
il potesse, erano cose, che egli faceva con gioia e colla massima sua sod-disfazione. Esempi degni d´essere imitati da certi giovanetti, che per trovarsi fuori di casa hanno talvolta rossore di fare una commissione o di prestar servizio in cose compatibili col loro stato. Anzi talvolta ci sono giovanetti, che hanno fino vergogna di accompagnarsi coi propri

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genitori per l´umile loro foggia di vestire. Quasi che il trovarsi fuori di casa cambi la loro condizione, facendo dimenticare i doveri di pietà, di rispetto e di ubbidienza verso i genitori e di carità verso tutti.
Ma queste piccole mortificazioni contentarono soltanto per poco tempo il nostro Besucco. Egli desiderava di mortificarsi di più. Fu udito qualche volta lagnarsi dicendo, che a casa sua faceva maggiori penitenze e che la sua sanità non ne aveva mai sofferto. Il superiore rispondeva sempre, che la vera penitenza non consiste nel fare quello che piace a noi, ma nel far quello che piace al Signore, e che serve a promuovere la sua gloria. Sii ubbidiente, aggiungeva il superiore, e diligente nei tuoi doveri, usa molta bontà e carità verso i compagni, sopporta i loro difetti, dà loro buoni avvisi e consigli e farai cosa che al Signore piacerà più d´ogni altro sacrifizio.
Prendendo egli letteralmente ciò che gli si era detto di sopportare con pazienza il freddo delle stagioni, egli lasciò inoltrare la stagione invernale senza vestirsi come conveniva. Un giorno lo vidi tutto pal¬lido nella faccia, e chiedendogli se era male in salute: — No — disse — sto benissimo. — Intanto prendendolo per mano mi accorsi che aveva una sola giubbetta da estate, mentre eravamo già alla novena del
SS. Natale.
— Non hai abiti da inverno ? — gli dissi.
— Si che li ho, ma in camera.
- Perchè non te li metti ?
— Eh... pel motivo ch´Ella sa: sopportare il freddo nell´inverno per amor del Signore.
— Va´ immediatamente a metterli: fa´ in modo di essere ben ri¬parato dalle intemperie della stagione, e qualora ti mancasse qualche cosa fanne dimanda, e sarai senza altro provveduto.
Malgrado questa raccomandazione non si potè impedire un disor¬dine, da cui forse ebbe origine quella malattia, che lo condusse alla tomba, siccome più sotto racconteremo.
CAPO XXIV
Fatti e detti particolari
Vi sono parecchi detti e fatti, i quali non hanno diretta relazione con quanto ho finora esposto, che perciò vengono qui separatamente registrati. Comincio dalle conversazioni. Ne´ suoi discorsi era assai riservato, ma gioviale e faceto. Raccontava assai volentieri le sue vi¬cende di pastorello, quando conduceva le pecore e le capre al pascolo.

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Parlava dei cespugli, degli erbaggi, dei seni, degli antri, delle voragini della montagna del Roburento e del Drego come di altrettante mara¬viglie del mondo.
Aveva poi alcuni proverbi, che per lui erano verità incontrastabili. Quando voleva eccitare qualcheduno a non affezionarsi alle cose del mondo e pensare vie più alle celesti, soleva dire: Chi guarda a terra ¬Come la capra - È ben difficile - Che il ciel se gli apra.
Un giorno un compagno entrato in questioni di religione lasciava sfuggire non leggeri spropositi. Il nostro Besucco e perchè più giovane e perché non abbastanza istruito taceva, ma con animo assai inquieto
e risentito. Poscia fattosi animo, con viso allegro: — Ascoltate — prese a dire a tutti i presenti. — Tempo fa ho letto nel dizionario la spie¬gazione della parola mestiere, e fra le altre cose ho notato questa frase: Chi fa l´altrui mestiere - Fa la zuppa nel paniere. Mio padre asseriva lo stesso con altre parole dicendo: Chi fa quel che non sa - Guasta quel
che fa. Compresero tutti il significato delle espressioni; tacque l´in
discreto parlatore; e gli altri ammirarono l´accortezza e la prudenza del nostro giovinetto.
Egli era sempre contento delle disposizioni dei superiori; nè mai lamentavisi dell´orario della casa, degli apprestamenti di tavola, degli ordini scolastici e simili. Trovava sempre ogni cosa di suo gusto. Interrogato come mai potesse essere sempre contento di tutto, rispose: Io sono di carne e di ossa come gli altri, ma desidero di fare tutto per la gloria di Dio, perciò quello, che non piacerà a me, tornerà certamente di gradimento a Dio: quindi ho sempre eguale motivo di essere contento.
Avvenne un giorno che alcuni compagni da poco tempo venuti nella casa non potevano abituarsi al nuovo genere di vita. Egli li confortava dicendo: — Se ci toccherà di andar militare, potremo noi farci un orario a nostro modo ? Potremo andarci a coricare, o levarci di letto quando a noi piacerà ? oppure andare liberamente al pas¬seggio ?
— No certamente — risposero, — ma un po´ di libertà...
— Noi siamo sicuramente liberi se facciamo la volontà di Dio, e solamente diventiamo veri schiavi quando cadiamo nel peccato, poichè restiamo allora schiavi del maggior nostro nemico che è il demonio.
— Ma a casa mia mangiava e dormiva meglio — diceva uno.
— Posta la verità di quanto asserisci, cioè che a casa tua mangiassi meglio e dormissi di più, ti dirò, che nutrivi teco due grandi nemici, quali sono l´ozio e la gola. Debbo eziandio notarti, che noi non siamo

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nati per dormire e per mangiare come fanno le capre e le pecore, ma dobbiamo lavorare per la gloria di Dio, e fuggir l´ozio che è il padre di tutti i vizi. Del rimanente non hai udito ciò che ha detto il nostro
superiore ?
— Non mi ricordo più.
— Ieri fra le altre cose il superiore ci ha detto, che esso tiene
volentieri i giovani, ma vuole che nessuno stia per forza. Chiunque non sia contento, egli conchiudeva, lo dica, e procurerò d´appagarlo; chi non vuol restare in questa casa, egli è pienamente libero, ma se ri¬mane non dissemini il malcontento, ci stia volentieri.
— Io andrei altrove, ma bisogna pagare ed i miei parenti non
possono.
— Tanto maggior motivo per te di dimostrarti contento: se tu
non paghi dovresti mostrarti soddisfatto più di ogni altro: Perché a cavai donato non si guarda in bocca. Dunque, o cari compagni, persuadiamoci, noi siamo in una casa di provvidenza; chi paga poca, chi paga niente, e dove potremo avere altrettanto a questo
prezzo ?
— È vero quanto dici, ma se si potesse avere una buona tavola...
— Giacchè tu muori per avere una buona tavola, io ti sugge¬rirò un mezzo con cui tu la puoi avere: va´ in pensione coi tuoi
superiori.
— Ma io non ho danari da pagare pensione.
— Dunque datti pace e contentati di quel tanto che ci dànno
per nostro alimento; tanto più che tutti gli altri nostri compagni si
mostrano contenti.
— Che se poi volete, o cari amici, che vi parli schietto, dirò che,
giovani robusti come siamo noi, non dobbiamo badare alla delicatezza della vita; come cristiani dobbiamo anche fare un poco di penitenza se vogliamo andare in paradiso, dobbiamo mortificare a tempo de¬bito questa golaccia. Credetelo, questo è per noi un mezzo facilis¬simo per meritarci la benedizione del Signore, e farci dei meriti in
Paradiso.
Con questi ed altri simili modi di parlare, mentre confdrtava i
suoi compagni, ne diveniva anche il modello nelle regole di civiltà
e di carità cristiana.
Nel discorrere, soleva sempre scrivere sopra i quaderni, sopra i
libri proverbi o sentenze morali che avesse udito (31).
Nelle lettere, poi, era assai facondo, ed io credo di far cosa grata
coll´inserirne alcune, il cui originale mi fu graziosamente comunicato da coloro cui erano state dirette.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lettera autografa cli Francesco Besucco al suo padrino, l´arciprete di Argentera, mandata dallo stesso arciprete a Don Bosco insieme con altre lettere e testimonianze preziose per la composizione della biografia

Seconda pagina della stessa lettera autografa


Quarta pagina della stessa lettera autografa con la distinta delle spese del primo bimestre

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CAPO XXV
Sue lettere
Queste lettere sono un segno manifesto della bontà di cuore e nel tempo stesso della pietà sincera del nostro Besucco. È cosa assi rara anche in persone attempate lo scrivere lettere senza umano rispetto e condite di religiosi e morali pensieri, come veramente dovrebbe fare ogni cristiano: ma è poi rarissima cosa che ciò si pratichi fra i giovanetti. Io desidererei che ognuno di voi, o giovani amatissimi, evitasse quel genere di lettere che nulla hanno di sacro, a segno che potrebbero inviarsi ai medesimi pagani. Non sia così; serviamoci pure di questo mezzo meraviglioso per comunicare i nostri pensieri, i nostri progetti a quelli che sono da noi lontani; ma sappiamo sempre distinguere le corrispondenze, quando sono coi cristiani o coi pagani; né mai sia dimenticato qualche morale pensiero. Per questo motivo io inserisco alcune lettere del giovinetto Besucco che, per semplicità e per tenerezza d´affetto, giudico vi torneranno gradite.
La prima di queste è indirizzata a suo padrino Arciprete dell´Ar¬gentera colla data deI 27 settembre 1863. In essa gli dà ragguaglio della felicità, che egli gode nell´Oratorio, e lo ringrazia di averlo qua inviato.
La lettera è del tenor seguente:
« Carissimo signor Padrino,
Le partecipo, carissimo signor padrino, che i miei compagni da quattro giorni sono andati a casa per passare una ventina di giorni in vacanza. Io sono molto contento che essi li passino allegramente ma io godo assai più di loro, perché stando qui ho tempo di scriverle questa lettera, che spero tornerà anche a lei di gradimento. Le dico prima di tutto che non posso trovare espressioni valevoli a ringraziarla dei benefizi che mi ha fatto. Oltre i favori che mi prodigò, specialmente col farmi scuola in sua casa, mi ha eziandio insegnate tante belle cose spirituali e temporali, che mi sono di potente aiuto. Ma il maggiore di questi favori fu quello di mandarmi in questa casa dove nulla più mi manca nè per l´anima, nè pel corpo. Io ringrazio ognor più il Signore, che mi abbia concesso così segnalato favore a preferenza di tanti altri giovani. Lo preghi di cuore per me affinché mi conceda la grazia di corrispondere a tanti segni di celeste bontà. Ora io sono pienamente felice in questo luogo, nulla ho più a desiderare, ogni
4 CAVIGLIA - Besucco Francesco

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mia brama è appagata. Ringrazio lei e tutti gli altri benefattori di tutti gli oggetti che mi hanno mandati. La scorsa settimana sperava di avere la consolazione di vederla qui in Torino, affinché potesse parlare coi miei superiori della mia condotta: pazienza, il Signore vuole differirmi questa consolazione.
Dalla lettera di lei ho conosciuto, che i miei di casa piangevano al sentir leggere la mia lettera. Dica loro che hanno motivo di ralle¬grarsi e non di piangere perchè io sono pienamente felice. La ringrazio dei preziosi avvertimenti, che mi dà, e l´assicuro che finora ho fatto quanto ho potuto per metterli in pratica. Ringrazi per me la mia so¬rella di quella comunione che ha fatto espressamente per me. Credo che questo mi abbia molto aiutato nei miei studi. Imperocchè mi sembra quasi impossibile che in tempo così breve io abbia potuto passare nella seconda ginnasiale. La prego di salutare i miei parenti e dir loro, che preghino per me, ma non si diano alcun fastidio, perchè io godo buona sanità, sono provveduto di tutto, in una parola sono felice. Mi scusi se ho ritardato a scriverle; nei giorni scorsi avea molto da fare per prepararmi agli esami, i quali mi riuscirono bene più di quanto mi
aspettava. Io desidero ardentemente di mostrarle la mia gratitudine; ma non potendo in altro modo, procurerò di darle qualche compenso pregando il Signore a concederle sanità e giorni felici.
Mi dia la sua santa benedizione e mi consideri sempre
Suo affezionatissimo figlioccio BESUCCO FRANCESCO ».
Il padre di Francesco, di professione arrotino, passa la bella sta¬gione lavorando la campagna e coltivando i bestiami in Argentera, ma in autunno parte e va in vari paesi per guadagnar pane per sè e per la famiglia esercitando il suo mestiere. Francesco il 26 ottobre scrivevagii una lettera in cui, notando la sua contentezza di trovarsi a Torino, esprime i suoi teneri figliali affetti nel modo seguente:
« Carissimo Padre,
Si avvicina il tempo in cui voi, carissimo padre, dovete partire per far campagna e provvedere quanto è necessario per la famiglia. Io non posso come vorrei accompagnarvi nei vostri viaggi, ma sarò sempre con voi col mio pensiero e colla preghiera. Vi assicuro che ogni giorno io prego il Signore, perché vi dia sanità e la sua santa grazia.
Mio padrino fu qui all´Oratorio, e ne ho avuto il più gran piacere. Fra le altre cose mi dice che voi avete paura che io patisca di fame; no, state tanquillo, che ho pane in grande abbondanza; e se mettessi

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a parte il pane che eccede il mio bisogno, in fine di ciascuna settimana voi potreste fare una grossa panata, come diciamo noi (32). Vi basti sapere che mangiamo quattro volte al giorno e sempre finché vogliamo; a pranzo ci è minestra e pietanza, a cena minestra. Una volta si dava il vino tutti i giorni, ma dacchè è venuto così caro l´abbiamo soltanto nei giorni festivi. Non datevi pertanto alcun fastidio per me: io ho niente più a desiderare, quanto desiderava mi è stato concesso.
Vi partecipo due cose con piacere, e sono che i miei superiori si mostrano contenti di me ed io lo sono ancor più di loro. L´altra cosa è la visita dell´Arcivescovo di Sassari. Esso venne a fare una vi¬sita al Direttore; visitò la casa, si trattenne molto coi giovani, ed io ebbi il piacere di baciargli la mano e di ricevere la sua santa benedizione.
Caro padre, salutate tutti quelli di nostra famiglia e specialmente la mia cara madre. Date delle mie notizie al mio padrino e ringrazia¬telo sempre di quanto ha fatto per me. Fate buona campagna, e se avrete dimora fissa in qualche paese, fatemelo sapere e vi manderò tosto mie notizie. Pregate anche per me, che di tutto cuore sarò sempre
Vostro affez.mo figliuolo
FRANCESCO )).
Da che era stato visitato dal suo padrino, desiderava ardentemente di ricevere da lui qualche lettera. Ne fu appagato con uno scritto, in cui quel zelante Arciprete gli dava parecchi consigli per suo bene spi¬rituale e temporale. Francesco risponde esprimendo la sua contentezza; lo ringrazia, e gli promette di mettere in pratica i suoi avvisi.
La lettera del 23 novembre 1863 è del tenore seguente:
a Carissimo signor Padrino,
Il giorno 14 di questo mese ho ricevuto la sua lettera. Ella può immaginarsi quale grande consolazione io abbia provato. Io passai in gran festa tutto il giorno in cui ho ricevuto la sua lettera. La lessi e rilessi più volte, e più la leggo più grande è il coraggio che mi sento di studiare e di farmi migliore. Adesso conosco quale grande benefizio mi abbia fatto mandandomi in questo Oratorio. Non posso sfogare la riconoscenza del mio cuore, se non andando in chiesa a pregare per i miei benefattori e specialmente per lei; e per non perdere il tempo di studio io vado a pregare in tempo di ricreazione. Debbo per altro fermarmi poco, perché sebbene io provi maggior contentezza nello studio e nel pregare, che non nel divertimento, tuttavia io debbo fare con gli altri la ricreazione, perché così è comandato dai Superiori, come cosa utile e necessaria allo studio e alla sanità.

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Adesso tutte le scuole sono cominciate (33) e dal mattino alla sera tra scuola, studio, scuola di canto fermo, di musica, pratiche religiose e divertimenti non mi rimane più un momento di tempo per pensare alla mia esistenza.
Io sono con gran piacere sovente visitato dal luogo-tenente Ey¬sautier; alcuni giorni or sono mi portò un fracco così bello (34) che se ella me lo vedesse in dosso mi crederebbe un cavaliere.
Ella mi raccomandò di cercarmi un buon compagno, ed io l´ho subito trovato (35). Esso è migliore di me nello studio ed anche assai più virtuoso. Appena ci siamo conosciuti abbiamo fatto grande ami¬cizia. Tra noi due non si parla dí altro che di studio e di pietà. Egli ama eziandio la ricreazione, ma dopo aver saltellato un poco ci mettiamo subito a passeggiare discorrendo di cose scolastiche. Il Signore mi aiuta sensibilmente; nei lavori dei posti vado sempre più avanti: di novanta che sono in mia classe, ne ho ancora una quindicina prima di me.
Mi consolo molto nel sapere che i miei compagni si ricordano di me; dica loro che li amo assai e che si occupino con diligenza nello studio e nella pietà. La ringrazio della bella lettera che mi ha scritto, e procu¬rerò di mettere in pratica gli avvisi in essa contenuti. Io desidero arden¬temente di farmi buono, perché so che Iddio tiene preparato un gran premio per me e per quelli che lo amano e lo servono in questa vita.
Mi perdoni se ho ritardato a scrivere e se non ho messo in pratica gli avvisi datimi da lei, mio caro benefattore. La prego di salutare tutti quelli di mia casa, e non potendo porgere saluti a mio padre lo faccio col cuore pregando Iddio per lui. Sia in ogni cosa fatta la volontà di Dio non mai la mia, mentre mi affermo nei cuori amabilissimi di Gesù e di Maria
Di V. S. Ill.ma Obbl.mo figlioccio
BESUCCO FRANCESCO ».
Nella lettera inviata al suo Arciprete, e colla medesima data, Francesco ne chiudeva eziandio un´altra indirizzata ad un suo amico e virtuoso cugino di nome Antonio Beltrandi dell´Argentera.
L´ordine, la dicitura, i pensieri della medesima sembrano degni di essere anche qui pubblicati a modello delle lettere, che si possono scrivere vicendevolmente tra due buoni giovanetti. Eccone il tenore:
« Carissimo compagno Antonio,
Che bella notizia mi ha dato il mio padrino a tuo riguardo! Egli mi scrive, che tu devi eziandio intraprendere gli studi come ho fatto io. Ti dirò che questo è un ottimo pensiero e sarai ben fortunato se

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lo manderai ad effetto. E poiché questo benefico nostro Arciprete si dispone a farti scuola, procura di compensarlo colla diligenza nel¬l´adempimento de´ tuoi doveri. Occupati nello studio, ma accanto allo studio metti subito la preghiera e la divozione: questo è l´unico mezzo per riuscire in questa impresa ed essere poi contento. Io godo già al pensiero che l´anno venturo mi sarai compagno in questa casa.
I ricordi che io posso darti si riducono ad uno solo: ubbidienza e sommissione ai tuoi parenti ed al signor Arciprete. Ti raccomando poi il buon esempio verso i tuoi compagni.
Un favore per altro debbo dimandarti ed è che in questo inverno tu faccia la Via Crucis dopo le sacre funzioni come io faceva, quando era in patria. Procura di promuovere quest´opera di pietà, e ne sarai benedetto dal Signore. Il tempo è prezioso, procura di occuparlo bene; se ti rimane qualche ora libera, raduna alcuni ragazzi e loro fa ripetere quella lezione della dottrina cristiana, che si è insegnata nella domenica antecedente. È questo un mezzo efficacissimo per meri¬tare la benedizione del Signore. Quando il mio padrino mi scriverà, digli che mi dia delle tue notizie, e così sarò sempre più rassicurato della tua buona volontà. Presentemente io mi trovo molto occupato. O mio caro, che grande afflizione io provo nel pensare al tempo che ho speso invano, e che avrei potuto spendere nello studio ed in altre opere buone!
Credo che prenderai questa mia lettera in buona parte, e se mai qualche cosa ti dispiacesse, te ne dimando perdono. Fa´ tutto quello che puoi affinché possiamo l´anno venturo essere compagni qui in Torino, se così piacerà al Signore.
Addio, caro Antonio, prega per me.
Tuo affezionatissimo amico BESUCCO FRANCESCO ».
CAPO XXVI
Ultima lettera - Pensieri alla madre
Dalle lettere fin qui esposte apparisce la grande pietà, che nel cuore nutriva Francesco: ogni suo detto, ogni suo scritto è un com¬plesso di teneri affetti e di santi pensieri. Sembra tuttavia, che, di mano in mano che si avvicinava al fine della sua vita, egli divenisse ognor più infiammato d´amor di Dio. Anzi da certe espressioni sembra che egli ne avesse presentimento. Il suo stesso padrino quando ricevette quest´ultima lettera sclamò: Mio figlioccio mi vuole abbandonare; Iddio lo vuole con sè.

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Io la riferisco qui per intero come vero modello di chi vuole augu¬rare cristianamente un buon capo d´anno. Essa porta la data del 28 di¬cembre 1863.
« Carissimo signor Padrino,
Ogni giovane ben educato commetterebbe certamente un atto d´ingratitudine altamente da biasimarsi, se in questi giorni non iscri¬vesse a´ suoi genitori e benefattori augurando loro felicità e benedi¬zioni. Ma quali sentimenti non dovrò io mai manifestare verso di lei, mio caro ed insigne benefattore ? Fin dal giorno che io nacqui ella cominciò a beneficarmi e a prendersi cura dell´anima mia. Le prime cognizioni della scienza, della pietà, del timor di Dio, le debbo a lei. Se ho fatto qualche corso di scuola, se ho potuto fuggire tanti pericoli del¬l´anima mia, è tutta opera dei suoi consigli, delle sue cure e sollecitudini.
Come mai pertanto la potrò degnamente ricompensare ? Non po¬tendolo in altra guisa procurerò almeno di darle segni della mia co¬stante gratitudine col conservare nella mente impressa la ricordanza dei benefizi ricevuti, ed in questi pochi giorni mi adoprerò con tutte le forze ad augurarle copiose benedizioni dal Cielo con buon fine dell´anno presente e buon principio dell´anno nuovo.
Egli è antico il proverbio, che dice: Un buon principio à la metà dell´opera; pertanto anche io desidererei cominciare bene quest´anno e di incominciarlo colla volontà del Signore e continuarlo secondo la santa sua volontà.
Al presente i miei studi vanno bene; la condotta nello studio, nel dormitorio, nella pietà fu sempre optime. Ho avuto notizie di mio padre e di mio fratello i quali godono buona salute. Dia questa notizia a quelli di mia casa e ne avranno certamente piacere. Dica loro che non istiano inquieti per niente; io sto bene e nulla mi manca.
La prego eziandio di salutare il mio buon maestro signor Antonio Valorso, e gli dica che gli chiedo perdono delle disobbedienze e dei dispiaceri che tante volte gli ho dato, mentre frequentava la sua scuola.
Finalmente rinnovo l´assicurazione che non passerò mai giorno senza pregar Dio che conservi lei in sanità ed in lunga vita. Caro si¬gnor padrino, mi perdoni anche ella di tutti i disturbi, che le ho dato; continui ad aiutarmi coi suoi consigli. Io non desidero altro che di farmi buono, e di correggermi dei tanti miei difetti. Sia per sempre fatta la volontà di Dio e non mai la mia.
Con gran rispetto ed affezione mi professo
Suo obbligatissimo figlioccio BESUCCO FRANCESCO ».

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Nella lettera indirizzata al suo padrino racchiudevasi un biglietto per sua madre, che è l´ultimo dei suoi scritti e si può considerare come il suo testamento ovvero le ultime parole scritte ai suoi genitori.
« Amatissima madre,
Siamo alla fine dell´anno, Iddio ci aiutò a passarlo bene. Anzi posso dire che quest´anno fu per me una continua serie di celesti favori. Mentre vi auguro buon fine per questi pochi giorni che ci rimangono, prego il Signore che voglia concedervi un buon principio dell´anno novello continuato e ricolmo di ogni sorta di beni spirituali e tempo¬rali. La beatissima Vergine Maria vi ottenga dal divin suo figliuolo lunga vita e giorni felici.
Quest´oggi ho ricevuto una lettera di mio padre, da cui conosco che tanto esso quanto mio fratello godono buona salute, e questo mi recò grande consolazione. Vi mando qui la nota di alcuni oggetti che ancora mi occorrono.
Mia cara madre, vi ho dati tanti fastidi quando ero a casa, e ve ne do ancora presentemente; ma procurerò di compensarvi colla mia buona condotta e colle mie preghiere. Vi prego di fare in modo che mia sorella Maria possa studiare, perchè colla scienza può assai meglio istruirsi nella religione.
Addio, cara madre, addio, offriamo al Signore le nostre azioni ed i nostri cuori, ed a lui raccomandiamo in particolar modo la salvezza delle anime nostre. Sia sempre fatta la volontà del Signore.
Augurate ogni bene da parte mia a tutti quelli di nostra casa, pregate per me, che di cuore vi sono
Affez.mo figliuolo FRANCESCO ».
Da queste ultime lettere chiaro apparisce che il cuore di Besucco non sembrava più di questo mondo, ma di chi cammina coi piedi sulla terra, e che abbia già l´anima sua con Dio, di cui voleva conti¬nuamente parlare e scrivere.
Col fervore nelle cose di pietà cresceva eziandio l´ardore di allon¬tanarsi dal mondo. Se potessi, diceva talvolta, vorrei separare l´anima dal corpo per meglio gustare, che cosa voglia dire amar Dio. Se non ne fossi proibito, diceva eziandio, io vorrei cessare da ogni alimento per godere a lungo il grande piacere, che si prova nel patire pel Si¬gnore. Che grande consolazione hanno mai provato i martiri nel morire per la fede!

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Insomma egli e colle parole e coi fatti manifestava quanto già diceva san Paolo: « Desidero di essere disfatto per essere col mio Si¬gnore glorificato ». Dio vedeva il grande amore che regnava verso di Lui in quei piccolo cuore, e affinché la malizia del mondo non cangiasse il suo intelletto volle chiamarlo a sè, e permise che un eccessivo af¬fetto alle penitenze ne desse in certo modo occasione.
CAPO XXVII
Penitenza inopportuna e principio di sua malattia
Egli aveva letto nella vita di Savio Domenico, come esso un anno aveva imprudentemente lasciato assai inoltrare la stagione senza co¬prirsi convenientemente nel letto. Besucco lo volle imitare e giudicato che l´ordine datogli di coprirsi fosse limitato soltanto agli abiti del giorno pensò di essere libero di mortificarsi nel letto di notte. Senza dire nulla egli prendeva le coperte di lana insieme cogli altri compagni, ma invece di coprirsi le piegava e le metteva sotto al capezzale.
La cosa andò avanti fino ai primi giorni di gennaio, finchè un mat¬tino rimase talmente intirizzito che non potè levarsi cogli altri. Rife¬rito ai superiori, come Besucco fosse a letto per incomodo di sanità, fu inviato l´infermiere della casa per visitarlo e riconoscerne i bisogni. Come costui gli fu vicino, lo richiese che cosa avesse.
— Niente niente — egli rispose.
— Se non hai niente, perchè dunque sei a letto ?
— Così, così... un po´ incomodato.
Intanto l´infermiere si avvicina per aggiustargli le coperte, e si accorge che ha una sola copertina da estate sopra il suo letto.
— E le tue coperte, Besucco, dove sono ?
— Son qua sotto al capezzale.
- Perchè mai fare tal cosa ?
— Oh niente... quando Gesù pendeva in croce non era meglio coperto di me.
Si conobbe tosto, che il male del Besucco non era leggiero, laonde fu immediatamente portato nell´infermeria.
Fu subito fatto chiamare il medico, che da prima ravvisò non grave la sua malattia reputandola soltanto un semplice raffreddore.
Ma il dì seguente si accorse, che invece di dileguarsi minacciava una congestione catarrale allo stomaco, che perciò la malattia prendeva una pericolosa intensità (36). Furono quindi praticati i rimedi ordinari

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dei purganti, dell´emetico, alcuni salassi, e bibite di vario genere, ma non si potè ottenere alcun favorevole risultato.
Interrogato un giorno, perchè avesse fatto quella sbadataggine, cioè non si fosse coperto in letto, rispose: — Mi rincresce che tal cosa abbia recato dispiacere ai miei superiori, spero per altro che il Si¬gnore riceverà questa piccola penitenza in soddisfazione dei miei peccati.
— Ma e le conseguenze della tua imprudenza ?
— Le conseguenze io le lascio tutte nelle mani del. Signore; qualunque cosa sia per avvenire di questo mio corpo non ci bado, purché ogni cosa torni a maggior gloria di Dio, e a vantaggio dell´ani¬ma mia.
CAPO XXVIII
Rassegnazione nel suo male - Detti edificanti
La sua malattia fu di soli otto giorni che per lui furono altrettanti esercizi ed ai compagni esempi di pazienza e di cristiana rassegnazione. Il male gli opprimeva il respiro, gli cagionava acuto e continuo mal di capo; fu sottoposto a molte e dolorose operazioni chirurgiche; gli furono amministrati parecchi rimedi energici. Ma tutte queste prescrizioni, tutte queste cure non valsero ad alleviare il suo male, e servirono soltanto a far risplendere l´ammirabile sua pazienza. Egli non diede mai alcun segno di risentimento o di lamento. Talvolta gli si diceva: — Questo rimedio dispiace, non è vero ? — Egli rispon¬deva tosto: — Se fosse una dolce bibita questa mia boccaccia sarebbe più _soddisfatta, ma è giusto che essa faccia un poco di penitenza delle ghiottonerie passate. — Altra volta gli si diceva: — Besucco, tu soffri molto, non è vero ? — È vero che soffro alquanto, ma che cosa è mai questo in confronto di quello che dovrei patire per i miei pec¬cati ? Debbo per altro assicurarvi che sono così contento, che non mi sarei giammai immaginato che si provasse tanto piacere nel patire per amor del Signore.
Chiunque poi gli avesse prestato qualche servizio lo ringraziava di tutto cuore dicendo subito: — Il signore vi ricompensi della carità
che mi usate. Non sapendo poi come esprimere la sua gratitudine
all´infermiere gli disse più volte queste parole: — Il Signore vi paghi in mia vece, e se andrò in Paradiso lo pregherò con tutto il cuore per voi affinché vi aiuti e vi benedica. — Un giorno l´infermiere lo inter¬rogò se non aveva paura di morire. — Caro infermiere, — rispose

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— se il Signore mi volesse prendere con Lui in Paradiso io sarei con¬tentissimo di ubbidire alla sua chiamata, ma temo assai di non essere preparato. Ciò non ostante spero tutto nella infinita sua misericordia, e raccomandandomi di cuore a Maria SS., a S. Luigi Gonzaga, a Savio Domenico, colla loro protezione spero di fare una buona morte.
Eravamo soltanto al quarto giorno della malattia, quando il medico cominciò a temere della vita del nostro Francesco. Per cominciare a parlargli di quest´ultimo momento gli dissi:
— Mio caro Besucco, ti piacerebbe di andare in Paradiso ?
— S´immagini se non mi piacerebbe di andare in Paradiso! Ma bisogna guadagnarmelo.
— Supponi che si tratti di scegliere tra guarire o andare in Pa
radiso: che sceglieresti ?
- Son due cose distinte, vivere pel Signore o morire per andare
col Signore. La prima mi piace, ma assai più la seconda. Ma chi mi assicura il Paradiso dopo tanti peccati che ho fatti ?
— Facendoti tale proposta io suppongo che tu sii sicuro di andare in Paradiso, del resto se trattasi di andare altrove io non voglio che per ora tu ci abbandoni.
— Come mai potrò meritarmi il Paradiso ?
— Ti meriterai il Paradiso pei meriti della passione e della morte di nostro Signore Gesù Cristo.
— Ci andrò dunque in Paradiso ?
— Ma sicuro e certamente, ben inteso quando al Signore piacerà. Allora egli diede uno sguardo a quelli che erano presenti, di poi fregandosi le mani disse con gioia: — Il contratto è fatto: il Paradiso
e non altro; al Paradiso e non altrove. Non mi si parli più di altro, che del Paradiso.
— Io — gli dissi allora — sono contento, che tu manifesti questo vivo desiderio pel Paradiso, ma voglio che sii pronto a fare la santa volontà del Signore...
Egli interruppe il mio discorso dicendo: — Sì si, la santa volontà del Signore sia fatta in ogni cosa, in Cielo ed in terra.
Nel quinto giorno della malattia chiese egli stesso di ricevere i Ss. Sacramenti. Voleva fare la confessione generale: cosa che gli fu
negata non avendone alcun bisogno, tanto più che l´aveva fatta al¬cuni mesi prima. Tuttavia egli si preparò a quell´ultima confessione con un fervore tutto singolare e mostravasi molto commosso. Dopo la confessione apparve assai allegro, e andava dicendo a chi l´assisteva: — Pel passato ho promesso mille volte di non più offendere il Signore; ma non ho mantenuta la parola. Oggi ho rinnovata questa promessa, e spero di essere fedele fino alla morte.

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Egli fu nella sera di quel giorno che gli si domandò se aveva qual¬che cosa da raccomandare a qualcheduno.
— Oh sì — dicevami, — dica a tutti che preghino per me affinchè sia breve il mio purgatorio.
— Che vuoi ch´io dica a´ tuoi compagni da parte tua ?
— Dica loro che fuggano Io scandalo, che procurino di far sempre delle buone confessioni.
— E ai chierici ?
— Dica ai chierici, che diano buono esempio ai giovani, e che si adoprino sempre per dar loro dei buoni avvisi, e dei buoni consigli ogni qual volta sarà occasione.
— E a´ tuoi superiori ?
— Dica a´ miei superiori che io li ringrazio tutti della carità che mi hanno usata; che continuino a lavorare per guadagnare molte anime; e quando io sarò in Paradiso pregherò per loro il Signore.
— E a me che cosa dici ?
A queste parole egli si mostrò commosso e dando uno sguardo fisso: — A Lei chiedo — ripigliò — che mi aiuti a salvarmi l´anima. Da molto tempo prego il Signore che mi faccia morire nelle sue mani, mi raccomando che compia l´opera di carità, e mi assista fino agli ultimi momenti della mia vita.
Io Io assicurai di non abbandonarlo, sia che egli guarisse, sia che egli stesse ammalato, ed assai più ancora qualora si fosse trovato in punto di morte. Dopo prese un´aria molto allegra, nè ad altro più badò che a prepararsi a ricevere il SS. Viatico.
CAPO XXIX
Riceve il Viatico - Altri detti edificanti - Un suo rincrescimento
Eravamo al sesto giorno della sua malattia (otto gennaio) quando egli stesso dimandò di fare la SS. Comunione. Quanto volentieri andrei a farla co´ miei compagni in chiesa, diceva, sono otto giorni dacché non ho più ricevuto il mio caro Gesù. Mentre si preparava a riceverlo dimandò a chi Io assisteva che cosa volesse dire Viatico.
— Viatico — gli fu risposto — vuoi dire provvigione e com¬pagno di viaggio.
— Oh che bella provvigione ho io avendo con me il pane degli Angioli nel cammino che io sono per intraprendere!

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— Non solo avrai questo pane celeste — gli fu soggiunto — ma avrai il medesimo Gesù per aiuto e per compagno nel grande viaggio, che ti prepari a fare per la tua eternità.
— Se Gesù è mio amico e compagno non ho più nulla a temere; anzi ho tutto a sperare nella sua grande misericordia. Gesù, Giuseppe e Maria, vi dono il mio cuore e l´anima mia.
Dopo fece la sua preparazione, nè fu mestieri che altri l´aiutasse, imperciocchè aveva le sue solite preghiere che con ordine recitava l´una dopo l´altra. Ricevette l´Ostia santa con quei segni di pietà, che piuttosto si possono immaginare che descrivere.
Fatta la Comunione si pose a pregare per far il ringraziamento. Richiesto se aveva bisogno di qualche cosa, nulla più rispondeva, che: Preghiamo. Dopo un considerevole ringraziamento chiamò gli astanti a sè e loro si raccomandò di non parlargli più di altro che del Paradiso.
In questo tempo fu visitato dall´Economo della casa, la qual cosa gli tornò di gran piacere.
— O D. Savio, — si pose a dire ridendo — questa volta ci vado al Paradiso.
— Fatti coraggio, e mettiamo nelle mani del Signore e la vita e la morte; speriamo di andare al Paradiso, ma quando a Dio piacerà.
— AI Paradiso, D. Savio; mi perdoni i dispiaceri che le ho cagio¬nati, preghi per me, e quando sarò al Paradiso io pregherò anche il Signore per lei.
Qualche tempo dopo vedendolo tranquillo il richiesi se aveva qualche commissione da lasciarmi pel suo Arciprete. A questa parola si
mostrò turbato. — Il mio Arciprete — rispose — mi ha fatto molto
bene; egli ha fatto quanto ha potuto per salvarmi; gli faccia sapere che io non ho mai dimenticato i suoi avvisi. Io non avrò più la consolazione
di vederlo in questo mondo, ma spero di andare in Paradiso e di pre¬gare la SS. Vergine af3nchè lo aiuti a conservare buoni tutti i miei compagni, e così un giorno io lo possa vedere con tutti i suoi parroc¬chiani in Paradiso. Ciò dicendo la commozione gli interruppe il di¬scorso.
Dopo alquanto di riposo gli domandai se non desiderava di vedere i suoi parenti. — Io non li posso più vedere — rispondeva — perchè essi sono molto distanti, sono poveri e non possono fare la spesa del viaggio. Mio padre poi è lontano da casa lavorando nel suo mestiere. Faccia loro sapere, che io muoio rassegnato, allegro e contento. Pre¬ghino essi per me, io spero di andarmene in Paradiso, di là li attendo tutti... A mia madre... — e sospese il discorso.

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Qualche ora dopo gli dissi: — Avresti forse qualche commissione per tua madre ?
— Dica a mia madre che la sua preghiera fu ascoltata da Dio. Ella mi disse più volte: Caro Franceschino, io desidero che tu viva lungo tempo in questo mondo, ma desidero che tu muoia mille volte piuttosto di vederti divenuto nemico di Dio col peccato. Io spero che i miei peccati saranno stati perdonati, e spero di essere amico di Dio e di poter presto andarlo a godere in eterno. O mio Dio, benedite mia madre, datele coraggio a sopportare con rassegnazione la notizia di mia morte; fate che io la possa vedere con tutta la famiglia in Para-diso a godere la vostra gloria.
Egli voleva ancora parlare, ma io l´ho obbligato a tacere per ripo¬sare alquanto. La sera del giorno otto aggravandosi ognora il suo male fu deciso di amministrargli l´Olio Santo. Richiesto se desiderava di ricevere questo Sacramento:
— Sì, — rispose — io lo desidero con tutto il cuore.
— Non hai forse alcuna cosa che ti faccia pena sulla coscienza ?
- Ahl si, ho una cosa che mi fa molta pena e mi rimorde assai la
coscienza!
— Qual´è mai questa cosa ? Desideri di dirla in confessione o altrimenti ?
— Ho una cosa cui ho sempre pensato in mia vita; ma non mi sarei immaginato che dovesse cagionar tanto rincrescimento al punto di morte.
— Qual´è mai dunque la cosa che ti cagiona questa pena e tanto rincrescimento ?
— Io provo il più amaro rincrescimento perchè in vita mia non ho amato abbastanza il Signore come Egli si merita.
— Datti pace a questo riguardo, poichè in questo mondo non potremo giammai amare il Signore come si merita. Qui bisogna che facciamo quanto possiamo; ma il luogo dove lo ameremo come dob¬biamo è l´altra vita, è il Paradiso. Là lo vedremo come Egli è in se stesso, là conosceremo e gusteremo la sua bontà, la sua gloria, il suo amore. Tu fortunato che fra breve avrai questa ineffabile ventura! Ora preparati a ricevere l´Olio Santo che è quel Sacramento che scan¬cella le reliquie dei peccati e ci dà anche la sanità corporale se è bene per la salute dell´anima.
— Per la salute del corpo — egli ripigliò — non se ne parli più; in quanto ai peccati io ne domando perdono, e spero che mi saranno interamente perdonati; anzi confido che potrò ottenere anche la remis¬sione della pena che dovrei sopportare pei medesimi nel purgatorio.

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CAPO XXX
Riceve l´Olio Santo - Sue giaculatorie in questa occasione
Preparata ogni cosa per l´ultimo Sacramento che l´uomo riceve in questa vita mortale, volle egli stesso recitare il Confiteor colle altre preghiere che riguardano questo Sacramento, facendo speciale gia¬culatoria all´unzione di ciascun senso.
Il sac. D. Alasonatti, prefetto della casa, glielo amministrava. Quando fu all´unzione degli occhi il pio infermo prese a dire così: O mio Dio, perdonatemi tutti gli sguardi cattivi, e tutte le cose lette, che non doveva leggere. Alle orecchie: O mio Dio, perdonatemi tutto quello che ho sentito con queste orecchie, e che era contrario alla vostra santa legge. Fate che chiudendosi esse per sempre al mondo si aprano di poi per udire la voce che mi chiamerà a godere la vostra gloria.
All´unzione delle narici: Perdonate, o Signore, tutte le soddisfa¬zioni che ho dato all´odorato.
Alla bocca: O mio Dio, perdonatemi le golosità e tutte le parole che in qualsiasi modo vi abbiano recato qualche disgusto. Fate che questa mia lingua possa cantare al più presto le vostre lodi in eterno.
A questo punto il Prefetto rimase vivamente commosso ed esclamò: Che bei pensieri, che meraviglia in un ragazzo di così giovanile età! Continuando di poi l´amministrazione di quel Sacramento, ungendo le mani diceva: Per questa santa unzione e per la sua piissima mise¬ricordia ti perdoni Iddio ogni mancanza commessa col tatto. L´in¬fermo continuò: O mio grande Iddio, col velo della vostra misericordia e pei meriti delle piaghe delle vostre mani coprite e scancellate tutti i peccati che ho commesso colle opere in tutto il corso di mia vita.
Ai piedi: Perdonate, o Signore, i peccati che ho commessi con questi piedi sia quando sono andato dove non avrei dovuto, sia non andando dove mi chiamavano i miei doveri. La vostra misericordia mi perdoni tutti i peccati che ho commesso in pensieri, parole, opere ed omissioni.
Gli fu più volte detto che bastava dire quelle giaculatorie col cuore, nè il Signore dimandare tanti gravi sforzi quali doveva fare pregando ad alta voce: allora egli taceva un istante, ma dopo continuava sullo stesso tono di voce come prima. Infine apparve così stanco, ed i polsi erano così sfiniti, che ci pensavamo che egli fosse per tramandare l´ultimo sospiro. Poco dopo si riebbe alquanto e in presenza di molti indirizzò queste parole al superiore: « Io ho pregato molto la Beata

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Vergine che mi facesse morire in un giorno a Lei dedicato, e spero che sarò esaudito. Che cosa potrei ancora dimandare al Signore ? ».
Per secondare la pia domanda gli fu risposto: — Dimanda ancora al Signore, che ti faccia fare tutto il purgatorio in questo mondo, a segno che morendo l´anima tua voli subito al Paradiso. — Oh! sì, — tosto soggiunse — lo dimando di cuore, mi doni la sua benedizione; spero che il Signore mi farà patire in questo mondo, finché abbia fatto tutto il mio purgatorio, e così l´anima mia separandosi dal corpo voli tosto al Paradiso.
Pare proprio che il Signore l´abbia esaudito, imperciocchè prese un po´ di miglioramento e la sua vita venne ancora prolungata di circa ventiquattro ore.
CAPO XXXI
Un fatto meraviglioso - Due visite - Sua preziosa morte
Il nove gennaio, giorno di sabato, fu l´ultimo del caro nostro Be-succo. Egli conservò il perfetto uso de´ sensi e della ragione in tutta la giornata. Voleva continuamente pregare, ma ne fu proibito pel mo¬tivo che troppo si stancava. — Oh! almeno, — disse — qualcheduno preghi vicino a me, e così io ripeterò col cuore quello che egli dirà colle parole. — Per appagare questo suo ardente desiderio uopo era che vi fosse qualcheduno che recitasse preghiere o almeno giacula¬torie accanto al suo letto. Tra gli altri che lo visitarono in quel giorno fu un suo compagno alquanto dissipato. — Besucco, — gli disse ¬come stai ? — Caro amico, — rispose — mi trovo al fine di mia vita, prega per me in questi miei ultimi momenti. Ma pensa che tu eziandio dovrai trovarti in simile stato. Oh quanto sarai contento se farai opere buone! ma se non cangi vita ah quanto ti rincrescerà al punto della morte! Quel compagno si mise a piangere, e da quel punto cominciò a pensare più seriamente alle cose dell´anima, ed oggidì ancora tiene buona condotta.
Alle dieci di sera fu visitato dal signor Eysautier luogo-tenente delle guardie di S. M. in compagnia di sua moglie. Aveva esso preso parte per farlo venire all´Oratorio, e gli aveva fatto molti benefizi. Besucco se ne mostrò molto contento, e diede vivi segni di ringrazia¬mento. Quel coraggioso militare al vedere l´allegria che traspariva in quel volto e i segni di divozione che egli manifestava e l´assistenza che aveva, rimase profondamente commosso e disse queste parole:
Il morire in questo modo è un vero piacere, e vorrei anch´io potermi trovare in tale stato. — Indi volgendo il discorso all´infermo gli disse:

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— Caro Franceschino, quando sarai in Paradiso prega anche per me e per mia moglie. — Vie più commosso non potè più parlare, e dando all´infermo l´ultimo saluto se ne partì.
Circa alle dieci e mezzo pareva non potesse più avere che pochi minuti di vita; quando egli trasse fuori le mani tentando di levarle in alto. Io gli presi le mani e le raggiunsi insieme affinché di nuovo le appoggiasse sul letto. Egli le sciolse e le levò di nuovo in alto con aria ridente tenendo gli occhi fissi come chi rimira qualche oggetto di somma consolazione. Pensando che forse volesse il crocifisso glielo posi nelle mani: ma egli lo prese, lo baciò, e lo ripose sul letto, rialzando tosto con impeto di gioia in alto le mani. In quell´istante la faccia di lui appariva vegeta e rubiconda più che non era nello stato regolare di sua sanità (37). Sembrava che gli balenasse sul volto una bellezza, un tale splendore che fece scomparire tutti gli altri lumi dell´infermeria. La sua faccia dava una luce sì viva, che il sole in mezzodì sarebbe stato come oscure tenebre. Tutti gli astanti, che erano in numero di dieci, rimasero non solo spaventati ma sbalorditi, attoniti e in profondo silenzio tenevano tutti gli sguardi rivolti alla faccia di Besucco, che mandava un chiarore che avvicinandosi alla luce elettrica dovevano tutti abbassare lo sguardo. Ma crebbe in tutti la maraviglia quando l´infermo, elevando alquanto il capo e prolungando le mani quanto poteva come chi stringe la mano a persona amata, cominciò con voce giuliva e sonora a cantar così:
Lodate Maria, O lingue fedeli, Risuoni ne´ Cieli La vostra armonia.
Dopo faceva vari sforzi per sollevare più in alto la persona che di fatto si andava elevando, mentre egli stendendo le mani unite in forma divota, si pose di nuovo a cantare così:
O Gesù d´amori- acceso Non vi avessi mai offeso, O mio caro e buon Gesù, Non vi voglio offender più.
Senza interrompere intonò la lode:
Perdon, caro Gesù, Pietà, mio Dio,
Prima di peccar più Morir vogl´io.

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Noi eravamo tutt´ora in silenzio, e i nostri sguardi stavano rivolti all´infermo che sembrava divenuto un Angiolo cogli Angioli del Para - diso. Per rompere lo stupore il Direttore disse: — Io credo che in questo momento il nostro Besucco riceva qualche grazia straordinaria dal Signore o dalla sua celeste Madre, di cui fu tanto divoto in vita. Forse Ella venne ad invitare l´anima di lui per condursela seco in Cielo.
Il sac. Alasonatti, prefetto, ebbe ad esclamare: — Niuno si spa¬venti. Questo giovane è in comunicazione con Dio (38). — Besucco continuò il suo canto, ma le sue parole erano tronche e mutilate, quasi di chi risponde ad amorevoli interrogazioni. Io ho potuto soltanto rac¬cogliere queste: Re del Ciel... Tanto bel... Son pover peccator... A voi dono il mio cuor... Datemi il vostro amor... Mio caro e buon Signor... Indi si lasciò cadere regolarmente sul letto. Cessò la luce maravigliosa, il suo volto ritornò come prima; riapparvero gli altri lumi e l´infermo non dava più segno di vita (39). Ma accorgendosi che non si pregava più, nè gli suggerivano più giaculatorie, tosto si voltò dicendomi: — Mi aiuti, preghiamo. Gesù, Giuseppe, Maria, assistetemi in questa mia agonia. Gesù, Giuseppe, Maria, spiri in pace con voi l´anima mia.
Io raccomandavagli di tacere, ma egli senza badare continuò: — Gesù nella mia mente, Gesù nella mia bocca, Gesù nel mio cuore; Gesù e Maria a voi dò l´anima mia. — Erano le undici quando egli volle parlare, ma non potendo più disse solo questa parola: Il Croci¬fisso. Con questa parola egli chiamava la benedizione del Crocifisso con l´indulgenza plenaria in articolo di morte, cosa da lui molte volte richiesta e da me promessa.
Datagli quella ultima benedizione il Prefetto si pose a leggere il Proficiscere mentre gli altri pregavano ginocchioni. Alle undici e un quarto il Besucco fissandomi collo sguardo si sforza di fare un sorriso in forma di saluto, di poi alzò gli occhi al cielo indicando che egli se ne partiva. Pochi istanti dopo l´anima sua lasciava il corpo e se ne volava gloriosa, come fondatamente speriamo, a godere la gloria celeste in compagnia di quelli che coll´innocenza della vita hanno ser¬vito Iddio in questo mondo, ed ora lo godono e lo benedicono in eterno.
CAPO XXXII
Suffragi e tumulazione
Non si può esprimere il dolore e il rincrescimento cagionato a tutta la casa dalla perdita di sì caro amico. Furono fatte in quel mo¬mento molte preghiere intorno al suo medesimo letto. Fattosi giorno

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se ne diffuse la notizia fra i suoi compagni, i quali per trovare un qual¬che conforto dell´afflizione e per pagare un tributo all´amico defunto si radunarono in chiesa a fine di pregare in suffragio dell´anima di lui, se mai ne avesse avuto ancora bisogno. Molti fecero la santa Comu¬nione con questo medesimo scopo. Rosario, uffizio, preghiere in co¬mune ed in privato, comunioni, messa, tutte insomma le pratiche di pietà che in quel giorno festivo ebbero luogo nella nostra chiesa fu¬rono indirizzate a Dio pel riposo eterno dell´anima del buon Francesco. In quel giorno apparve altra cosa singolare. Nella fisonomia divenne così avvenente e il suo volto così rubicondo, che in nessun modo pa¬reva morto. Anzi quando era bene in sanità non apparve mai in lui sintomo di quella straordinaria bellezza. Gli stessi compagni ben lungi dall´avere il panico timore che generalmente si ha dei morti, andavano con ansietà a vederlo e tutti dicevano che egli sembrava veramente un Angiolo del Cielo. Questo è il motivo che nel ritratto preso dopo morte presenta fattezze molto più gentili e leggiadre che non aveva nel corso della vita. Quelli poi che vedevano oggetti che in qualche modo avessero appartenuto al Besucco andavano a gara per averli e conservarseli come cosa della più grata ricordanza. La voce comune che correva fra tutti era che egli fosse volato al Cielo. Egli non ha più bisogno delle nostre preghiere, dicevano alcuni; a quest´ora egli gode già la gloria del Paradiso. Anzi, soggiungeva un altro, certa¬mente gode già la vista di Dio e lo prega per noi. Io credo, conchiudeva un terzo, che Besucco possieda già un trono di gloria in Cielo, e che invochi le divine benedizioni sopra i suoi compagni ed amici. Il giorno seguente, undici gennaio, gli fu cantata Messa da´ suoi compagni, qui nella chiesa dell´Oratorio, tra cui molti fecero la santa Comunione sempre per maggior gloria di Dio e pel riposo eterno dell´anima di lui, se mai avesse ancora avuto bisogno di qualche suffragio. Terminata la funebre funzione fu dagli addolorati condiscepoli accompagnato alla parrocchia, quindi al campo santo.
Il sito che ora occupa è segnato col n. 147, nella fila quadrata a ponente (40).
CAPO XXXIII
Commozione in Argentera e venerazione pel giovane Besucco
Le virtù che in questo meraviglioso giovanetto risplendettero per lo spazio di circa 14 anni nel paese di Argentera divennero più luminose ancora quando egli mancò dai vivi, e quando si ebbero notizie della preziosa sua morte. II sacerdote Pepino Francesco mi mandò una com¬

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movente relazione di cose che hanno del soprannaturale. Io le conser¬verò gelosamente per un tempo più opportuno, e mi limiterò a ricavare da quella alcuni tratti. « Saputasi la notizia della grave infermità del nostro Francesco — egli scrive — si fecero pubbliche preghiere pel medesimo cantandovi la Messa colla Benedizione del SS. Sacramento, ed orazione pro infirmo. Giunta poi la notizia della sua morte la sera del giorno tredici corse tosto di bocca in bocca ed in meno di un´ora Francesco era ovunque proclamato modello della gioventù cristiana (41). Non è a dire quanta afflizione recasse ai genitori e benefattori di questo caro giovanetto che contentò colla sua esemplare condotta sempre tutti, non offese mai nessuno. La sorella minore di Francesco, chia¬mata Maria, ne annunziò evidentemente la morte il giorno dieci gen¬naio, assicurando che circa la mezza notte dal nove venendo al dieci essendo in letto con sua madre sentì forte un rumore nella stanza superiore ove soleva dormire Francesco. Ella udì chiaramente gettare un pugno di sabbia sul pavimento, e per tema che la madre ad un tal rumore non venisse a sospettare della morte di Francesco la intertenne in discorsi ad alta voce disusati a quella figlia. Parecchi altri commossi alla santità di lui non esitarono raccomandarsegli per ottenere celesti favori con esito il più felice ». Io non voglio discutere sopra i fatti che qui sono esposti: io intendo solo di fare la parte dello storico rimettendomi a qualsiasi osservazione che sia per fare il benevolo let¬tore. Ecco adunque alcuni altri brani della relazione mentovata: « Nel mese di febbraio un ragazzo di circa due anni trovavasi in grave pericolo della vita; reputando il caso disperato i parenti si raccoman¬darono al nostro Besucco, di cui ognuno andava glorificando le virtù. Promisero ancora che se quel fanciullo fosse guarito l´avrebbero animato alla pratica della santa Via Crucis ad imitazione di Francesco. Il fanciullo guarì in brevissimo tempo, ed ora gode perfetta salute. Giorni sono — continua il Parroco — raccomandai io stesso alle pre¬ghiere del caro giovinetto un padre di famiglia gravemente infermo, lo raccomandai pure nel medesimo tempo a Gesù Sacramentato, al cui onore e gloria si consacra il predetto padre di famiglia in qualità di cantore. Ometto i nomi di questi raccomandati unicamente per sal¬varli da qualche critica indiscreta. L´infermo prese tosto migliora¬mento e fra pochi giorni apparve perfettamente guarito.
La sorella maggiore di Francesco per nome Anna, maritata nel mese di marzo, trovandosi oppressa da grave incomodo che non la¬sciavala più riposare nè giorno nè notte, in un momento di maggior inquietudine esclamò: Mio caro Franceschino, aiutami in questo grave bisogno, ottienmi un po´ di riposo. Detto fatto. Da quella notte cominciò e continuò a riposare tranquillamente.

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Animata la predetta Anna dal felice risultato della sua preghiera raccomandossi di nuovo a Francesco che Ia soccorresse in un momento in cui la sua vita versava in vero pericolo, e ne fu oltre ogni sua aspetta¬zione favorita.
Io poi che raccolgo i fatti altrui a maggior gloria di Dio non debbo omettere di notare che solito a raccomandarmi alle preghiere del mio figlioccio ancor vivente, con maggior fiducia feci a lui ricorso dopo la sua morte, e di questa mia fiducia ottenni in diverse circostanze fe¬lici risultati ».
CAPO XXXIV
Conclusione
Qui metto termine alla vita di Francesco Besucco. Avrei ancora parecchie cose a riferire intorno a questo virtuoso giovanetto; ma sic-come esse potrebbero dar motivo a qualche critica da parte di chi rifugge di riconoscere le maxaviglie dei Signore nei suoi servi, così mi riserbo di pubblicarle a tempo più opportuno, se la divina bontà mi concederà grazia e vita.
Intanto, o amato lettore, prima di terminare questo comunque siasi mio scritto vorrei che facessimo insieme una conclusione, che tornasse a mio e a tuo vantaggio. È certo che o più presto o più tardi la morte verrà per ambidue e forse l´abbiamo più vicina di quel che ci possiamo immaginare. È parimenti certo se non facciamo opere buone nel corso della vita, non potremo raccoglierne il frutto in punto di morte, né aspettarci da Dio alcuna ricompensa. Ora dandoci la divina Provvidenza qualche tempo a prepararci per quell´ultimo momento, occupiamolo ed occupiamolo in opere buone, e sta sicuro che ne raccoglieremo a suo tempo il frutto meritato. Non mancherà, è vero, chi si prenda giuoco di noi, perchè non ci mostriamo spregiudicati in fatto di religione. Non badiamo a chi parla così. Egli inganna e tradisce se stesso e chi lo ascolta. Se vogliamo comparire sapienti innanzi a Dio, non dobbiamo temere di comparire stolti in faccia al mondo, perchè Gesù Cristo ci assicura che la sapienza del mondo è stoltezza presso Dio. La sola pratica costante della religione può renderci felici nel tempo e nell´eternità. Chi non lavora d´estate non ha diritto di godere in tempo d´inverno, e chi non pratica la virtù nella vita, non può aspettarsene alcun premio dopo morte.
Animo, o cristiano lettore, animo a fare opere buone mentre siamo in tempo; i patimenti sono brevi, e ciò che si gode dura in eterno.

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Io invocherò le divine benedizioni sopra di te, e tu prega anche il Signore Iddio che usi misericordia all´anima mia, affinché dopo aver parlato della virtù, del modo di praticarla e della grande ricompensa che Dio alla medesima tien preparata nell´altra vita non mi accada la terribile disgrazia di trascurarla con danno irreparabile della mia salvezza.
Il Signore aiuti te, aiuti me a perseverare nell´osservanza de´ suoi precetti nei giorni della vita, perchè possiamo poi un giorno andare a godere in Cielo quel gran bene, quel sommo bene pei secoli dei secoli. Così sia.

APPENDICE SOPRA IL
BENEDETTO CROCIFISSO
Il culto del benedetto Crocifisso in Argentera risale a tempo imme¬morabile, e la tradizione ce lo dà come fonte inesauribile di grazie (42).
Da documenti autentici giurati ed approvati dall´autorità eccle¬siastica e civile, che il parroco di Argentera mi trasmise, e che sono propri dell´archivio parrocchiale, si ricava quanto segue. Nell´anno 1681, il giorno 6 del mese di gennaio, precipitando una valanga di neve da una montagna, che domina il paese dell´Argentera, fu colpita la sot¬toposta cappella della compagnia dei Disciplinanti sotto il titolo del nome di Gesù e dei santi Rocco e Sebastiano. Il muro dietro l´altare rovinò, precipitò a terra gran parte del tetto, e quindi furono ridotti in frantumi i banchi e gli altri oggetti che qui si trovavano. Un solo oggetto restò intatto. Fu un Crocifisso in legno dell´altezza di un metro circa, circondato da un velo. Pareva impossibile che non fosse anch´esso stato ridotto in pezzi; perciò gli abitanti di Argentera testimoni del¬l´accaduto giudicarono che il Signore con un atto di speciale prov¬videnza lo avesse voluto conservare.
Questo fatto fu preludio di altri assai più meravigliosi, che ora sono per narrare in seguito a documenti del pari giurati ed approvati.
L´anno 1695 il primo giorno di novembre dedicato a Tutti i Santi, i confratelli Disciplinanti andarono secondo il solito nella cappella a recitare l´ufficio di Maria Santissima. Stando alcuni inginocchiati cogli occhi fissi in esso, lo videro ad un tratto bagnarsi di sudore san¬guigno, e grosse gocce grondare per tutta la sacra effigie. Lo stesso effetto videro riprodursi a varie riprese in tutto l´ottavario dei Santi. Quel fatto destò gran rumore nel paese e fuori. Pel che Giovelli Don Sebastiano, Vicario foraneo di Bersezio, si portò ad Argentera affine

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di accertarsene co´ propri occhi. Vide anch´egli l´aspetto compassione¬vole che presentava quel Crocifisso tutto grondante sudore a guisa di chi molto patisce. Il sole giunto ad un certo punto sull´orizzonte mandava direttamente i suoi raggi sui Crocifisso; ciò nonostante continuava il sudore, ed il velo che lo circondava non fu mai bagnato.
Il Vicario ordinò che con un pannolino venisse rasciugato, e poco di poi vide il sudore uscire di bel nuovo dalle ferite come da tante fonti, specialmente dalla testa e dal costato.
D´ordine di Monsignor Vibò, arcivescovo di Torino, furono desti¬nate alcune persone conosciute per probità, scienza e prudenza, affinché facessero di continuo la guardia al Crocifisso. Nei giorni dal 9 al 15 novembre il cielo era nuvoloso, poi cadde grande pioggia e neve; ma il benedetto Crocifisso fu sempre asciutto senza verun indizio di sudore sofferto. Il giorno 16 poi essendo il cielo sereno al mezzogiorno di bel nuovo si rinnovò il sudore specialmente al costato dove pareva fosse la sorgente principale.
Nello scopo di camminare con grandissima cautela in affare di tanta importanza, ed assicurarsi che non vi intervenisse alcun inganno, l´Arcivescovo di Torino ordinò che il Crocifisso fosse tolto dal proprio posto, fosse collocato in una stanza ben chiusa entro cassetta serrata a chiave; non si permettesse a nessuno di visitarlo senza il Vicario foraneo di Bersezio; e si sospendesse di pubblicare il fatto come mi¬racoloso. Dal 28 novembre 1695, giorno in cui fu riposto nella cassa, fino al 2 giugno 1696, in cui fu rimesso nella cappella, non comparve più goccia di sudore. Il 7 di ottobre dello stesso anno, festa di Maria Santissima del Rosario, essendo priva di umidità l´atmosfera, si vide di nuovo il sudore ricomparire sul capo intorno alla corona, nella bocca e poi nelle braccia e sul petto presso alle ferite, e questo continuò fino al diciotto dello stesso mese. Si ripeterono i diligenti esami; ma la commissione arcivescovile dovette conchiudere non potere tal cosa avvenire altrimenti che per miracolo.
Dopo questo pubblico e straordinario avvenimento la venerazione verso al benedetto Crocifisso fra gli abitanti dell´Argentera e della valle superiore di Stura fu sempre più costante e segnata da diversi fatti parimenti prodigiosi.
Io ne aggiungerò ancora alcuni scegliendoli specialmente da un´au¬tentica relazione che quel parroco si compiacque d´inviarmi.
Nell´ultima invasione dei Francesi in Italia, un generale passando per l´Argentera entrò nella confraternita, fece bere al cavallo l´acqua benedetta vicino alla porta, quando il suo domestico fatto ardimentoso disse al padrone: — Generale, voi usate una grande irriverenza a questa chiesa, osservate là quel Crocifisso, che sta alla custodia della

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santa sua casa. — Poco importa a me, rispose al domestico il superbo generale, e del Crocifisso e dell´acqua santa. — Ciò detto usci dalla confraternita e montò sul suo cavallo avviandosi pel suo destino. Ma che! fatti appena cinquanta passi, giunto all´ultimo abitato del paese, ove è una breve e piccola salita, il cavallo s´inginocchiò e non ci fu più modo di fargli proseguire il cammino. Lo spronò il generale, quindi disceso da cavallo il fece battere aspramente da due soldati; ma tutto invano. In questo tempo fecesi gran concorso di gente chi per curiosità e chi per vedere se avesse potuto recar soccorso a quell´infelice. Il domestico allora vedendo il suo padrone al colmo della disperazione
in faccia della moltitudine: — Ecco — gli disse, signor Generale,
il castigo dell´irriverenza usata in chiesa al Crocifisso; pentitevi del fatto e dimandategliene perdono. — Ebbene — soggiunse il Generale — se il cavallo si alza, lo condurrò alla confraternita, ove lasciandolo fuori rientrerò in chiesa a chieder perdono del fallo mio, e crederò che miracoloso sia quel Crocifisso. — Prese quindi per la briglia il cavallo che senza difficoltà si levò su e lasciossi senza opposizione condurre alla porta della chiesa, ove il Generale entrato prostrossi con grande ammirazione dei circostanti innanzi al Crocifisso, che in allora era collocato sopra un´alta trave in mezzo alla chiesa. Fece lunga preghiera, dimandò di cuore perdono delle bestemmie e delle profanazioni fatte, ed uscendo lasciò una somma di denaro affinché se ne facesse una nicchia dentro il muro per riporvi il Crocifisso, come fu fatto. E questo, scrive il parroco, mi fu raccontato .ripetuta-mente da Bertino Stefano morto nel 1854, in età d´anni 87, e da Matteo Valorso morto nel 1857 in età d´anni 80.
Certa Giovanna Maria Bosso moglie di Lunbat sapendo che il mattino vegnente i Francesi sarebbero venuti in Argentera per sac¬cheggiare il paese, sollecita di salvare il benedetto Crocifisso, notte tempo dalla confraternita lo trasportò nella propria casa. Persuasa che la camera in cui era stato riposto il Crocifisso sarebbe stata rispar¬miata dai saccheggiatori, vi trasportò tutti gli altri mobili della casa.
Infatti la mattina seguente tutto il paese fu derubato e l´unica stanza rispettata in Argentera fu quella in cui la predetta donna nascosto
aveva il benedetto Crocifisso, il quale a tempo opportuno fu resti¬tuito al suo posto. Questo fatto, dice la relazione, fu molte volte rac¬contato e deposto da Valorso Giovanni Battista sindaco di questo Comune nell´anno 1848, morto nel 1852 in età d´anni 70.
Da tempo immemorabile le popolazioni del Sambuco, Pietro¬porzio e Montebernardo quando erano afflitte da lunga siccità face
vano sovente voto di una processione, e tutte e tre unite insieme si recavano a visitare il benedetto Crocifisso, e ben raramente poterono

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ritornarsene sempre processionalmente alle proprie case coi panni asciutti. Anzi così grande era ed è giornalmente la loro certezza di ottenere la desiderata pioggia, che quasi tutti vengono alla visita mu¬niti d´ombrelli. La prima volta, scrive il parroco, che ho veduto questa processione nel 1849, composta di mille e più persone, io rimasi maravigliato oltremodo al vederle tutte munite d´ombrelli per ripararsi dalla pioggia in un tempo perfettamente sereno e asciutto; ma cessò intieramente in me lo stupore quando fui testimonio dell´efficacia della loro divozione, imperocchè quei divoti non erano a metà del loro viaggio che cominciava a cadere una dirotta pioggia. Essa però per niente poteva impedirli dal continuo salmeggiare, e cantar lodi al Signore accogliendo volentieri sopra di se stessi la sospirata pioggia fino al termine della processione. La s´incomincia per lo più col cielo sereno ma è ben raro che si possa terminare senza pioggia. È questo un fatto notorio di cui parlano ben sovente gli abitanti di questa valle i quali ancora nelle loro private necessità fanno ricorso al benedetto Crocifisso.

NOTE AL TESTO
(1) La descrizione, di stile un po´ ricercato, non è geograficamente esatta ed è anzi, in qualche parte, erronea. La « specie di altipiano » che sta « sull´alta vetta delle medesime (Alpi) » non è che l´estremità della gola che conduce al Colle della Maddalena (m. 1996), e al più può notarsi che, a cominciare da un Km. e mezzo prima del Colle, la strada sale di poco (da 1967 a 1996) e la gola naturalmente si allarga alquanto intorno al lago (circa 300 m.). Il Colle della Maddalena, che si trova a Nord (notte), non è e la cresta più eleyata delle Alpi » neppure del con¬torno: è un colle (altri: collo) ossia passaggio e non una punta. Attorno stanno: a 6 Km. a Sud (in linea d´aria) l´Enchestraye (m. 2955); a ENE, a Km. 1,5, il M. della Signora (in. 2774); a 4 Km. a E il M. Scaletta (In. 2840): la linea di cresta è naturalmente inferiore. Il « largo piano i non è alla sommità del Colle, e « il lago assai esteso » più sotto al colle (m. 1974) misura poco più di m. 300 per m. 150, con una superficie in cifra tonda di circa 60 ettari (cfr. Lago d´Albano [Roma] ea. 602). Il Colle taglia la linea di displuvio tra la valle della Stura e la valle dell´tJbayette, piccolo affluente dell´Ubaye, che viene dal Lago del Longuet a piè del Col dell´Agnello (Val Varaita). La strada carrozzabile che venendo da Cuneo passa per la Maddalena e porta a Barcellonetta, corre per la valle delle Basse Alpi francesi, ad occidente della Valle di Stura. L´errore più grave è quello della distanza dell´Argentera dai confini di Francia: quegli ottanta metri non si sa come siano venuti, mentre il paesello dista di Km. 6,5 dal Colle. L´Argentera è attraversata dalla rotabile suddetta tra il 53° e il 54° Km., e al K111. 55 è la frazione delle Grange (in. 1769). La strada da Bersezio all´Argentera sale appena di 160 metri su Km. 3,50, cioè da m. 1524 (Bersezio) a m. 1684 (Argentera): ma poi s´innalza a 1769 alle Grange, che sono al Km. 55, e in seguito molto più, e non dunque i sempre sul medesimo piano » del Colle, che sta a 1996 m. L´alpestre villaggio, allineato ai lati della strada, aveva allora da 300 a 400 abitanti: al presente (censi¬mento 1821) ha 107 ab., più 80 alle Grange. Il passo dell´Argentera o della Mad¬dalena fu frequentato fin dall´età romana, e nel periodo napoleonico fu percorso dalle armate francesi, tanto che lungo la strada, a 200 m. dal Km. 58; è una Fon¬tana di Napoleone. E da Napoleone era già stata decretata la strada col nome di Route Impériale d´Espagne en Italie; ma fu ultimata solo dopo il 1870.
I nostri dati sono rilevati dalle Carte dell´Ist. Geogr. Militare a 1/25.000 (ediz. 1929 segg.). L´Autore si è valso (e lo stile lo dice) della relazione di Don Pepino. Volendo far da sè, si sarebbe certamente affidato al Casalis (Dizion. Geogr.

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degli Stati Sardi, vol. I, pagg. 361-362), dove avrebbe tuttavia trovato errori mador¬nali: p. es. che dal lago della Maddalena scaturiscono la Stura e l´Ubaye (!), e che il lago misura m. 3240 per 6480: cioè 20 Kna2 di superficie?
(2) Il degno sacerdote Dori Francesco Pepino, di cui Don Bosco tesserà al capo VI un magnifico e cordiale elogio, fu Parroco Arciprete d´Argentera per circa 28 anni: dal 24 dicembre 1848 al 24 maggio 1876. Lasciò la Parrocchia per ritirarsi a Limone Piemonte (choc. di Cuneo), dove rimase Rettore-Cappellano del Convento fino alla morte, avvenuta il 4 aprile 1899.
(3) L´ultimo periodetto fu omesso, certamente per svista tipografica, già nella 2a edizione. L´abbiamo rimesso. Si vedano in prova le parole che il Besucco morente manda a dire a sua madre per consolarla (capo XXIX).
(4) Queste formole ricordatine di preghiera ritmica e rimata fanno parte del¬l´antico patrimonio di poesia popolare, che risale talvolta ad età remote, e soprav¬vivono ancora tra le nostre popolazioni, come sono ancor vive le cantilene amebee dei fanciulli e i proverbi campagnoli in rima. Se ne vedano esempi nei capi VII e XXIV. Gli studiosi ne han fatto raccolta per la conoscenza dei costumi popolari (folklore): ma di preghiere n´han raccolte poche, e son le più numerose e tenaci.
(5) Le date e i tempi così accennati dalla relazione dell´Arciprete, vanno intese a partire dal 1864 in cui la Relazione fu scritta. Qui dunque si accenna al 1859.
(6) Era una Scuola unica rurale, con un solo maestro e classi riunite, ed era aperta soltanto da novembre a marzo. Il programma si limitava alla materia dei tre primi anni della scuola elementare, quanto bastava poi, secondo leggi poste¬riori, all´esame di proscioglimento dall´obbligo dell´istruzione (v. infra, n. 19). Ma anche dopo il primo triennio, si poteva continuare a frequentare la scuola, sicchè, in tutto, il nostro Besucco vi andò per cinque anni. Il programma suppergiù non cambiava, ma ci si rassodava nel già appreso. E i migliori aiutavano un po´ il maestro nell´assistere i più piccoli, come si legge del nostro giovanetto. La maggior parte dei centri rurali, anche d´importanza maggiore che non l´Argentera, non ebbero, per lungo tempo ancora, altro grado d´istruzione. Il maestro VALORSO ANTONIO (si noti l´uso antico piemontese di mettere prima il cognome) non doveva mancare di una certa coltura: e probabilmente possedeva la patente di grado inferiore, neces¬saria e sufficiente per tali scuole, e abolita, se non erro, nei 1889. Non occorre ricordare che, fino alla nuova legislazione dei regime fascista (1924), le Scuole comu¬nali e le nomine dei rispettivi maestri dipendevano dai Comuni, e non, come ora, dallo Stato.
(7) Del Savio Domenica l´edizione allora corrente era la 3a dei 1861, del Magone Ia la edizione, 1861. La vita di S. Luigi è probabilmente quella che Don Bosco inserì nel Giovane Provveduto (ma le prime edizioni non l´hanno ancora), cioè quella pubblicata unitamente alle Sei domeniche di S. Luigi, fin dal 1846 (Torino, Speirani e Ferrero, in-32°, di pag. 48), e ristampata undici volte in pochi anni. Cfr. IVIem. Biogr., vol. II, pagg. 359 e 363.
(8) Nella la edizione le sante gesta dell´ottimo Arciprete son date in tempo presente. Nella 2a edizione (1878), rimasta tipica, e perciò nelle successive, si usa il tempo passato, perchè fin dal 1876 il Pepino aveva cessato d´esser Parroco (cfr. sopra, n. 2).
(9) Il i gregge comunale » era il gregge del Consorzio che affidava aI Comune la cura del pascolo. L´Argentera possedeva dalla parte di mezzodì sulla montagna un «bosco bandito » (cfr. Carta cit. a nota 1), in parte ceduo, in parte d´alto fusto; a nord, di là dalla Tinetta e sulle pendici del Roburent, il pascolo comune. Il Casalis (cit. nota 1) confonde le cose dicendo: ( da ostro il pascolo comune, dove crescono abeti e larici, parte cedui, parte d´alto fusto » (cfr. nota seg.).

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(10) Dal mezzo del paese parte verso nord una strada mulattiera che, girando da destra l´aspro sperone della Tinetta (m. 2026), si dirige poi lungo la valle dei Roburent. Questo nome appartiene al rio che scende alla Stura, e cosi ad un pianoro ch´esso attraversa, e a tutto il complesso montagnoso retrostante, che culmina al M. Roburent (m. 2628). La stradicciuola, girando tortuosamente attorno alle prime alture, tutte a pascolo, sale fino ai laghi deI Roburent: due piccoli alla sua destra, e più in alto, uno maggiore (alt. m. 2426) alla sinistra; la stradetta attra¬versa poi il Colle del Roburent (m. 2496) entrando in territorio francese con un aspro sentiero, che torna poi più in basso a strada, nel Vallon de l´Oronaye. Dal paese ai pascoli del Roburent corre circa un Km., e poco più d´un Km. è la val¬letta in cui scorre il rio e da cui sale il dosso prativo. Il Drecco (italianizzato dal dialettale dreit) non è segnato sulle carte; ma (come bene spiegava l´attuale Arci¬prete Don Giuseppe Andreis) la parola, d´incerta etimologia, indica nel dialetto
del paese luogo solatio (dirimpetto e contrario all´a bado ubàc), e designa s un´esten
sione rocciosa » che costeggia, a destra di chi sale in su, la montagna del Roburent, e cioè guarda tra mezzodì e ponente.
(11) La figura del bersagliere era allora il tipo dell´arditismo militare. Gli alpini non c´erano ancora.
(12) La parola è impropria per designare un fanciulletto tra i cinque e gli otto anni d´età, nei quali debbono collocarsi i fatti che qui si narrano.
(13) Ciò avveniva assai prima del 1864, in cui Don Bosco incominciò la costru¬zione del suo celebre santuario e a diffondere la divozione. Ma l´invocazione era già nelle Litanie Lauretane fin dal 1571, e in parecchi paesi, anche deI Piemonte, specialmente dopo l´istituzione della festa, fatta da Pio VII, era sorta qualche cappella con quel titolo. Per esempio a Mornese S. Maria Mazzarello pregava ad una cappelletta votiva del 1836.
(14) Un soldo! Aveva ancora una cinquantina d´anni fa, e anche più prossi¬mamente, un valore notevole: quanta roba si poteva acquistare con un soldo! Trenta soldi erano la paga giornaliera di un comune lavoratore. Si comprende come a casa del Besucco non ne avanzassero per spenderli fuori dello stretto neces¬sario. Del resto noi, vecchi, ricordiamo la festa che si faceva quando, fanciulli, ci regalavano un soldo!
(15) Lasciamo, com´è, l´erronea punteggiatura, che guasta la sintassi col cam¬biamento di soggetto. Bisogna supporre il punto fermo in luogo del punto e virgola. Saran pedanterie ?
(16) Cfr. sopra, n. 12, per la medesima osservazione. I ragionamenti che seguono,
come quelli del cap. XI sul distacco dal -Mondo, possono essere il ricordo di qualche predica udita con attenzione e ritenuta dal ragazzo. Nella Prefazione Don Bosco
fa notare i la grande diligenza del Besucco nell´imparare, la felice memoria nel ritenere le cose udite o lette ». Un po´ di arrotondamento vi sarà nella forma, giacchè, parlando col linguaggio del paese e della sua condizione, non potevan facilmente venirne dei giusti periodi italiani; ma la sostanza doveva essere quella, e forse espressa in termini adatti all´asprezza del paesaggio in cui risonavano.
(17) Quella del far le croci colla lingua sulla terra era una pratica assai diffusa tanto come mortificazione personale, quanto come penitenza sacramentale imposta.
Certi maestri la facevano perfino fare per castigo agli scolari. E S. Alfonso non ha tra le pratiche delle Missioni il sentimento dello strascino? (cfr. Selva di materie predicabili, Parte III, Capo I).
(18) Cfr, sopra, n. 6. Prima del 1889-90 il corso d´istruzione elementare nume¬rava così le classi: Corso inferiore: I Inferiore, I Superiore, Seconda; Corso Supe

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rione : classe terza, classe quarta. In quell´anno fu stabilito di numerare le cinque classi progressivamente: I, II, III, IV, V Elementare. Sicchè parlando qui di seconda, s´intende l´attuale terza; e, in nota, dicendosi di terza elementare s´intende l´attuale quarta. Come fino a poco tempo fa, si poteva accedere al Ginnasio o altra scuola media con la sola terza (cioè quarta) elementare, con o senza esame d´ammissione.
La terminologia scolastica qui usata è già quella della legge Casati, del 1859, andata in vigore nel 1861 (Min. Mamiani). Nella la edizione la D Ginnasiale era ancor detta, alla maniera vecchia, prima classe di latinità (e più sotto: prima classe latina). Fu la legge Casati a stabilire cinque anni di Ginnasio e tre di Liceo, con la numerazione e nomenclatura durata finora. Con la Carta della Scuola entrata in vigore nell´anno 1940-41, si rifà tutto l´ordinamento e la nomenclatura della Scuola Media.
(19) E evidente che la scuola del generoso Arciprete doveva integrare l´istru¬zione mancante, cioè consisteva in una specie di terza (quarta) elementare. E con la diligenza attestata del Besucco, in tre o quattro mesi il ragazzo fu messo al punto. Forse, come era avvenuto per il Savio, gli sì insegnarono anche i primi rudimenti del latino.
(20) Il Corpo speciale delle Guardie del Corpo di S. M. era il primo Corpo dell´Armata, e aveva oltre gli ufficiali, dal colonnello ai brigadieri (che corrispon¬devano in grado a capitani e tenenti di fanteria e cavalleria), le 12 Guardie _Anziane col grado di Luogotenente, e Ie 40-50 Guardie sottotenenti di fanteria. L´Eysautier era Luogotenente. Le Guardie del Corpo furono soppresse nel 1867, e sostituite da un Corpo di RR. Carabinieri a cavallo (1868), che diede luogo, dopo il 1870, alla Compagnia dei a Carabinieri Guardie deI Re » detti Corazzieri o Cento Guardie, comandate da un capitano.
(21) Nella D edizione « sarò un figlio disgraziato » traduce il piem. « un fieul dèsgrassià » che ha senso più pregnante che l´ital. giovane.
(22) La modestia caritatevole di Don Pepino non gli permette di manifestare il contributo, sia pure di poche lire mensili, che nella sua povertà egli aggiungeva per completare quel minimo di pensione (15 lire mensili!) di cui Don Bosco si contentava, salvo a diminuirlo o rinunziarvi dappoi, ch´era cosa frequentissima. Ma gli accenni del Besucco ai « benefizi » qui e altrove, fino all´ultima lettera, fanno intendere tutto il sacrifizio che quell´aiuto doveva costare al povero Arciprete d´una parrocchia di men che 400 fedeli in alta montagna.
(23) Il viaggio dall´Argentera a Torino. Partono il 1° agosto « la mattina di buon´ora » e giungono a Cuneo il 2 agosto, a circa le ore 4 del mattino », facendo a piedi, padre e figlio, quei 54 Km. di strada (c´era un servizio di vettura pub¬blica tra Borgo S. Dalmazzo e Cuneo, con una sola corsa al giorno, cent. 60, ma non viaggiava di notte), strada non tutta buona e, prima del 1870, non tutta car¬reggiabile. Gente forte e volontà più forte ancora. Da Cuneo vennero a Torino in ferrovia. La intera linea Torino-Cuneo era stata inaugurata col viaggio del primo convoglio da Cuneo a Torino, il 5 agosto 1855. Non c´erano i direttis¬simi. A Torino i due alpigiani, arrivando a Porta Nuova (la stazione attuale non c´era ancora) dovevano, per andar fino a Valdocco, attraversare la città nel bel mezzo, per le vie più importanti (che altrimenti non si sarebbero orientati), e così poterono vedere le bellezze monumentali della Capitale come accenna il libro. All´Oratorio di Valdocco giunsero certamente a pomeriggio inoltrato quel 2 di agosto.

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APPENDICE ALLA NOTA 23
Una singolare deformazione ha subito l´episodio narrato dal libro, della fer¬mata deI Besucco a Cuneo sulla soglia del Palazzo Vescovile trattenendosi a pregare per quel Vescovo, affinchè lo aiutasse a farlo accettare all´Oratorio e poi, a suo tempo, lo ammettesse tra i suoi chierici. Un periodichetto collegiale, « L´Oratorio di Don Bosco », organo di propaganda dei Salesiani di Cuneo, presentava nel maggio 1939 un articoletto: Un episodio inedito su Francesco Besucco, nel quale, oltre a parecchi detti edificanti di non sì sa quale origine, modificati troppo piamente, si viene a dire di quella sosta al Palazzo Episcopale dì Cuneo in un senso davvero inedito, che la trasforma in un fatto soprannaturale di rivelazione celeste. La fonte è un sacerdote, Don Bottero Giorgio, Rettore del Santuario della Madonna della Riva, che dice d´averne avuto notizia in Limone da Don Francesco Pepino, l´Arci¬prete d´Argentera e padrino del Besucco, che noi conosciamo. Dice:
« Il nostro pastorello si trovava a Cuneo coi parenti, per il mercato ». P una possibilità, un po´ difficile da .accordarsi con quanto è detto nella Vita, ma non insistiamo. « Avvenutogli di passare davanti al Vescovado (era la prima volta che scendeva nella nostra città dove non aveva conoscenze di sorta) si inginocchiò e si mise a pregare. Interrogato che mai facesse e per chi pregasse, rispose: prego per il nostro Vescovo che è morto. Infatti Mons. Manzini era morto quella notte stessa, ma a Genova, e pochi in Cuneo ne avevano avuto, così dí buon mattino, notizia.
In questo l´Arciprete Don Pepino vedeva una rivelazione del cielo ».
La deformazione del fatto è evidente, e non credo vada attribuita al buon Arci¬prete, che, se fosse avvenuto qualche cosa di simile, non ne avrebbe di certo taciuto nella sua Relazione a Don Bosco. Nè credo che quando si trasferì a Limone (cfr. n. 2) si trovasse in tale condizione di mente da fantasticare alla leggera un fatto di tal genere per una glorificazione che non poteva aver seguito. Il bravo prete che lo riferiva deve aver capito male e lavorato egli stesso di fantasia nel rivelarlo.
E tutto va a monte con un semplicissimo dato di fatto: Mons. Clemente Man¬zini, Carmelitano Scalzo, Vescovo di Cuneo dal gennaio 1844, moriva il 21 marzo
1865: vale a dire un anno e due mesi dopo la morte del Besucco l se si voglia,
nove mesi dopo la pubblicazione della Vita].
(24) La Casa dell´Oratorio nel 1863 comprendeva soltanto la chiesa di S. Fran¬cesco, il fabbricato centrale con l´ala della camera di Don Bosco, il fabbricato già
De Filippi con l´incominciato braccio a levante (costruzione 1863-64); inoltre
l´edificio trasversale ed obliquo (costruito 1862, demolito 1913) che si stendeva lungo la via della Giardiniera fino alle vecchie scuole esterne e porteria (1856-59).
Questa era stata nel ´62 trasportata in capo al detto braccio trasverso. I refettori dopo il 1858 erano slogati nel sotterraneo scavato sotto la chiesa di S. Francesco. Della chiesa di M. Ausiliatrice erano appena cominciati in maggio 1863 gli scavi, sospesi nell´inverno, e ripresi neI marzo 1864, dopo la morte del Besucco.
Eppure in così poco spazio stavano 700 ragazzi! Cfr. D. FEDELE GIRAUDI, L´Oratorio di Don Bosco, Torino, 1935, Tavola VI.
(25) La la edizione aveva: « Eravamo ai primi d´agosto 1863 ed io non l´aveva ancor veduto... Un giorno io era in mezzo ai giovani che faceva ricreazione, ecc. ».
11 forte piemontesismo dei costrutti è stato dall´Autore stesso emendato in 24 edizione.
(26) Cfr. Vita di Magone Michele, capo XII: il caro giovane, nel tornare da una gita ove il Cav. Gonella ha usato ogni sorta di cortesie e generosità alla comi
tiva sorpresa dal temporale, si apparta dai compagni, e recita il rosario per quel benefico signore. Tutta la pagina che segue è un vero inno alla gratitudine di quel santo giovane.

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(27) La camera di Don Bosco era già quella che fu poi sempre fino alla morte del Santo; egli vi era passato dalla camera antistante nel 1861, quando si raddoppiò il piccolo braccio di levante della prima fabbrica. Il cartello vi è ancora.
(28) Seconda grammatica (2a Ginnasiale) è il termine della vecchia nomen¬clatura scolastica, non emendato nel rivedere il testo per la 2a edizione, perchè si riferivano le parole testuali del biglietto: segno che i vecchi termini erano ancora in uso. Più sotto si torna al termine ufficiale. II Besucco, venendo all´Oratorio in principio d´agosto, potè valersi subito della scuola che vi si continuava per tutto agosto e settembre (cfr. lett. 27 sett., capo XXV): sicché in due soli mesi compì la la Ginnasiale, e all´aprirsi del nuovo anno scolastico in ottobre fu messo in seconda. Ottima dunque era stata la preparazione da parte di Don Pepino e somma la diligenza da parte del fanciullo, insieme indice di un ingegno non tardo e promettente.
(29) Primo Piano di Regolamento per la Casa annessa all´Or. S. Fr. di Sales (1852-54), Parte I, Append. per gli Studenti, a Accettazione », art. 4. — Ibid., P. I, Capo V: « Dell´Assistente a. Questo era uno dei Superiori della Casa, e le sue man¬sioni erano suppergiù quelle dell´Economo o Aiutante del Prefetto. Tra l´altro, ivi è detto (art. 7): « Sceglierà per turno ciascuna settimana due giovani di quelli che lavorano in Casa, e affiderà ad essi lo scopare bene ed il pulire tutta la Casa a. Ma tale lavoro, secondo l´art. 4 dell´Appendice, incombeva pure agli studenti. E il Besucco l´adempiva per dovere, e faceva molto di più per mortificazione. Così faceva il Savio (Vita, capo XVI).
(30) Cfr. sopra, capo VI: Pratica della confessione.
(31) Il periodo, pure ritoccato in 2a-3a edizione, lascia a desiderare. Ma anche nella la edizione non era migliore: « Nel. discorrere, sopra i quaderni, sopra i libri, scriveva sempre proverbi o sentenze morali ». Il « che avesse udito a è aggiunto nella 2a edizione. Cioè « soleva scriversi le sentenze che avesse udito nel discorrere n. Del resto, meglio così, che non vedere il dettato travestito da altri, come troppe volte è avvenuto dei libri di Don Bosco.
(32) La panata (piern. panada, come in più dialetti dell´Alta Italia), si fa in famiglia col pane avanzato e col pane biscotto, ed è una specie più grossolana di zuppa stracotta e senza brodo. Singolare è la nota sul vino, divenuto così caro, nel 1863. Col farsi dell´Italia, le tasse aumentavano e la vita rincarava: p. es., il vino che nel ´48 si aveva a quattro soldi la pinta (litri 1,369) ora costava 8 soldi al litro. Così diceva mio nonno, che combattè a Novara.
(33) Le scuole (all´Oratorio o fuori) s´incominciavano ai Santi, o, praticamente, a S. Carlo: ma l´avviamento della vita scolastica e collegiale voleva del tempo. A mezzo novembre, o poco più, tutto era a posto.
(34) Fracco è il notissimo frac (opp. frack) di società, o marsina. Nel vecchio stile i ragazzi e i giovani vestivano da uomo. Qui certamente si tratta d´un abito smesso e ridotto a misura.
(35) Chi sia stato quel buon compagno non è possibile sapere. Parecchie cir¬costanze farebbero pensare a Giulio Barberis, che allora faceva la 4a Ginnasiale, e che,
dalla morte del buon Besucco, a cui fu presente, fu animato a risolversi per la sua vocazione salesiana. Infatti si vestì chierico nell´autunno del ´64. Ma di tali in quegli anni ce n´eran molti, e ce ne furono sempre; come n´ho trovati io vent´anni dopo, che poi, divenuti salesiani e sacerdoti, hanno continuate le buone tradizioni di Don Bosco.
(36) Lo stomaco (piem. stomi) nel linguaggio popolare è il petto. Qui si tratta d´una tipica polmonite, col naturale decorso che culmina nella crisi della cosiddetta
settima. Il Besucco non la supera, e muore il settimo giorno, 9 gennaio. La malattia s´era dichiarata il 3 gennaio, e allora la riconobbe il medico. La terapia qui accennata

101
era quella applicata comunemente. Chi voglia conoscerla sommariamente, legga l´art. Polmonite, Congestione polmonare, nella Enciclopedia Popolare Italiana del Pomba di Torino.
(37) Nella P edizione il testo diceva: a Sembrava che gli balenasse sul volto una bellezza, un tale splendore, che appariva oscurato il lume stesso della lucerna. Tutti gli astanti, che erano in numero di dieci all´incirca, rimasero stupefatti; ma crebbe in tutti la meraviglia quando l´infermo, elevando alquanto il capo, ecc. a. Nella 2a edi¬zione l´Autore ha voluto ricostruire con più precisi particolari la scena, e il meravi¬glioso vi riesce più evidente. Così, più sotto, P edizione a Dopo faceva varii sforzi per sollevare più in alto la persona, e stendendo le mani unite in forma divota, ecc, a, ha completato con: a ... la persona, che di fatto si andava elevando, mentre, ecc. ».
(38) Il particolare di Don Alasonatti è aggiunto in 2a edizione. La la edizione di¬ceva: a Eravamo tutt´ora attoniti per la meraviglia, quando il Besucco continuò il suo canto, ecc. ». Il «tutt´ora» è passato al capoverso precedente, dov´era: a ... tutti attoniti».
(39) La la edizione diceva soltanto: « Indi si lasciò cadere regolarmente sul letto, senza dar segno di vita ». Nella 2a edizione fu aggiunto il periodetto: a Cessò la luce, ecc. » con maggior senso di concretezza e di sicurezza per il lettore.
(40) Il Cimitero Generale allora constava del primo grande quadrato, orien¬tato con gli angoli ai quattro punti cardinali, e scompartito da due strade in croce in quattro campi quadrati: sicchè restava a ponente il secondo quadrilatero a sinistra entrando.
(41) La la edizione diceva: a Francesco era presentato dalla maggior parte de´ genitori a modello delle loro rispettive famiglie a.
(42) Circa la cappella dei Benedetto Crocifisso e la Confraternita omonima, il R.mo Arciprete Don Giuseppe Andreis (che ringrazio vivamente) mi scriveva iI 30 aprile 1938: a Per poter rispondere a quanto Ella mi domanda, ho rovistato tutte le poche carte che si trovano in questo Archivio Parrocchiale riguardo alla Conf.ta del "Benedetto Cristo" detta pure del St.mo Nome di Gesù, e purtroppo neanche guasta volta potei trovare alcuna memoria [sia] riguardo alla data e all´anno del fatto prodigioso avvenuto quando quel generale di Napoleone abbeverò il cavallo all´acqua benedetta. E con mio rincrescimento debbo dirle che in quest´Archivio Parrocchiale, almeno per quanto mi consta, non si trova più alcuna memoria riguardo al Benedetto Crocifisso, nè riguardo alla Chiesa del Cristo. Questa, per causa delle intemperie, della neve, e della sua vetustà, essendo diroccata, la sua area, coi muri che ancora esistevano, fu venduta nei primi anni del corrente secolo (quando io non era ancora all´Argentera) dal Vescovo Mons. Fiore Andrea ad un certo Cav. Bianchi Lorenzo, già defunto anche lui. Il Benedetto Cristo fu, per ordine del detto Mons. Fiore, trasportato nella Chiesa Parrocchiale, dove gli fu eretto un altare proprio. Pertanto tutte le memorie riguardanti questo Crocifisso Benedetto e la sua chiesa, ridotta ora un fienile, si contengono nell´Appendice della Vita del giovane Besucco Francesco, scritta da San Giovanni Bosco a.
Che siano passati i Francesi dal Colle della Maddalena è testimonio la fontana di Napoleone, accennata alla nota 1; ma quale sia l´ultima invasione dei Francesi in Italia a cui si allude nel testo, è difficile precisare, se non sia quella del maggio 1800, che portò Napoleone a Marengo. Allora, mentre il Console operava il passaggio del S. Bernardo, altre colonne passavano pel Gottardo, il Sempione, il Monginevro. Ma dell´Argentera non consta. Altre invasioni dopo quella non ci furono. I tre testi addotti dai Pepino erano allora in tale età da poter ben conoscere e distinguere: uno di 33 anni, uno di 23, l´altro di 18.
E così, povero Besucco, non resta di te più nulla al paese che ti venerava: perfino la tua cara chiesina del Bep Christ è scomparsa!

PROTESTA
L´autore, inerendo ai decreti del Pontefice Urbano VIII, e della santa Romana inquisizione, emanati negli anni 1625-1631 e 1634, protesta non doversi altra fede a quanto si riferisce nella presente Istoria, che quella sola ch´è fondata nell´autorità meramente umana: sottoponendo il tutto al giudizio della Sede Apostolica, e della Santa Chiesa, di cui si gloria di esser ubbidiente figliuolo.

INDICE
INTRODUZIONE ALLA LETTURA pag. 7
LA VITA DI FRANCESCO BESUCCO
CAPO Prefazione 21
I. Patria - Genitori - Prima educazione » 23
Morte della madrina - Affetto alle cose di chiesa - Amore alla
preghiera » 24
III. Sua obbedienza - Un buon avviso - Lavora la campagna . » 26
IV. Episodi e condotta di scuola » 28
V. Vita di famiglia - Pensiero notturno » 30
VI. Besucco e il suo Parroco - Detti - Pratica della confessione » 32
VII. La Santa Messa - Suo fervore - Conduce il gregge sulle montagne » 34
VIII. Conversazioni - Contegno in chiesa - Visite al SS. Sacramento » 37
IX. Il benedetto Crocifisso - La corona del Rosario - La presenza
di Dio » 39
X. Fa il catechismo - Il giovane Valorso „ 41
XI. La Santa Infanzia - La Via Crucis - Fuga dei cattivi compagni » 42
XII. La prima Comunione - Frequenza a questo Sacramento . . » 44
XIII. Mortificazioni - Penitenze - Custodia dei sensi - Profitto nella
scuola » 45
XIV. Desiderio e deliberazione di recarsi all´Oratorio di S. Francesco
di Sales » 47
XV. Episodi e viaggio a Torino » 50
XVI. Tenore di vita nell´Oratorio - Primo trattenimento » 51
XVII. Allegria » 53
XVIII. Studio e diligenza » 55
XIX. La confessione » 57
XX. La santa Comunione » 59
XXI. Venerazione al SS. Sacramento » 61
XXII. Spirito di preghiera » 62
XXIII. Sue penitenze » 64
XXIV. Fatti e detti partiCoIari n 66
XXV. Sue lettere » 69

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CAPO
XXVI. Ultima lettera - Pensieri alla madre pag. 73
XXVII. Penitenza inopportuna e principio di sua malattia » 76
XXVIII. Rassegnazione nel suo male - Detti edificanti » 77
XXIX. Riceve iI Viatico - Altri detti edificanti - Un suo rincrescimento » 79
XXX. Riceve l´Olio Santo - Sue giaculatorie in questa occasione. . » 82
XXXI. Un fatto meraviglioso - Due visite - Sua preziosa morte . 83
XXXII. Suffragi e tumulazione » 85
XXXIII. Commozione in Argentera e venerazione pel giovane Besucco 86
XXXIV. Conclusione » 88
Appendice sopra il benedetto Crocifisso » 91
Note al testo 95

LA «VITA
DI BESUCCO FRANCESCO »
SCRITTA DA DON BOSCO
E IL SUO CONTENUTO SPIRITUALE
Cr ... un documento inesplorato ))
STUDIO

PARTE PRIMA
LA FIGURA DEL BESUCCO

CAPITOLO I
La natura e l´ambiente
Lasciamo da parte il ritratto fisico. A pagina 173 della la edizione (capo XXXII) l´Autore ci fa sapere che nel ritratto preso subito dopo morte, il giovanetto presenta fattezze « molto più gentili e leggiadre che non aveva nel corso della vita ». La morte l´aveva trasfigurato, e le parole di Don Bosco dicono che « nella fisionomia divenne così avvenente, e il suo volto così rubicondo, che in nessun modo pareva morto. Anzi quand´era bene in sanità non apparve mai in lui sin¬tomo di quella straordinaria bellezza ». Ci aspetteremmo un qualche cosa di angelico, quale sembrò ai compagni.
In quel momento felice forse fu fotografato col dagherrotipo, e di qui ricavò il Heinemann la figura in litografia premessa alla la edi¬zione della Vita. E ne fu tratto da ignota mano il ritratto a olio che Don Bosco regalò per memoria al buon Don Pepino, e passò alle mani del Sac. Bianco di Argentera, donde nel 1934 pervenne all´Ora¬torio di Torino, e si conserva nell´anticamera di Don Bosco. Ma quelle « fattezze molto più gentili e leggiadre » nel povero quadro superstite non appaiono affatto: è una figura che non dice nulla. Sarà colpa del pittore.
Questo sia detto per amor di compiutezza. Quelle che contano per noi sono le fattezze spirituali. Le quali, a loro volta, non sono neppur esse di quelle che si schizzano in pochi tratti: di cui cioè si può riassumere la fisionomia nelle sue qualità dominanti e caratte¬ristiche. Come la sua figura esteriore, come ci è tramandata, è priva di qualsiasi carattere: cosi nel suo profilo spirituale manca quello spiccato e personale rilievo dei particolari che dànno una fisionomia.
Sta, è vero, nel termine generico di quasi impeccabile fanciullo avviato a santità, e può chiamarsi « la nobile precisione » in atto: ma

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ognun vede che tale qualità non è di quelle che spiccano a prima vista. E un tipo diversissimo dal suo « caro Magone », forte, ardente, brioso, disinvolto, risoluto, e tanto più dal Savio, che supera in ogni cosa la misura comune, e che imposta sul primo caposaldo del voglio farmi santo i suoi tre punti: l´orrore del peccato, l´orientazione euca
ristica e mariana, l´apostolato; e intorno a questi raccoglie come in sistema la sua vita pratica.
Il tipo Besucco è l´uguaglianza in tutto, il meglio in tutto, il più che si può, senza orientamenti specifici: una voluta diligenza di non
mancare in nulla, e non mancar di nulla, per esser buono e santo come gli altri. Un po´ come certi abili artisti, che non creano, che non lanciano nel mondo dell´arte un verbo nuovo, ma prendono a modello i migliori, e magari tutti i migliori. Vedremo che il Besucco, a un dato momento, getta in questa maniera una favilla che l´avviva tutta, e ne stampa ed eleva la personalità spirituale agli occhi nostri e agli occhi di Dio: ma nella linea della vita è, come abbiamo detto, un essere che si distingue per la quasi assenza d´originalità. Poeti¬camente o pittoricamente: niente nello spirito di quello che la natura gli offriva allo sguardo lassù, all´Alpi estreme, di cui pure gli rimase
nell´anima la nostalgia (1), a mostrare che non s´ha da fare con uno spirito ottuso.
Don Bosco non poteva inventare un tipo così fatto, ch´egli non potè fissare con un titolo o con una proprietà tipicamente sua, se non quando si rivelò a lui stesso nelle ultime ore. Ma egli ne comprese
il valore, e lo additò all´imitazione, come uno dei più utili per l´edificazione.
Esso rispondeva a quell´idea sua, di formare in seno alla società quella classe media della santità, quel popolo d´anime buone, che costituiscono la vita, la forza, il nerbo, i muscoli della Chiesa nei tempi normali, e da cui, nelle ore di lotta e di tempesta, scaturiscono gli eroi e i martiri a schiere. Classe media di Santi, creazione spiri¬tuale d´una vita interiore, che sorgono nei tempi normali e per la vita ordinaria (2). Il che non vuol dire che, a loro volta, non abbiano uno per uno le proprie personali ascensioni e i propri e personali doni di Dio: solo vuoi dire che la loro linea di condotta è quella della vita di tutti, vissuta nell´unione con Dio e nella simmetria del dovere.
(1) Cap. VII, pag. 45 ediz. I".
(2) Secondo un giusto paragone del Faber con la classe media degli Stati. Cfr. Tutto per Gesù, cap. VIII, sez. VI, pag. 344: trad. L. Mussa, in Ediz. Marietti. Segno nel citare questo autore la detta edizione, non solo perchè a me familiare per lungo studio di decenni, ma perchè, pur nella durezza della traduzione, si con¬serva, più d´ogni altra, aderente all´originale inglese.

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Che se può sembrarci tale intenzione troppo più estesa che non comporti l´umiltà del soggetto e la poca o nessuna ampiezza della sua vita sociale, noi ne sappiamo un´altra, che non vi è contraria, ed anzi vi contribuisce potentemente, ma per sua natura è più diretta¬mente espressa dal soggetto trattato, e più intimamente consonante con gl´intenti pedagogici del Santo educatore. Ed è che la santità, alla quale egli vuole condurre i suoi discepoli, non ha da essere la santità del collegiale inappuntabile e legale, meccanizzato anche nella pratica religiosa (i vecchi salesiani ricordano quanto Don Bosco fosse avverso al collegialismo anche nel regime disciplinare!); ma quella che viene dal di dentro, e si lavora nell´unione con Dio e nell´amore di Dio, esternandosi per impulso di vita interiore nella vita esterna. E questa può essere dappertutto, trammezzo alle vicende del secolo come sotto la veste regolamentare.
Il tipo del Besucco è appunto fatto per dimostrare questo assunto
o programma: giacché la santità del giovanetto è già costrutta, se anche non giunta all´ultima finitura, nella vita di famiglia e del paese, prima di venire da Don Bosco, dove si trattiene soli cinque mesi, per essere chiamata al compimento del suo amore. Il valore docu¬mentario, che abbiamo detto, di questa Vita è in questo dimostrare come si fa ad essere santi da giovanetti, dovunque si viva, purchè si viva e ci si conduca secondo il programma di santità che Don Bosco ha proposto ed inculcato alla gioventù. In tal senso la vita del Besucco è un documento a sè, come preziosissimo e capitale insegnamento.
Del Besucco noi non possiamo sapere che cosa Don Bosco n´avrebbe fatto col tempo: sta il fatto ch´egli non pensò a cambiarne la fisionomia,
e non pensò che a perfezionarne i lineamenti. E così com´è rimasto morendo, è proprio come si rivelò agli occhi di quanti lo videro: e cioè la sua figura spirituale ci si offre in « una straordinaria bellezza », « con fattezze molto più gentili e leggiadre » che forse non apparivano nel corso della vita.
Vediamo codesti lineamenti quali siano.
Si deve anzitutto distinguere tra i due periodi della sua vita: il primo, che la comprende quasi tutta, fino ai tredici anni e mezzo,
e quello più breve, degli ultimi cinque mesi, distinti dal fatto della sua venuta « nella Casa di Don Bosco ». Muta dall´uno all´altro la condizione di vita; mutano le circostanze ambienti, mutano i fattori
o i coefficienti, o, in parole piane, l´opera e la maniera ond´egli è assistito e coltivato nel suo vivere. Ma è proprio colui che Io riceve

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nella sua seconda vita e lo conduce alla porta del Paradiso, è proprio Don Bosco colui che afferma: « dalle deposizioni dei parenti, del maestro, del Parroco, che, in tutto il tempo che il nostro Francesco visse in famiglia, non commise mai cosa alcuna che si possa giudicare colpa veniale deliberata » (capo XII, pag. 66). Teniamolo ben pre¬sente, mentre ci soffermiamo a considerare quel primo periodo.
Il Besucco nasce in una famiglia di ottimi cristiani, in un villaggio di poche centinaia d´anime (forse 400 allora, ridotte ora a poco più
di 100), sull´estremo confine delle Alpi d´Italia. Il cosiddetto mondo lassù non arriva: le tradizioni cristiane sono ancora in fiore, e le madri sono ancor quelle dello stampo antico, che fan dire Gesù e Maria ai bimbi e gI´insegnano a giunger le manine, e in bocca loro la parola peccato prende un tono come di paura. Ma quella di Francesco è una donna tutta di Dio, che nel suo dovere materno vede soprattutto una educazione d´anime cristiane, e dice al bimbo e al fanciullino le parole della Regina Bianca a S. Luigi di Francia: « vorrei prima vederti morto che vederti offendere Dio col peccato. Oh potessi essere conso¬lata da te col vederti sempre in grazia di Dio! (1).
E il buon Arciprete che ce ne dà notizia, non esita a riconoscere che codesto «condimento quotidiano » fa crescere il bimbo e il fanciul¬lino quasi come nel Vangelo è detto del Battista e di Gesù fanciulli (2). Anche all´occhio non certamente oscuro dell´amorevole Padrino dev´es¬sersi rivelato qualche cosa di non comune in quella piccola vita: giacché il suo crescere a quel modo è « contro ogni aspettazione » (3).
In realtà tutto conduce a vedere nel Besucco, piccino o grandetto, un´anima naturahdente religiosa, in cui cioè l´istinto naturale, preso nel migliore dei sensi, o le doti o il temperamento che sia, rendono propensi ad accogliere in più larga parte e più attivamente il seme della religiosità: noi, col Vangelo, sappiamo bene di anime refrat¬tarie o aride o di poco rendimento, in cui questo genere di senti¬menti o non attecchisce o solo fino a un certo punto, che sarà magari il puro indispensabile per non esserne privi del tutto. E il Catechismo c´insegna che certe virtù ci vengono infuse, le teologali anzitutto: c´entrano poi tant´altre cause, e alcuni riescono santi, e altri no.
Il Besucco ebbe il dono d´una forte religiosità (4), che per grazia di Dio fu coltivata subito e bene, ed egli, appunto perché così dotato,
(1) Tradotte nel dialetto, e cioè dette nella forma originale: « Oh! ´1 me Cichin! Varda: pi tost che védte fè ´I pecà e òfende Nossgnour, pitost védte meuire! ». Ma la letteratura ha arrotondato il discorso.
(2) Luc. I, 80; II, 40, 52.
(3) Cap. I, pag. 10 orig.
(4) Cap. I, pag. 11: « L´amor della preghiera sembrò nato con lui ».

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vi corrispose in pieno; non è a stupire che fin da bimbo superasse « ogni aspettazione ». L´indole aveva buona e remissiva, e il carattere calmo e tranquillo, con una spiccata riflessività e posatezza (non la pesantezza del montanaro) che forse non lascerebbero pensare alla profondità e vivezza di sentimenti affettuosi, alla capacità di amare, che facevano di lui l´amore di quanti lo conoscevano. Tutti gli vole¬vano bene, tanto i suoi di casa e le persone maggiori, quanto i suoi compagni, perché voleva bene a loro. Glielo dicevano in casa, con simpatica invidia, ch´era il beniamino di tutti, ed egli lo riconosceva, e prometteva di « esser sempre buono e meritarsi l´amore loro e di tutti » (1). E lo dimostrava, poverino, come può un ragazzetto che non ha niente, spartendo quel che gli veniva guadagnato o rega¬lato, e sottolineando: Vedete che vi voglio bene!
E il padre, quel povero arrotino che coi figli grandi scendeva nell´inverno dalla montagna, e a fine di guadagnare col lavoro delle loro mani di che sostenere la famiglia », aveva nel cuore del santo giovanetto un culto di venerazione tenerissima e la presenza del ri¬cordo commosso. Pensando a lui, alla sua vita di fatica e di sofferenze, il fanciullo piangeva, e invitava a pregare: « Chissà quanto freddo soffrirà nostro padre per noi! Oh quanto sarà mai stanco, e noi stiamo qui tranquilli mangiando il frutto de´ suoi sudori! Oh preghiamo per lui! e. E di lui, di suo padre, « discorreva ogni giorno, e, per dir così, Io accompagnava ovunque col pensiero nei suoi viaggi ».
Eh! i signori letterati, la gente delle frasi fatte, non han neanche la più lontana idea di codeste finezze tra la povera gente!
E invece il Padrino arciprete e, più che tutti, Don Bosco, gli lessero in cuore appunto la squisitezza delicata, ripeto, la finezza di sentire, a cui le faune esterne non facevano pensare.
Il buon cuore nel nostro giovanetto si rivelava massimamente nella figura della gratitudine. Il padrino scrive: « La riconoscenza era una delle prerogative di questo grazioso fanciullo » (2). Così è fatta la tenerezza che ha pei genitori e per suo padre, e già a tre anni mostra una consapevole e non più cessata riconoscenza per la sua madrina morta; e questo è il sentimento che lo accompagnerà sempre, fino all´ultimo, per quell´uomo santo che fu il suo Padrino e benefattore, del quale non sa parlare se non con lacrime di tenerezza (3).
Quella a cui alludo è una bella pagina, di quelle scritte dalla mano di Don Bosco. Il senso della gratitudine che si rivela nel nuovo suo
(1) Cap. V, pag. 27-28.
(2) Cap. XIV, pag. 78 orig.
(3) Cap. XVI, pag. 88 orig.

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discepolo gli dà la misura della sua capacità al bene. E ne trae argo¬mento per un suo riflesso pedagogico, nel quale si contiene, può dirsi, la base del suo sistema.
È il cuore quello che conta prima di tutto per la riuscita del¬l´educazione. Molte volte il Santo Pedagogo (e, in questo, Pedago¬gista!) ha osservato nei suoi scritti che nella maggior parte i giovani, anche traviati, hanno buon cuore, e per questo mezzo si possono ricondurre al bene. Fu anzi una delle prime e più vivaci impressioni, dirò senz´altro, delle più efficaci esperienze ch´egli fece negli esordi del suo apostolato, visitando le carceri, e ancora lo ripeteva quando operò il celebre prodigio educativo della Generala.
Tutto il sistema di Don Bosco vive di amorevolezza, e consiste nel trovar nei giovani le vie del cuore. Quando c´è questo, tutto si può fare: quando (e il caso, secondo lui, è raro) il cuore non c´è, non si fa nulla; si può geometrizzare la figura, ma non darle una vita
o ritornarvela (1). E il cuore, mio buon lettore, non è un´astrazione
o una frase: è un sentimento che va, sì, allo spirito, ma risiede nel¬l´uomo e parte da esso. Cuore vuol dire capacità e disposizione a voler bene: dico voler bene, come s´intende da tutti i parlanti la lingua di tutti: non il voler bene ideologico e raziocinato, che salta la persona per guardare all´infinito. Senza cuore santi non ce n´è,
e non ce ne furono, neppure tra gli anacoreti; e senza cuore santi non se ne fa. È Vangelo. Il divino Maestro fu, umanamente, soprat¬tutto Uomo di cuore: i suoi discepoli, presi com´erano, fecero, perchè no ? qualche sbaglio, e S. Pietro perdette un momento la testa. Ma Pietro era un gran cuore, e un´occhiata del Maestro (quanta Pedagogia in questo!) lo rimise: Giuda, il senza cuore, l´ideologo farisaico, potè baciare chi lo chiamava amico, e non sentir nulla, e finì come tutti sanno.
Don Bosco, per tornare al proposito, ha cercato di far buoni e santi i suoi infiniti giovanetti, e di parecchi ha fatto dei santi autentici: ma il punto di partenza di tutto il suo lavoro di costruzione spiri¬tuale, pei santi autentici e per gli altri, fu sempre uno, il cuore.
Non è sentimentalismo: è questione di sentimento, di quell´umile umano sentimento che si chiama il buon cuore. Ecco perchè il Besucco lo attrae fin dal primo discorso, e perchè egli s´indugia a far notare il valore dal sentimento per la riuscita dell´educazione.
Col buon cuore c´era anche l´ingegno. Dapprincipio, e nella ristret¬tissima cerchia della scuola rurale, non c´era campo se non per quel che può dare la Ililigenza d´uno scolaro modello: ma già nelle mani
(I) Che cosa dice, se non questo, quella celebre pagina del Sistema Preventivo, dove distingue tra i risultati d´una certa disciplina e quelli del sistema ch´egli propone ?

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del buon Arciprete che si mette a fargli un po´ di scuola per farlo capace d´entrare in prima latina, egli, tra volere e capacità, avanza rapidamente, e infine, entrato in quella e prima » ad agosto, vien pas¬sato in fin di settembre alla classe ulteriore: non ancora brillante, povero montanarino, ma non ultimo (è in dicembre il 15° su 90), e con fiducia di passar presto tra i primi. Don Bosco ne riferisce tre lettere, e ne dice bene: non perchè siano voli d´aquila, ma perchè mostrano ordine, disciplina di mente e di giudizio, buon uso delle cose apprese e, naturalmente, buon cuore ed altro.
Col tempo, e in opportune condizioni, si poteva far di quell´in¬gegno ancora in germe qualche cosa di non inutile. La Prefazione, volendo spiegare « il grado di scienza ordinariamente superiore a quel¬l´età », adduce appunto « la grande diligenza del Besucco per imparare, e la felice memoria nel ritenere le cose udite o lette ». Diligenza e memoria che non si confanno con l´ottusità della mente.
E neppure la santità. Se anche non è detto che i Santi abbiano ad essere o di grande ingegno o di molta dottrina, è però vero che una persona mal istruita non può mai raggiungere una elevazione considerevole nella divozione, ma o per fonte umana o per dono speciale di Dio, la scienza in tali anime non può mancare (1). E sempre l´ha fatto rilevare Don Bosco nelle sue Vite, come fa in questa del Besucco, quando, come già s´è più volte ricordato, ac¬cenna nella Prefazione al « modo speciale con cui Iddio lo favorì dei suoi lumi ».
V´è anzi un lato del suo spirito che Io dimostra ben superiore al torpore materialone del volgare pecoraio. Egli possiede un delicato sentimento della natura, che gli fa vedere nel bello ora maestoso, ora ameno e leggiadro dei suoi monti qualche cosa che non è materiale, e lo chiama a pensar di Dio. Si legga, così com´è stesa, la pagina 45 della, la edizione (capo VII): « ricordava con gran piacere i pascoli del Roburento e del Dreco, sopra cui Francesco soleva condurre il gregge al pascolo » e le considerazioni che ciascun aspetto di quelle balze, ed ogni scena e spettacolo, e gli abissi e le cime, e i tramonti gli dettano alla mente compresa di Dio, e si dica se non vi è uno spunto di poesia: di quella poesia a cui s´ispirano tante volte i Salmi del Libro di Dio.
(1) Cfr. FABEn, Conferenze spirituali, pag. 302: « La scienza deve trovarsi nel¬l´anima santa o quale causa o quale effetto di santità, o più probabilmente quale causa ed effetto di essa »_ Cfr. pure CRISPOLTI, op. cit., cap. III, pag. 51, E in via di fatto ricordiamo S. Maria Mazzarello, incolta ma non senza ingegno, e, che vale per tutte, S. Caterina da Siena: santa, come scrissi altrove, senza libri e fuori dei libri.

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Cuore e mente adunque non mancano. E c´è la mente e il cuore che li intravede e li coltiva. È Don Francesco Pepino, l´arciprete dell´Argentera, che la mamma del nostro fanciullo ha chiamato a padrino per metterglielo, con una quasi divinazione del cuore, nelle mani interamente. E il santo prete l´ha accettato, forse con non dissimile divinazione, e gli ha voluto bene più da padre che da padrino.
Pensiamo: quando il Besucco, tredicenne, va da Don Bosco, il Santo non sa di lui se non quanto glien´ha scritto l´Areiprete per raccomandarglielo: « un parrocchiano di condotta singolare, povero di beni di fortuna, ma molto ricco di virtù, ch´è la sua delizia e il suo aiuto per le cose parrocchiali, che serve le Messe, prende parte alle funzioni, fa il catechismo ai più piccoli, prega con gran fervore, frequenta i Sacramenti con gran fervore ed esemplarità: e son cose che fa costantemente; e il buon prete se ne priva volentieri, sperando di farne un ministro del Signore ». Quanto basta perchè Don Bosco l´accetti « di buon grado, nel desiderio di cooperare all´educazione di quel caro giovinetto » (1).
Ma della vita precedente non sa nulla, e solo saprà quando, dopo la morte, leggerà la relazione del Padrino, e la trascriverà nel suo libro. Ed egli non sente il bisogno di riformarlo o di trasformarlo: lo accetta com´è, e lo perfeziona: coopera, come dice, ad educarlo.
In una parola, la formazione o educazione del fanciullo santo nel nostro giovanetto è opera del suo Padrino.
Santo prete, Don Pepino, e amico di Don Bosco, e consentaneo alle idee di lui. Ha i medesimi principi, e, fin dove può, segue il medesimo stile: dove non può arrivare da solo, si aiuta facendo leg¬gere i libri di Don Bosco. È pio, retto, caritativo e zelante, come Don Bosco immagina il prete, secondo quello spirito ecclesiastico ch´egli stesso dice d´aver imparato nel suo Seminario. Nel capo VI di questa Vita il Santo mette in primo piano la figura dell´esemplare sacerdote, e ne disegna un ritratto, che riesce ad un elogio reale nel fatto e ideale nel tipo: il modello del parroco santo.
E noi, al vedere uscirgli di mano un´anima così educata alla san¬tità come è quella di Francesco Besucco (e non è la sola: c´è il Valorso l), non possiamo dubitare che nell´anima del fanciullo si sia versata la santità del primo educatore.
Santità di tipo salesiano. Vien da pensare ad un altro prete, sale¬siano nell´anima e nel pensiero come Don Penino, che fonna sale
(1) Cap. XIV, pag. 44.

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sianamente un´altr´anima santa, e la dona a Don Bosco: dico di Don Pestai-bio e di S. Mazzarello, divenuta la Madre della Salesianità femminile. L´Arciprete d´Argentera e il Parroco di Mornese sono della stessa scuola spirituale, che trova in Don Bosco il Santo che la impersona in un sistema e la diffonde con l´opera nel mondo. E più vorrei e potrei dire, se lo spazio e l´indole del mio lavoro lo consentisse.
E appunto l´inizio di quel capo VI mi rimette in cammino per venire al disegno dei lineamenti spirituali del Besucco. Dice: « Sebbene il nostro Besucco sia stato fin da fanciullo prediletto dal Signore, tuttavia dobbiamo dire che la vigilanza dei genitori, la sua buona indole, Ia cura amorevole che di lui si prese il proprio Parroco, giova¬rono potentemente al felice risultato della sua morale educazione » (1).
Ecco i tre elementi: la grazia di Dio, la buona indole, l´opera vigile ed accurata della famiglia e del Parroco: l´educazione.
E si noti: Don Bosco dice non di « riuscita nella santità» ma di « felice risultato della sua educazione morale ». Dove si conferma il principio ch´io tendo a stabilire: che per Don Bosco l´educazione morale è tutto, ed è una sola: sia poi l´esito di essa quello comune dei semplici buoni cristiani, o sia quello dei santi dichiarati o dichia¬ratili. È un concetto implicito che ha forza di principio.
(1) Cap. VI, pag. 32.

CAPITOLO n
La vita virtuosa
Senza voler troppo distinguere i tempi nella storia d´un´anima ch´è presa dalla grazia di Dio, è ovvio che la prima nel tempo, e la più manifesta nell´apparire, è la pietà. Nel Nostro la precocità religiosa è spiccata e come istintiva (1). Si, i suoi di casa lo portavano bambino in chiesa, e gli facevano fare la Croce con le manine, e gli mostravano là l´Altare, Gesù, la Madonna: fan così tutte le mamme cristiane. Ma la sua piccola personalità si annunzia presto. I nomi di Gesù e di Maria, le canzoncine, le orazioni che apprende dagli altri, la gioia raccolta del trovarsi in chiesa, le preghiere dette da sè, lo rive¬lano già dai tre ai quattr´anni. E comincia a dire sempre il Pater per la madrina, la signora Anna, che allora era morta. E non sapendo dir tutto, s´atteggiava a divozione a veder gli altri, e in chiesa lo ammi
ravano già la sua quieta compostezza (2).
Singolare specialmente è in lui, fanciulletto sui cinqu´anni, la cura
premurosa d´imparar preghiere e farle anche imparare in casa e dai compagni (3). Per queste piccole anime la follnola è anche pensiero e sentimento, e Don Bosco, che in fatto d´unione con Dio ha perso¬nificato il qui laborat orat, ha sempre insegnato ai suoi giovanetti, anche più progrediti, la preghiera orale e, naturalmente, quella for¬mulata. E il piccino le vuol dire a ogni costo, e magari canta le sue
orazioni, e non prende cibo se non le ha dette (4).
E piace l´aura di freschezza paesana in quelle umili preghiere
ritmiche, antiche di secoli, familiari ai nostri buoni popolani d´una
(1) Cap. II, pag. 11, cit.
(2) Cap. II, pagg. 11-14.
(3) Cap. II, pag. 15.
(4) Cap. II, pag. 13.

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volta: essi ricordavano il Credo e i Comandamenti e l´amor di Dio e i Novissimi, e finivano con la preghiera fonnale. E i bimbi le can-tavano o le dicevano forte, attratti dal ritmo, e il Nostro, quando le ebbe capite, vi mise tutta la divozione (1).
Cose di bimbi e da fanciullini. Ma c´è il segno che in lui erano sentite e movevano dal cuore: infatti, come si compiaceva di parlar
di cose pie, così « se talvolta era alquanto malinconico e volevasi rallegrare, bastava parlargli di cose spirituali o del profitto che poteva ricavare frequentando le scuole » (2).
La sua pietà inoltre è fatta di preghiere pratiche, da solo o con gli altri; obbiettive poi nelle intenzioni, come fa per il padre che lavora, per la madrina morta, per il Padrino benefattore, pel fra¬tello soldato.
Questi precorrimenti infantili si maturano nell´età seguente, e allora il fanciullo ci appare davvero un´anima tutta di Dio. Dio e
l´anima gli eran sempre presenti fin nella notte, e avrebbe voluto star sveglio per pregare. Ha non solo fatto l´abito, ma sviluppato e maturato l´istinto della preghiera. Che con questo si associ l´indi¬spensabile spirito della preghiera, l´unione dell´anima con Dio, non può dubitarsi.
Siamo qui al fatto o dato essenziale che contrassegna la figura spirituale del Besucco. Io lo direi l´impronta caratteristica della mano
di Dio in quell´anima. E so di non eccedere nel mio modo di vedere, che non è neppure personale. Tutto sta a ravvicinare le sentenze, ossia le espressioni che gli estensori delle memorie hanno sparso qua e là (3).
Il segno distintivo dell´anima di Besucco è l´amore alla preghiera, il bisogno della preghiera, l´esercizio continuo della preghiera: è la
preghiera continua. Lo dirà ancora una volta Don Bosco, nel tratteg
giarne il carattere quale egli lo vede di presenza, e lo dirà con un insomma, del quale vedremo a suo tempo il valore (4). Cose da spiriti
alti, diremo, e che suppongono l´unione con Dio, l´esercizio e la con¬tinuità della presenza di. Dio: l´apice di tutto questo è il senso della presenza di Dio.
Ebbene, ecco quel che si legge a pagina 55 della la edizione: « Credevasi a ciò tenuto (di trattenersi a pregare), perchè vedevasi
(1) Cap. II, pag. 16.
(2) Cap. II, pag. 17.
(3) Pel Magone e pel Savio il compito è più agevole, perchè è uno solo che scrive e che ordina già di suo la materia: inoltre per questi due l´opera formativa di Don Bosco è quasi unica e dura più tempo.
(4) Cfr. cap. XXII: Lo spirito di preghiera.

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da Dio in modo particolare favorito, come più volte lo attestò al suo Parroco, assicurando ancora che sempre sentiva d´essere realmente alla presenza di Dio ». E questo dagli undici ai tredici anni. E il nar-ratore aggiunge che « il pensiero della presenza di Dio gli diventò così famigliare negli ultimi anni di sua vita, che potevasi dire in con-tinua unione con Dio».
Dopo questo, i particolari saranno edificanti, ma non ci stupiscono più, come se fossero men che naturali.
11 ragazzetto prega sempre, andando e venendo dalla campagna,
e per via non s´accorge di chi passa: ha in pronto la giaculatoria e il segno di Croce in protesta delle bestemmie e grossolanità di linguaggio,
e per tali peccati ha un aborrimento supremo.
La sua vita di pastorello si converte in una vita di divozione. O legge per sè e per gli altri un libro divoto, o prega, e si studia di pregare. Quando, a causa del servizio, non può andar a Messa, si fabbrica una Croce, o si nasconde in un anfratto, o recita la Via Crucis,
e si canta il Vespro e dice il Rosario da solo o coi compagni. E questi lo trovano talvolta angelicamente rapito.
Ho detto della presenza di Dio, ch´egli sentiva. Egli la leggeva scritta nelle opere della natura: poeticamente gli tornava alla mente sul ciglio dei dirupi, nel levarsi degli uccelli, nel riso dell´aurora là verso la valle, nel rapido tramontare dietro le creste, nell´adergersi delle cime della Maddalena e nel biancheggiare delle nevi. Poetica¬mente, dico, sentiva: perché finiva con volgersi « verso il seno di qualche monte » e prorompeva nel canto, e ascoltava l´eco delle sue lodi alla Madonna come gli venisse dagli Angeli (1).
Anima bella, che non conosceva letteratura, ma queste cose le dice in prima persona (2). E io dico: È possibile santità senza poesia ? O non è essa stessa una poesia la santità, quando assomma e traduce la natura nel pensiero immateriale e trascendente di Dio ? O quando la poesia e l´arte sono la vera arte e la vera poesia, non è vero che trascendono la materia per innalzarsi, per leggersi nell´Idea più alta
e più sublime possibile ? Eb in queste semplici, quasi pedestri Vite scritte da Don Bosco, c´è sempre una pagina in cui spira l´affiato della poesia: poesia d´anime, sì, ch´è poi la più vera e maggiore.
Quand´è in paese, e quando può, lo trovate in chiesa. È ogni giorno davanti al Santissimo, ogni giorno, quasi sempre, ai piedi della sua Madonna, per lunghe ore, a recitare il Memorare e l´invo-cazione Sancta Maria Awrilium Christianorum, non ancora divulgata
(1) Cap. VII, pag. 46.
(2) Cap. VII, pag. 45 orig.

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dall´apostolato di Don Bosco, iniziatosi nel 1863-64. Nella divozione
eucaristica e nella forma e intensità della divozione mariana c´è quasi da vedere la stoffa del futuro discepolo di Don Bosco.
Ma poi avere le divozioni sue proprie: quella del Benedetto Cro¬cifisso, tutta del suo paese CI bep Christ, diceva da bimbo), e quella della Via Crucis. Questa, suggerita quasi naturalmente dalla prima, si radicò in lui, e visse nell´anima sua e nella pratica, dagli otto anni in poi. Allora prese a praticarla dopo le funzioni, e si trovò, senz´av¬vedersene, seguito da altri. E la tenne forte, ancorchè certi zucconi, piccoli o grandi, gli trovassero a dire e gli dessero noia colle deri¬sioni o coi nomignoli dell´impostura. Le sue parole in famiglia dicono bene che cosa ne pensasse (1). Era tanto convinto del bene di quella pratica, che ancora il 23 novembre 1863, scrivendo da Torino all´amico Beltrandi, gli raccomandava di prendere e tenere il suo posto in tale funzione.
La divozione alla Via Crucis è una forma del culto alla Passione di Gesù Cristo, ch´è parte della fede; ed è non preferenza d´anime immalinconite, ma atto di comprensione dell´amore redimente di Gesù: sorgente dunque di amore e di preghiera. Fu sentimento pro¬fondamente posseduto ed inculcato da Don Bosco, anima serena se altra mai, ed era nell´istinto previamente salesiano del Besucco. « La
Via Crucis diceva quand´era già presso Don Bosco — è per me
una scintilla d´amore, che mi anima a pregare, mi spinge a sopportare qualunque cosa per amor di Dio » (2). E non so se altrimenti pensas¬sero i Santi, divoti della Passione di Gesù (3).
E giacchè non si è buoni cristiani senza divozione a Maria, e non vi è cristiano veramente devoto che non ami il Rosario, non c´è da domandare se e quanto questa pratica facesse parte della vita devo¬zionale del nostro fanciullo. Oltre alla pratica di casa, lo diceva da sè e con gli altri là pei pascoli montani, ne guidava esso dai dieci anni in poi la recita in chiesa nelle sere di maggio, e per tre anni di seguito nelle sere estive alla Confraternita del Crocifisso. Venuto a Torino, andava a dirlo là, davanti alla statua della Madonna del Rosario, dove era solito stare il Savio Domenico.
(1) Cap. XI, pagg. 60-61.
(2) Cap. XXII, pag. 117.
(3) FABER, Tutto per Gesù, cap. V: « Le ricchezze della nostra povertà », Sez. III: « La Passione », pagg. 187 segg. Ivi, p. es., la citazione dall´Alvarez: R Non dobbiamo mai immaginare d´aver fatto qualche cosa, finche non siamo giunti al punto che il nostro cuore non dimentica mai Gesù Crocifisso )3. E si confronti tutto il mirabile capolavoro deI medesimo Autore: Il Preziosissimo Sangue.

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Tutte queste, ed altre ancora, espansioni dello spirito di pietà trovano raramente in lui, come del resto nelle anime fanciulle, l´espres¬sione che le definisce. Qualcuna n´abbiam notata noi, venutagli così, da sè. Nella fanciullezza (ma non in quella sola) la pietà, come la virtù, non si definisce a se stessa, non si formula se non per eccezione o per subitanea rivelazione od impensato parlare; e tutto si traduce in azione esterna, suggerita dall´anima interiore, che vuole, senza definirlo, il bene e il meglio per sè e per gli altri: nelle anime sante è il bene che si vuole al Signore e che per intima sua natura cerca il bene intorno a sè, anche negli altri.
Il Besucco si dà tutto alla vita più praticamente cristiana del culto, ed è un divoto della Messa. Per poterla servire compie fin da piccino dei veri eroismi, tagliandosi la via tra la neve più alta di lui. E l´unico dispiacere che mostra è quando altri nelle feste lo precede o gli è preferito (1), benchè non l´abbia a male e preghi poi esemplarmente. E se l´esser zelante e puntuale immanehevolmente ad ogni funzione può derivare dall´affezione che lo lega al suo Padrino e benefattore, l´essere, com´egli è, zelatore ardente e santamente inquieto della buona divozione è cosa tutta sua. Egli vuole che i fanciulli preghino in chiesa, e tengano il libro, e glielo reca, e si amareggia se uno lo ricusa. E noi ricordiamo il Nepomuceno: Ecclesiam frequenter adire, et sacerdotibus ad ararn operantibus ministrare, in deliciis habebat ; come raccostiamo l´ammirazione edificante che suscitava il suo contegno in chiesa o pregando, e l´apostolato della pratica religiosa tra i compagni, a quello di Leonardo da Portomaurizio piccolino: Mirandum erat eum in tempio vel domi videre et audire, sive fervidas ad Deum effundere preces, sive hortari coetaneos ad religionis aliarumque virtutum opera servanda
E così dicono veramente gli appunti del buon Padrino, sparsi nei vari capitoli della sua relazione: dove l´opera del giovanetto è dimo¬strata preziosa per la vita stessa della Parrocchia, e la misura della sua pietà ci è data così: « Se il Parroco abbisognava di particolari aiuti nel disimpegno del suo dovere, o per animare qualche infermo alla Confessione o prepararlo a ricevere il Viatico, raccomandava ogni cosa alle preghiere di Francesco, ed era sicuro del favorevole risultato ». E adduce l´esempio d´un tale, riluttante a confessarsi in extremis, che per le preghiere di Francesco « si arrese ben presto » (2).
Era dunque il suo un apostolato di buon esempio e di preghiera. Ma esercitò anche quello delle opere. Pensiamola dai nove anni in
(1) Cap. VIII, pag. 50.
(2) Cap. IX, pag. 32.

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poi catechista dei piccini nella sua parrocchietta, e studiosissimo nel seguire la catechesi del Parroco, e ripeterla in casa. Pensiamolo zela¬tore dell´Opera della Santa Infanzia, a cui per tenerezza di cuore s´era ascritto a sett´anni, e bisognò che il Padrino gli desse lui come premio il soldino mensile per l´Opera, ed egli, afflitto di quelle miserie che conosceva dagli Annali, pregava e pregava, e si faceva promotore delle ascrizioni tra i compagni.
Pensiamolo, a undici anni, nel momento in cui si offre di sotten¬trare in ogni cosa al compianto pio giovanetto Stefano Valorso, suo compagno e cugino, morto di recente. Non è una scena studiata per l´effetto (ora direbbero romanzata, e la farebbero!) quella che ricorda Don Pepino (capo X) di quell´adunata di giovanetti, dove « li inter¬pellai, se vi era alcuno, che si sentisse di sottentrare nella diligenza e nella pratica dei religiosi esercizi di chiesa al compianto pio giovi¬netto ». Parole povere, non è vero ? che dicono tutto: come quelle di Don Bosco, a cui Don Pepino somiglia nel fatto e nello spirito_ Semplici, dico, e che farebbero pensare che si voglia sostituire un capo, un incaricato, un volenteroso aiutante, e null´altro. Ma sono intese per quel che valgono, e « tosto gli sguardi di tutti si voltarono verso Francesco ». « Col volto rosso per verecondia, ma con animo risoluto, egli si avanza verso di me, dicendo: Eccomi pronto a sot¬tentrare al mio cugino nelle pratiche religiose che mi verranno da lei indicate. Per quanto potrò prometto e voglio non solo emulare la diligenza per gli uffizi di chiesa praticati dal defunto mio cugino; ma, se Iddio me ne darà la grazia, procurerò di sorpassarlo. Io porto le sue vestimenta, che mi furono regalate, e spero di vestirmi eziandio di tutte le virtù di lui ».
È un nuovo stadio della vita, questo del Besucco undicenne, ed ha per programma non solo di emulare la diligenza (parola di larga comprensione) (1), ma di sorpassarla, e vestirsi, come degli abiti ereditati, delle virtù di un giovane modello. D´ora in poi la virtù, la pietà (la divozione si dice sempre in questi scritti) divengono co¬scienti e volute. E il cammino in questa « sua pia carriera » è molto.
Un cammino che non si fa colle sole forze della volontà e del sentimento, o, per dire, colle sole proprie energie spirituali. Ci vuole, per star nella metafora, l´alimento delle forze: quello che la Fede c´insegna venir soltanto dalla grazia dei Sacramenti. Questa, quando
(1) Cfr. Discorso di Pio XI per le virtù. di Savio Domenico, 9 luglio 1933.

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l´anima è ancora tutta per sè, la modella e la tempera per l´età in cui la coscienza maturata è chiamata a maneggiare lo strumento della volontà per costruire stabilmente la figura e la statura morale (1). Può dirsi davvero che l´anima del Besucco fu cominciata a model¬lare nelle confessioni dei primi anni. Giacchè non s´ha da pensare che, accennandovi solo a questo punto del nostro ragionare, vogliamo far credere che questa funzione spirituale sia cominciata così tardi.
A quel tempo, come avvertimmo più sopra, in altri luoghi si sarebbe forse atteso tanto e anche più. Ma da noi in Piemonte (dove le poche
tracce di giansenismo erano ormai quasi tutte obliterate) (2), e n´è esempio il Parroco Don Pepino, non era così. La famiglia di Francesco
era delle più religiose, e basta pensare alle parole, già ricordate, della madre per farsene un´idea. E furono i suoi che e appena ne fu capace » lo condussero a confessarsi. « Ed egli, mosso dall´esempio, dai consigli, dagli incoraggiamenti dei parenti, si affezionò per tempo a questo Sacramento ». Non apprensioni, piccoli rispetti e ripugnanze, comuni
ai fanciulli: egli n´ha piacere; tanto più che il sacerdote a cui si pre¬senta è il suo buon Padrino.
in questo punto l´elogio che Don Bosco fa del santo Arciprete.
E si spiega. Tutto questo capo VI, benchè contenga dati sicuri della vita del_ fanciullo Besucco, è ordinato ad inculcare parecchie idee sulla
confessione dei fanciulli. C´è della storia quanto basta a dar motivo alla didascalia e alla parenesi.
C´è, alla base di tutto, per Don Bosco, la stessa figura del prete. Si direbbe (e diciamolo pure!) che in Don Pepino l´autore rispecchia se stesso. Comprensione dell´importanza del formar cristianamente la gioventù; sollecitudine amorosa pei fanciulli; istruzione, assistenza, vigilanza, sacrifici e beneficenza, bontà paterna e condiscendenza verso di essi e la loro età e i loro bisogni; attenzione e coltura dei meglio disposti (l´abbiam veduto poco fa); « maniere amorevoli e
(1) Vi sarebbe quasi da trasportare, ma solo per analogia, quel che dicono, per definire l´istinto, il Bain (Menta´ and Moral Science, pag. 68) e il Romanes (L´évolution mentale, cap. XII), pei quali l´istinto da inconsapevole diviene forma cosciente della psiche e si fissa nel carattere. Ehl se la scienza volesse un po´ seria¬mente e onestamente studiar le questioni spirituali, quanto di più vero potrebbe dire e quali orizzonti le si aprirebbero!
(2) Potrei dimostrarlo, ma sarebbe lungo discorso e fuori di luogo. Da troppi, che si copiarono a vicenda o ripeterono frasi fatte, si era chiamata giansenismo la scuola morale prealfonsiana o extra-alfonsiana. L´Alasia poi, che fu il testo studiato da Don Bosco in Seminario, era ortodosso e tutt´altro che giansenista. Basta pen-sare a quel che dice e inculca sulla frequenza della Comunione, dove fa sua la dottrina di S. Francesco di Sales (che riporta testualmente) e dei Decreti del Con-cilio di Trento!

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proprie di un tenero padre » per guadagnarsi i cuori e la confidenza: sono le doti del santo Arciprete e sono lo stile di Don Bosco. Noi sap¬piamo com´egli fin da giovanetto deplorasse l´eccessiva gravità e l´iso¬lamento del prete verso la gioventù, e come, per l´opposto, le sue prime conquiste si siano operate con la maniera da lui personificata,
di prete dei fanciulli (1).
Ed ecco l´aspetto santamente educativo della confessione, quando,
guadagnata l´affezione e la fiducia filiale del giovanetto, questi si fa dirigere nell´anima e nella condotta dalla parola del suo sacerdote. In questo senso e per questo scopo, Don Bosco fu sempre, negli scritti e nell´azione educativa, il promotore, direi l´apostolo, della pratica del confessore stabile. Non m´indugio in citazioni, perchè i passi paralleli sono in ogni Vita scritta da lui, e nei suoi primi Rego¬lamenti, e nel Giovane Provveduto, e nel testo dei discorsi ch´egli teneva ai giovanetti, a noi, giacché anch´io che scrivo l´ho sentito. La sentenza ch´egli qui esprime su tal proposito (2) può essere addotta a formula del suo pensiero. Anche nel capo XIX ritorna su questo tema, prendendone occasione appunto dalla pratica del buon Besucco (pag. 101): e allora adduce pure gli argomenti che ne provano l´uti¬lità, raccomandando agli educatori di insistervi, provvedendo, com´è di dovere, anche alla libertà (pag. 103). Ma il senso e il fine sono i medesimi, ed anche la conseguenza di fatto che ne deriva, fatta anch´essa elemento integrante del lavoro educativo.
Voglio dire che la piena fiducia, e la continuità del colloquio confidenziale della confessione, si continuano e vivono anche fuori di quella: e l´autore, che qui è Don Bosco, lo dice per il Besucco tanto rispetto al suo Parroco, quanto, al capo XIX, rispetto al Direttore dell´Oratorio, ch´è egli stesso (pag. 102). Quello ch´è il figlio spirituale nella vita interna dell´anima, diventa il buon figliuolo che si fa guidare dall´uomo prudente ed esperto che lo ama da padre.
Così, e soltanto così, la funzione educativa del confessore e della confessione si adempie e raggiunge il suo scopo. Chi ha conosciuto Don Bosco può dire (e lo dico) che chi si confessava da lui non aveva riserbi o timori a dirgli anche fuori di là tutto quello che aveva dentro; e che la prudenza (e il senso del dovere) del Santo era tale, che non c´era pericolo di confusioni tra l´uno e l´altro ministero: ma che cer¬tamente (e qui l´avverbio voglio che abbia tutta la sua forza) si trova
(1) L´incontro col Garelli, com´è dipinto dal Crida nella sacrestia di Maria Ausiliatrice, non ricorda soltanto il fatto storico, ma col sorriso del fanciullo svela il segreto di Don Bosco.
(2) Cap. VI, pagg. 35-36.

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rovo meglio diretti dalla sua opera di Direttore (come sempre si chiamò scrivendo) quelli che si valevano dell´opera di lui come con¬fessore. Che altri, gli altri, non possano fare nè tanto nè altrettanto, oh Dio! è questione di santità. Don Pepino poteva e potè, per questo motivo, onde è così ritratto da Don Bosco.
Gli episodi personali del Besucco qui c´interessano meno del fatto esemplare. La sua regolarità, la maniera amena (così scrive il Parroco) della sua frequenza e preparazione; l´impegno, anzi la curiosa pre¬mura d´interrogare quei di casa su cose assai semplici; la meraviglia sua al pensare che si possa « di nuovo offendere Iddio, al quale si è promessa fedeltà » (1); il pensare e pregar quasi tutta la notte per disporsi alla confessione, e poi la condiscendenza a lasciar passar gli altri perchè più bisognosi di esserne sbrigati: sono tocchi di piccole realtà, che avvivano la figura. I suoi discorsi sono evidentemente arrotondati, anche se li vogliamo rapportare ad età meno fanciullesca: per esempio, tutta la predichetta fatta in casa suI confessarsi sovente, se non è proprio la replica di qualche predica o lettura, è per lo meno un riordinamento di espressioni occasionali.
Invece, anche se riassestati nella dicitura, hanno un valore i sen¬timenti ch´egli vi prova, e mostrano l´azione del suo spirito. Ed è la contentezza suprema dell´anima che si sente in grazia di Dio; è iI non volere altro sollievo o pensiero nel giorno di quella consolazione; è iI confessarsi ogni volta con le disposizioni d´una confessione estrema.
Sono piccoli particolari, che tuttavia Don Bosco si studiò sempre di inculcare ai suoi giovani: la confessione per il riposo del cuore; la riflessione e l´apprezzamento della grazia ricevuta; il confessarsi ogni volta come fosse l´ultima. Niente di superfluo in questa mera¬vigliosa biografia!
Nella quale, a dir vero, ci attenderemmo chissà quali e quanto diffusi commenti per quanto riguarda la Comunione d´un´anima così bella. Niente di tutto questo: Don Bosco non fa mai, neppure per l´anima tutta eucaristica di Savio Domenico, di quelle pie volate enfatiche, quali troviamo in troppe vite di Santi e di Sante: voglio dire di quelle interpretazioni e psicologie mistiche e descrizioni sen¬timentali, che parrebbero così ovvie per uno spirito, come il suo, che intuisce a fondo il lavoro della grazia di Dio in un´anima, e il lavoro
(1) Ingenuità, è vero. Ma anche S. Luigi fanciullo chiedeva a sua madre perchè gli uomini non decidessero di chiudersi tutti nei conventi per godere delle gioie di Dio!

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di un´anima in grazia di Dio. In questo campo Don Bosco è di solito molto semplice e parsimonioso, e richiama invece l´attenzione sui fatti e sulle disposizioni effettive e sui riflessi benefici che ne provengono.
Nel caso nostro, stiamo alla relazione del pio arciprete Padrino. Tra i sette e otto anni il fanciulletto dall´anima dischiusa alle più care ispi¬razioni di Dio, sente il bisogno di ricevere Gesù. E lo dice, e insiste a domandare quando. Il buon prete ve Io prepara con la prudenza d´un pedagogo dello spirito: « forse presto, se studierai bene il Catechismo, e se mi darai sempre buone prove del profitto che fai nella virtù ».
La prova della virtù viene, ed è, a suo modo, eroica. E allora, bando a tutte le riserve d´uso, lo ammette alla Comunione « alla tenera età di anni otto e mesi sei ». È libertà di spirito, è criterio, è, in certo senso, coraggio nel buon prete: è segno di maturità spirituale nell´anima del fanciullo (1).
Non era d´uso ammettere così presto i fanciulli alla Comunione; ma non vi era, almeno in Piemonte, una prassi e tanto meno una norma esclusiva; e le ragioni del ritardo, che tuttavia non era così dilungato come altrove (2), vanno ricercate anche nella scarsa istru¬zione popolare, che non lasciava troppo sicuri sulla capacità di appren¬dere il Catechismo. Ma le eccezioni, al di sotto dei 10-11 anni, non erano infrequenti, tanto più che, per merito delle correnti teologiche più moderne, si andavano facendo strada le teorie più benigne in proposito, e l´insistenza, largamente interpretativa, sulla famosa ri¬sposta n. 63 (De Euch. Sacr.) del Catechismo Romano e della gene¬rale dottrina della Chiesa (3).
(1) Anche Savio Domenico è ammesso alla Comunione all´età di sette anni: precocemente non solo, ma in circostanze più difficili, non essendo egli continua¬mente sotto gli occhi del Parroco. Ma anche qui il buon criterio del sacerdote aveva saputo capire quell´anima, e superare le riserve. Cfr. Vita, cap. III.
(2) Cfr. sopra, fol. 11, n. 2, la Lett. cit. del Card. Antonelli, 1866.
(3) Sono di quel tempo le opere di Scavini (1847-50 e segg.), Frassinetti (1865), Gousset (1845-62), Gury (1850). Dello Scavini, diffusissimo fra noi (quattro edi¬zioni in quattro anni), nel Tract. IX (de Euch.) la Disput. IV-V, fu ripresa e ampliata da J. Del Vecchio (1874), append. LIX, ricorrendo alle opere di pratica pastorale uscite in quel periodo medesimo, nel quale appunto si tornava a ricom¬porre la teoria benefica della sollecita ammissione dei fanciulli alla Comunione. Che è, lo sappiamo, la teoria propugnata e attuata da Don Bosco. Vedasi per tutta questa materia l´esauriente trattazione di E. Dublanchy, in VACANT-MANGENOT,
Dictionn. de Théol. Catholique, tom. III (1908): art. Communion fréquente, Comm. des
enfants. Esauriente è poi l´opera dello spagnolo P. Gio. FERRERES, (trad. it. 1907),
La Comunione frequente e quotidiana, secondo gli insegnamenti e prescrizioni di S. S. Pio X : Per la Comunione del fanciulli, ivi, pag. 94 segg. Naturalmente,
finchè non verme la sentenza definitiva della Chiesa, col Decr. Quam singulari (8 agosto 1910) di Pio X ,le cose restavano alla dipendenza delle varie opinioni.

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Il fatto rivelatore avvenne nella primavera del 1858, quando il fanciullo toccava gli otto anni, si trovava « alla pastura » con due altri
ragazzetti « poco di lui più giovani » cioè sui sette, otto anni: due ragazzettacci malavvezzi, come se ne fanno tra Ia grossolanità bruta del vivere di montagna: il loro maggior pericolo proviene dalla sordida, vili et incivili educatione, secondo la nota sentenza di Ludovico Vives (1).
Questi han fatto i gesti della spudoratezza appresi chissà come: Fran¬cesco li rimprovera dello scandalo e della viltà, che non farebbero se
veduti, e dell´audacia di farlo alla presenza di Dio. E quelli, sfac¬ciati incoscienti, continuano apposta, ed egli li pianta di netto. Ma uno gli corre dietro e vuole forzarlo al male. Francesco, pacifico con tutti, qui si difende coi mezzi violenti. E poi, non lasciandolo quel tale, si trincera dietro un mucchio di pietre, e, poichè la minaccia non vale, tira sul serio, e quell´altro se ne va pesto e bollato. E Francesco fugge a casa sua, a ringraziar Dio dell´averlo liberato (2). Eroismo rusticano, diciamo noi, civili, ma autentico. E non fu egli a raccontarlo pel primo, ma quel, non so come chiamarlo, se più materialone o più balordo, che osservando a da appena 50 metri » la scena, non seppe intervenire neppur dando una voce, ma lo stette osservando « per vedere fino a che punto sarebbe giunta la virtù di Francesco »! E lo raccontò al Parroco, troppo buono per non dirgli quel che si meritava.
La prova era dunque venuta, e decisiva. Il fanciullo fu incoraggiato a prepararsi. Ed egli, il caro figlioletto d´otto anni, si studia dentro e lavora a perfezionarsi: e già si figura, nell´idea sua, la Madonna a porgergli nella Comunione Gesù Sacramentato.
Nessuno può dire che cosa avvenga in tali anime, nè quale sia lo stato d´animo durante l´attesa e la preparazione: il libro dice che « la bella stola dell´innocenza fu la prima e più essenziale preparazione ch´egli portò nella prima comunione ». Cosa che si dice volentieri dei bimbi che la ricevono, ora, tanto presto, e vogliamo ben credere che nella sostanza sia vera, benchè il brutto episodio poc´anzi ricor¬dato ci faccia pensare ad altre dolorose possibilità. Ma del Besucco è detto quello che non è facile ripetere, e che si estende a più oltre quell´ora: che « dalle deposizioni dei parenti, del Maestro, e dallo stesso Parroco, consta che in tutto il tempo che visse in famiglia (13 anni!) non mai commise alcuna cosa che si possa giudicare colpa veniale deliberata ». Ed è cosa da Santi!
(1) Lun. VIVES, De subventione pauperum, c.. 51-A: Nani pauperum filiis a nulla re est maius periculum, quam a vili, sordida et incivili educatione ».
(2) Cap. XI, pag. 63-64.

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Per noi, se torna caro il leggere come sia rimasto estatico e poi concentrato nell´atto e dopo la prima Comunione, com´era da attendersi con tale preparazione, è degno di speciale attenzione il tenore spiri¬tuale che a quella consegue. Se per le sue felici disposizioni è ammesso alla Comunione molto presto, non è già per lanciarlo senz´altro in una pratica senza regola, con un qualsiasi « purchè vada! ». La sua è pratica mensile della Confessione, e pratica regolata dal confessore per la Comunione. È precisamente il criterio inculcato da tutti gli au
tori che ho ricordato più sopra, autori alfonsiani, e seguiti appunto da Don Bosco. La pratica del. Besucco descritta in questo capitolo, e che naturalmente era diretta dal Parroco tanto per lui, quanto per gli
altri giovanetti buoni e pii (il libro ci fa intendere ch´erano in buon
numero, e n´è una prova l´esempio già citato dell´eredità del Valorso), la pratica qui disegnata parrebbe una personificazione esemplare,
messa qui a scopo didascalico dallo scrittore Pedagogo, per istruzione dei giovani lettori. Ma è storia reale, e a noi piace trovarvi la prova che dunque Don Bosco seguiva la scuola o l´indirizzo migliore dei suoi tempi, scuola rigeneratrice dello spirito e della ben intesa spiritualità cristiana.
Il giovanetto aveva piena consapevolezza di quel grande atto, e cercava di farla penetrare anche negli altri, aiutandoli a prepararsi
e ringraziare: quanto a sè, diveniva quasi una sensazione, tanto da assorbire tutta la sua anima, e non voler altro che contemplare, senza libri, senza servir messa, inginocchiato col capo fra le mani ad_ espri¬mere sensi di amore. E poi passava dalla sua Madonna coi compagni, e diceva forte il Memorare.
Ora, badiamo bene: tutto questo non è esteriorità e sensibilità promossa ed eccitata: è elevazione di spirito, ad alto grado: tanto è
vero che l´anima sua « nulla più desiderava in questo mondo se non far
la Santa Divina volontà ». Apriamo, tanto per intenderci, un Manuale di teologia ascetico-mistica, per esempio, quello notissimo del Tan
querey (1), e troviamo ai n. 279-285 la descrizione di quello stato d´animo, prodotto dalla presenza di Gesù in un cuore come quello, e il bisogno di pregare, e (n. 285) «i dolci colloqui tra l´anima e l´ospite divino: Loquere, Domine, quia audit servus tuus ». Precisamente come finisce con dire il buon Don Pepino, incontrandosi, per intuizione spirituale, col valoroso espositore dell´ascetico-mistica. Non riferisco per brevità le pagine del Tanquerey. Ma il lettore vedrà, consultan¬dole, che sessant´anni prima (l´opera uscì nel 1924) era già segnato
(1) ADOLFO TANQUEREY, Compendio di Teologia Ascetico-Mistica (la ediz. 1924). Trad. ital. sulla 5a ediz., Roma, Desclée, 1932.

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nella pagina dell´umile libro di Don Bosco il dramma interiore di quest´angioletto comunicante, fino quasi alla coincidenza verbale: « Parmi di parlare — dice il giovinetto — personalmente col mio stesso Gesù. — E ben poteva dirgli: Loquere, Domine, quia audit servus tuus» (pag. 67). E continua: « Il suo cuore era vuoto delle cose del mondo: Iddio lo riempiva delle sue grazie ». E il Tanquerey (n. 280), analizzando l´opera trasformatrice dell´unione, nei pensieri, nei desideri, nel cuore, conclude col vivo autem, iam non ego : vivit vero in me Christus (1).
E se ci paresse sproporzionato il nostro accostamento, ed esagerato per un´anima di fanciullo e di principiante, rassicuriamoci con le pa¬role proprie di Don Bosco al capo XXII, quando, nel rilevar l´intensità del suo spirito di preghiera, viene a dire: « ... la qual cosa, secondo i maestri di spirito, segna un grado di perfezione, che raramente si osserva nelle persone di virtù consumata a. Ed io appunto ho citato un « maestro di spirito ».
Con tutto ciò, il Besucco non è ancora ammesso alla Comunione quotidiana. Non dipende da lui né dal suo direttore. In questa materia (come già per l´altro punto della Comunione dei fanciulli) non dob¬biamo giudicar le cose con le idee e la prassi più recente, conseguita ai decreti di S. Pio X (2). Dobbiamo pensare secondo quella che ai tempi del Besucco era la pratica migliore: pratica allora giudicata larga, o senz´altro alfonsiana.
Il giovanetto Besucco ha dato prova, e fatta quasi una professione di maturità quando, nel 1861, si è offerto di sottentrare al compianto ottimo Valorso. Ebbene: « Negli ultimi anni (cioè dal 1861 al ´63) veniva animato ad accostarsi alla Santa Comunione ogni domenica, ed occorrendo qualche solennità, eziandio nel corso della settimana, ma non ardiva accostarsi senza prima essersi confessato ». Leggiamo nello Scavini-Del Vecchio la citazione dal Wiegand (3): « Qui mor¬talia vitant, seme! in hebdomada, et interdum bis, nimirum occurrente festo singulari, communicare possunt» (4). E nel testo scaviniano (5):
(1) Gal., II, 20.
(2) Potremmo dire formulata da essi, giacché era stata preparata da tutto un vasto rinnovamento di vita eucaristica (cfr. in VACANT-MANGP,NOT, cit., gli articoli citati del DUBLANCHY e i´ op. cit. dei P. PERREREs, pagg. 72-74), e il Frassinetti, nella sua celebre dissertazione X (ediz. 1867, pag. 404 segg.) dava quasi i punti del Decreto del 20 dicembre 1905, quarant´anni prima. E strano che nel cit. Dict. d. Théol. Cathol. del VACANT-MANGENOT non se ne faccia menzione!
(3) Che è però MAtermus WIGANDT, O. P., di Vienna, morto nel 1708, che da certi teologi coevi era giudicato troppo largo. Cfr. HURTER, Nomenclator literarius, ad nomen.
(4) SCAVINI, vol. IV, pag. 567.
(5) Vol. III, lib. III, Tract. IX, Disp. IV, n. 150.

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An suadenda Communio frequens in hebdomanda? si ripete la teoria della Praxis alfonsiana, n. 149-155. Questa veramente venne allargata in una quasi coeva opera di S. Alfonso (1), dove è detto che, nelle condizioni volute per la Comunione frequente, « il confessore può
farla (l´anima penitente) comunicare tre o quattro volte, o anche cinque, per settimana ».
A queste norme si atteneva il confessore del Besucco, cioè l´Ar¬ciprete; e che non fosse un rigorista, si conosce da che esso vinceva nel fanciullo « ogni perplessità », e lo mandava con giusta libertà alla Comunione anche qualche volta in settimana (2). Precisamente come dice S. Alfonso. Vedremo più oltre che neppure Don Bosco si allon¬tanava da tali criteri: tant´è vero che, quanto al Besucco, non si parla mai di « comunione quotidiana » se non « in alcune novene » (3).
Codesta prassi esteriore non faceva perdere nulla all´intensità della vita interiore. Anche S. Luigi dovette, da religioso, vivere in un regime di tal sorte, ed anche più ristretto (4), e non per questo ci rimise nulla del suo amor di Dio.
L´amor di Dio conduce direttamente alla mortificazione, qualunque siano il modo e le forme in cui viene intesa, e il nome che si dà loro. Nel fatto nostro particolare lasciamo anche da parte la nomenclatura moderna, timorosa del vecchio linguaggio ascetico, la quale traduce tutto in autoeducazione, governo di sè, educazione della volontà, orientamento dell´anima verso Dio: anche, se si voglia, in autopuni¬zione: tutte cose belle e buone, che non fanno al caso nostro molto più elementare e primitivo, e vissuto anzi con le vecchie parole, che una volta tutti capivano. Quando certi termini si confrontano colla psiche (!) del povero montanarino, buon figliuolo della sua parrocchia e devoto al suo parroco, tra il 1854 e il 1863, tutto sembra anacronistico
(1) La vera Sposa di Gesù Cristo (1761), cap. XVIII.
(2) Cfr. cap. XX, pag. 105.
(3) Cap. XX, pag. 106.
(4) S. Ignazio, com´è noto, non consentiva agli Scolastici (chierici studenti) più_ della Comunione ebdomadaria e festiva; i Superiori poi, anche dopo il Rego¬lamento del P. Laynez (1559), accordarono talvolta dispense in casi speciali, atte¬nendosi più allo spirito onde era mossa la regola (già larga per quei tempi e con¬trastata), che non alla lettera di essa (Reg. XXVI). Ma non sembra che S. Luigi abbia goduto in questo di speciali privilegi, e forse, data la sua concezione della regola, non li avrebbe neppur voluti. E il suo confessore era nientemeno che il Bellarmino!

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e spaesato, lui ed essi. E con quei paroloni Don Bosco ebbe mai ami¬cizia, e forse non avrebbe fatto niente (1).
La vera idea di mortificazione è che essa è amor di Gesù (2). Senza mortificazione non vi può essere amore nè vero nè duraturo, nè senza di essa può esservi perseveranza di conto nella vita spiri¬tuale (3). Il Besucco nostro è un´anima, come ormai comprendiamo, tutta di Dio; amantissima di Gesù, al punto da far della Via Crucis la sua divozione personale. «E quando l´amore di Dio prende possesso di un cuore, ninna cosa del mondo, niun patimento lo affligge, anzi ogni pena della vita gli riesce di consolazione. Dai teneri cuori nasce già il nobile pensiero che si soffre per un grande oggetto... a. Son parole di Don Bosco, là dove vuol discorrere delle « penitenze » del
buon Besucco (capo XXIII).
Accostiamo queste parole al « continuo spirito di mortificazione »
che Don Pepino riconosce nel suo fanciullo (capo XIII), e vediamo come fosse disposta l´anima di lui nella sfera dell´amor di Dio.
Io non voglio esagerare, ma, dopo aver letto il capo VI del San Luigi di Filippo Crispolti: L´amato e l´amante di Dio (4), mi pare che, se non la misura, il disegno si attagli in questa parte anche al nostro. Che cioè « l´intensità, la costanza, la letizia del suo amore verso Dio non mai si rivelarono tanto quanto nelle mortificazioni: non solo in quelle interne, che dominavano la sua volontà, i suoi sensi, la sua lingua, ma in quelle esterne » (5) che realmente dovette poi Don Bosco
moderare.
Mortificazioni in senso lato furono dette penitenze, e per tali da
lui praticate espressamente: e mortificazioni mosse da uno spirito di disciplina di sè e di difesa contro il male; ed anche come forme di sacrificio impetratorio per ottenere da Dio grazie interne e grazie esteriori, che ridondavano al suo bene spirituale.
Questa pagina del Crispolti, che in gran parte ho ricalcato, rievoca punto per punto la vita penitenziale del nostro santo giovanetto.
Egli è, quanto a sè, un tipo austero, e in lui vive, fin dai primi anni, « un continuo spirito di mortificazione », con che difende le sue belle virtù: in una parola, vive mortificato. La parola vuol esser presa in quel senso più comprensivo e totalitario, quasi indefinibile, che a spiegarlo richiede una moltitudine di piccoli rilievi, di particolari
(1) Del resto anche il Tanquerey, modernissimo, sembra non gradire codesta modernità di espressioni addolcite. Cfr. pp. cit., n. 753.
(2) FABER, Progre.m.. dell´anima, cap. XI, pag. 132.
(3) Brid., infra.
(4) Op. cit., pagg. 113-114.
(5) CRISPOLTI, cit., pag. 113.

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negativi e positivi, che sfuggono d´ordinario alla descrizione, ma che rivelano, a chi osserva, tutto un carattere, che è quello di chi porta seco, come un abito, la mortificazione di Cristo: semper morti¬ficationem Jesu in corpore nostro circumferentes (1).
Vuoi fare la quaresima rigorosa quando non vi è ancora tenuto, e i familiari chiamano indiscreti quei digiuni: egli ne porta ragioni, che, se pure arrotondate nella forma, dovettero essere autentiche nella sostanza: che la mortificazione è necessaria a tutti per andare in Para¬diso, e che pei giovanetti è necessaria sia come penitenza dei disgusti che dànno a Dio, sia per « addestrarli » alla mortificazione necessaria per salvarsi. Ed anche per sé: « Voi spesso mi dite che io sono molto difettoso: per questo voglio anche digiunare » (2). Per un ragazzo di quell´età, dai sette ai dodici anni, non è poco.
E le pagine 69-70 del libro ci mettono in presenza del suo contegno nella custodia dei sensi: come comandava al guardare, all´ascoltare, come si vigilava nel parlare, come puniva (l´autopunizione!) in se stesso le quasi inevitabili volgarità del linguaggio paesano, come si contentava « della quantità e qualità dei cibi » e si appagava del vestir povero adatto alla sua condizione. E amava la ritiratezza e iI tenersi in disparte dalle compagnie: difesa preventiva contro « la terribile corruzione che si osserva nelle conversazioni ». Per esempio, non andava pei ritrovi invernali dei nostri freddi paeselli di montagna (e di campagna), che non sono i caffè e simili, ma le stalle, dove si riuni¬scono le famiglie al caldo gratuito del presepio, e dove i pericoli per la gioventù sono molti, anche e a causa della cavalleria rusticana.
Cogli anni, non troppi per vero, ma dagli undici in poi, col pre¬coce aprirsi della mente e del senso della vita, cioè con l´anticiparsi dell´adolescenza, e per effetto delle letture di cui dirò fra poco, questo affetto alla penitenza si fa più vivo e imperioso, elevando le sue mire amorose verso Dio, e dovrà essere moderato. Ed anche a lui, come a S. Luigi, tornerà in pena, sia pure accettata per spirito di obbedienza e di amore (3).
Io qui non indugio a commentare i fatti, allegando gli articoli dei trattati d´ascetica: basterebbe l´articolo 1091 del Tanquerey a ricordarmi che il desiderio e l´amore del soffrire sono un contrassegno di anima giunta a perfezione. Mi sembra che bastino il parallelo, sia pure a distanza, con S. Luigi, e le parole già citate di Don Bosco, il quale appunto pensa ai maestri di spirito.
(1) II Cor., IV, 10.
(2) Cap. XIII, pagg. 68-69.
(3) Cfr. cap. XXIII, pag. 121; XXVI, pag. 147.

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Il parallelo con S. Luigi porta naturalmente il pensiero all´altra espressione dell´amor di Dio, ch´è la virtù quasi personificata nel Santo modello della gioventù. La mortificazione cristiana e la purezza cri¬stiana (ripeto l´aggettivo per evitar confusioni con certa austerità umana che ha tutt´altra origine psicologica e morale), queste due virtù, dico, sono due espressioni reciproche dell´amor di Dio. Non si può concepir l´una senza l´altra: una mortificazione non congiunta con la purezza, è un non senso, e la purezza senza mortificazione è un as¬surdo spirituale.
In quest´angelica sfera, dove brilla sovrana la purissima luce di S. Luigi, può stare tra i candori liliali delle giovinezze intemerate
quello del nostro Francesco Besucco. Già ce lo farebbe argomentare
la pratica spontanea della mortificazione, e l´amore anche eccessivo alla penitenza, che l´assomiglia al Santo modello; ma non meno ce
lo prova tutta la sua condotta, ch´è quella d´un´anima delicatissima nel riguardarsi da ogni macchia, e fervidamente studiosa di purificarsi da ogni senso terreno.
Sì, la prima educazione a questa virtù si apprende nelle ginocchia delle madri sante; e certe attenzioni, certe maniere, certi riserbi,
che so io ? l´abito casto, si formano insieme coi primi atti ancora in
coscienti dell´infanzia. E Besucco ebbe anch´egli (perehè da noi erano le più) una mamma tutta cristiana; inoltre visse la sua fanciullezza
in una famiglia patriarcalmente ben composta e virtuosa. Ma, a leg
gere della sua vita quale fosse la sua condotta, le sue maniere, in casa e fuori, noi vediamo regnarvi una compostezza, un riserbo non co
mune ed anzi voluto, che se per una parte è la continuazione degli abiti acquisiti nella prima educazione materna, per altra parte si manifesta come indice di un abito cosciente e di una volontà virtuosa.
Bisogna, questo giovanetto, non pensarlo in astratto, ma trammezzo al rude, anzi rozzissimo realismo della vita sua quotidiana: in zoccoli,
nelle stalle, tra pecore e bestie, tra bassa gente di montanari e tarpani
ottusi, e ragazzi venuti su in quella sordida et vili et incivili educazione, della quale l´episodio della battaglia dà un saggio significante: in mezzo
alla povertà sua propria, di povero figlio di un arrotino ambulante e
pastore di pecore al soldo comunale, in una famiglia di lavoratori del bosco e della terra ingrata, tra lo squallore e la trascuraggine di
cose e di abitudini in un´Arcadia che non è davvero quella dei poeti o del Poussin: tra tutto questo e contro tutto questo, è da collocare la compostezza del nostro pastorello, e allora appare mirabile, e deve chiamarsi virtù.

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Già da fanciullino è « contro ogni aspettazione» « in grazia appresso di tutti» per la sua amabile tranquillità e per la compostezza in chiesa: sa comandarsi e non prender cibo prima delle preghiere mattutine: preferisce stare coi suoi di casa, fratelli e sorelle, dov´è modestia e temperie di modi: raramente esce di casa per divertirsi con pochi e scelti amichetti; a scuola è « tale esempio di morigeratezza e diligenza... che i compagni si guardano da lasciar sfuggire parole meno dicevoli alla sua presenza» (capo IV). Special nemico del_ mal parlare, quando sentisse da qualcuno parole indecenti; « mostravasi tosto in volto mortificato, e quindi lo abbandonava o facevagli severo rimpro¬vero» (1). E fu « oggetto di ammirazione a tutti>> perché, come aveva già raccomandato il Maestro, esemplare cristiano anch´esso, rifuggiva Ball´« andare girovagando per le stalle» e nella sua stalla egli leggeva agli altri dei buoni esempi trovati nei libri. Per via lo si vedeva attento e raccolto, più sovente pregando: pronto ad erompere in una giacula¬toria all´udire o vedere cosa sconveniente. « Alla pastura» andava col libro di preghiere, e fermava le scompostezze e le risse.
In tutto egli mostrava un´attenzione assidua su di sè, che non sfuggì all´occhio acuto deI suo Padrino, il quale attesta come «la sua vita fosse una continua preparazione» alla confessione, cioè una vigile disamina delle sue azioni. L la prudenza cristiana descritta dai maestri di spirito (2).
Ed eccoci alla battaglia, quasi immancabile in ogni storia di anime pure. Può dirsi che non vi sia vita di Santo senza l´ora del pericolo e del conflitto. Mutano le circostanze e i modi, ma il fondo è sempre l´opposizione immediata ed energica, e l´uso delle armi adatte a re¬spingere l´assalto. S. Luigi, giovane cavaliere di sedici anni, nel palazzo della Rovere in Torino, trova le più roventi parole per sver-gognare l´imprudente signore settantenne che manca al rispetto della gioventù. A Chieri vince con una ritirata sdegnosa. II Besucco nostro, all´età di otto anni, là tra i pascoli della montagna solitaria, inveisce acremente contro i compagni malcostumati per i loro gesti scandalosi: inseguito nella fuga da un di quei malcreati, ingaggia battaglia colle armi rusticane, e coi proiettili della petraia mette in fuga il nemico. Diverso campo, diversa battaglia, diverse armi: la vittoria è una, e la bandiera è una: la difesa eroica della virtù. Non per nulla il suo buon Parroco lo crede maturo per la Comunione.
A me, sia lecito il dirlo, questo equilibrio, questa padronanza di sè, quest´assennatezza e senso di misura precoce, quale esce dall´insieme
(1) Cap. IV, pag. 25.
(2) Cfr. TANQUEREY, op. II, cap. II, art. I: specialmente nn. 1034-1035.

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dei tratti della vita paesana del Besuceo, ha sempre fatto impressione, e non son mai riuscito a spiegarmi, colle sole doti naturali, gli at¬- teggiamenti di quello spirito. È un´eccezione in contrasto con tutte le circostanze dell´età e della vita ambiente. E vedo che tanto l´uno quanto l´altro dei narratori mi dànno ragione. C´è per questo fanciullo uno sguardo speciale e privilegiato di Dio: una grazia, come bisogna dire, a cui l´anima e l´animo si arrendono docilmente e corrispondono: v´interviene perfino qualche particolarità che non si può credere solamente umana.

Intanto, per quello che dice dell´assennatezza precoce, e cioè supe¬riore all´età, è da tener conto della sua condotta di scolaro (capo IV). Buoni scolari se n´ha dappertutto e, indegnamente, n´ebbi anch´io in più di quarant´anni di scuola: di qualcuno avrei potuto scrivere cose molto belle, e di uno anzi ho scritto pagine non ancora spregiate (1). E lo ricor¬do perchè, appunto in questa materia, l´esperienza conta qualche cosa.
Cinque anni, tra gli otto e i tredici, andò a scuola il Besucco al suo paese, sempre col medesimo maestro, ch´era il solo per tutti. Era una scuola rurale, a classe unica, che durava sei mesi all´anno; e se ne usciva con le cognizioni suppergiù d´una attuale terza elemen¬tare: quel che si poteva ottenere in un villaggio di meno che 400 anime (e la cifra fu esagerata), all´ultimo limite delle Alpi (2). Il maestro comunale, certamente nativo del paese, come indica il nome di Valorso Antonio, foss´anche in qualche remota parentela coi Be
succo (3), era veramente un bravo e sant´uomo, una vera benedizione per un paesello dove il signor Maestro era, dopo il Parroco, la prima
autorità: da quel ch´egli scrive, come dai fatti della vita del nostro fanciullo, si vede come, insieme con la cura amorosa della scuola, il buon Valorso accompagnasse ogni più paterna sollecitudine morale per i figliuoli del povero villaggio, integrando o emendando (e ce n´era bisogno) la scarsa e grossolana educazione di quella gente, che più sentiva del monte e del macigno (4).
(1) Un piccolo Santo : GIOVANNI MORASCHI, Torino, S.E.I., 1921.
(2) Si poteva, anche oltre il triennio, frequentare la scuola, e infatti il nostro giovanetto vi andò per cinque anni. Il programma non cambiava, ma il maestro pensava a rassodare e completare la prima istruzione. E i migliori lo aiutavano un po´ nell´assistere i più piccoli.
(3) Nei piccoli villaggi, e in montagna, tutti sono un po´ parenti. E il pio Valorso, che il Besucco sostituì nel primato del bene, era suo cugino.
(4) Il Valorso non era, come si potrebbe credere, e avveniva ancora in molti piccoli centri rurali, un qualunque non analfabeta messo a far scuola di leggere e scrivere, con una tollerante (e necessaria) approvazione dell´Autorità. Dal suo seri

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Mettiamoci dunque innanzi la figura di questo montanarino, che fin dal primo giorno si applica con tutta l´anima allo studio, o meglio, all´imparare. Si riflette in lui il buon sentimento dei genitori, che n´a¬vrebbero pur bisogno per i lavori di casa, ma vogliono « la scientifica istruzione » perchè impari meglio la religione. Sarà questo, più tardi, il pensiero medesimo del giovanetto, che da Torino raccomanda di mandare alla scuola la piccola Maria (capo XXVI). Per questo la scuola diventa per lui un dovere religioso: una religione, direbbero certi profani. Del resto non vi scorge mai nel suo spirito alcuna distin¬zione (divisione poi, anche meno) tra il dovere umano e la pietà: tutto è per lui a servire il Signore », come diceva già il piccolo Catechismo.
In casa non perde un minuto: attende alla preghiera, alle altre piccole faccende, e torna al suo libro, e il singolare non c´è per nulla. L´ingegno ? Non molto sveglio dapprima, come forse quello di tutti i suoi coetanei: ma si desta, si svolge, si rivela, primeggia, a forza di volontà e di attenzione. È bella la nota del Maestro: « Sebbene non dimostrasse grande ingegno, tuttavia, supplendovi con la diligenza nei doveri e con l´esatta occupazione del tempo nel fare i temi e nello studiare le lezioni, vi fece notevolissimo progresso ». Figlio della diligenza e del lavoro: in seguito c´entrerà dell´altro, e lo dice Don Bosco nella prefazione.
Il fanciullo, scrupoloso dello studio (si divertiva ornai pochissimo), amante ed esemplare nella ritiratezza raccomandata dal Maestro, pel quale ebbe sempre a un rispetto inalterabile », era nella scuola esempio ai compagni « di morigeratezza e diligenza ». E presto, discioltosi dai ceppi di natura, potè aiutare il suo Maestro facendo leggere i fanciulli principianti « con disinvoltura ed edificazione ».
Com´è sagace quel buon Valorso! Non la sola disinvoltura ci nota, ma iI di più, il morale: tant´è che i compagni hanno « concepito tanta stima di Francesco, che guardavansi fino di lasciar sfuggire parole meno dicevoli alla sua presenza ». Temevano le sue rimostranze, mentre pure si valevano del suo buon cuore per farsi aiutare fuor di scuola nelle loro difficoltà. Ed egli, piccolo apostolo, ne profittava per animarli a divozione.
Venne dunque acquistando una qualche autorità, e sedava le risse e le contese, e alle sue ragioni i più si arrendevano: i muli no, e Ii la¬sciava.
vere e dalle cose che dice si mostra uomo di giusta coltura, e fornito di buoni criteri pedagogici. Si veda quanto è detto nel nostro Vol. I, Parte I, Nota introduttiva, circa le Scuole di Metodo già diffuse in Piemonte e poi ufficialmente costituite. Il Valorso doveva certamente aver conseguita la Patente, almeno di grado inferiore.

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Scuola e catechismo eran chiamati con la medesima campana, ed egli era il primo ad interrompere i divertimenti per accorrere. Fino a regalare le ciliege ai renitenti, dopo un amabile rimprovero. Ed è, si noti, la relazione del Maestro, non del Parroco, che riporta dai riferimenti dei compagni la sua premura ad impedire i discorsi cattivi (capo IV), ad invitarli alle visite divote, a compiacerli nelle cose di scuola, a far dire l´Angelus tra la ricreazione, a chiamarli a messa nei giorni di vacanza. E « nei cinque anni in cui frequentò la mia scuola » non fu mai secondo al alcuno nella puntualità, e « se avesse osservato compagni negligenti, sapeva così bene avvertimeli, che quasi, da volere a non volere, divenivano più diligenti ».
Era dunque l´apostolato attivo, che riusciva tanto più efficace, in quanto era appoggiato ad una esemplarità impeccabile (« non poteva essere migliore » scrive il Maestro) nei doveri, e ad un « così bel garbo e tanta amorevolezza » coi più piccoli, che lo faceva « assaissimo amato e rispettato ».
Tale era il pastorello scolaro. La scuola, lo studio, per lui erano un dovere sacro, anche perchè, prima senza definirlo chiaramente, poi per espressa intenzione, mirava più alto : ad aprirsi la via ad un secreto desiderio, che noi diremmo vocazione (1). Vi pensava perfino mortificandosi, « afllnchè Dio mi conceda la grazia di andare in quel luogo in cui ha detto mio Padrino di mandarmi perchè possa studiare ».
Certi destini si preparano dalla lunga. Il Besucco, che fa il piccolo aiutante nella classe unica, mostra già una chiara disposizione alla vita probabile del salesiano educatore. Tantochè già ai nove, dieci anni il Parroco lo mette a far la dottrinetta ai più piccoli, e continua per quattro anni « con tanto impegno e tanta sollecitudine... che i mede¬simi ragazzi lo desideravano, professandogli grande rispetto » (capo X). E infine per tre anni (dagli undici ai tredici) tiene una classe di dot¬trina in quaresima. Con una povera seconda o terza elementare, il piccolo montanarino può far tanto. Ma dentro l´anima c´è il lume di Dio e l´amore di Dio.
E questo mi condurrebbe a dire più espressamente del suo apo¬stolato tra i giovanetti e in paese. Non si può amar Dio senza orientarsi verso il prossimo; e codeste anime privilegiate (lo scrittore lo chiamava « prediletto dal Signore ») non si contengono in se sole, ma vivono degl´interessi di Gesù, ch´è una delle caratteristiche dei Santi (2). Ed è una nota immancabile nei migliori figli spirituali di Don Bosco, toccando l´apice in Savio Domenico, che vive d´amore e di apostolato.
(1) Cfr. cap. III, pag. 20.
(2) FABER, Tutto p€7. Gesù, cap. II, pagg. 86, 91, 93 e segg.

Per il Besucco l´apostolato consiste prima nel dir buone parole in casa (capo III); poi nell´impedire il male e Io scandalo tra i com¬pagni (capo IV); oppure nel protestare e rimediare ai cattivi esempi della gente con le parole e la preghiera (capo VII): si fa quindi attivo, come abbiam veduto, e direi costruttivo, con indurre i coetanei alle preghiere, alle visite e divozioni, al catechismo (1), e finalmente nel¬l´esortare e indirizzare al bene (2). E più che dai particolari, che son
pur numerosi, la misura del suo lavoro per il bene ci è data dalla stima che si ha per lui fin dalla famiglia (3), e dalla benevolenza
che gli dimostrano anche i compagni (4).
Se ne accorgeva egli stesso, e ricorda il primo biografo che egli
diceva (5): « Buon per me che non mi conoscono, altrimenti non mi vorrebbero tanto bene! ».
(1) Cap. IV, pag. 24; cap. VII, pag. 44; cap. VIII, pagg. 51-52; cap. XII, pag. 66; cap. XIII.
(2) Cap. IV, pag. 26; cap. IX, pag. 56; cap. X, pag. 57.
(3) Cap. V, pagg. 27-28; cap. VII, pag. 41.
(4) Cap. IV, pagg. 23-26; cap. X, pag. 57.
(5) Cap. VII, pag. 41.

CAPITOLO III
Il nuovo stadio
Non tutto questo, a dir vero, è cosa da bimbi o da fanciulletti. E si avvera specialmente, e in grado via via maggiore, dopo i suoi dieci o undici anni. È questa appunto l´età in cui, con evidente pre¬cocità, la sua personalità si desta e diviene cosciente, ed opera di proposito. Anche senza voler fare la storia naturale delle anime, che in presenza della grazia di Dio è del tutto insufficiente e riesce per lo più fallace, una precocità privilegiata qui non può negarsi. Ed egli avrebbe ben potuto essere accolto allora nell´Oratorio, per la maturità del suo carattere, benchè il Regolamento del 1852-54 dichiarasse elle si preferivano i giovanetti dai 12 ai 18 anni, perchè prima d´allora non vi è gran che di male o di bene nella vita del fanciullo, e dopo è troppo tardi (1). Egli anticipava i tempi.
Ma per noi, pel caso del Besucco, oltre alla precocità, si deve ammettere e riconoscere anzi come essenziale un altro fatto, che ha sulla piega che prende il suo spirito e il suo operare, e insomma sull´indirizzo della sua piccola vita, un´efficacia innegabile e risolutiva.
Ed è il fatto dell´imitazione voluta degli esempi, solo allora potuti conoscere, dei due primi piccoli santi di Don Bosco.
C´è anche qui un aspetto spirituale che non vuol trascurarsi e che si riverbera sul fatto e lo spiega. Segno d´anima fatta per Dio è il gusto per i ragionamenti e le letture divote (2). Quanto a ragio¬namenti, non c´è quasi capitolo della prima parte della Vita che non
(1) LEMOYNE, Mena. Bio. di D. Bosco, vol. IV, Appendice, cap. I: Dell´accet¬tazione, art. 1, pag. 736.
(2) FABER, Confer. : Del gusto per la lettura considerato come aiuto
nella vita spirituale (Torino, Marietti), pagg. 297-311.

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accenni al piacere che vi prendeva (1). Del leggere fu naturalmente tanto maggiore l´attrazione, quanto meglio n´ebbe, con l´istruzione primaria e col possesso dei libri, la possibilità.
Cominciò, quando seppe leggere, colle Vite di vari Santi, e ne raccontava dei tratti ed esempi (capo V) (2). Da questo venne a lui come una rivelazione, ossia, come ho detto, un indirizzo più chiaro: l´imitazione degli esempi. Cosa non senza rischi (non foss´altro che di entusiasmi prematuri e intemperanti esagerazioni) (3), se non è sorretta da prudenza o da consigli; nel caso nostro divenuta incita¬mento e indice di giusta possibile santità, quale il suo direttore di spirito doveva proporgli per la sua condizione ed età.
Quell´ora cadde nei suoi undici anni o poco oltre (4). Lesse la vita di S. Luigi, ed imparò « ad occultare le buone azioni che faceva » (capo V). Forse prima, per ingenuità fanciullesca, diceva un po´ tutto a tutti, ed imparò a lavorarsi in segreto.
Ma la vera rivelazione, quella che d´allora in poi gli segna la strada e gli definisce i propositi, gli viene dalle Vite di Savio Domenico e di Magone. Infatti il Savio uscì in seconda edizione (la più divulgata) nel 1860-61, e il Magone nel 1861. E a me piace il particolare che, delle due Vite, quella che anzitutto l´attira è il Magone, perchè più pratico e più prossimo all´imitazione sua. Anche da S. Luigi ha ricavato del pratico, senza aspirare troppo più in là; e il Savio Dome¬nico diventerà il suo ideale più tardi, quando avrà fatto più cammino. Mi pare che questa praticità di spirito (senza dubbio inculcata dalla saggezza del suo buon direttore) sia un segno non secondario della sodezza della virtù che si veniva educando in quell´anima. Non un mistico astratto, non un sognatore inquieto, non un sentimentale impulsivo; ma un santo solido e positivo doveva riuscire se fosse vissuto. E intanto la sua fu una pietà seria, vera e soda pietà: quella che, permeata nella vita, ne regge ed eleva nello spirito le quoti¬diane realtà.
Lascio ogni riferimento ai fatti particolari, che appariranno più chiaramente nella seconda parte: basti l´aver detto che d´ora in poi
(1) Cap. II, pag. 17; cap. IV, pagg. 23-24; cap. V, pag. 29; cap. VII, pag. 42; cap. X, pag. 57.
(2) -È caratteristico che tutti questi fanciulli santi diventano, senz´accorgersene, predicatori di storie edificanti, e si fanno ascoltare. Lo sappiamo di Don Bosco fanciullo: egli ce lo dice dei suoi giovanetti: io lo scrissi del mio Giovanni Moraschi. E Don Bosco ne faceva tanto caso, da raccomandarlo tra le buone opere da farsi da quei delle Compagnie. Ciò conferma il pensiero del Faber sopracitato.
(3) Capitò anche ai Santi. Pensiamo alla fuga di S. Teresa in cerca di martirio!
(4) Capo V, pag. 30: « Due anni fa... «, cioè 1861-62.

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l´esempio dei suoi modelli si assimila con lui, per un proposito espresso, che scende, talvolta anche troppo ingenuamente, fino alla copiatura. Besucco vuol fare come « il mio caro Magone » e diventare un Savio Domenico: questo è d´ora in poi il suo programma.
Caro fanciullo I non sapeva che i Santi si imitano dove si può, e magari si può oltrepassarli, ma non si può mai essere loro stessi: non foss´altro se non perché ogni santità ha una sua propria fisionomia, e viene da una sua propria vocazione (1).
Ad ogni modo, l´effetto più immediato fu il destarsi, o meglio, il riavvivarsi del desiderio di « poter entrare nello stesso stabilimento, in cui parevagli che avrebbe tanto profittato nella virtù » (capo V). Era un indice della sua vocazione, e la presenti. egli vagamente, e l´aveva compresa il suo buon Padrino (2); egli lo disse esplicitamente a Don Bosco quando lo interrogò sulle sue intenzioni: «II mio vivo, il mio gran desiderio si è di poter abbracciare lo stato ecclesiastico... Ho sempre avuto questo nel cuore, ed ho sempre pregato il Signore che mi aiutasse per appagare questa mia volontà » (3). Ed anche ai compagni suoi dell´Oratorio manifesta apertamente questa inten¬zione (4).
Sarebbe superfluo ricalcare i passi fatti su questa via, se ad essi non corrispondessero altrettanti passi nel cammino dello spirito, e altrettanto provvidenziali congiunture, che vanno fino alla quasi rivelazione superiore della volontà di Dio.
La condizione della famiglia porta che tutti lavorino; ed egli lavora, ancor piccino, e a nove anni si offre a sostituire il fratello che va soldato. Non è dunque un malcontento sdegnoso, che si fa tirare. No: è gioviale, e si affaccenda e s´affatica e si stanca: lo vede suo padre, ed egli risponde: « Ah! mi sembra che questi lavori non siano fatti per me. Mio padrino mi dice che studii: chissà che egli mi aiuti » (capo III). E sempre parla del « suo desiderio di frequentare le scuole ». Quando vi è mandato, vi mette tutta l´anima ed ogni briciolo di tempo avanzatogli dal resto: quel resto a cui attende quasi per legittimare davanti ai suoi l´eccezione che si fa per lui, e più per compensarli del bene che gli vogliono: giacche è « il beniamino di tutti ».
(I) FABER, Conf. Spirit.: Ognuno ha una vocazione speciale, pag. 380, e passim.
(2) Cap. XIV, pag. 74.
(3) Cap. XVI, pagg. 87-88.
(4) Cap. XVIII, pag_ 99.

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La sua mente si schiude, si dirozza, ed egli progredisce, fino ad ottenere sui compagni una superiorità riconosciuta (capo VII), e ren¬derlo atto ad aiutare il Maestro, e fare il catechismo. Disinvoltura, diremmo, e impegno d´ingegni latenti o di caratteri forti. E sia. Ma tutto è per un Santo fine, di rendersi capace di studiare poi secondo la vocazione. Per questo fa anche delle penitenze: « affinché Dio mi conceda la grazia di andare in quel luogo in cui ha detto mio Padrino, perché possa studiare » (capo XIII). E s´avverta intanto, così di pas¬saggio, la delicatezza di quel buon prete, che sa benissimo quale dovrebbe essere lo scopo di quegli studi, e vede chiaro nella voca¬zione del fanciullo; ma non parla che di « andar a studiare ». Don Bosco faceva lo stesso. Le vocazioni si svolgono e maturano coltivate, ma non si debbono imporre con suggestioni, per quanto benevole (1).
Il ragazzo ora nei dodici anni, e, dopo cinque anni di quella limi¬tatissima scuola, non c´era davvero più nulla da impararvi. Era tempo per lui e pel Padrino, di decidere sull´avvenire. Il buon Arciprete prese sopra di sè l´incarico di completarne l´istruzione, mettendo su un gruppetto di buoni ragazzi, ai quali per quasi due anni (2) fece scuola col programma, diciamo così, d´una terza elementare (ora quarta) o giù di lì, quanto era necessario per essere ammessi ai corsi di latinità.
Sulla via che gli si apriva, il Besucco si lanciò « con nuovo vigore e con nuova diligenza ». E la materia gli entrò: tanto da potere, a Torino, esser messo subito nella prima Ginnasiale, e passare in seconda dopo appena due mesi.
Possiamo leggere nell´anima di lui il discorso del cuore: Dunque il Signore mi vuole per quella via, e il mio buon Padrino si sacrifica per aiutarmi ad arrivarci! E mentre il cuore gli fa comprendere tutto il valore di quella carità, e lo commuove fino alle lacrime quando manifesta la sua gratitudine (capo XIII), la pietà gli fa tradurre tutto nella preghiera. Ed è là, dalla sua Madonnina, prima della scuola, a raccomandare alla Sedes sapientiae, che il Magone gli ha insegnato a nominare, la sua intelligenza e il generoso Maestro. Preghiera forse non articolata, ma tanto più profondata nell´anima,
(1) FABER, Il Creatore e la Creatura, pag. 112: « Se il forzar le vocazioni, il farne artatamente apparire, è opera sprecata, e se il fingere le vocazioni è la male¬dizione degli Ordini religiosi; ma non vi è quasi responsabilità più grave, che è meglio non portare indosso innanzi al Giudice supremo, la quale sia maggiore dell´esser gravati di vocazioni guaste o deviate ». Vedasi poco oltre (cap. XIV, pag. 75) la ponderatezza del buon Arciprete nel voler che il fanciullo ottenga da Dio un segno chiaro della sua vocazione.
(2) Lo dice il Besucco a Don Bosco: cap. XVI, pag. 51.

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tanto più visiva di Dio, da uscirne « con gli occhi bagnati di lagrime ». In quei momenti si avverava realmente la fusione, la sintesi, di tutto l´essere, umano e spirituale, nella domanda (1) : domanda sem¬plice nel suo oggetto, ma grande per il cuore che affida a Dio di adempiere a ciò che oltrepassa le sue capacità: « Vengo adesso da pregare Maria SS. per lei, caro Padrino, affinché le ottenga da Dio quella ricompensa che io sono incapace di darle» (capo XIII). C´è
tutto in codesto trapasso dalla sicurezza della volontà di Dio per il suo avvenire alla riconoscenza sovraterrena per una carità disposta
da Dio e che è fatta solo per Dio. Forse vedrò troppo: ma mi sembra che codeste immediatezze di percezioni sono possibili solo alle anime che vivono sempre con Dio. E, tra parentesi, quella è nel libro una bella pagina.
Vengono, al momento opportuno, le pratiche, nelle quali la Prov¬videnza fa entrare efficacemente la parola d´un signore conterra¬neo, l´Eysautier, tenente delle Guardie Reali. L´Arciprete ha scritto belle parole di questo ragazzo e della sua vocazione: Don Bosco lo accetta.
Ma tra le lagrime di gioia e di riconoscenza spuntano quelle dolenti della povertà. E sono le più amare e desolanti, perché « alle buone disposizioni si oppone l´insufficienza dei mezzi umani » (capo XIV). E sarà veramente voluta da Dio una vocazione, un´idea, che contrasta con tutte le possibilità umane ? Dubbio angoscioso, che il buon Padrino affida alla pietà, alle preghiere del fanciullo, « chiedendo istantemente (a Gesù e Maria) qual fosse la loro volontà a suo ri¬guardo » (capo XIV).
«Ma raccomandati — gli dice — che ti manifestino la tua vocazione in modo chiaro, per non fallire in cosa di tanta importanza » (2). Che cosa vuole quel sant´uomo con il modo chiaro? Una rivelazione ? Io non ne dubito, perché già egli sapeva di che fossero capaci le preghiere di quell´anima (3).
Ebbene, la rivelazione è venuta: naturalmente, tra i fervori della Comunione. Loquere, Domine, quia audit servus tuus, ha scritto il buon prete quando ha voluto spiegare lo stato d´animo del giovinetto in quei momenti (4). E il fanciullo, raggiante di gioia, racconta, venendo
(I) Cfr. JITLES SEGOND, La prière : essai de psychologie réligieuse (Paris, Alcan, 1911): chap. VIE, La demande et la prière d´intercessi»n.
(2) Vedasi quanto è detto sopra, a proposito della prudenza in materia di vocazione. Ivi, la nota (1).
(3) Cfr. sopra, cap. IX, pag. 56.
(4) Cfr. sopra, cap. XII, pag. 67.

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per la scuola, che dopo la Comunione, facendo l´offerta del suo cuore e chiedendo a Maria SS. che l´aiutasse, gli era parso « proprio di udire queste parole: Fa´ cuore, Francesco, che il tuo desiderio sarà soddisfatto ».
Un´allucinazione prodotta dalla tensione sentimentale ? Lasciamo stare. Egli ebbe la certezza che quello era il modo chiaro voluto dal buon Padrino: « Io sono certo di andare ove Ella, caro Padrino, intende inviarmi, perché questa è la volontà di Dio ». E se ne convince anche l´Arciprete, se ne convince la famiglia, che il ragazzo supplica perché ottenga il consenso del padre, non restio, ed anzi più che convinto, ma, pover´uomo! a dovere impensierito per la famiglia.
E le cose si schiariscono, certo con un intervento inatteso della Provvidenza (1), ed egli « raddoppiando il fervore nella pietà e nello studio » fa in due mesi più profitto elle in un anno. Per lui questo si traduce in un´altra parola che gli significa la volontà di Dio (2). Sono allora le due figure di Magone e di Savio che dominano il suo orizzonte, ed accelerano il desiderio, l´impazienza di presto trovarsi Ià dov´essi si son fatti e son morti santi (cap. XV). Quei due mesi egli li vive occupato da una duplice commozione di gratitudine: verso Dio, nel cuore della preghiera, e verso il Padrino benefattore, che modestamente non parla dei sacrifici a cui egli si sottopone per soddisfare alla vocazione del suo buon giovanetto.
Ma non può lasciarlo partire senza sfogarsi in un commiato, che congiunge insieme il dolore del distacco e l´ammirazione per la « maniera meravigliosa » onde la Provvidenza glie lo « toglie per chia¬marlo a santificarsi » nell´Oratorio, come i due modelli ai quali si è ultimamente ispirato. L´enfasi quasi retorica di quelle poche righe sta a segno della sua commozione, e nulla toglie alla verità delle cose (capo XV).
E lasciamo i tratti descrittivi degli ultimi giorni, dell´ultimo, della partenza. Ormai nella mente e nel cuore, nell´anima di lui non v´è più altro pensiero o sentimento: camminare velocemente sulle vie della volontà di Dio, sulle vie della vocazione..
(1) Cap. XV, pag. 81. Nel suo commiato, il buon Padrino allude alla « maniera meravigliosa » tenuta dalla Provvidenza. Quale fosse non è dato di sapere. Don Bosco trovava tanti mezzi per farsi aiutare a beneficare i suoi giovanetti poveri, che pos¬siamo anche pensare all´aver egli trovato un benefattore pel Besucco. Era la sua maniera, il suo stile.
(2) Cfr. cap. XIV, pag. 78: « ... anche io ora non so spiegare, come in sì breve tempo possa imparare la mia lezione, e questo è segno evidente che in ciò faccio la volontà di Dio ».

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Il cammino faticoso di un giorno e una notte per vie di mon¬tagna (1), la novità di un centro cittadino, il treno, le grandiosità della Capitale, che incantano « il villan che s´inurba a, non lo interes¬sano: non vede, non guarda: dall´Argentera all´Oratorio di Valdocco è un solo pensiero, una vista sola: la via della santità per essere sacerdote.
Per questo, entrando la sera del 2 agosto 1863 nell´Oratorio, egli annunzia al padre: « Dite a quei di casa che io sono pienamente felice, e che ho trovato il mio Paradiso »I
(1) Ricordiamo che la strada carrozzabile da Cuneo all´Argentera e Colle della Maddalena, già decretata da Napoleone I, fu ultimata soltanto dopo il 1870. Cosi ricordiamo che nell´agosto 1863 Torino era ancora la Capitale del nuovo Regno d´Italia: solo il 15 settembre del successivo 1864 fu fatta la famosa Convenzione colla Francia, per la quale la Capitale fu trasferita a Firenze. E il nostro libro uscì per il luglio di quest´anno 1864.

Ritratto del giovane Francesco Besucco fatto eseguire da Don Bosco per la prima edizione della vita


Certificato della sepoltura del giovane Francesco Besucco, rilasciato dal Comune


Prima pagina della testimonianza autografa di Francesco Botto, compaesano e compagno del Besucco, inviata a Don Bosco per la composizione della biografia


 

 

 

 

 

 

PARTE SECONDA
ALLA SCUOLA DI DON BOSCO

Prima pagina della testimonianza autografa di Francesco Botto, compaesano e compagno del Besucco, inviata a Don Bosco per la composizione della biografia

CAPITOLO I
La nuova scuola
Quando il Besucco entrò all´Oratorio di Don Bosco, aveva tredici anni e cinque mesi giusti: « tra giovane e fanciullo età confine »: età nella quale, precorrendo i tempi per l´intensità del lavoro compiuto dalla « predilezione di Dio » e dall´opera concorde di una saggia dire¬zione e d´una spontanea arresa del cuore, si trovavano già segnati i primi lineamenti della persona spirituale: quelli d´un tipo austero di mortificazione, di preghiera, di precisione: una creatura in cui la pietas era una seconda natura, e lo spirito di mortificazione un bisogno dell´anima: qualche cosa dello spirito aloisiano.
Anche in questo primo periodo s´è venuta via via affermando una volontà diritta, costante, efficace: una volontà che signoreggia se stessa nel volere il fine o, se si voglia, nel proporsi un programma e che sarà perfezionata dalla mano di un più squisito educatore, per condurlo a mete anche più alte.
Tipo singolare e non frequente in un giovane, questo d´una quasi sistematica e raziocinata visione delle cose, intesa ad uno scopo per¬cepito e voluto chiaramente, ed intensamente perseguito. È l´opposto della simpatica indecisione sognatrice dell´adolescenza, e la sua figura ci appare appunto rigidetta, e non serena e lieta come sarebbe proprio dell´età, e fa desiderare un altro lavoro che le conferisca duttilità ed apertura.
Ma l´attrezzatura c´è tutta, e noi l´abbiamo veduta. Visto dal di fuori, egli è finora un giovinetto esemplarissimo, secondo i dettami della vita di pietà, ed è già molto: dell´interno, quel tanto che se ne conosce ce lo mostra in più parti predisposto alla santità.
Perché questa si avveri, sia pure proporzionatamente allo stato suo di preparazione, com´è in ogni santo giovane, si vorrebbe vedere

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che apparisse una qualche ragione di unità, come d´un alto principio animatore e ispiratore dei singoli particolari, che finora si sono offerti all´osservazione: un per uno di gran valore, ma senza una sintesi personale riflessa nello spirito. Codesta unità, senza la quale forse la santità non ha forma, è finora in lui allo stato latente e inconsa¬pevole, e verrà l´opera del Santo pedagogo a svolgerla, a renderla cosciente, a far sì che si manifesti.
Parimenti, con tutta questa somma di particolarità virtuose, noi sentiamo che manca ciò che senz´altro eleva il suo modello, il Savio Domenico, ad una sfera superiore. Certamente lo studio di rendersi migliore e conquistare le virtù è un dato indispensabile della vita santa, ed è anche una delle vie per le quali si può pervenire alla perfezione della carità. Ma la virtù non è che un mezzo, perché non è Dio, nè l´unione con Dio (1). Il centro dell´attenzione e il punto di partenza è pur sempre se stesso, sia pure col fine superiore di rendersi grato a Dio. L´anima di Savio Domenico è di quelle che nell´amor di Dio pongono il punto di partenza e la mira di qualsiasi azione (2). Quel che sentiamo ancora mancare nel Besucco è il volo in alto, lo spirito alato del grande amor di Dio: quel che innalza il Santo sulla comune degli spiriti virtuosi; come anche nelle opere d´arte possiamo lodare la correttezza, la compiutezza, il buon gusto, o la sapiente imitazione dei veri grandi, senza che appaia la scintilla del genio, la personalità della creazione. Il piccolo santino d´Argen¬tera imita fedelmente i suoi modelli, Savio Domenico e, fino a un certo punto, S. Luigi: ma non rivela quell´agilità di spirito, quel respiro largo, quel librarsi nelle sfere dell´amore, quasi direi quella poesia della pietà, che contrassegna la perfetta carità, il perfetto amor di Dio.
(1) Cfr. FABER, Progr. dell´anima, ediz. cit., pagg. 30-31. E a pag. 192, rileva lo sbaglio di spiritualità in coloro (c il cui vero fine della vita spirituale non è Dio, ma il solo fine di migliorar se stessi ». Sono idee familiari a S. Francesco di Sales. Cfr. FR. VINCENT, San Franf. de Sales, directeur d´dmes (Paris, 1923), pagg. 149-177 L´amour out et moyen dans la perfection.
(2) Sono concetti alfonsiani, e proprii del resto della scuola benedettina seguita da S. Bernardo, Bonaventura, Francesco di Sales, S. Alfonso. Cfr. KrurscH, La dottrina spirituale di S. Alf. M. d. Lig., pagg. 324-325. Ivi anche la lucida espo¬sizione del DESURMONT, Oeuvres, vol. I, Introduz. mini. Così cfr. S. FnANc. DI SALES, Tratt. d. Amor di Dio, XI, cap. 8-9. Anche TANQUEREY, cit., n. 331, e prima nn. 318-19. Si pensi che Don Bosco è Salesiano col suo Santo Patrono, ed è poi assolutamente alfonsiano in morale ed in ascetica. E della stessa scuola è il Frassinetti (1804-68), coevo, condiscepolo e amico unanime dell´Alimonda e di Don Pestarino, il direttore spirituale della Beata Mazzarello, salesianissima già quando fu chiamata da Don Bosco.

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Questo, lo sappiamo, non è neppure del tutto in nostro potere,
e ci vuole un dono di Dio: gli sforzi meritori possono fino ad un certo punto predisporre l´anima a riceverlo e renderla degna di otte¬nerla. Ma finché Iddio non concede codesto dono soprannaturale, si rimane nella sfera delle comuni virtù, le quali si possono acquistare con la ripetizione degli atti inspirata ad un fine di perfezione. li para¬gone col genio quadra anche qui: esso non s´acquista per mezzo di metodi o di esercizi, ma, se non è il prodotto del lavoro, lo suppone,
e non può farne a meno. Possiamo dire che Iddio premia le virtù infondendo i suoi doni: quando questi vi sono, l´anima è un´altra da quella di prima, o è differente da quelle che non sono favorite (1).
Non si creda ad una divagazione. Il Besucco, quale c´è apparso finora, ha già raggiunto un notevole grado di perfezione, e numeri¬camente la Vita, specialmente nella prima parte, espone maggior quantità di fatti e di particolari, che non quella del Savio; non son mancati neppure i segni di una particolare attenzione di Dio per lui. Sarà la mano del Pedagogo dei giovani santi a condurlo per quella via che ascende fino ad incontrarsi col dono .di Dio, dove egli troverà finalmente le ali del suo volo, per librarsi ad un´altezza da nessuno pensata.
Qui la salesianità di Don Bosco si esplica nella sua forma più squisita (2).
Il lettore si sarà accorto che in più d´un momento il nostro discorso è ispirato a reminiscenze aloisiane. Non se ne può fare a meno, sia perchè il nostro giovinetto realmente ebbe in vista l´imitazione del modello della gioventù; sia perchè, nonostante una distanza di con¬dizioni che piuttosto dovrebbe dirsi rovesciamento o antitesi, in più punti si accostano nella storia spirituale, e nel fatto non trascurabile del mutamento di direzione che occupa l´ultimo periodo della vita
e li accompagna fino al termine di essa. Il Crispolti ricorda a tal proposito le parole del gesuita P. Zocchi, là dove, con grande impar¬zialità, diceva che « I Gesuiti hanno grande obbligo a Dio che concesse tal gemma al loro Ordine, ma´per verità avrebbero mal garbo a vantarsi d´avere colle industrie loro formato S. Luigi, laddove lo ricevettero dal secolo già perfetto e santo » (3). Il Besucco venne da Don Bosco
(1) PETITOT, O. P., Santa Teresa di Lisieux ossia una rinascita spirituale. Ediz. ital., Torino, 1928, pagg. 140-141.
(2) VINCENT, op. cit., cap. IX, pagg. 381-382 e segg.
(3) CRISPOLTI, op. cit., pag. 143.

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quale abbiam veduto, già formato a santità di vita e, così com´era in quel momento, se fosse mancato, c´era da disegnarne un profilo edificantissimo, e neppur sfornito di qualche particolare molto elevato e sopra l´ordinario. E mentre S. Luigi rimase tra i Gesuiti cinque anni e sette mesi (25 novembre 1585-21 giugno 1591), il nostro visse con Don Bosco appena cinque mesi e sette giorni: oltrecchè l´uno era ormai un giovane fatto, e l´altro poco men che fanciullo. E non diciamo delle altre differenze. Cosicchè viene naturale la domanda: Che cosa restava da fare a Don Bosco ? Che cosa ha potuto fare Don Bosco del Besucco ?
Ebbene, qui appunto ci stacchiamo dall´idea dello Zocchi, dicendo che « colle sue industrie », e cioè colla sua pedagogia della Santità ha fosuiato nel Besucco quello che prima non c´era: ha formato quel che si direbbe il Santo. La nostra tesi è questa: « Il Besucco, quale si presenta nel suo compiuto essere spirituale, è opera di Don Bosco ».
Se, per un´ipotesi non- sperabile, fosse dichiarato Santo, egli appar¬terrebbe a Don Bosco come il Savio e gli altri; non per una coincidenza casuale, ma per effettiva ragion di causa.
I Gesuiti governarono l´anima di Luigi « con una sapienza, una temperanza, un´umanità mirabili )3 (1), ed egli nel nuovo clima maturò se stesso, mediante una regola sapiente imposta al « suo proprio fer¬vore senza freno » (2). Don Bosco, sul fondamento delle virtù già acquisite dal giovanetto, lo disciplinò nello spirito, dirigendolo secondo le vie sue a più consapevole e chiaro cammino, e costrusse l´edificio della spiritualità più alta e più feconda, e, come dicemmo, più alata, e il giovane si trovò, senz´accorgersene, trasformato e come rigenerato nel clima spirituale salesiano.
Ma notiamo bene, Don Bosco non ha affatto la pretesa d´essere stato egli solo a far tutto quello che nel nostro giovanetto è intessuto di santità: né poi intraprese e condusse l´opera sua imponendo aprio¬risticamente un sistema, ossia una formola spirituale che sopprimesse la personalità, riformando e rifacendo daccapo. Già il Santo della discrezione e del buon senso aveva compreso che non ce n´era bisogno, perchè il giovanetto era ottimamente avviato per la via giusta e più affine a quelle medesime da lui seguite; ma poi, in virtù del discer-nimento che in lui fu dono speciale di Dio, lesse come per intuito la secreta biografia della vita interiore del suo giovane, e vide chiaro su quale modello disposto dalla grazia divina fosse plasmata la figura di lui; e tutto il suo lavoro fu volto, non a sostituirvene un altro
(1) CRTSPOLTI, op, cit., pag. 144.
(2) CRISPOLTI, OP. cit., pag. 145: Lettera del P. Piatti.

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per amore di sistema, ma a renderlo, così com´era, più consapevol¬mente soprannaturale (1). Sarebbe un errore storico e un torto fatto al Santo educatore, il crederlo incline alla standardizzazione (2).
La direzione spirituale di Don Bosco fu sempre « libera come l´aria e nuova come il sole » (3): cioè studiosa dell´un per uno.
Perciò stesso sembra che non si possa definire quale metodo abbia seguito e fosse solito seguire il Santo nella sua pedagogia spirituale. Anche nel campo educativo esterno (quello proprio che interessa i pedagogisti), quando gli fu chiesto (e s´era già nel 18861) di definire il suo metodo, rispose, come ognun sa: « II mio sistema ? Ma se nep¬pure io lo so 1 Sono sempre andato avanti senza sistemi, come il Signore mi ispirava e le circostanze esigevano ». Eppure fin dal 1877 aveva pubblicate le sue capitali e celebri osservazioni sul Sistema Preventivo.
Tanto più ciò deve dirsi della direzione delle anime_ Egli seguì un metodo che non era il metodo (4). Volerlo definire fissandolo in una formola, è fare contro la verità e le sue intenzioni. Ed è anche malagevole tentar di descriverlo, ricavandolo dai fatti: perchè in questa materia egli non si rivela, ed anzi non mette volentieri innanzi la sua persona; formole ascetiche poi, del genere di quelle che popo¬lano le trattazioni formali, non ricorrono mai. Si nasconde dietro la persona del Direttore, ch´era egli stesso, ed era appunto il confessore, che per prudenza non chiama con tal nome, ma con l´altro; e qui, pel Besucco, molte cose della vita esterna le fa derivare dalla relazione di Don Domenico Rullino, che per ufficio doveva averlo continua¬mente sott´occhio, ed era a sua volta capace, per santità propria, di vedere la vera santità altrui (5).
(1) Cfr. FABER, Betlemme (ediz. Marietti), pagg. 223-224: a La maggior parte dei viventi di vita interiore hanno qualche attrazione speciale della grazia, qualche forma o modello divino, in cui si opera il getto della loro vita spirituale: uno stampo di cui Dio fa uso per gli individui e non per le classi x.
(2) Non le voleva neppure nella vita esterna; e tutti sanno quanto fosse nemico delle stesse reggimentazioni disciplinari, che sono la negazione del sistema pre¬ventivo, basato sul regime familiare. E in fatto di divozione la sua prima regola è quella della libertà.
(3) Cfr. FABER, Progressi, ecc., cit., pag. 294.
(4) Si osservi come su questo punto lo spirito del Santo si accordi con la ripu¬gnanza ai metodi, che contrassegna la spiritualità tutta moderna della Teresa del Bambino Gesù. Cfr. PETITOT, op. cit., pagg. 48-53.
(5) LEMOYNE, Mem. Biogr. ecc., vol. VIII (1865), pag. 161; e vol. XIII (1877), pag. 278. Qui è detto: «Fu un vero modello di vita cristiana. Io non so se l´abbia

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Certamente una regola di vita e certi principi tanto religiosi quanto educativi si seguivano, ed erano appunto quelli del Sistema Preventivo o Salesiano, e il Regolamento, che, abbozzato fin dal 1854, fu definitivamente integrato e pubblicato nel 1877; e il Besucco, come ogni altro, vi erano soggetti. E per esempio, l´ordinamento delle pratiche religiose comuni, quali si hanno nel Giovane Provveduto, era già un quasi sistema, nel senso tuttavia più largo, proposto a tutti, e praticato da ciascuno secondo la propria capacità spirituale.
Ma in quel ch´era di tutti o per tutti, i giovani migliori, nei quali Don Bosco poteva compiere un particolare lavoro di perfezionamento, trovavano un fondamento per collocare quel di più che la grazia di Dio e la loro corrispondenza ispirava. Molte volte, il più spesso, si può dire, non c´era quistione di quantità di cose, quanto d´intensità e di altezza di vita interiore (1).
Ora è precisamente questo il punto che non possiamo definire: come cioè lavorasse Don Bosco per portare tali anime a tal punto. Questo come dobbiamo cercarlo, estraendolo da certe circostanze esteriori, e, raramente però, da espressioni sue, quasi sfuggite alla sua cura di non voler fissare un sistema, che in questa materia po¬trebbe diventar l´opposto della indispensabile libertà.
Si può dire che il Santo educatore, presentando degli esempi di giovani santi, non abbia altro intento se non di mostrare che, col sistema di vita da lui concretato nel regime della sua Casa, un gio-vanetto può operare integralmente la sua morale educazione, e, col-l´aiuto della grazia divina, farsi anche santo: buoni e veri cristiani sempre e tutti.
Ed ho accennato alla libertà. Don Bosco, salvi gli inderogabili principii di moralità, di ordine collettivo e di religiosità ben intesa, ch´è osservanza dei doveri cristiani e serietà di pratica, non volle
da mettere a confronto con San Luigi; ma per certo, tutto quello che sa fare un buon giovane, un buon chierico, un buon prete, lo fece tutto, e lo fece con tale ardore che nella pietà può esser messo a confronto coi migliori esemplari della vita cristiana e religiosa i. Così Don Bosco, volendo che se ne scrivesse la Vita.
(1) La concezione di Don Bosco può esprimersi con le parole del suo contem¬poraneo, il Faber: « La vita spirituale non consiste tanto in una quantità di divo-rioni, di cerimonie, di credenze, di esercizi singolari; quanto nell´elevare all´ordine soprannaturale la nostra vita comune; in una parola non consiste tanto in certe cose, quanto nel modo di far bene ogni cosa». Progressi, ecc., cit., cap. XVIII, pagg. 262-263. L´opera uscì nel 1854, Don Bosco non potè leggere il Faber, che cominciò ad essere tradotto in italiano solo nel 1867 (edit. Marietti). Ma l´affinità di spirito tra il Filippino inglese e il nostro Santo è tale e tanta, che non vi è forse altro scrittore spirituale moderno così adatto come quello a commentarne o confermarne il pen¬siero spirituale e gli indirizzi direttivi. Il Faber seguiva la scuola italiana.

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mai pressioni o impulsi autoritarii, e nel regime spirituale lasciò ai singoli la più ampia libertà devozionale, come lasciò, pur essendo il più convinto e efficace apostolo e diffonditore della pratica frequente dei Sacramenti (vedere più oltre per quale ragione), lasciò, dico, la massima libertà quanto alla frequenza e perfino quanto alla ricor¬renza (1): possiamo aggiungere che in cose di chiesa, come le chia¬mava, voleva la libertà nell´ordine, lasciando che i giovinetti si met¬tessero un po´ dove volevano, e a funzione terminata uscissero di chiesa alla popolare (2), o si trattenessero a pregare come si sen¬tivano portati.
In tale ampiezza vi era posto per tutti, e la precisione nel dovere segnava, agli occhi del Santo, la linea precisa che separa il bigottismo e la falsa divozione dalla vera e soda pietà. E singolare l´insistere ch´egli fa nelle Vite da lui dettate di giovinetti santi, dei quali par¬rebbe dover soprattutto esaltare la divozione e Ia pietà, l´insistere, ripeto, sulla diligenza e precisione nei doveri pratici della vita quoti¬diana loro propria. Non è confusione tra il direttore di collegio e il direttore d´anime, come se, per necessità inderogabili di convivenza o di regime, si valesse degli argomenti di coscienza per ottenere una disciplina; no: è un articolo fondamentale dell´intero sistema spiri¬tuale, poggiato sulla santificazione della vita a ciascuno assegnata dalla Provvidenza (3).
Il che mi fa tornare a quanto dissi poco fa: che l´esemplarità delle Vite da lui scritte tende a mostrare ai giovanetti in genere come si fa ad essere tali da adempiere compiutamente la loro morale educazione.
Le Vite scritte continuano così a creare nei giovani lettori, a cui sono dedicate e destinate, quell´efficacia dell´esempio che, a volta a volta, formava quel che si dice l´ambiente, il clima, l´atmosfera,
(1) Le citazioni dai discorsi ai giovani e ai Salesiani, come dalle lettere pub¬blicate, sarebbero in gran numero. Mi rimetto alla conoscenza delle Mein. Biogr. che suppongo nei lettori di queste mie pagine. Tanto per una prova, ricordo le parole della Cronichetta di D. G. Barberis (Meni. Biogr., voi. XI [1875], pag. 224): « Nessuna pressione morale a frequentare i Sacramenti: i Superiori si sarebbe detto che non vi badavano nemmeno A. Nel regime salesiano non c´è il giorno fisso per la Comunione, e neppure per la Comunione di tutti. t una nota tradizionale.
(2) Ancora ai tempi miei si usciva dí chiesa a questo modo, mentre si cantava (molto alla buona, veramente) il « Luigi, onor dei vergini A. Nel 1885 fu messa una disciplina.
(3) Cfr. sopra la citazione dal FABER, Progressi, ecc., pagg. 262-263, e più oltre le altre citazioni sull´osservanza del dovere. Anche il PErIrOr, op. cit. pagg. 26, 30-31, 94.

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ond´erano circondati ai tempi suoi i giovanetti accolti nella sua Casa a formare la grande famiglia.
Vi era infatti come una tradizione, un costume o abito di famiglia, che teneva il posto o completava quel tanto che collettivamente o a ciascuno s´insegnava. Qui si fa così, potevano dire ai nuovi venuti gli anziani (i vecchi, si chiamavano) degli anni innanzi (1). Questa tradi¬zione, o atmosfera che vogliam dire, questa efficacia dell´esempio • fu sempre, nel pensiero e nella pratica del Don Bosco educatore, uno degli strumenti essenziali del suo lavoro educativo, tanto nel mondo esteriore, quanto nella formazione o, dirò meglio, nella coltivazione degli spiriti più eletti. Potrebbe dirsi che, dopo la grazia di Dio, egli non vedesse altro mezzo per dare efficacia pratica alla sua parola, che l´esempio e la tradizione degli esempi. Anche negli anni più tardi vi si richiamava e vi insisteva (2), e del clima buono e confortevole che rendeva possibile a molti suoi figliuoli una vita santa, si consolava e quasi, si può dire, si vantava discorrendone con personaggi insigni (3).
E pertanto il lavoro dell´ultima formazione spirituale del Besucco deve anche vedersi come operato dalla vita e dalla tradizione che lo circondava (4). Veramente per il nostro giovanetto d´Argentera non tutto era nuovo in codesto genere. Già al suo paese il buon Don Pepino lo aveva tenuto nella compagnia dei giovanetti più virtuosi e pii, dov´egli era sottentrato al Valorso; e poi, dopo il 1861, gli aveva messo tra le mani le Vite di Savio e di Magone, che tutto lo presero, e finirono con infondergli un desiderio irresistibile di venire anch´egli in quella Casa dove i giovanetti potevano farsi santi come loro.
E qui, in questa Casa appunto a cui egli sospirava, si trovò avvolto in pieno nell´atmosfera di Savio e di Magone. Perdurava la fama sanctitatis del Savio, e la vita si svolgeva attorno a Don Bosco e ai suoi primi collaboratori, quali un Don Rua (5), Don Alasonatti, Don Cagliero, Don Francesia, Don Savio, Don Ruffino, e altri delle prime ore.
(1) Cfr. iI primo dialogo di Savio Domenico con Gavio Camillo. Vita, cap. XVIII.
(2) Cfr. Mem. Biogr., vol. XVII (1884), pag. 118, in Lett. 10 maggio 1884 ai giovani dell´Oratorio: « ... far vedere che i Comollo, i Savio Domenico, i Besucco,
i Saccardi, vivono ancora tra noi ».
(3) Cfr. Mem. Biogr. (Genia), vol. XII, 341: Conversazione con Mons. Belasio. E cfr. più oltre la citazione da vol. XIII, pag. 888 (1878).
(4) Mem. Biogr., IV, pag. 556. Ivi Ie eloquenti parole del Can. Ballesio, alunno dell´Oratorio fin dal 1857 (compagno di Magone). Quanto al tono della vita, la lettera cit. 10 maggio 1884, pagg. 108 e 110.
(5) Veramente nel 1863 Don Rua passò a dirigere la nuova fondazione a Mira-bello. Ma qui si discorre in generale.

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Era, come l´ho chiamato, un clima che alimentava una vita di virtù e di pietà cristiana, la quale, a seconda delle disposizioni, toc¬cava vari gradi, e se pei men buoni era almeno un monito e un richiamo, nei migliori e nei « prediletti da Dio » giungeva qualche volta allo straordinario (1).
Ciò derivava da uno stato d´animo, come una tensione dello spirito di quei giovani, che li teneva attenti ed intenti a ciò che Don Bosco indicava ed inculcava per renderli quali egli pensava che dovessero riuscire. « Allora, diceva vent´anni dopo il buon Padre, riferendosi non senza rimpianto a questa età dell´oro (2), tutto era gioia per me, e nei giovani uno slancio per avvicinarsi a me, e volermi parlare, ed una viva ansia di udire i miei consigli e di metterli in pratica... a.
Era Don Bosco l´ispiratore, anzi il generatore di quella vita. Chi non ha visto Lui tra i suoi giovani all´Oratorio (ed io lo vidi), non si farà mai un´idea adeguata di quel che fosse la sua presenza e la com¬penetrazione del suo spirito con quello dei suoi figliuoli. Dire ch´era il Padre, sembra già molto, ma nel mondo dello spirito non giunge a dir tutto. Bisogna pensare ad una quasi fascinazione amorosa ed amorevole d´un cuore comprensivo e compreso, che ha per sé tutta la virtù che gli viene dai doni superiori della santità. Non era vene¬razione trepida in presenza del sacro misterioso: c´era una inconscia sintonia di anime che, senza spiegarsi, s´intendevano, in un linguaggio che la parola non è capace di tradurre. Qualche cosa come l´istintivo legame del bimbo colla madre: tra loro si comprendono, si sentono, e con lei egli è tranquillo e lieto, e la sente anche se non la vede ma non la pensa lontana.
Così ci diamo ragione del tono di famiglia e di familiarità che permeava tutta la vita dell´Oratorio: quel senso di casa mia che ogni giovane provava nel vivere con Don Bosco. E il rammaricarsi ch´Egli fa in quel documento del 1884, che sia scomparsa la familiarità dalla Casa che fu per lui tutto, e doveva essere il tipo dell´immensa mon¬diale opera sua: l´insistere che fa perché « ritornino quei giorni » (3) ci dimostra come quella vita dei cuori, che palpitava intorno al suo,
(1) Cfr. Ia conversazione citata con Mons. Pietro Belasio (Mem. Biogr., XII, pag. 341) dove parla di annunzi profetici dei suoi giovani, e di intenzioni dello stato delle anime rivelate dai suoi preti (1875).
(2) Lettera 10 maggio 1884, cit. (Mem. Biogr., XVII, pag. 110).
(3) Lettera 10 maggio 1884, cit., pag. 114: « ... ritornino i giorni felici dell´an¬tico Oratorio t.

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fosse non solo un effetto della sua bontà e santità, ma, senz´altro, la vita stessa del suo lavoro educativo. Qui i pedagogisti, coi loro argomenti e colle loro ricerche e comparazioni, non ci han che vedere.
Ed è chiaro che, dove c´è calma e riposo di cuori, la vita è serena e lieta. È una nota caratteristica dei Santi e della vita condotta nel
l´aria di Dio, anche frammezzo alle più rudi asperità della vita peni¬tente; ed è la nota che immediatamente e prima d´ogni altra distingue il tono della vita salesiana.
Nei giovani la calma interiore e la serenità si vestono di allegria vivace e si esprimono col movimento. Per Don Bosco la vivacità
gioconda e rumorosa era senz´altro il segno della buona condizione delle anime, nei singoli e nella folla. Quando quella mancava o si rallentava, o si scomponeva in discontinuità di lieti e di musorni, Egli vi leggeva la presenza del male o l´intiepidirsi del bene.
Per capire e farci un´immagine al vero del tono della vita dell´Ora¬torio, dobbiamo assolutamente e prima di tutto rappresentarcelo
come una folla di giovani in movimento chiassoso di allegria e di gioco,
di festività spontanea e ridente. E se il gran Padre era pei suoi giovani il vero autore e ispiratore della vita di pietà: se, a capo di tutto, come
principio e come scopo, egli poneva la vita delle anime; non è men vero che autore e promotore di quella vivace allegria era Egli proprio, e vi si trovava in mezzo ad alimentarla e a guidarla.
Era una novità allora e, nella misura e forme sue proprie, rimase un lineamento della sua figura di educatore e di cercatore di anime; ma è pure il documento capitale della tradizione educativa da lui affidata ai suoi continuatori.
Non è un´aggiunta nè un affiancamento di coefficienti questo del¬l´allegria vivace e della letizia serena, di cui vengo dicendo: non un
qualche cosa che sta alla pari della pia tradizione di fervori ed eleva¬zioni spirituali, quali dapprima abbiamo considerato: è un fattore condizionante, senza del quale forse (e il forse è detto solo per un certo riserbo) non sarebbe possibile quel particolare tono di religio¬sità, quella che dicemmo atmosfera di pietà di cui l´Oratorio respirava.
Sicché, raccogliendo, ne viene che la serenità e l´allegria sono, nel pensiero di Don Bosco, mezzo e sintomo insieme dello stato sereno dell´anima, tenuta nell´aria di Dio, sgombra dal male e protesa verso il bene, e verso le ascese morali e spirituali. Comprendiamo fin d´ora perché il primo articolo del programma che Don Bosco pro¬pone al Besucco è l´allegria. A suo luogo diremo altro. Ma ciò che

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ho detto finora è tanto vero che, mentre i suoi figli di quel tempo rievocavano in anni tardi quel tono della vita lieta e familiare attorno a Don Bosco, per significare in quale aura di bellezza spirituale fos¬sero stati allevati (1) ; d´altro canto Don Bosco si rammaricava, nella documentaria lettera del 10 maggio 1884, che all´Oratorio quella vita fosse morta o moribonda, confrontando quel ch´era il cortile d´allora con quello che adesso si vedeva (2), e auspicando, nel concludere, che quei giorni ritornassero.
Ed io mi vi sono soffermato, perchè mi sta a cuore d´indurre in chi legge (e, se mai, si varrà di questi riflessi) l´idea, quasi l´immagine della pietà o devozione (sono le parole di Don Bosco per dire di vita spirituale), di cui il Santo animava e nutriva (materiare qui non ci sta) la vita de´ suoi figliuoli. La pietà non era una funzione, un che distinto e disgiunto dalla vita: com´era la vita dell´anima, così era l´anima della vita, asceticamente se si vuole, e praticamente. E per altro aspetto la vita non era qualche cosa di umbratile (la parola è di PP. Pio XI), nè la Casa era un monastero e neppure qualche cosa come un Semi¬nario: era una vita di famiglia dove i ragazzi sono centinaia, e vivono la vita nella piena espansione della naturale vitalità e vivacità: sono o anime innocenti o anime rifatte nell´integrità e nella santità del vivere, che, come la creazione universa, vivono la loro natura nell´aria di Dio, e nel clima in cui si trovano, sentono Iddio.
In fatto di religiosità e di pietà, di guida delle anime, Don Bosco non è un minimista nè un facilone, e tutti i suoi discorsi ai giovani lo provano, e più ancora i pochi spunti direttivi interni che ci sono stati rivelati da chi ne fu partecipe; ma nel suo realismo semplificatore evita l´alpinismo spirituale, e colle più semplici forme (divenute for¬mole per chi le intende) potè creare una moltitudine di anime belle, e portarne alcune « ad un meraviglioso grado di perfezione » come egli stesso dice del Magone (3).
E qui appunto egli usciva in una caratteristica sentenza, che rivela d´un tratto il suo indirizzo, e può, se vogliamo, prendersi per una for¬mola: « Teniamoci alle cose facili, ma si facciano con perseveranza ».
E fin qui ho quasi sempre, spero su buon fondamento, ragionato io.
(1) Cfr. Mem. Biogr., IV, pag. 556: Discorso del Can. Ballesio, cit.
(2) Lettera 10 maggio 1884, cit., pag. 108. Chi scrive queste pagine era in quel maggio all´Oratorio, allievo di 5´ Ginnasiale.
(3) Vita di Michele Magone, cap. IX, in fine. Per l´affinità, che è quasi deri-vazione, con l´ascetica o spiritualità alfonsiana, cfr. KEtrrscx, op. cit., pagg. 209, 150, 334 e passim.

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Vogliamo vedere nel fatto che cosa fosse quell´aria di Dio che spirava nell´Oratorio ? Lo diceva, ancora nel 1878, 27 novembre, a Don Bar¬beris lo stesso Don Bosco: « Disse bene ieri Don Cagliero: oh quanti giovani abbiamo che potrebbero benissimo far ricreazione con S. Luigi! — Si, quanti vi sono che conservarono l´innocenza battesimale, e che qui nell´Oratorio, sebbene nell´età più pericolosa, continuano a conservarla! Quanti, e sono i più, già vinti parecchie volte dal demonio,
appena venuti qui, hanno cambiato vita! Sembra proprio che entrino in un´altra atmosfera: dimenticano affatto le vecchie cattive inclina
zioni, e passano anni ed anni in modo da poter dire con tutta verità
che non han fatto nemmeno un peccato veniale deliberato! Questo ci deve consolare... » (1).
Ed io ho detto: ancora nel 1878, per esprimere le continuità di quella vita che il buon Padre ricordava poi sempre come fiorente in quei giorni, ai quali il nostro compito ci richiama.
Quei giorni sono quelli in cui s´incontra il Besucco. Mancava ancora a completarlo l´efficacia della socialità, appena appena adombrata nella vita passata al paese, e qui invece pienamente costretta in ogni sua parte; e nella sua storia, breve ma sostanziata di fatti sostanziali, fu segnata una via non detona da quella di prima, ma più aperta e più chiara, più incoraggiante, dove la guida disciplinava il cammino, e l´aria ambiente infondeva nuova e maggior lena all´avanzare.
Nella Casa che gli schiudeva le porte, Besucco non si trovò più, per quanto ben diretto, solo colla sua volontà: ma appunto come aveva desiderato, vide negli altri (capo XVII) e visse con gli altri quella vita ch´egli aveva contemplato nella storia del Savio e del Magone, e che nelle mani di Don Bosco doveva lui pure condurre a Santità.
Questo è il fatto. che distingue la storia dei suoi ultimi cinque mesi di vita: la scuola di Don Bosco: la veste salesiana che lo trasfigura.
(1) Mem. Biogr. (Ceria), XIII, paga 888. Più addietro, nel 1875, Don Barberis notava nella sua Croniehetta, a titolo di consolazione, la regolare frequenza dei giovani alla Comunione (Mem. Biogr., XI, pag. 224). In contrasto, vedasi il con-fronto che fa Don Bosco in una sua parlata serale tra la frequenza alla Comunione nel mese di maggio ai tempi di Savio e quella del 1867 (Mem. Biogr., VIII, pag. 823). Anzi nel 1864 (anno della morte dei Besucco), una buona notte del 13 giugno (Novena della Consolata) lamentava che « dopo che il demonio entrò fra noi nella forma di animale immondo, io vedo notabilmente diminuita la frequenza dei Sacramenti » (Mem. Biogr., voi. VII, pag. 675). La moltitudine, la generalità buona formava il clima: le eccezioni e le variazioni, tanto più sensibili in un´aria buona, venivano avvertite subito e rimediate.

CAPITOLO II
Il programma
Con tali premesse vuoi leggersi la seconda parte del libro. La quale, stavolta, è tutta di Don Bosco, anche se dichiara di valersi della « lunga e minuta relazione fatta dal Sac. Ruffino... che ebbe tempo e occa¬sione di conoscere e di raccogliere i continui tratti di virtù dal nostro Besucco praticati a. Quanto a fedeltà storica, oltre questo documento, che gli serve di guida, egli asserisce di riferire qui (cioè in questa parte, mentre nella precedente dovette dipendere dalla relazione di Don Pepino) « tutte cose udite, vedute coi proprii occhi, oppure rife¬rite da centinaia di giovanetti che gli furono compagni per tutto il tempo che egli visse ancor mortale fra noi » (capo XVI). E lo stile, ora tutto suo, come il riapparire finalmente dei suoi cari dialoghi, che nella prima parte non appaiono mai, ci ritornano in presenza del Santo narratore, come nelle altre biografie.
E la maniera sua di condurre il libro, con poca cronologia, ma in ordine sistematico, cioè distribuendo i fatti secondo la loro affinità, preferendo il tratto episodico alla troppa minuzia e quantità di parti¬colari che affollano la prima parte, conferma chiaramente lo scopo edificante, ed apre la via agli spunti didascalici e parenetici, che in questo libro abbondano e si estendono più che nelle altre Vite. Perchè l´abbia fatto qui e non nelle precedenti, deriva forse da particolari opportunità o cause a noi sconosciute, quando non sia il bisogno di spiegarsi col pubblico, una volta per sempre, intorno al suo modo di vedere (diciamolo sistema) in pedagogia, e su certi punti che a quel tempo potessero essere compresi men del dovuto (1).
(1) La questione, per esempio, della frequenza alla Comunione era in quegli anni ancor molto discussa (n´avremo un saggio al cap. XX), nonostante l´indirizzo alfonsiano e le chiare dimostrazioni dello Scavini e, più ancora, del Frassinetti.

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Quanto all´indole dei fatti edificanti, c´è da dire che non tutti sono una novità spiccante ed originale, sia perché nel mondo in cui vive il nostro giovinetto non poteva farsi tutto altrimenti da quel che gli altri avevano fatto: sia perchè egli veniva all´Oratorio già col pro¬posito di assomigliarsi ai modelli di cui aveva letto la Vita. E s´intende bene che la sua imitazione o santa emulazione non poteva uscire dai fatti pratici della vita quotidiana e della pietà, senza pretendere alla disinvoltura del Magone o alla serenità estatica del Savio.
La novità, per dirlo subito, non è tanto nella serie dei fatti virtuosi, quanto nell´esito finale, che rivela ad un tratto tutta una storia di ascensioni spirituali impensate ad ognuno; e poiché a quel punto non s´arriva d´un tratto, dànno un inconsueto significato e valore alla storia visibile che sembrava spiegarsi da sé.
Il racconto s´inizia dilettosamente col_ presentare, nel montanarino venuto all´Oratorio dalla vita angusta del suo alpestre villaggio, la figura del « villan che s´inurba ». È uno smaltar degli occhi, uno stupir di tutto, un voler saper tutto: una curiosità riverente, come di chi entra e s´aggira per un santuario. È vestito e tagliato alla grossa, da pari suo: ma le proverbiali scarpe grosse non sono scompagnate dal cervello fino: e ripensa quel che sente, e legge le sentenze scritte sotto il portico, e vi medita, e riflette su tutto. E in quella folla bru¬licante in cui si trova immerso, scopre che c´è un ordine, ed è ciò che maggiormente lo colpisce.
L´amenità del bozzetto giova adunque a segnare il contrasto tra l´idea che s´era fatta della Casa dove ci si fa santi, e la realtà del tono della vita che vi si svolge, e che la sua riflessività già maturata si esercita a spiegarsi (1).
Don Bosco (e lo dice) non l´aveva veduto al suo entrare, e non lo conosceva se non « da quel tanto che l´Arciprete gli aveva comuni¬cato » (2) e lo scopre per la singolarità un po´ esotica del suo tipo, tra i cento e cento chiassoni del cortile, qualche giorno dopo.
È un dato non trascurabile. Tutto quello che sappiamo della sua vita antecedente, Don Bosco lo conobbe poi dopo la morte del giova
netto, quando volle scriverne la Vita: sicchè allora si trova con lui
(1) Tra parentesi: che cosa sarebbe diventata, sotto la penna d´un novellatore analitico una situazione simile ? E Don Bosco n´esce con mezza pagina, e dice tutto.
(2) Cfr. sopra, cap. XIV, pag. 74. Altre referenze, buone ma generiche, ebbe daI ten. Eysautier.

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a caso vergine, e lo viene scoprendo in quei colloquii, in cui è tanta parte del suo magistero (1): così come il ragazzo, trasportato in un mondo e in un clima così diverso, deve orientarsi prima di correr la sua strada, e risuscitare quasi il fondo già acquistato.
Il primo colloquio è nel cortile. I loro sguardi si sono incontrati, e il fanciullo si accosta sorridente, e il buon Padre « sorridendo » lo interroga. Il sorriso dí Don Bosco è mezza la sua pedagogia: ricor¬diamo Garelli.
Quel dialogo, condotto al modo consueto, non ha apparenze, ed è una rivelazione. Il giovinetto manifesta la sua vocazione, sempre avuta nel cuore e coltivata nella preghiera, e sorretta poi dai consigli del buon Padrino benefattore... E la vivezza dell´affezione e della gratitudine, che quel ricordo ridesta, richiamando tra lacrime di tene¬rezza i benefizi e l´affetto di quel buon Padre, sono un´altra rivela¬zione, che per Don Bosco è anche più preziosa.
Il suo giovinetto ha cuore, e la « sensibilità ai benefizi ricevuti e l´affetto al suo benefattore gli fanno concepire una buona idea del¬l´indole e della bontà di cuore » di lui. E richiamandosi alla memoria quel che gliene era stato scritto, esce nella sua sentenza: « Questo giovanetto mediante coltura farà eccellente riuscita nella sua morale educazione ».
Perché ha cuore, buon cuore, il fanciullo riuscirà in modo « eccel¬lente »: l´esperienza glielo dice, come gli dice che i senza cuore, gl´ingrati e sconoscenti « rimangono insensibili agli avvisi, ai consigli, alla religione, e sono perciò di educazione difficile e di riuscita incerta » (capo XVI).
Ecco il principio pedagogico di Don Bosco: l´educazione è cosa del cuore, e tutto il lavoro parte di qui, e se il cuore non c´è, il lavoro è difficile e l´esito incerto. E il Santo pedagogo qui non parla come Santo che tutto volge a Dio: ma da uomo, da educatore: parla di morale educazione, non di fini superiori. La religione c´entra come uno dei moventi a cui il cuore dovrebb´essére meno restio, ma non ne fa l´argomento unico ed esclusivo. E al giovinetto, in quel primo incontro, raccogliendo il motivo del cuore, inculca, sì, di amare in Dio il suo Padrino, e pregare per lui, ma appunto ne trae l´insegna¬mento pratico di provargli l´affetto e la gratitudine col tenere una condotta che gli possa tornar di soddisfazione. E questa è l´una delle
(1) Come già osservai per la Vita del Magone, e come si vede nei dialoghi rimasti nelle Mem. Biogr. (a cominciar dal primo con Bartolomeo Garelli), Don Bosco segue sempre una maniera che, in poche battute, porta l´interlocutore a dirgli e ascoltare ciò ch´egli principalmente vuole.

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infinite volte che così ha parlato il grande Educatore ai suoi giovinetti, in pubblico e da solo a solo, presentando la buona condotta come atto e prova di gratitudine e affetto verso le persone che ci amano. Ed io lo so, perchè anch´io l´ho sentito (I).
Il ragazzo si separa da Don Bosco per mescolarsi tra i compagni. E qui c´è un tocco da maestro, che in tre righe dice più di un discorso. Più sopra ho detto di clima, d´atmosfera, d´aria ambiente dell´Oratorio, e forse sono apparso troppo ottimista. Il nuovo venuto deve, come
si dice, comprar l´aria. Per lui ch´è venuto con l´idea di entrare in un santuario, quei suoi compagni paiono « tutti buoni », anzi « li giu
dicava tutti più virtuosi di lui », e sè, perchè nuovo e non pratico, addirittura « uno scapestrato a in confronto degli altri (capo XVII). E se ne turba, e va da Don Bosco ad esporre la sua difficoltà: « io vorrei farmi molto buono al par di loro, ma non so come fare, ed ho bisogno
ch´ella mi aiuti ».
La risposta è magistrale, ed è uno dei capitali documenti peda
gogici del Santo educatore. « Se vuoi farti buono, pratica tre sole cose e tutto andrà bene... Eccole: Allegria, studio, pietà. É questo il grande programma, il quale praticando, tu potrai vivere felice e fare
molto bene all´anima tua ».
Ecco. Se non avessimo fede assoluta nella fedeltà storica del Santo
autore, saremmo tentati di credere che il breve, semplicissimo dialogo sia stato creato da lui per dichiarare una volta per sempre il grande
programma della sua pedagogia.
Una pedagogia che, come vo ripetendo, intende al bene di tutta
la gioventù, e mediante la quale, grado a grado, si può anche venire a far dei Santi. Ad un giovane come questo, che aveva i precedenti così rari (per quanto non conosciuti nei particolari, erano implicita
mente significati dalle parole di presentazione del Padrino), il Santo non ha dato altri precetti, non ha proposto una formola d´alta spiri
tualità: per lui, come ad ogni altro, la formola, il programma è uno: quelle tre parole. Aggiungete la purezza, che dev´essere un risultato morale della vita così proposta, ed è l´oggetto intimo da difendere con questi mezzi: associate l´idea pratica, inclusa nella Pietà, dell´uso
(1) Analogamente inculcava ai suoi Salesiani l´esatta osservanza delle Regole e la pratica seria della povertà, per mostrarsi grati alla carità dei benefattori e degni dei benefici della Provvidenza e della assistenza di Maria SS. Cfr. Mem. Biogr., XVII, pag. 271; e Lett. Circol. ai Direttori, 21 novembre 1886_

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dei Sacramenti e della divozione mariana, ed avete tutta la salesianità della pedagogia.
La quale pertanto non consiste in metodismi e meccanismi este¬riori e contingenti; ma vive del principio cristiano, vive della Pietà. Nel trinomio non si può sopprimere un termine, a meno di alterarne o fallire il risultato. Ed ogni termine di esso ha, non solo umanamente, ma spiritualmente un valore. Credo d´averlo già abbastanza dichia¬rato per l´innanzi, e potrei, in ogni caso, commentare con riferimenti di maestri di spirito tutta l´ascetica a cui mettono capo, per dimostrare come, anche questa via salesiana, tutta corrente in atmosfera cristiana, può condurre a vera spiritualità.
Ma poiché questa pagina di Don Bosco, ed anzi tutta la seconda parte del libro, hanno uno scopo innegabilmente didascalico, e vale per tutti gli educatori, tornano opportune, per dimostrarne il valore, le parole d´uno scienziato, l´accademico Francesco Orestano, che ha con profonda filosofia compreso Don Bosco in sè e nell´efficacia del suo verbo nel mondo. E la sua sentenza è questa: « S. Giovanni Bosco santificò il lavoro e la gioia. Egli è il Santo della euforia cristiana, della vita cristiana operosa e lieta. Qui è la sua sintesi personale di nova et vetera. Qui è la sua vera originalità » (1).
Per parte sua Don Bosco, dopo aver enunciato iI programma, conduce il libro, e cioè dispone i dati biografici, seguendo l´ordine de´ suoi termini (2). E ciò per due ragioni: l´una inerente alla bio¬grafia, l´altra derivante dal suo assunto didascalico. Il giovane Besucco da quel momento si studia di attuare il programma che gli è stato proposto, e vi mette tutta l´anima; con la persuasione e con l´intento di riuscire quale desidera, molto buono. Sicché il suo profilo morale e spirituale si disegna secondo la linea tracciatagli da Don Bosco. E ciò vale all´Autore di buon argomento ed opportunità per svol¬gere il suo sistema educativo, di cui le attuazioni s´immedesimano colla vita stessa del suo protagonista.
(1) FRANC. °RESTANO, Il Santo Don Bosco : Discorso tenuto a Cagliari, 1935, pag. 23.
(2) E questo conferma la mia asserzione che, oltre allo scopo edificante rispetto ai giovani, il libro vuol esser letto come un documento ed una voluta professione di principi educativi, e cioè come una didascalia pedagogica ora intrecciata, ora immedesimata col racconto biografico. Quei che vogliono capire Don Bosco edu-catore, dovrebbero aggiungere alla trilogia pedagogica (cfr. E. CERTA, Mem. Biogr., vol. XVII, pag. 115) lo studio di queste Vite documentarie, e questa del Besucco in modo particolare. Le mie modestissime pagine forse potrebbero servire a qualche cosa.

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Il primo termine è l´allegria. È singolare il fatto che di questo tema abbia voluto fare un apposito capitolo (cap. XVII): cosa non fatta mai, neppure nella Vita del Magone, che fu, se altri mai, la personificazione dell´allegria santificata.
Gli è che nell´attuazione della vita educativa salesiana, Ia ricrea¬zione, la vita del cortile, come dovrebbe dirsi (1), è uno dei tre ter¬mini del trinomio professionale, uno dei centri di tre cerchi che si interferiscono l´un l´altro, passando pei centri degli altri due. La disci¬plina del lavoro, la pietà, la vita del cortile, hanno nel sistema sale¬siano un´importanza ciascuna per sè e in relazione alle altre due, che, a mancarne una, il lavoro non è più quello, e cioè fallisce in tutto o in gran parte il suo scopo e il suo risultato. La Gioiosa di Vittorino da Feltre e la Regula jucunda di S. Domenico si ritrovano nel campo coltivato da Don Bosco.
La novità, l´originalità senz´altro, del Patriarca dell´educazione cri¬stiana che « ha santificato la gioia di vivere » (2), sta nel valore sale¬siano della ricreazione; nel valore dato alla giocondità, allegria, sere¬nità lieta, dell´educazione. Valore spirituale, valore pedagogico, valore metodico, valore energetico e redimente dell´adolescenza. In tutto ciò che viene dall´ascetica, dalla pedagogia, dalla psicologia morale, dalla fisio-psicologia, Don Bosco ha inserito il lievito nuovo e fresco, la sua trionfante novità, ch´è quella dell´allegria aperta e vivace, anche rumorosa, condivisa dall´educatore, ed intrecciata ad un dissimulato e opportuno lavoro di studio e di consiglio (3). Condivisa, dico, dal¬l´educatore, che vi si conduce compagnevohnente come un fratello, e vi semina, nella serenità del clima, le buone parole.
Dal lato spirituale « la ricreazione è d´importanza immensa » ed « è difficile esagerare gli effetti di una ben condotta ricreazione... perché accresce la nostra ilarità, e tutto ciò che ci rende ilari nella
(1) Così son solito chiamare questo complesso di cose, e concepirle come faccio in questa pagina, nelle mie conferenze al pubblico e ai miei Confratelli, e in qualche mio scritto. E se quell´incomoda virtù della modestia non me lo vietasse, vorrei avere l´onore della priorità.
(2) ORESTANIO, Disc., cit., pagg. 21 e 23. E sulla novità e originalità insiste l´il¬lustre Accademico d´Italia.
(3) Novità deve dirsi, anche se il divertirsi non fu inventato da lui. La dif¬ferenza è nel modo con cui vi sta l´educatore, e nella familiarità che vi si ingenera, colla conseguente confidenza. Tra un assistente bidello e un salesiano di buono spirito, c´è la differenza deplorata da Don Bosco nella sua lettera del 10 maggio 1884, cit., pag. 110.

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nostra divozione, c´infonde forza ». Così dice il Faber, parlando, si noti, della ricreazione monastica e delle persone spirituali (1).
E per l´aspetto psicologico, il classico Mendousse dimostra quanto sia indispensabile la ricreazione fatta di moto e di fatica divertente, alla completa educazione morale dell´adolescente (2).
Senza teorie, ma con l´intuito del genio e del cuore, con l´espe¬rienza formatasi in lui fin dal piccolo apostolato della sua fanciullezza, Don Bosco ha veduto, ed ha messa l´allegria tra i fattori primi del suo prodotto pedagogico. E non ha aspettato a dirlo nel 1864-: già il santo Savio Domenico diceva al buon Gavio Camillo appena venuto all´Oratorio: « Sappi che noi qui facciamo consistere la santità nello star molto allegri... Comincia fin d´oggi a scriverti per ricordo: Servite Domino in laetitia : Serviamo il Signore in santa allegria » (3). L´alle¬gria strumento e componente della Santità: c´è tutto.
Ed ancora la Lettera ammonitrice del IO maggio 1884, il terzo documento della sua trilogia pedagogica (che speriamo voglia ampliarsi con queste Vite), dettata nei suoi ultimi anni, ancora si occupa quasi esclusivamente (ed è anzi il motivo del suo ragionare) della ricreazione e della vita lieta e confidente tra giovani allievi ed educatori: la vita del cortile com´egli l´intende. Qui l´allegria è data come sintomo ed espressione della pace della coscienza (4).
Parrà, questa mia, una digressione lunga, e non è. Senza cadesti criteri non si capisce perchè, nella Vita d´un giovanetto ch´egli fa santo, per la sua età, quasi completo, abbia inserito un capitolo come questo, e si sia indugiato a sottolineare particolari che, a prima vista, paiono superflui, e messi soltanto per ricreare la lettura.
Eh no: quella pagina ci sta a proposito, tanto per il profilo bio¬grafico del giovanetto, quanto per impersonare la didascalia della ricreazione.
Il bozzetto realistico, che ne forma la prima parte, con le risposte del buon Padre, ci fa vedere, negli ameni infortuni dell´inesperto e greve montanarino, ancor tutto materiale e rozzo e impacciato, l´in¬genuità del suo zelo nell´arrendersi al precetto dell´allegria, messogli
(1) Progressi dell´anima, cit., pagg. 199-200.
(2) P. MENDOUSSE, de l´adolescent (Paris, Alcan, 1931): lib. III, cap. III,
art. V, pagg. 290 segg.
(3) Vita, cap. XVIII, pag. 86 (ediz. 1859). Vedasi, per questo aspetto, quanto si disse sopra, fol. 54.
(4) Coincide con questo concetto, quanto scrive il benedettino Morin: « Quando si visita una comunità, un segno da cui si può conoscere il fervore che vi regna, è la gioia dipinta sui volti: l´allegria che mette lo slancio ed anima tutto il movimento ». L´idéal monastique et la vie chrétienne des premiers jours, cap. XI, pag. 154.

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innanzi da Don Bosco come un articolo del programma con che riuscirà a farsi « molto buono come gli altri ». Egli prende la ricreazione e il gioco come « cosa grata a Dio » e che dev´essere fatta bene, e vuole impararla subito tutta e « abituarsi a far bene tutti i giochi ». Ingenuità, diciamo noi, e anche il buon Padre avrà sorriso a quella spiegazione: ingenuità, ma anche rivelazione di un´anima che, dove si tratta di piacere a Dio, si prodiga generosamente (1). E Don Bosco spiega bonariamente iI vero scopo e la misura della ricreazione.
Quel che nel Magone era incoercibile vivacità di natura, che doveva essere regolata e diretta al bene, qui è effetto d´una persuasione e d´un riflesso sforzo di volontà troppo generosa, che vuoi essere conte¬nuta nel suo zelo. In quello la spiritualità si afferma nonostante, ed anzi conservando la natura: in questo l´alacrità spirituale conduce ad una immoderazione, che non è male, ma che la prudenza deve conte¬nere. Tra l´esuberanza congenita del primo e il generoso sforzo del secondo, la sapienza del Santo ha saputo operare, rispettando la libertà e la personalità, e vi ha ottenuto due santità diverse, ma non dise¬guali e distanti.
Alla bonaria amenità del bozzetto segue nel capitolo una dida¬scalia personificata. Non sia per mettere in dubbio la storicità del dettato; ma non può leggersi quella pagina senza vedere, nei parti¬colari che riferisce, altrettanti precetti esemplati, per esporre e inse¬gnare ai suoi figliuoli come debbono usare della ricreazione. È una tipologia costrutti con dati reali.
E allora c´è posto anche per uno spunto sull´azione dei buoni nel reciproco incitamento al bene e nell´apostolato tra i compagni meno disposti o difficili: cosa che il Besucco faceva qui più largamente che e nella sfera assai più ristretta » del suo paese. Su codesta attiva collaborazione dei suoi stessi giovani, ch´è un quasi necessario ele¬mento costruttivo dell´ambiente (2), Don Bosco fece sempre asse¬gnamento, e non lasciava d´inculcarlo scrivendo o consigliando. Fel nostro se n´ha qui uno spunto, e qualche cosa ne sarà detto al¬trove: nel Magone appare nello spicco della sua maniera caratte¬ristica, e nel Savio Domenico sale senz´altro ad una delle più alte note della santità.
L´Autore ci risparmia lo studio d´un trapasso all´altro tema, no¬tando egli stesso come il Besucco « temperando la sua ricreazione con detti morali e scientifici, divenne in breve un modello nello studio e nella pietà » (capo XVII, fine). E, secondo il piano del suo libro, viene
(1) Cfr. FABER, Progressi, ecc., cit.: cap. IV: Generosità con Dio, pagg. 37-42.
(2) Cfr. sopra, fol. 51-53.

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a dire dello «studio e della diligenza» del Besucco (capo XVIII) (1). Di qui in poi l´esemplarità del suo giovanetto è sempre più stretta¬mente e intimamente, e, perchè no ? più comprensibilmente connessa con l´abito virtuoso e colla vita spirituale. Ce lo fa intendere egli stesso alla fine del capo XVIII, rilevando nel giovane la consapevo¬lezza sempre presente dello scopo per cui è venuto, cioè il sentimento della propria vocazione, e come « a questo fine egli cercava di pro-gredire nella scienza e nella virtù ». L´anima di lui, mentre « aveva sempre di mira il punto a cui tendeva » si lavorava internamente coordinandovi « la sua condotta », mossa da una volontà di « dedicarsi tutto a Dio », e cioè da un moto di amore.
La figura spirituale del Besucco, in questa serie di fatti e negli atteggiamenti che viene prendendo, può essere descritta secondo il tipo della Terza Mansione di S. Teresa (2): in ascetica, il tipo dei proficienti; e sembra che Don Bosco non voglia, almeno fino a un certo momento, e per l´esemplarità, presentarlo altrimenti. Il di più della grazia di Dio verrà di poi, ed egli non mancherà di notarlo. Ma l´essere così non è poca cosa.
L´idea dominante nella presentazione di questo secondo termine del programma è quella della precisione, della fedeltà, dell´intenzione superiore. E non possiamo non ricordare e lo spirito di nobile preci¬sione » commentato e inculcato da PP. Pio XI, celebrando gli eroismi di Savio Domenico, come un principio vitale della vita cristiana vissuta integralmente.
Siamo nell´ambito di doveri ordinari e modesti, di cose quotidiane, dove l´occhio profano, o non esercitato in cose di spirito, non vede gran che di alto e spirituale. Don Bosco vede più addentro, appunto come pensa il Faber: « Iddio viene alle anime sante non tanto nelle azioni eroiche, che son piuttosto balzi dell´anima verso Dio, quanto nella pratica di divozioni ordinarie e costanti, e nell´adempimento di
(1) Cfr. nella Vita di Magone il cap. VII: Puntualità nei doveri. Non per nulla il Besucco pensava d´imitare il suo caro Magone. Nel Savio Domenico non vi è un capitolo apposito per questo argomento: ma vale per tutto la pag. 39 del cap. VIII. È quasi materia presunta, in confronto del livello piú alto in cui si svolge tutta
quell´angelica vita.
(2) Cfr. TANQUEREY, cit., n. 962. S. Teresa descrive così gli abitanti della Terza Mansione (Castello interiore, Mans. Terza, c. I, n. 5): « Hanno gran desi¬derio di non offendere la Divina Maestà; schivano anche i peccati veniali; amano la penitenza; hanno le loro ore di raccoglimento; impiegano utilmente il tempo; si esercitano in opere di carità verso il prossimo. Tutto è ben regolato in loro: le parole, le vesti, il governo della casa (quelle che ne hanno) ». Il Tanquerey Io applica appunto alle anime proficienti, quelle della via illuminativa.

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doveri modesti e riservati, resi eroici per lunga perseveranza ed interna intensità » (1).
Se fosse un Santo, il Besucco sarebbe il santo dei piccoli doveri. Forse sarà una delle caratteristiche di Don Rua, quella d´essere il Santo delle piccole cose o meglio il Santo della Precisione (cfr. Proc. di Savio Domenico), che non escludevano le grandi, ma a cui l´in¬tensità ed intenzione dava un valore soprannaturale (2). E il Besucco rimane, tra gli altri glorificati da Don Bosco, come quello che per¬sonifica la piccola perfezione ed esattezza, la diligenza (anche questa è parola di valore per PP. Pio XI) nelle piccole cose e nelle partico¬larità dell´adempimento del dovere.
Anche questa è una forma di perfezione, come c´è la perfezione della filigrana accanto a quella del grande gioiello. Nè vi è da temere che codesta cura minuziosa finisca in una impeccabilità esterna gretta e sterile. S. Bonaventura dice che la religione del nostro esterno eccita l´affetto del nostro interno; e un altro maestro di spirito sentenzia che dove non c´è disciplina esterna delle azioni, non vi è perfezione.
Tutto lo spirito di Don Bosco si esprime nel sottolineare il modo con che i suoi giovani santi praticavano il dovere, per concluderne poi che tutto ciò era nonché accompagnato, ma suggerito da intima religiosità di sentimenti (3). Egli ne fa vedere la perfezione esterna nella fedeltà ed esattezza del nulla omettere, nella puntualità di non tardare, nella buona grazia e serenità dell´eseguire: e allora sog¬giunge o intercala i tocchi di perfezione interna: che tutto è fatto e pel Signore » e e alla presenza di Dio », cioè pensando a Lui e a Gesù. È il medesimo spirito che dettava al Faber le belle pagine dei Pro¬gressi dell´anima, là dove parla del modo di perfezionare le nostre azioni ordinarie (4). A saperlo leggere, che gran maestro di spirito è Don Bosco!
Ed io vorrei bene che, attraverso le semplici parole e presentazioni che il Santo fa dei suoi santi alunni, sapessimo vedere quanta ascetica si nasconde, e, senza parere, sorregge e guida non solo l´ordine e la scelta dei fatti e dei concetti, ma l´effetto dell´edificazione, e cioè lo spirito dell´educazione ch´egli vuole attuare. Un Santo è di sua natura
(1) Betlemme, pag. 211.
(2) Tipica, e perciò fruttuosamente esemplare, è per questo la figura di S. Mazzarello, la santa della virtli. casalinga. Ho tentato di dimostrarlo in qualche mio scritto.
(3) Cfr. Vita di Savio Domenico, cap. VIII, pag. 39; e Vita di Magone, cap. VII, cit.
(4) Progressi dell´anima, cap. XXIV, pagg. 405-406.

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una realtà spirituale ascetico-mistica (1), anche se non la lascia appa¬rire: e non c´è da meravigliare che un substrato, spesse volte una sostanza ascetica, si ritrovi negli indirizzi e nello spirito d´un sistema educativo pensato da un Santo come Don Bosco.
Sono tre gli aspetti di questa esemplarità illustrati nel presente capitolo: l´uso del tempo, la pratica del dovere e del lavoro, la divozione che accompagna codeste osservanze.
Il giovanetto legge, si noti, nella camera di Don Bosco, il cartello: Ogni momento di tempo é un tesoro, e domanda spiegazione. E la risposta, chiara e pratica, contiene i riflessi umani e quelli spirituali della massima. Che il Santo tenesse il cartello in camera sua può già indicare il conto che del tempo faceva egli stesso, da buon indu¬striale delle anime. Non è un pensiero laico, ma spiritualmente spi-rituale (2). Si, nella spiegazione che ne dà al fanciullo, accenna anche all´utile pratico dell´acquisto delle cognizioni; ma subito viene al morale e poi allo spirituale. Egli collocava il buon uso del tempo tra i segni più sicuri della vera volontà di santificarsi (3), e ce lo dicono le Vite di Com ollo, Burzio, Savio, Magone, Besucco.
« In realtà, ci dice il caro Faber, l´uso più o meno esatto del nostro tempo potrebb´essere per alcuni di noi l´indizio della freddezza o del fervore del nostro amore » (4). Non è virtù comune quella dell´at¬tenzione e della sollecitudine a non perdere e a bene occupare il tempo, e a difendersi dalla contraria tendenza « si richiede una vee¬menza ed una continuità di sforzi che pochi possono fare » (5), e che Don Bosco segnava come rara virtù (6). Anche in questo particolare, diciamolo, quanta è l´ascetica di Don Bosco!
Piace pertanto vedere nel suo giovinetto in qual modo la massima si addentri e divenga sua. Il suo ho capito gli richiama alla memoria gl´insegnamenti del Padrino, e « d´allora in poi si occupava con assai maggior applicazione intorno ai suoi doveri ». È dunque un rivolgere a cose concrete, alla pratica della vita quotidiana, quella cura mor¬dente e assidua di santificarsi, che noi diciamo agilità e alacrità
(1) ORESTANO, OP. cit., pagg. 4-5. L´Orestano non dice queste parole, ma ne svolge il concetto.
(2) Cosi la massima che egli volle lasciare come eredità e stemma della sua Congregazione: Lavoro e temperanza. Niente di laico, di pragmatistico, niente d´industrialismo all´americana o all´anglosassone, ch´è lo stesso. È, come il qui laborat, orat, la formola pratica del suo spirito. Tra Don Bosco e Samuele Smiles c´è un abisso.
(3) Ed è tra i segni degli abitanti della Terza Mansione. Cfr. sopra.
(4) Tutto per Gesù, pag. 234.
(5) Progressi dell´anima, cap. XIV: Dell´ozio spirituale, pag. 202.
(6) Vita di Magone, cap. VII, pag. 36.

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di spirito (1), già sorta nel fanciullo, ma non ancora praticamente orientata.
La condotta del. santo alunno diviene tale che il suo direttore può scrivere: « Io posso dire a gloria di Dio che in tutto il tempo che passò in questa Casa non si ebbe mai motivo di avvisarlo od inco¬raggiarlo all´adempimento dei suoi doveri » (capo XVIII, pag. 95). E l´averlo messo subito appresso a quella lezione sull´uso del tempo, e il dirlo « a gloria di Dio » indicano che non si è nel solo mondo umano d´una condotta irreprensibile, ma che vi è adunque un fon¬damento e un motivo spirituale. E non è questo appunto il principio essenziale della pedagogia di Don Bosco ?
Quella definizione della condotta, sancita dalla costante classifica regolamentare dell´optime, apre la via al tema della pratica del dovere. Anche qui è da distinguere, o meglio, riconoscere il duplice assunto dello scrittore: quello d´illustrare la virtù e i progressi spirituali del suo soggetto, e quello dell´impersonazione dei suoi concetti e prin¬cipi educativi. Bisogna saper leggere l´uno nell´altro.
Don Bosco ha sempre dato alla pratica fedele e diligente del dovere il senso spirituale che deve avere, se non si vuoi ridurlo alla concezione stoica e laicale inculcata fuori dell´idea cristiana (2). Esso è, in ogni caso, servizio di Dio, obbedienza a Dio. E dei doveri del proprio stato, come dell´osservanza dei doveri imposti dai regola¬menti, ne fa una questione di coscienza, e la trasgressione anche dei piccoli doveri e delle regole della casa non è per lui senza colpa (3):
(1) S. FRANCESCO DI SALES, Introd. à la vie dvote (ediz. Nelson), p. I, cap. I, pag. 15: « La dévotion n´est autre chose qu´une agilité et vivacité spirituelle, par le moyen de laquelle la charité fait ses actions en nous, ou nous par elle, promptement et affectionnément ». Cfr. FABER, Progr. dell´anima, cit., cap. XII: Vera idea della divozione, pag. 345. È quella che S. Tommaso chiama: Voluntas prompta se tradendi ad ea quae pertinent ad Dei famulatum (Summa Theol., TP II", q. 83, art. I).
(2) Ma stoicismo e laicismo non sono terreno fecondo di virtù. E il dovere, se non è dettato o sorretto da un ideale superiore, prende figura d´una costri¬zione morale.
(3) Mem. Biogr., VIII, pag. 132. Lett. 10 maggio 1884, cit., pag. 113. Cito questi due passi, ma si può dire che i suoi discorsi ai giovani ripetono quasi ogni volta questi concetti. E non è di questo luogo commentare le sue forti insistenze sull´osservanza delle Regole e dei Regolamenti, propria della vita religiosa dei suoi Salesiani. Voleva l´osservanza anche delle Tradizioni. Ma in questo non faceva che il suo dovere di Superiore. Cfr. TENQUEREY, cit., nn. 375-376,

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così come la fedeltà al dovere (e ai doveri particolari) gli vale di criterio a controllare la verità e la sodezza della pietà (1).
Non è possibile una spiritualità di buona lega senza questo posi¬tivo fondamento (2), e l´idea del Santo era perfettamente consona ai dettami dei maestri di spirito. « I doveri rispettivi sono per ciascuno di noi come tanti sacramenti. Essi sono la nostra via principale, spesso la sola via per diventare santi ». Così dice il Faber, e la sua sentenza cade a proposito per la vita del giovanetto, che non ha evidentemente altro da fare che osservare le obbligazioni e i compiti del suo regime e periodo educativo (3).
Adempiere pertanto con tutta la più convinta diligenza ispirata dalla presenza di Dio, coordinandoli e facendoli servire al grande lavoro interiore dell´anima, era la direzione verso la quale Don Bosco indirizzava Ie anime dei suoi allievi, per condurli alla mèta loro indi¬cata dalla grazia di Dio. Il giusto ed anche alto valore spirituale dei suoi giovani migliori, di quelli stessi ch´egli volle celebrare come esemplari di vita, si esprime con questa « nobile precisione ».
E perciò suole concludere e compendiare quel ch´è venuto dicendo della condotta dei suoi piccoli Santi (come, del resto, di tutti quelli ch´egli lodò nell´ambito della vita salesiana) con dire, come di Savio Domenico, « che la sua condotta era per ogni lato irreprensibile » e che « non trovarono mai cosa che meritasse correzione » (4) o, come dice il Processo Apostolico: « Non si poteva desiderare di più ». Oppure come del Burzio, chierico da lui assistito in Seminario: « Nel suo stato niente lasciava a desiderare di più »; e del Magone: « Cominciò ad avere ottimamente, e così fu in ogni cosa per tutto il tempo ». Per il Besucco ha espresso « a gloria di Dio » quel che già si è detto intorno all´irreprensibilità nell´adempimento dei suoi doveri.
E noi pensiamo alla Teresa di Lisieux, della quale fu segnata, nella sua vita di collegiale, « la fedeltà eroica al Regolamento » e l´esservi « minuziosamente fedele » anche dove non era osservata: « La sua mortificazione a quell´epoca era di tutti gl´istanti e nelle
(1) Per esempio non credeva neppure alla frequenza spontanea della Comunione, quando non era accompagnata da una condotta osservante e regolare. Cfr. Mem. Biog-r., XI, pag. 278.
(2) S. FRANCESCO DI SALES, Introd., cit., p. I, cap. III, pag. 20 (ediz. Nelson).
(3) Progressi ecc., cit., III, pag. 30. E vi è pur detto: « Nulla può scusare la negligenza dei doveri della posizione dataci da Dio nella vita: quando non si attende dovutamente ai proprii doveri e non si tengono in alta considerazione, tutto diviene delusione ».
(4) Vita, cap. XIV, pag. 70.

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più piccole cose » (1). L´accostamento ch´io faccio basta a spiegare le ragioni profonde per le quali Don Bosco prendeva come docu¬mento di santità lo spirito di nobile precisione nel dovere che si rivelava nei suoi giovanetti. Perché questa assidua vigilanza e dominio di sè, quale si vuole per una fedele e costante pratica degli anche più piccoli doveri, non è davvero comune nè facile ad un fanciullo (e non so se per gli altri), e suppone un lavoro interiore dell´anima, fatto di mortificazione e di presenza di Dio. Tale concezione di Don Bosco, che non esito a chiamare ascetica, trova una letterale conferma presso tutti i maestri di spirito (2).
Il Besucco non dovette sostenere, come il suo caro Magone, una cosi viva lotta con se stesso per ridursi e mantenersi costante nella precisione dell´osservanza: vi era già temprato dalla vita precedente. Era, d´altra parte, un carattere posato e riflessivo, ed era venuto all´Oratorio con l´intento ben definito di prepararsi all´adempimento della sua vocazione. L´Autore delle due Vite sa ben distinguere tra il valore della conquista nella disciplina del primo, e la quasi naturale quieta forza volitiva del secondo: non che in questo non vi fosse merito per manco di contrasto, ma non appariva lo sforzo. Chi ha qualche pratica di giovani, sa bene che ce n´è di quelli che son dili¬genti e attivi, ma, anche nell´ordine, mostrano in ogni atto un gesto di volontà, come se si dessero un comando: ed altri che s´inchiodano al tavolo e paion pezzi di granito, tanto vi stanno fissi ed immobili. Di questi è il Besucco.
Il quale, nello studiarsi d´essere impeccabile, arriva al timore di trasgredire, anche « contro sua volontà », le regole; e nella sua mon¬tanina ingenuità domanda « se nello studio fosse lecito scrivere » (al suo paese lo scrivere era un rito!), ed altre cose ovvie. Sorridiamo, sì: ma perché si fosiui una tale coscienza del dovere, quanta dev´es¬sere la forza di persuasione da parte dell´educatore, e quale la capacità di assimilazione nell´anima del giovane! Si può pretendere di più da un religioso che si è dato a vita di perfezione ? E S. Luigi, ecco, un ingenuo e incolto non era; ma son forse meno ingenue le riserve ch´egli si fa nell´adempiere alle sue obbedienze ? E l´autore che io seguo, il Crispolti, raccoglie questi fatti sotto il titolo: e L´amor divino
(1) PETITOT, cit., pagg. 30, 32.
(2) Basta leggere quanto dice il FABER, Progressi, ecc., cit., pagg. 251 e 253. Dopo una minuta e profonda analisi dei valori spirituali e del sacrificio morale che include tale osservanza, conclude: « Eppure questa è l´unica via che conduce a solida virtù e. E a pag. 253: « Le parole non bastano ad esprimere l´abborrimento della natura contro la minuziosa schiavitù (sie) delle piccole abnegazioni e.

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fatto obbedienza » (1). Perché, per S. Luigi, come pei poveri figli di Don Bosco, « senza un motivo soprannaturale » queste cose non si fanno (2).
E perciò (quanti perciò, non è vero ? ma a legger bene, ne verreb¬bero tanti altri), perciò, dico, l´Autore passa subito a mostrarne il nesso col permanente spirito di pietà che s´inserisce nella funzione dello studio. C´è l´invocare il Signore perché illumini nelle difficoltà; c´è l´adottare per sè e scriversela dappertutto la giaculatoria Maria Sedes Sapientiae ora pro nobis, e raccomandarla ai compagni, come già faceva il Magone; c´è il riconoscere dall´aiuto della sua Madre celeste l´insperato avanzare nei corsi; c´è il rilevare i suoi segreti, cioè i suoi pii propositi, intesi alla riuscita degli studi: non perder briciolo di tempo; intercalare alla ricreazione le conversazioni stu¬diose; recitar ogni mattina il Pater a S. Giuseppe, al che attribuisce la maggior facilità nello studio, e lo raccomanda all´amico.
Il risultato è che, con quella piccola preparazione portata da casa, in due mesi di scuola estiva (agosto-settembre) egli fa tutta la prima ginnasiale (prima latina), ed inizia con gli altri il corso successivo, col sensibile progresso di trovarsi in capo a due mesi il 150 su 90 allievi. Segno che l´ingegno c´era, e che la diligenza, dice Don Bosco, ha prodotto « così rapido progresso ».
Così il buon Padre fece sempre vedere che, vivendo com´egli insegnava, anche gli studi ne guadagnavano. Ed era lieto di attestarlo con i risultati che i suoi giovani e chierici riportavano agli esami. Egli voleva Dio non solo nella scuola, ma nelle anime; e allora gua¬rentiva la diligenza e per questa la riuscita. Tutti i suoi discorsi agli studenti, e i Regolamenti, dove parlano dello studio, dicono questo, citando sovente passi biblici, rimasti tradizionali (3).
L´attenzione è qui richiamata principalmente al fatto dello studio, perché nella condizione di scolaro questo era il primo dovere; ma il biografo educatore non dimentica di notare che la diligenza del Besucco « si deve estendere anche a tutti gli altri doveri più minuti... ed era esemplare in tutto »: per esempio, nello « scopare il dormi¬torio » com´era prescritto dal Regolamento (4). Anche qui « si faceva notare per l´esattezza con cui lo disimpegnava. E se ne faceva scrupolo.
(1) CRISPOLTI, op. cit., pag. 148.
(2) Mem. Biogr. (Celia), vol. XVII, App. XXI, pag. 894: Lettera inedita auto¬grafa di D021 Bosco, senza data, diretta ai Confratelli Salesiani.
(3) Mem. Biogr., vol. IV, Append., pagg. 746-747: Primo piano di regolamento (1854): Appendice per gli studenti, cap. IL dello studio : art. 6-7.
(4) Regolamento, cit.: Appendice, Accettazione, art. 4.

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Dopo questo non ci farà meraviglia se il discorso trapassa a ricor¬dare i fini che il Santo giovane si proponeva nel venire all´Oratorio, in vista dei quali « cercava di progredire nella scienza e nella virtù ». La « Puntualità nei suoi doveri », che intitola il capo VII del Magone, torna qui ad apparire come strumento e indice del perfeziona¬mento morale e dell´ascesa spirituale.
L´Autore, seguendo i punti del suo Programma, viene al terzo ter¬mine, la Pietà; e il tema generico si svolge per quattro capitoli in quattro temi speciali. La maggiore ampiezza trova sua ragione non solo nell´indole dei fatti e nello studio d´una maggior chiarezza nel presentarli riuniti secondo loro natura: ma è causata dall´inserirvi che vi si fa di tratti didascalici e dottrinali, che hanno, per la conoscenza del pensiero di Don Bosco, un´importanza capitale, e son rimasti acquisiti alla storia.
Il primo tema è La Confessione (cap. XIX). Nel Magone il capo V, analogo a questo, è una esortazione alla gioventù, donde poi si rivolge ai confessori, e non ha nulla di biografico: qui il discorso è collegato alla pratica personale del giovanetto, e Ia digressione didascalica è diretta ai giovani e poi agli educatori. Nel Savio Domenico (capo XIV, pagg. 68-69) la didascalia occupa il primo sobrio capoverso, e un secondo spunto è intrecciato come rievocazione nello stesso tessuto biografico, presentato in modo da personificare certi precetti, che altrove stanno in forma parenetica.
Il confronto fra le tre maniere di trattare il capitalissimo tema ci mette in presenza del maturarsi dell´idea e degli atteggiamenti del¬l´autore pedagogo rispetto a quella. Basta riflettere ai titoli e alla collocazione dell´argomento nella tela della biografia. Pel Savio è senz´altro: « Sua frequenza ai Santi Sacramenti della Confessione e Comunione » e sta al termine dei capitoli dedicati alla pietà. Nel Magone viene il dramma della giovane coscienza, che si risolve nella Confessione e nel rinnovamento dell´anima di lui, e il titolo: « Una parola alla gioventù » (capo V) estende l´insegnamento venuto da quella calarsi per mezzo della Confessione.
Nel Besucco, pel quale la pratica è continuazione ed avanzamento nella vita pia, il titolo, La Confessione, annuncia apertamente il tema teorico nel. quale s´inserisce l´accenno biografico. È una prova evi¬dente dell´assunto pedagogico-spirituale propostosi dall´Autore nella seconda parte del suo libro. Questo confronto non vuoi essere un ampliamento esornativo del discorso. Esso è necessario per apprez¬

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zare in tutto il suo giusto valore, e collocare al posto che merita, la massima capitale della dottrina educativa di Don Bosco. Nessun altro scritto del Santo educatore ha una sentenza, come questa, così defi¬nitiva e totalitaria. Ignorarla vuol dire esser privi della chiave di tutto il suo pensiero e sistema educativo. Basterebbe questo solo periodo a far del nostro libro un documento indispensabile.
La sentenza è questa: « Dicasi pure quanto si vuole intorno ai vari sistemi di educazione, ma io non trovo alcuna base sicura, se non nella frequenza della Confessione e della Comunione : e credo di non dir troppo asserendo che, omessi questi due elementi, la moralità resta bandita ».
In nessun altro luogo ha espresso in una forma così assoluta e radicale la sua idea. Nel Savio Domenico (capo XIV) aveva annun¬ciata un´idea analoga, ma non in forma così esclusiva, sibbene con certa temperanza di affermazione, e ragionando sull´esperienza: «Egli è comprovato, dice, dall´esperienza che i più validi sostegni della gioventù sono il sacramento della Confessione e Comunione. Datemi un giovanetto che frequenti questi sacramenti: voi Io vedete crescere nella giovanile, giungere alla virile età, e arrivare, se così piace a Dio, fino alla più tarda vecchiaia, con una condotta, ch´è l´esempio di tutti quelli che lo conoscono. Questa massima la comprendano i giovanetti per praticarla; la comprendano tutti quelli che si occupano dell´edu¬cazione dei medesimi, per insinuarla » (ediz. 1859, pag. 67). Nei cinque anni interceduti tra l´una e l´altra affermazione la convinzione dell´Educatore santo si è anche più consolidata, fino a toccare l´asso¬lutezza della sua sentenza. E questa rimane, per la storia, la formula della sua concezione.
La sentenza non s´indirizza ai giovani, ma a chiunque studi il problema dell´educazione. Fuori e oltre i metodi che si presentavano nel campo degli studi pedagogici: fuori ed oltre le filosofie d´ogni genere, anche altrimenti non riprovevoli, in cui si voleva trovare la base per una pedagogia razionale : fuori della scienza, che allora spuntava, dei fatti psichici e psicologici, con che si cercava di mec¬canizzare lo spirito: più ancora, sopra i conati di una carità generica e di una psicologia ortodossa ma tutta intellettuale; dico di più: oltre il per se stesso indispensabile e primordiale principio del « Dio nella scuola »: questo nostro realista semplificatore della pedagogia cristiana impone arditamente il suo principio pratico e risolutivo: che solo la pratica frequente dei sacramenti della Confessione e Comunione è atta a salvare la gioventù e capace di educarla. Senza questo, tutto il rimanente poggia su d´una base, se non falsa, malsicura.

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E pertanto mi sia concesso d´invitare gli studiosi della pedagogia di Don Bosco a modificare il loro linguaggio, e cioè l´ordine delle loro idee. Generalmente gli espositori e i commentatori del Sistema Preventivo presentano, dopo tutti- gli altri principi e fattori dí questa pedagogia, anche- il coefficiente o componente religioso, dandovi (sia pure con molto rispetto) maggiore o minore importanza nell´efficacia che l´idea e la pratica religiosa può avere sull´animo del giovane. Nell´alchimia del sistema c´entra anche questo componente. E dunque un coefficiente e un componente, un anche e non più: non è la quintessenza (1).
Ebbene, non anche bisogna dire, ma perché e per mezzo : bisogna che questa quintessenza stia all´origine e alla base. Tutto il resto non ha valore e significato se non vive di questo e per questo. Ecco l´idea di Don Bosco.
So che la cosa è forte, e non tutti ci arrivano alla prima. Ma quando in questa direzione si conduca la disamina e la considerazione intrinseca degli altri elementi: quando al lume di questa idea si rifaccia coraggiosamente il cammino, e si proietti sulla storia delle anime, cioè sullo svolgersi delle idee e sentimenti contemplati dal sistema, la luce che viene da ciò che Don Bosco pone a fondamento della loro vita, si vedrà che iI suo sistema assume una fisionomia così propria, da non poter stare in pari con qualsiasi altro, e la spiri¬tualità del Pedagogo cattolico, ch´è un Santo, e perché è un Santo (l´ho già detto), dovrà disegnarsi in tutta la grandezza della sua superiorità e in tutta la potenza della sintesi ideale.
Praticamente Don Bosco, finché potè farlo in persona, educò i suoi figliuoli colla confessione e con la comunione regolata alfonsia¬namente a norma di quella, e il suo sistema nelle mani sue trionfò, producendo correnti durevoli di soda vita cristiana e di santità auten¬tiche: ed il simile si ottiene là dove si conserva e si attua integral¬mente la tradizione da lui iniziata, anche se la recente disciplina della Chiesa abbia in parte ridotte Ie possibilità, diciamo così, pedagogi¬che della prassi precedente. Vedremo poco oltre ch´egli ne ebbe il presentimento, come nel cuore ne aveva il desiderio: previde e provvide.
(1) Per capirci basterebbe la definizione della quintessenza data da Goclenius (Lexicon philosophicum, 1613): « natura vis virtus spiritus et proprietas rerum »: la sostanza interna e fondamentale di un composto. In parole nostre, sarebbe come voler studiare i composti e i derivati, ecc., del carbonio, occupandosi di tutti gli altri elementi, e non del carbonio stesso. Anche nel linguaggio moderno la vecchia parola è rimasta ad indicare la proprietà ultima e caratteristica di un dato oggetto
o fenomeno.

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L´Autore non svolge la sua sentenza, parendogli che basti averla pronunziata, e preferisce venire alla didascalia della pratica. Qui lo spunto biografico s´inserisce nella trattazione, perché è a sua volta un insegnamento esemplato, così come avviene nel Savio Domenico, dove la didascalia non è ancora sviluppata alla misura delle altre
due Vite_ Tra queste due le analogie sono ancora frequenti, e i punti
o precetti sostanziali sono i medesimi.
La confessione generale o riparativi, la sincerità e integrità della confessione, la sicurezza nel segreto sacramentale, la frequenza del confessarsi, la scelta di un confessore stabile, formano la sostanza del vario contenuto didascalico. Della confessione generale non fa qui un precetto, ma reca gli esempi. Per il Magone essa risolve il problema della sua coscienza; il Savio la vuole piamente per farsi conoscere
e comprendere dal suo direttore di coscienza; al Besucco il direttore non vorrebbe permetterla per discrezione, avendola già praticata
prima; e il giovane illuminato insiste per gli stessi motivi del Savio,
e per questo gli Vien concessa (1).
Nel Magone la prima raccomandazione che si fa ai giovani è quella di non tacere mai i propri peccati in confessione, e di ripararvi se sia avvenuto: e, volgendo la parola ai direttori di anima, raccomanda d´indagare prudentemente se le confessioni passate siano state ben fatte: essendo opinione di « autori celebri in morale, in ascetica, e di lunga esperienza, e specialmente di un´autorevole persona che ha tutte le garanzie della verità (certamente il Cafasso) » che « per lo più le prime confessioni dei giovanetti peccano in questo per manco d´istruzione o per omissione volontaria, specialmente dai sette sino ai dieci, ai dodici anni » (2).
L´argomento più adeguato e persuasivo per ottenere la sincerità
e l´integrità è quello del segreto o sigillo sacramentale. In entrambe le trattazioni Don Bosco vi insiste: nel Savio, concludendo la Vita, dove esorta ad imitare gli esempi di lui nella pratica dei Sacramenti; nel Magone parlando direttamente ai giovani; nel Besucco inculcando agli educatori di persuaderne gli allievi e suggerendone gli argomenti. Tra i quali è che il confessore non diminuisce nè la stima nè l´affe
(1) Vita di Magone, cap. IV, pag. 20; Vita di Savio Domenico, cap. XIV, pag. 69; Vita del Besucco, cap. XIX, pag. 101.
(2) Magone, cap. V, pagg. 27-28. Una delle pene più affliggenti di Don Bosco era -il pensiero della reticenza in confessione. Su questo punto sembrava non acque-tarsi mai.

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zione verso il suo penitente « per cose comunque gravi udite in confessione » (1).
Naturalmente la confessione, nella quale egli vede lo strumento principalissimo del lavoro educativo, vuole perciò stesso essere pra¬ticata con frequenza ed anche con certa regolarità. I termini frequente, frequenza sono tanto ripetuti negli scritti (e nei discorsi) di Don Bosco, quasi altrettante volte quante ricorre il nome dei due sacramenti. La fondamentale sentenza con cui si apre questa trattazione e il passo parallelo del Savio, ce ne fan vedere la ragione. Nel Savio la racco¬mandazione della frequenza nel confessarsi è la prima delle tre mas-sime che il piccolo Santo sente dirsi dal pulpito (pag. 68), ed è ancora inculcata nell´ultima pagina della biografia (pag. 136). Nel Magone è il secondo dei consigli che dà ai giovanetti; nel Besucco è la prima delle tre cose che raccomanda agli educatori d´inculcare, « procurando tutti i mezzi per agevolare l´assiduità ».
Questo punto capitale del suo sistema spirituale-pedagogico (che nella sua mente è tutt´una cosa) vuole essere inteso nel senso e secondo il fine ch´egli vi pensava. L´uso frequente della confessione non ha da essere un meccanismo ritualistico, come la ripetizione d´una ceri¬monia: egli lo concepisce nella sua efficacia pedagogica d´una dire¬zione che guida e sorregge il lavoro di autoeducazione correttiva e formativa. In questa concezione egli è strettamente seguace dell´indi¬rizzo di. S. Francesco di Sales, e qui, se è permesso valersi del-l´etimologia, è più principalmente Salesiano (2).
E allora si comprende perchè, nella pratica, egli inculchi assidua¬mente ed insista con calore sulla scelta d´un confessore stabile, e cioè sul frequentare la confessione valendosi sempre di un medesimo con¬fessore. Egli non concepisce che si vada dal confessore per null´altro che per l´assoluzione (3) e l´ammette soltanto pei casi d´urgenza o di grave difficoltà ad essere sinceri col confessore ordinario: non per la direzione e il profitto morale. Che poi il confessore sia l´una o l´altra persona, non conta, ed egli appunto inculca la scelta di un
(1) Savio, Conclus.; Magone, cap. V, pag. 25; Besucco, cap. XIX, pag. 104.
(2) Cfr. FRANCIS VINCENT, S. Franpois de Sales directeur d´dmes. L´éducation de la volonté, cit., pagg. 375-379. Cfr. Introd. à la vie dévote, part. II, chap. XIX e passim.
(3) Questo non ha, naturalmente, che vedere con le confessioni occasionali o di precetto per tutti i fedeli. Siamo sul campo della direzione spirituale ossia della funzione educativa della Confessione.

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confessore nel quale si riponga tutta la confidenza: il perno di tutta l´azione pedagogica sta qui: nella stabilità.
La quale stabilità è voluta, come ovviamente si può capire, a cagione o col fine del controllo dello stato dell´anima nella sua vita morale: soprattutto circa l´effettuazione dei proponimenti e le ricadute abituali o meno nelle colpe, piccole o grandi che siano; ed anche, se si voglia, circa i progressi e le variazioni della vita interiore. Da questo controllo, cioè da tale conoscenza scaturisce la possibilità e la giu¬stezza dei consigli: la direzione.
Possiamo dire che, poste le premesse teologiche attinenti al riac¬quisto della grazia di Dio, alla validità o meno del sacramento, e le calde insistenze a non infirmarla col sacrilegio, nel regime di vita cristiana da lui inculcato questo della stabilità del confessore è il tema principe, sul quale insiste dappertutto e sempre e in ogni forma. Assai prima di queste tre Vite, che qui mettiamo a confronto, ne aveva fatto cenno nel Comollo (1844 e ´54), e nel Pietro o la forza della buona educazione (1855); nel suo Regolamento del 1852-54 ne fa quasi un precetto per i suoi studenti, sia perchè « hanno maggior bisogno di coltura quei che si dànno allo studio, che è tutto lavoro di spirito », sia perchè possano essere diretti nella scelta della voca¬zione (1): per tutti poi i suoi giovani lo raccomanda come mezzo della pietà (2). E così faceva sempre nelle esortazioni sulla pratica dei sacramenti. Ci rimane, per esempio, una « buona notte » del 4 giugno 1867, nella quale insiste sul tema, ripetendo il paragone del medico curante (3).
Nelle Vite rileva l´esempio del suo giovanetto, loda il fatto, inculca e ragiona nelle didascalie la pratica: la parola stabile è sempre messa in evidenza. Nel Savio (pag. 68) è una delle tre massime udite dal pulpito; e il giovanetto « cominciò a scegliersi un confessore che tenne tutto il tempo che dimorò tra noi ». Nel Magone (pag. 26) è addirittura una sentenza: « Finchè voi non avete un confessore stabile, in cui abbiate tutta la vostra confidenza, vi mancherà sempre l´amico del¬l´anima ».
La Vita del Besucco è la più ricca di tali ricorsi: « Il direttore lo lodò della scelta che voleva fare d´un confessore stabile... » (pag. 101). E il giovane, « fatta la scelta del confessore (si capisce ch´era Don Bosco) non cangiò più per tutto il tempo che il Signore lo conservò
(1) Regolamento, cit., Appendice per gli studenti, cap. I, art. III Biogr.,
IV, pag. 746).
(2) Ibid., parte II, cap. I: Della pietà, art. 4.
(3) Mem. Biogr., VIII, pag. 825.

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tra noi ». E la didascalia che segue dedica tutta la prima parte a racco¬mandare alla gioventù « di voler fare per tempo la scelta d´un confessore stabile, né mai cangiarlo se non in caso di necessità ». E deplora la leg¬gerezza di quei che mutano ad ogni volta, o vanno da un altro per le cose gravi, come « un ammalato che ad ogni visita volesse un medico nuovo » (pagg. 102-103).
La prova di fatto della verità ed efficacia di tali massime sta nel¬l´esempio del Besucco, dal quale anzi prende occasione tutto il ragio¬namento. II buon giovanetto, imitando di proposito il Savio (si osservi la corrispondenza dei particolari nelle due biografie), si mette nelle mani di Don Bosco (il direttore è sempre il nostro Santo) e vi vuoi premettere una confessione generale, per lo stesso squisito motivo che già adduce, più brevemente, il Savio.
Ed è una confessione da S. Luigi: cc coi più commoventi segni di dolore sul passato e di proponimento per l´avvenire », e come quello, in tale stato di coscienza, che « come ognuno può giudicare, consta dalla sua vita non aver mai commessa azione che si possa appellare peccato mortale ». Che dice non meno di quanto aveva scritto prima (capo XII) sulla sua innocenza nella fanciullezza. Tenia¬mone conto per confermarci nel concetto d´una santità, che non viene mai nominata come tale, ma che vive effettivamente nell´anima, e dà alla vita il valore più alto: ed è il valore della vita che si svolge tutta in permanente (abituale) grazia di Dio, e cioè in caritate Dei, in questo giovanetto che ci appare veramente « prediletto dal Signore » e, per dirlo con la Chiesa: Dei amore praeventus (1).
Soltanto l´appressarsi della morte rivelerà con un improvviso sprazzo di luce quel che sta nascosto e si viene maturando in que¬st´ anima.
Il devoto alunno si mette intanto pienamente nelle mani del suo Direttore, e non lo lascia più, ed ha in lui e con lui una confidenza che non distingue tra il colloquio sacramentale e la consultazione esteriore (2). C´entra per una gran parte l´affetto filiale e la devozione alla persona che l´ha conquistato, e l´uno e l´altra egli traduce, come già faceva pel suo Padrino, nella preghiera. È questa l´intimità che Don Bosco vorrebbe tra il giovane e il confessore, e la suggerisce nel Magone e negli altri scritti (3) col consiglio, e qui con l´esempio.
(1) Brev. Rom., S. Josephi a Cupertino, lect. IV.
(2) Cfr. sopra quanto è detto a fol. 26.
(3) Regolamento, cit., Appendice, cap. I, art. 4-.

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Il tema della Pietà continua secondo il disegno prestabilito, e si viene alla Comunione (capo XX). Bisogna dire che nello stendere queste pagine l´Autore tenesse aperta dinanzi la Vita del Savio, al capo XIV. Questo comincia dicendo che « i più validi sostegni della gioventù sono il sacramento della Confessione e Comunione ». Qui, come continuando, esordisce: « Il secondo sostegno della gioventù è la Santa Comunione ». Nel Savio la parte didascalica si limita ad un capoverso: il resto è inteso a descrivere la vita eucaristica del suo giovane santo. Pel Besucco la descrizione è più breve, ma in compenso vi si imposta una discussione, nella quale interloquisce il suo prota¬gonista, e che si conclude, come ogni dialogo didascalico, con le con¬clusioni a cui s´intende venire.
Tuttavia il sobrio spunto biografico è sufficiente a stabilire la regola della sua frequenza sacramentale. Abbiam notato a suo luogo (1) quale fosse nel tempo precedente, ed abbiamo richiamato l´ alfonsianità di Don Pepino, che non è diversa da quella di Don Bosco medesimo. Per quanto buono e pio, e addirittura innocente, il ragazzo era prima ammesso a comunicarsi « ogni settimana: di poi in tutti i giorni festivi ed anche qualche volta in settimana ». Così all´Oratorio, dove Don Bosco, lasciando la libertà di movimento devozionale, osserva, lascia fare, e poi dirige ed incoraggia, il giovinetto continua la sua pra¬tica « per qualche tempo », ma poi si comunica cc eziandio più volte la settimana, e in alcune novene anche tutti i giorni ». E comunione frequente nello stretto senso dei trattatisti alfonsiani: che cioè non è la sola ebdomadaria, e non è, abitualmente quotidiana.
E si noti che è proprio Don Bosco a dire che di quella frequenza lo rendevano degno « l´anima sua candida e la esemplarissima sua condotta ». Quando il Besucco morrà, tra pochi mesi, non sarà ancora stato detto ch´egli sia ammesso alla comunione quotidiana abituale. Di Savio Domenico abbiamo letto (capo XIV, 69) che « cominciò a confessarsi ogni quindici giorni, poi ogni otto giorni, comunicandosi colla medesima frequenza. Il confessore, osservando il grande profitto che faceva nelle cose di spirito, lo consigliò a comunicarsi tre volte per settimana, e nel termine di un anno gli permise la comunione quotidiana ». E il confessore era Don Bosco (2).
(1) Cfr. sopra, II, fol. 30-32.
(2) Dobbiamo qui ripetere dalla Praxis di S. Alfonso, cap. IX, § IV, i num. 149-150, e le applicazioni pratiche dello Scaviani? Non diversamente si rego¬lava a Mirabello Don Giovanni Sonetti, coll´Ernesto Saccardi e col Rapetti (vera

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La disciplina allora seguita era, come si vede, diversa dalla pre¬sente: non però contraria a che si praticasse la frequenza d´ogni giorno, com´era ormai nei voti del clero più illuminato e delle anime più fervorose, e il Frassinetti e la sua scuola (1) sostenevano con ardore e non senza ardimento. Ed era nei voti anche di Don Bosco. Appunto nel 1864 (ma il 18 giugno, dopo la morte del Besucco) spiegava ai suoi giovani la questione, o meglio, dimostrava La giustezza della pra¬tica quotidiana: benché « per darvi un consiglio adattato alla vostra età, condizione, divozione, preparazione e ringraziamento che sarebbe necessario, io vi dirò: intendetevi col confessore e fate secondo l´av¬viso di lui ». E più chiaramente proseguiva: « Se poi volete sapere il mio desiderio, eccovelo: comunicatevi ogni giorno. Spiritualmente ? Il Concilio di Trento dice: Sacramentaliter ». Gli argomenti di prova sono l´esempio della manna nel deserto, quotidiana, e poi quello dei primi fedeli, e il voto (Optaret quidem) del Concilio di Trento, e il pensiero di Tertulliano e S. Agostino. E naturalmente spiega che « non è un precetto. Gesù Cristo lo brama, ma non lo comanda » (2).
Nel fatto, e nell´indirizzo ch´egli dava, Don Bosco si atteneva, come s´è visto, alla comunione frequente, e di comunione quotidiana abituale non parla se non, come nel discorso citato, per manifestare un desiderio di Santo (3). Ma anche con l´attuazione della prassi alfonsiana, egli si staccava dalla corrente rigorista, che avrebbe voluto una severa limitazione nella pratica. Era la corrente contro la quale aveva combattuto lo Scavini, e che, almeno fino al criterio posto da S. Francesco di Sales e da Benedetto XIV, era stata respinta dallo
copia di Savio Domenico lo disse Don Bosco) del quale incluse il cenno biografico nella Vita di E. Saccardi, Torino, « Lett. Cattol. u, 1868. Il Saccardi fu a Mirabello dal Natale 1865 fino a fin di giugno 1866. Cfr. ivi, cap. IX e cap. XII. Noto, ad ogni buon fine, che io qui non sostengo una tesi, ma faccio della storia.
(1) Compendio della Teologia Morale di S. Alf. M. de Liguori ecc. Ediz. defi¬nitiva dell´Autore, Genova, 1867: Dissertazione X, pag. 404 segg. Cfr. sopra, fol. 30-31, nota 2 e 1.
(2) Mem. Biogr., vol. VII, pag. 679. Si confronti tuttavia con quanto è detto a fol. 56 nota 1, della condotta dei giovani in quell´anno 1864 (13 giugno).
(3) Era già molto, e fu uno dei suoi meriti maggiori, che Egli inculcasse la più attiva delle frequenze a giovanetti quali erano i suoi, e fu una vera innovazione nelle vite di comunità la libera pratica quotidiana della comunione. E naturalmente, come si doleva se vedesse rarificarsi la frequenza individuale o collettiva (cfr. nota prec.), così si rallegrava santamente che tra i suoi giovanetti fossero molti quelli che potevano accostarsi ogni giorno alla Sacra Mensa, e procurava che ne crescesse il numero. Cfr. Mem. Biogr., VII, pag. 679; VIII, pag. 823; XI, pag. 224; XVII, Lett. 10 maggio ´84, cit. In questo senso, come il Cottolengo, ha il merito di aver promosso e preparato il movimento che condusse al decreto di S. Pio X, del 20 dicembre 1905: Sac rosancta Tridentina Synodus.

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stesso Afasia, che fu il testo seguito da Don Bosco in Seminario (1).
Con taluno di quei rigoristi aveva già avuto che fare nel 1858-59 (2), e le critiche al suo indirizzo educativo-spirituale continuavano anche al tempo di cui ci occupiamo. Ed è appunto la pietà e la frequenza del nostro giovanetto che mette in luce una di tali opposizioni (3). La sua anima è fortemente turbata per le insinuazioni di un cotale (un prete, certamente) che lo consiglia « di accostarsi più di rado per accostarsi (sic) con più lunga preparazione e con maggior fer¬vore a. Lo scrupolo che sorge nella sua candida coscienza gli fa cre¬dere che dunque egli non è degno di tanta assiduità. Nella sua inquietudine ricorre « ad un suo superiore », e non può essere che Don Bosco.
E di qui nasce il dialogo didascalico. Il giovanetto propone le difficoltà, e il superiore gliele risolve. E per conto suo il Besucco conclude « di fare la comunione con maggior frequenza (forse l´aveva rallentata), perché conosco veramente che è un mezzo potente per farmi buono » (pag. 108).
Quale sarà la frequenza ? Secondo la prassi comune: quella « pre¬scritta dal suo confessore ». Il quale (ed è Don Bosco, com´è detto al capo precedente) gli dice « di andare tutte le volte che niente inquieta la coscienza ». È un principio pratico fatto soltanto per le anime ben preparate. Don Bosco lo ripeteva abitualmente coi suoi giovani mi¬gliori, e lo disse anche in pubblico. Noi lo troviamo enunciato già dallo Scavini (4), benché al Frassinetti non vada molto a genio, pel timore d´ingenerare troppe inquietudini nelle anime timorate (5).
Per questa coincidenza, e perchè le difficoltà proposte ricompaiono in parecchi autori, e appunto nello Scavini-Del Vecchio, dovremo dire
(1) ANT. ALASIA, Theol. Morali, (edit. II, Taurini, 1834); torn. IV, cap. XI, pagg. 145-147. Pensiamo che il domenicano Wigandt, docente a Vienna un secolo prima, era censurato da parecchi teologi del suo ordine e del- secolo, come troppo largo, e pensava appunto come l´Afasia. Cfr. sopra, fol. 31 n. 2.
(2) Mem. Biogr., VI, pagg. 339-341.
(3) Il buon Faber, che scriveva in quegli anni, ne diceva una bella di questa sorta di rigoristi: « Costoro distruggono l´anima altrui dissuadendo dalla frequenza dei Sacramenti, e distruggono l´anima propria con un lassismo di vita agiata e mondana, che quasi sempre trovasi congiunta con opinioni rigide singolari i (Il Pre¬ziosissimo Sangue, 1860, pag. 189). E altrove (Confer. Spirituali, pag. 180): « Una teologia rigorosa è uno dei mezzi meno costosi per acquistare rispettabilità, e colui che addita la via del cielo come aspra agli altri, probabilmente mena egli stesso una vita comoda s. E davvero i rigoristi d´allora non erano i preti migliori.
(4) Ediz. cit., pagg. 569-570.
(5) FRASSINETTI, ediz. 1867, pag. 425, nota.

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che iI dialogo non è storico, e che il nostro Autore si è valso dell´oc¬casione per inserire una breve discussione istruttiva e preveniente sulla frequente comunione ?
Non credo. Quelle obiezioni o difficoltà erano tanto divulgate, che ancora nel 1874 l´annotatore e compendiatore dello Scavini aveva creduto doverle confutare (1), e colui che aveva parlato al Besucco aveva appunto addotte quelle difficoltà, e il giovanetto le ripeteva con Don Bosco come le aveva sentite, più che udite.
Al più, ed è ben naturale, sarà meno testuale la sobria precisione del dialogo: ma e questo e la sostanza di esso sono storici. Che poi questa sostanza noi la troviamo ripetuta nei discorsi ai giovani (uno fu ricordato poco fa) e perfino nell´ultima edizione del Giovane Prov¬veduto, fatta vivente l´Autore, nel 1887 (art. e Comunione frequente a), non dice altro se non che quella maniera e forma di pensare, comoda e chiara, era divenuta familiare a Don Bosco.
Specialmente ripeteva quelle ragioni storiche che qui formano la conclusione del dialogo. Esse provengono dal Catechismo Ro¬mano (2), a cui aggiunge la citazione del Concilio Tridentino, circa il desiderio che tutti i fedeli si comunichino sacramentalmente alla Messa (3): cosa, deI resto, già ricordata dallo stesso Alasia, nonché da S. Alfonso e da quasi tutti i trattatisti. Che poi questa conclu¬sione abbia fatto parte del dialogo tenuto col Besucco, non oserei affermare. Il libro, come s´è detto, ha in molte sue parti un evi¬dente scopo didattico.
Alla sopraccennata discussione e didascalia ha, come abbiam veduto, dato occasione la pratica. E noi potremmo desiderare che l´Autore, nel toccare della pratica eucaristica del suo alunno, ci avesse detto qualche cosa di più intimo, come l´aveva detto di Savio Domenico. Ma, oltrechè un cenno di tal natura era già nella prima parte (capo XII), qui l´incidente del turbamento di coscienza ha prevalso, dando occasione al dialogo e alla didascalia. Del resto il nostro Autore non ama insistere su questo punto, e, salvo il caso speciale del Savio (del quale però riferisce le parole), suole notare soprattutto la fre
(1) SCAVINI-DEL VECCHIO, vol. IV, Appendice LIX, pag. 566 segg.
(2) Catechismus ex Decr. SS. Conc. Triti. ad Parochos, pars II, cap. IV, nn. 38, 51, 60-61. Il paragone della manna quotidiana, che nel presente tratto non ricorre, ricompare in altri scritti e nel discorso sopra citato.
(3) Sess. XXII, cap. VI: « Optaret quidem Sacrosanta Synodus, ut in sin¬gulis Missis fideles adstantes non solum spirituali affectu, sed sacramentali etiam eucharistiae perceptione communicarent, quo ad eos huius sacrificii fructus ube¬rius proveniret 5.

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quenza e la divozione esterna, e questa con poche parole. Così ha
fatto pel Magone, così pel Besucco (1).
Invece preferisce svolgere il tema della divozione al SS. Sacra
mento. Nel Savio si ha il magnifico capo XIV e i due fatti straordinari del capo XX (alias XIX): qui vi è dedicato l´intero capo XXI: Vene
razione al SS. Sacramento.
E qui comincia a disegnarsi con qualche chiarezza la vita interiore
di Francesco Besucco.
(1) Forse è prudenza, ed è certamente sodezza o, come dicono, realismo. È tanto facile imprestare i sentimenti e fare della... letteratura I

CAPITOLO III
La storia spirituale
A) La duplice linea che noi seguiamo in questo nostro studio: della storia interiore d´un santo giovanetto, e della pedagogia spiri¬tuale del Santo educatore, trova qui buona occasione per mettere in luce la convergenza dell´una e dell´altra.
Il culto del SS. Sacramento e la divozione a Maria SS., insepara¬bili fra loro e indispensabili alla vita cristiana, noi sappiamo che sono
i due poli devozionali del regime religioso di Don Bosco. Dicendo divozione intendiamo ovviamente quell´insieme di pratiche e di affetti che, come in ogni altra divozione, contrassegnano una forma parti
colare o personale di attrazione spirituale, distinta da ciò ch´è il culto eucaristico imposto a tutti i fedeli come parte necessaria della fede
cristiana, come sono la Messa, la Comunione, l´adorazione alla Pre¬senza Sacramentale di N. S. Gesù Cristo.
La divozione al SS. Sacramento è la divozione culminante su tutte le altre, la divozione centrale della Chiesa, attorno alla quale devono
adunarsi tutte le altre e connettersi come i pianeti attorno al Sole.
È il culto stesso di Dio ridotto a divozione per l´aggiunta dei veli sacramentali (1). Essa è l´atmosfera della vita spirituale, e la pratica
della Presenza Sacramentale include tutte le divozioni e si combina con esse.
(1) FABER, Il SS. Sacramento (1855), pag. 469. Cfr. il lib. II, cap. I: Il SS. Sa¬cramento soggetto d´una divozione speciale; e il lib. IV, cap. VI: Il magnete delle anime. Sono pagine di profonda teologia e di squisita pietà, alle quali principal¬mente m´inspiro in questa materia, per l´intima affinità di pensiero che intercede tra il grande Maestro di spirito e il nostro Santo. Per me non vedo altro di meglio per collocare nella sua giusta sfera l´anima tutta eucaristica di Savio Domenico,

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Don Bosco, semplificatore della vita spirituale, non poteva non vedere sul primo piano del suo quadro se non questa divozione, tanto pel suo valore intrinseco, quanto per i riflessi ch´essa sola può avere sull´anima. Anche questo (e l´anche non è qui fuori di posto, trattan¬dosi non del fondamento, ma d´una delle sue attuazioni) divenne nelle sue mani uno dei fattori più efficaci della sua pedagogia, e uno dei meriti storici più notevoli del suo apostolato cattolico nel mondo.
Personalmente egli fu un Santo eucaristico, cioè compenetrato dalla divozione del SS. Sacramento, e lavorò, in ogni tempo e in ogni campo, a creare la più intensa vita eucaristica in ogni suo aspetto. Ricordiamo la parte, senz´altro decisiva, avuta da lui nel propagare la pratica della comunione frequente, ch´è la prima e la massima delle divozioni, appunto perchè non è di precetto, ma di libera ele¬zione. Questa frequenza, come bene osserva il Faber, con tutto ciò che inchiudesi in una tale frequenza, è una vita spirituale per sè, lacchè è una vita di grazia e non di natura (1).
Nella divozione eucaristica egli vedeva l´instaurazione della pietà cristiana nella società dei fedeli, così come vi sentiva la forza di resi¬stenza e l´antidoto contro il laicismo e il materialismo minaccianti e progressivi (2). Un suo Sogno del 1862 gli mostrò la nave della Chiesa che si assicurava dalla procella rifugiandosi tra due colonne, sorreg¬genti il SS. Sacramento e la figura di Maria (3).
Nella pratica attuazione del suo indirizzo egli non poteva non essere, qui come in tutta la sfera devozionale, alfonsiano; ma qui in modo più particolare, quando si pensa che a S. Alfonso la pietà cattolica deve l´introduzione della Visita al SS. Sacramento, e cioè della divozione a Gesù nel Tabernacolo (4). Don Bosco conobbe la classica opera del Santo Dottore, e ne inserì la forma compendiata nel suo Giovane Provveduto, uscito nel 1847. E la giaculatoria Sia lodato e ringraziato ogni momento, ecc., si trova assegnata da Don Bosco ogni volta che determina una founa di pregare per ottenere una grazia. Ed è appunto la vita di Gesù nel SS. Sacramento, la
(1) Confer. Spirituali, cit.: La vocazione speciale, pag. 369.
(2) FABER, 17l Preziosiss. Sangue, cit. (1860), pag. 189.
(3) Mem Biogr., VII, pag. 169.
(4) Fu S. Alfonso che pensò di estendere a tutti i fedeli Ie pratiche dei Santi che passavano lunghe ore ai piedi del Tabernacolo, e per aiutarli forniva la materia dei loro trattenimenti con Nostro Signore. La Visita al SS. Sacramento e a Maria SS., pubblicata tra il 1744-47 (gli Acta Doctoratris, pag. 85, l´assegnano al 1745), è rimasta l´opera classica dai suoi giorni ai tempi nostri. Sull´intima (quasi esclusiva) dipendenza dell´indirizzo devozionale e ascetico di Don Bosco da quello alfonsiano, vi sarebbe da fare ampio discorso: ma non è di questo luogo.

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presenza e la residenza di Gesù sotto il mistico velo delle Specie, quella che forma il soggetto della speciale divozione all´Eucarestia: e cioè l´amore di Gesù concretato e reso pressoché sensibile nella sua presenza reale nel SS. Sacramento. Chi visita Gesù nel Taber¬nacolo, come chi pensa alla sua divina presenza nel SS. Sacramento (un mezzo amoroso di praticare la presenza di Dio), non può farlo che per amore; e per tutti coloro che Lo visitano, Egli riesce una fonte di benefizi spirituali e una potenza conquistatrice, che eleva l´anima sopra la carnalità dell´essere, e la rende capace di una forza morale che nessuna persuasione umana può esercitare.
Noi vediamo da questo quale fosse nella mente del Santo educatore la ragione del dirigere che egli faceva la pietà dei suoi giovani per questa via, tanto per la comune formazione dell´anima cristiana, ch´era il suo scopo primario, quanto per coltivare una pietà più squisita, conducente alla santità. Poche divozioni inculcò Don Bosco, ma fon¬damentali e teologicamente concrete (1), e tutte, anche quella di Maria, confluiscono a questa.
Vediamo pure come ci stia, nel profilo spirituale del suo santo giovanetto, un apposito quadro della divozione di lui al SS. Sacra¬mento. L´anima del Besucco era già fin dalla prima fanciullezza orientata verso di essa. E il libro vi accenna. Ma quello che indicava una secreta e possente attrazione, quel che il Faber chiama il magnete delle anime (2), si rivelò nella sua chiara fisionomia soltanto quando si trovò a vivere nell´atmosfera di Don Bosco. Prima era una maniera divota accanto alle altre: era divozione e premura per le cose di chiesa e per il Signore: qui divenne il trasporto e la dedizione dell´anima, Ia coscienza dell´amore.
La mano di Don Bosco, che ha in questo una parte innegabile, non indusse cosa nuova in quell´anima, ma ne chiari e svolse l´incli
nazione spirituale ancora indefinita, indicando la via per la quale
doveva incominciare a progredire. Nel Magone egli aveva lasciato svolgere e aiutata la divozione mariana, ch´era la predominante attra¬zione devozionale di lui (3): nel nostro, che si modellava, per una
simpatia di spirito, sul Savio, coltivò la divozione eucaristica. E questa divenne la sua divozione.
L´attrazione individuale della grazia, che distingue ogni persona spirituale, si scorge, più che in altro, nelle divozioni
FABER, Progressi ecc., cit., pag. 47: e La divozione non può mai negligere la dottrina senza pagarne il fro. Nulla più serve a Satana per inceppar le nostre ruote, che una divozione non teologica ».
(2) Il SS. Sacramento, cit., pag. 442 e segg.
(3) Vita di Michele Magone, cap. VIII.

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ed in nulla è più importante che nelle divozioni, per la relazione che corre tra la divozione e la virtù (1). Comunque originate, esse esercitano un´influenza non mondana su tutta la vita spirituale, perché hanno una vita interiore loro propria, un forte spirito secreto, con che possono imprimere un carattere spirituale positivo nell´anima: sono non un ornamento della vita santa, ma parte integrante della vita stessa (2). La divozione al SS. Sacramento, adunque, affermatasi ormai e svolta nell´anima del nostro giovane, indicava una segreta, ma innegabile attrazione dello Spirito Santo, una specie di attrazione magnetica esercitata da N. S. Gesù Cristo attraverso il velo sacra
mentale (3).
Questa attrazione non può essere che un´attrazione d´amore; e per la reciprocità inerente a questa grazia (4), un ricambio d´amore da parte dell´anima. Voglio dire che dallo svolgersi della divozione eucaristica nell´anima del nostro giovanetto, si rendeva più consa¬pevole e più profondo l´amore di Dio, come l´ultima sua parola verrà a rivelare. È un punto, un momento della sua storia.
L´affinità che si dimostra, per questo lato, col Savio, è vera e forte, e la differenza tra i due figli spirituali di Don Bosco non è che di misura, proporzionata ai doni gratuiti dello Spirito Santo. Savio Domenico è tipicamente un Santo eucaristico, portato dall´amore alle più eccelse elevazioni della propria abnegazione, all´effusione della carità, e alle meraviglie della preghiera soprannaturale: il Besucco è un´anima eucaristica, nella quale l´intensità della divozione produce un amore, che la morte trova nel corso del suo cammino.
Venuto alla scuola di Don Bosco, il giovane pastorello, che già a casa sua si segnalava per una premura e attenzione speciale nel servire al trasporto del Viatico, e nell´aiutare i ragazzi del paese a prepararsi alla comunione e a farne il ringraziamento, subito si mise per la via delle pratiche insegnate dal Maestro santo, e in quella via, che fu per lui quasi la parola che mancava al suo interno sentimento,
fu ben presto tra i primi. Anche Don Bosco mette innanzi tutto tra le manifestazioni della divozione aucaristica la frequenza della comu
nione; ma vi accenna di passaggio, e si sofferma sull´assiduità e sul¬l´intensità divota della visita al SS. Sacramento, sul culto di Gesù nel Tabernacolo. Perché, se la frequente comunione era per lui,
(1) FABER, Betlemme, cit., pag. 224.
(2) ID., SS. Sacramento, cit., pag. 110.
(3) Ibid., pag. 109.
(4) Ibid., pag. 456.

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Don Bosco, iI secreto della sua pedagogia (1) e l´unica base sicura per educare alla moralità (capo XIX), la visita al SS. Sacramento era l´espressione più eloquente della vita divota. L´affollarsi dei suoi giovani alla Sacra Mensa gli diceva che moralmente stavano bene, e non c´era il male in casa (2): il loro succedersi attorno all´altare per
visitare Gesù gli diceva che tra loro fioriva la divozione, e l´aura della pietà permeava le anime (3).
Il Besucco non vive solo per sè questa vita: se ne fa promotore ed apostolo. Vuole che il prete e il chierico radunino ragazzi da condurre alla visita; si studia di condurre con sé qualche compagno « a dire un Pater a Gesù Sacramentato che è là tutto solo nel Tabernacolo » (capo XXI, pag. 111), e riesce anche a propagare la pratica spontanea. Tutto ciò che ha attinenza col SS. Sacramento diviene, ancor più che nell´età precedente, oggetto di sue devote premure: il servizio e l´apparecchio della Messa, l´assistenza alla Messa, alla Benedizione, con una divozione « che era impossibile mirarlo senza sentirsi com¬mossi ed edificati pel fervore che mostrava nel pregare e per la com
postezza della persona ». E qui lo dice Don Bosco, non il suo Padrino dell´Argentera.
Quella divozione assorbiva e dominava realmente il suo spirito. Sentiva bisogno di leggere libri eucaristici, e « la più familiare delle sue giaculatorie » era quella che, come ho detto, Don Bosco ha messo in ogni pratica: Sia lodato e ringraziato, ecc.
Poteva tutto questo essere altro che fede e amore: amore soprat¬tutto ? Infatti il suo portarsi davanti al Tabernacolo non era come quello degli altri: era un colloquio a tu per tu (come diceva già da fanciullo: Parrai di parlare con il mio stesso Gesù » [capo XII]) che aveva bisogno del silenzio e del nascondimento. « Più d´una volta » Don Bosco, passando dopo cena per la chiesa senza lume, inceppò « in cosa che sembravagli sacco di frumento », ed era « il divoto Besucco, che in un nascondiglio dietro, ma vicino, all´altare, in mezzo alle te¬nebre della notte, pregava l´amato Gesù a favorirlo dei celesti lumi
per conoscere la verità, farsi ognor più buono, farsi santo! » (capo XXI, pag. 112).
Quella che da fanciullo era stata « la continua unione con Dio » (capo IX), qui diveniva il bisogno amoroso della presenza di Gesù,
(1) Ricordiamo il colloquio con Mons. Dutreloux, 8 dicembre 1887: Sta lì il gran segreto I Cfr. Mem. Biogr., XVIII, pag. 438.
(2) Cfr. il discorso citato del 13 giugno 1864. Cfr. sopra, fol. 56, n. 1.
(3) Cfr. l´intervista di Don Bosco col direttore del Pélerin, a Parigi, 1883 (Mem. Biogr., XVI, pag. 168): « Quando il giovane è stanco di giocare, finisce spesso con l´andarsene a pregare in cappella, che trova sempre aperta ».

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per domandar luce all´anima, ed elevarsi al desiderio della santità. Chi non vede qui un progresso, un grado più alto, un moto di ascesa, prodotto dall´amore che si viene profondando, in grazia della nuova atmosfera in cui Don Bosco lo fa vivere ? (1).
Nessuno mi dirà, io spero, ch´io faccio dell´ascetica anche senza usarne i termini di scuola. È Don Bosco che, nella sua dissimulante semplicità, dispone asceticamente la materia del suo libro, che, per questa parte, vuole essere studiato come egli lo pensò (2). Ecco che, dopo averci detto del centro devozionale del suo alunno, ci porta a considerare il fatto spirituale che assomma e spiega tutto: Lo spirito di preghiera (capo XXII). La formula che nel Savio inizia il sommario del capo XIII, pel capitolo presente sta da sola come intestazione. I due rispettivi capitoli sono molto affini tra loro nel concetto e nella linea, e il primo capoverso del Savio può dirsi il compendio di quello del Besucco. Segno che le due anime si rassomigliano.
È ben vero che il nostro Autore s´intrattiene su fatti esterni ab
bastanza comuni nel genere loro; ma, come già aveva fatto rilevare nell´importantissimo capo IX del Magone, quello che conta non è
la rarità o la speciosità delle pratiche, sibbene la perseveranza e lo spirito che vi si mette. È la vita di Simeone ed Anna veduta dal
Faber (3).
Capitolo singolare. Comincia con uno spunto educativo, che ri¬leva un fatto squisitamente spirituale, e finisce con un insomma elo¬quente che innalza il livello agli alti gradi della spiritualità. E in mezzo, e come spiegazione dei fatti esterni, si esprimono fatti e stati interiori che muovono dal primo fondamento e conducono a quella conclusione.
(1) Volendo assegnare nei linguaggio ascetico quest´anima ad una categoria, in quale la collocheremo ? Non certo in quella degli incipienti, sia pure della Seconda Mansione di S. Teresa (TaNqurtaxy, cit., n. 639), perchè ormai non può dirsi in stato di lotta: bensì in quella dei proficienti, della via illurninativa, della Terza Man¬sione, e in questa tra le anime fervorose (T ANquEREY, cit., nn. 962, 973). Ma non è detto (e lo fa notare giudiziosamente lo stesso autore, nn. 628-629) che la via illu¬mMativa non abbia nei suoi progressi (e in certi felici momenti!) qualche antici¬pazione della via dei progrediti e perfetti. La santità a schemi non esiste. Multi
formis gratia Dei (I Petr., IV, 10).
(2) E prego il lettore a convincersi che nel mio ragionare non impresto nulla_ Non è causa mia se un libro così ricco fu trascurato, e non fu veduta da altri che da Don Bosco una figura così meravigliosa.
(3) Betlemme, cit., pag. 211. Cfr. sopra, fol. 66. Cfr. nel Magone il nostro com¬mento, e la citazione parallela dal FABER, Progressi, ecc., pag. 418_

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Per commentare questo capitolo, che, salvo i fatti soprannaturali, potrebbe stare in qualsiasi agiografia, occorrerebbe e basterebbe met¬tervi accanto il capo XV de Progressi dell´anima del Faber: non vi è proposizione che non vi trovi uno stretto e preciso riscontro (1).
Prender gusto alla preghiera, avere il gusto della preghiera, a differenza della maggior parte dei giovani, che rifuggono da ciò che richiede seria attenzione, è la prima dote del buon Besucco, formata in lui, sì, dall´educazione di famiglia, del maestro cristiano, del santo Arciprete Padrino, ma penetrata e connaturata in lui dalla grazia di Dio.
Ecco il carattere primo che differenzia la vita spirituale dalla vita profana. « Quando la grazia spinge soavemente una persona a dedicarsi
alla preghiera, essa entra nel potere della preghiera, la quale fa di lei
un essere nuovo: e tale persona trova così completamente che la sua vita è preghiera, che alfine prega sempre... Pregar sempre è sentir
sempre lo stimolo e l´appetito della preghiera » (2). È il ritratto del nostro giovanetto. La preghiera, dice l´Autore (ivi, pag. 116), è per lui « il suo cibo spirituale ».
Naturalmente, a quell´età e nelle sue condizioni, egli non era fatto per meditare, « ma faceva molte preghiere vocali ». Don Bosco, per
i suoi giovani, si limitò sempre ad inculcare la preghiera orale, e quanto alla mentale, raccomandava la lettura attenta della prima parte del Giovane Provveduto, scritta appositamente per essi, e a tal fine. È forse, quella di Don Bosco e dei suoi figli, una spiritualità di grado inferiore ? E cioè, colla sola preghiera orale non è dato di raggiungere alti gradi di perfezione e farsi santi?
Don Bosco non lo crede e, dico, almeno pei suoi giovani, quando, com´è ovvio, vi accedano le debite condizioni. E non manca di notarlo, specialmente con gli esempi. Egli sta con S. Alfonso, l´apostolo, che fu detto, della preghiera. Uno dei libri più raccomandati da Don Bosco fu: Del gran mezzo della preghiera, e una delle sentenze più inculcate: « Chi prega si salva, chi non prega, certamente si danna » (3). E come quel Santo Dottore compose innumerevoli preghiere ad uso dei fe
(1) Progressi dell´anima nelle vie spirituali, cit., cap. XV: Preghiera, pagg. 205-235. L´opera uscì nel 1851 e fu ritoccata per I´ediz. 1859, che fu tradotta dal teol. L. Mussa nel 1889. Come il lettore può aver veduto finora e vedrà in seguito, non è una preferenza personale che mi faccia ricorrere a tale autore (del resto a me familiare), ma l´affinità che, tra tutti, intercede tra il Filippino inglese e Don Bosco. Il Faber riunisce in sè il Sales, Filippo Neri e S. Alfonso: c´è nulla di più salesiano
(2) Progressi, ecc. cit., pag. 205.
(3) Il Giovane Provveduto, 2a ediz., 1851. Sentenza aggiunta ai Fondamenti della Cattol. Religione allora inseriti per la prima volta, pag. 332.

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deli, ormai divenute familiari al mondo cristiano (1), così fece il nostro Santo col suo Giovane Provveduto fin dal 1847, imitando Il Cristiano Provveduto di S. Alfonso del 1761.
La preghiera orale non vuoi essere intesa come un surrogato della preghiera mentale, un ripiego nell´incapacità di attendervi. È uno dei segni di falsa spiritualità il farne poco conto (2). Conviene meditare sulla dignità della preghiera vocale (il buon Gesù, per esempio, ci ha insegnato il Pater noster !) e sulla Comunione dei Santi, alla quale partecipiamo recitandole (3). Coloro che trovansi inetti alla preghiera mentale, dovrebbero (nel caso nostro, devono) coltivare la vocale (4). Quanto al valore, è S. Tommaso che c´insegna come essa ridesta la divozione interna, e che dobbiamo onorar Iddio colle doti esterne non meno che colla mente, e che la divozione esterna è uno sfogo alla divozione interna, la quale cresce in veemenza appunto per tale sfogo (5). E per l´efficacia spirituale, basta ricordare che per questo mezzo i Padri del deserto si elevavano a tanta altezza di santità, e che S. Teresa è stata la dottoressa della potenza, dei privilegi, delle pre¬rogative della preghiera vocale, anche quale adito alla più alta con¬templazione (6).
È il caso nostro, tanto per il Besucco, quanto, e più assai, per Sa¬vio Domenico.
E si osservi ora Ia nascosta ascetica di Don Bosco, ricordando che, quando esemplifica, insegna. Egli nota che il giovanetto « pro¬ferisce le parole chiare e distinte, e le articolava in modo che sem¬brava parlasse col Signore e colla S. Vergine o con qualche Santo, cui indirizzava le sue orazioni » (ivi, pag. 114). E il nostro Santo voleva « la chiara, divota, distinta pronunzia delle parole » (7). È una delle tre attenzioni richieste nella preghiera vocale, «.benché non sempre tutte tre ad un tempo: attenzione all´ordine e alla pronunzia
(1) PP. BENEDETTO XV, Lett. al P. Murray, 20 luglio 1921.
(2) FABER, Progressi ecc., cit., pag. 225.
(3) S. FRANCESCO DI SALES, introduct., cit., p. II, cap. XV (ediz. Nelson, pag. 106).
(4) Ióid., pag. 227.
(5) Lib. IV Sentent., dist. XV, q. 4. Il Faber é tanto convinto di questo, da inculcare a coloro che per lungo tempo hanno negletta la meditazione, come il mezzo migliore per rinvigorirsi e ritornarvi, il dedicarsi qualche tempo all´abitudine, forse dismessa, di infantile preghiera vocale. Cfr. Progressi ecc., cit., pag. 228.
(6) Cfr. anche FABER, Tutto per Gesù, pag. 247. Io insisto su certi punti perchè, mancandoci a tutt´oggi una letteratura spirituale snateriata e svolta dal pensiero e dagli esempi valorizzati di Don Bosco, è facile che, nel leggere libri scritti con altri indirizzi, ci si lasci condurre per vie che non consuonano con la vita e la tradizione salesiana, che, via, vale pur qualche cosa!
(7) Regola salesiana, cap. XII, art. 8° (151).

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delle parole; attenzione al senso delle parole; attenzione al fine delle parole: chi è Colui al quale le indirizziamo e la cosa che intendiamo domandare » (1). Ed è quello che vediamo nel caro Besucco.
Il quale poi non voleva disturbi, e per questo, valendosi della libertà che allora era concessa, « andava a prender posto presso quei compagni ed in quei siti dove non fosse in alcun modo distratto, e gli dava gran pena il vedere qualcuno ciarlare o tenere un contegno dissipato (ivi, pagg. 114-115).È ovvio che, per pregare degnamente, abbisogna il raccoglimento; ma è pure un dovere di spirito. Vi è una bella pagina del nostro Faber tutta per questo, e viene a dire che « questo santo diritto della preghiera vocale è una molto feconda occa¬sione di peccati veniali, e quasi sempre per difetto di riverenza e di previsione. Quindi non dovremmo mai cominciare colla prospettiva d´una interruzione, e dovremmo custodire severamente gli occhi. Gli atteggiamenti riverenti sono metà vittoria nella preghiera vocale ».
E così ragionava pure S. Francesco di Sales (2). Che è alla lettera il fatto del Besucco!
La divozione nella preghiera, come attesta uno stato autentico di spiritualità, così naturalmente si volge, per individuale propensione, a divozioni particolari. Ogni anima divora ha le divozioni sue. Ciò sta in relazione non solo con l´indole naturale, ma anche, come già dicemmo, con la vocazione spirituale di ognuno (3). L´attrazione devo¬zionale che noi vedemmo nel Besucco orientarsi verso il SS. Sacra¬mento, doveva necessariamente legarlo alla divozione mariana. Giacché nel mondo della divozione è quasi sinonimo il dire che uno è grande divoto della Madonna o che è divoto del SS. Sacramento (4). Maria è il consolidamento della divozione (5). In questa inseparabilità noi vediamo, diciamo così, la santa logica spirituale (ed anche il profondo senso teologico) di Don Bosco. Non ha egli concentrato tutto il suo sistema devozionale in questi due termini, che sono « due parti di
(1) Progressi ecc., cit., pag. 225. S. FRANCESCO DI SALES, Sermon sur l´orai-son, n. 4.
(2) Progressi ecc., cit. pagg. 226-228. S.,FRANCESCO tu SALES, Etendard de la S" Croix, lib. 3, c. 4, a. 9; In., Entretiens spirituels, 18, a. 3.
(3) Cfr. sopra. Tutta questa teoria è dottamente svolta in FABER, Betlemme, pagg. 224, 228, 230. Anche in Progressi ecc., cit., pagg. 350-352: dove dimostra come sia intrinseco alla pietà lo specializzarsi (pag. 352).
(4) FABER, SS. Sacramento, cit., pag. 155.
(5) Progressi ecc., cit., pag. 47.

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un tutto, cresciute simultaneamente » ? (1). Non ha mai messo nelle sue pratiche (2) o il SS. Sacramento da solo o la Madonna da sola.
Nel Besucco il culto speciale di Maria ha una forma concreta. Egli ne celebra « con fervore particolare » le novene (due sole ne potè fare in quei cinque mesi), e si fa il quaderno dei fioretti che Don Bosco vien proponendo (3), per indurre anche altri a praticarli, e per avere « una bella raccolta di ossequii da presentare a Maria ».
Potremmo credere che in tale divozione c´entrasse l´esempio del « suo caro Magone » che Don Boscc volle fissare in un apposito capi¬tolo della Vita di lui (capo VIII), come della divozione eucaristica ne stese uno per il Besucco. Ma qui, nella vita dell´Oratorio, la figura dominante era quella del Savio, e il Nostro, nel suo avanzamento spirituale, sentì il bisogno di accostarsi a questo, fino a voler « sapere il luogo preciso dove il santo giovane si poneva ginocchioni a pregare dinanzi l´altare della Vergine Maria ».
Non sembri troppo ingenua o illusoria la simpatica preferenza del nostro giovane. L´associazione delle idee così richiamata aveva potente efficacia sul sentimento interno. Infatti « colà egli si raccoglieva a pregare con grande consolazione del cuore ». E avrebbe voluto poter rimanere in quel sito da mane a sera, perché, diceva, « mi sembra d´avere lo stesso Savio a pregare con me, e mi pare che egli ri¬sponda alle mie preghiere, e che il suo fervore s´infonda nel mio cuore ». E quella statua era divenuto il termine di richiamo della sua emozione, e si tratteneva a pregarvi dinanzi tanto, da « dimen¬ticare il cibo corporale pel cibo spirituale della preghiera » (4). Non era dunque soltanto un abito, chè questo da solo non fa la persona di preghiera: era veramente lo spirito di essa che così si manifestava.
Codesto spirito, di sua natura, porta alla frequenza. Il Besucco, tra i suoi modi, trova quello di associarsi con altri a recitare le Sette
(1) SS. Sacramento, cit., pag. 154. Lo stesso Autore fa vedere (pagg. 161-162) come necessariamente i due termini conducano alla divozione a S. Giuseppe. Non è avvenuto altrettanto negli indirizzi di Don Bosco ?
(2) Cfr. per es. la « Maniera proposta per la Novena di Maria Ausiliatrice » opp. le e Preghiere per ottenere grazie da Maria SS.ma D. E passim, cioè general¬mente, per tutte le divozioni inculcate.
(3) Purtroppo quelli della Novena della Natività (1863) non ci sono stati conser-vati, ma dovevano esser simili a quelli rimastici di molte altre novene mariane. Invece rimangono alcune delle parlate tenute da Don Bosco ai giovani proprio in quei primi mesi del soggiorno di Besucco all´Oratorio. Cfr. Mem. Biogr., VII, pagg. 502-507. Uno di essi, il III, ci riflette una pagina della Vita del Besucco, come diremo altrove.
(4) C´è da pensare allo « stimolo e appetito della preghiera » dati dal Faber come segno dello spirito di preghiera. Cfr. sopra, fol. 89. Com´è salesiano quei buon Filippino!

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Allegrezze, i Sette Dolori, le Litanie, le Coroncine eucaristiche, quel che c´è nel Giovane Provveduto (1). E fa rivivere la sua prima e pre¬diletta divozione di casa sua: la Via Crucis, ch´è per lui « una scin¬tilla di fuoco » che lo anima a pregare, « e mi spinge a sopportare
qualunque cosa per amor di Dio » (pag. 117) (2).
Che qui si senta lo spirito di Don Bosco quasi non occorre spie
garlo. Le pratiche libere della divozione, oltre che sono, nel caso nostro, tutte quelle proposte dal Santo ai suoi giovani (3), e stanno nel suo libro, rientrano per altra parte tutte nella concezione pratica del suo sistema devozionale: che cioè le divozioni mariane o euca¬ristiche o cristologiche, e:c., siano quelle più solidamente radicate nelle consuetudini cristiane, e sanzionate dalla Chiesa coi tesori delle indulgenze (4): in altri teiloini, formano il regime della pietà ben fondata e comprensibile e praticabile da tutti e sempre. Il che risponde ancora una volta al concetto espresso nel prezioso capitolo del Magone (capo IX): « Teniamoci alle cose facili (e voleva dire comuni), ma si facciano con perseverenza ». È un sentiero che può condurre ad un « meraviglioso grado di perfezione ». Ed aveva tanto ragione che, sia nel concetto generale, come per le singole pratiche, potrei addurre, in prova della loro efficienza spirituale (e cioè costruttiva) altrettanto stupende pagine dello spiritualissimo, ma solidissimo Faber (5).
La presenza di tali intenzioni spirituali nel nostro Santo educatore ci è in qualche modo confermata dall´ordine stesso della materia di
questo capitolo, dove con la serie episodica delle divozioni illustra
(1) Uscì proprio in quell´anno 1863 l´edizione detta Nuova edizione accresciuta, che fu la prima stampata nella nuova tipografia dell´Oratorio, e rimase tipica fino agli ultimi anni di Don Bosco. Le edizioni precedenti, almeno dalla 2a (1851) alla Sa (1859), si riproducevano senza varianti.
(2) Cfr. sopra, fol. 22. E cfr. TANQUEREY, op. cit., pag. 1088.
(3) Le assegnava anche talvolta come penitenza sacramentale: cosa divenuta abituale al Servo di Dio Don Rua. È un ricordo personale..
(4) « Quali divozionì possiamo noi scegliere con maggior sicurezza di quelle che sono approvate dalla Chiesa, e che sono pur dalla Chiesa ornate d´indulgenze ? Vi è un grande nesso tra le indulgenze e la vita spirituale » (FABER, Progressi ecc., cit., pag. 231). es Alfonso diceva che per divenire Santo non richiedesi altro che lucrar tutte le indulgenze che possiamo! Don Bosco è alfonsiano anche in questo.
(5) Per esempio: per le « Sette Allegrezze » il Tutto per Gesù, cap. V, sez. 3, pagg. 198-200; per i «Sette Dolori» l´intero libro Il piede della Croce; per la «Litanie», Progressi ecc., pag. 350; per la « Via Crucis » il vol. del Preziosissimo Sangue; per le « Indulgenze » e il « Rosario », Progressi ecc., pagg. 233-235. E molti altri passi delle altre opere.

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il primo principio, ch´è quello del gusto e spirito di preghiera, mo¬strando come questo prendesse forma, e forma spirituale, nel suo giovanetto: e subito viene ad illustrare l´altro grado più alto ed intenso, ch´è quello della preghiera continua, quando l´attitudine del cuore fa si che la preghiera non cessi mai. È il semper arare et nunquam deficere del Vangelo (Luc. XIII, 1). Ed è, come fu detto sopra, il • contrassegno dell´uomo soprannaturale.
L´abito del pregare si trasforma per tali anime in una specie di gravitazione della mente verso Dio, la quale nasce dall´amore e dalla pratica della divina presenza; diciamo: dall´unione con Dio. La gia¬culatoria è allora l´espressione classica di questo stato d´animo. Qui siamo con Francesco di Sales, del quale tutti gli studiosi sanno che l´importanza data alle oraysons jaculatoires è veramente l´originalità più notevole, se non anche Ia maggiore. Tutti conoscono la sua sen¬tenza, che « en cet exercice de la retraite spirituelle (raccoglimento) et des oraysons jaculatoires gist la grand ceuvre de la dévotion: il peut suppléer au defaut de toutes les autres oraysons: mais le manque¬ment d´iceluy ne pent presque point estre reparé par aucun autre moyen » (1).
Il nostro giovanetto è disposto così. Appena rimane solo o disoc¬cupato, subito recita qualche preghiera (2). Perfino nella ricreazione, il suo pensiero è tanto con Dio, e così forte è l´abito della preghiera, che qui è ovviamente giaculatoria, da chiamar cose e persone con le parole dell´invocazione che aveva sul labbro. Una santa stranezza, « cagione di riso tra i compagni », che per l´occhio spirituale di Don Bosco (3) significa « quanto il suo cuore si dilettasse della pre¬ghiera, e quanto fosse padrone di raccogliere il suo spirito per ele¬varlo al Signore ». È la retraite spirituelle di S. Francesco di Sales; è l´abituale bisogno di pensare a Dio della via unitiva (4).
E allora la biografia esemplare assurge alla sfera delle Vite di Santi: « La qual cosa — scrive —, secondo i maestri di spirito, segna un
(1) Introd. à la vie dévote (ediz. Nelson), p. II, cap. XIII, pag. 102. Tutto il capitolo è su quel tema. Ma il Santo ne discorre anche in Sente. sur l´oraison, a. 4; nel Teotimo, lib. XII, c. 9; nelle Lettere, ecc. E cfr. anche FABER, Tutto per Gesù, cap. IV, sez. VIII: Giaculatorie e attenzione, pag. 246 segg.
(2) FABER, Progressi ecc., cit., pag. 205; e pagg. 405-406, sulle Azioni ordinarie.
(3) Spiritualibus s-pirittealia comparantes (I Cor. II, 13). Il Faber (Progressi ecc.,. pagg. 206-207) osserva e sottolinea la naturale singolarità e astrazione delle persone di preghiera in mezzo alla convivenza umana.
(4) Introd. à la vie dévote, p. II, cap. XII-XIII. TANQUEREY, OP. cit., Iib. III: Della via unitiva, n. 1296, c. E con definizioni e sentenze di questa levatura, chi vorrà farci addebito di sproporzione o di esagerazione nella condotta del nostro studio, e di imprestito gratuito di valore al libro di Don Bosco?

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grado di elevata perfezione, che raramente si osserva nelle persone di virtù consumata ».
È un´anima adunque che non può non pregare. Teme perfino il silenzio del sonno, e prega andando a riposo, e s´addormenta pregando, e la prima idea, svegliandosi nella notte, è quella di pregare: allora (donde avrà attinto questo pensiero ?) pensa per le anime del purga¬torio, e solo si duole di non reggere più a lungo. Ed è pur questa una delle divozioni pratiche sotto ogni aspetto, e, come fu scritto, « una divozione specialmente destinata alle anime interiori » (1).
Il Santo scrittore può conchiudere. Ed è un insomma che vale tutta un´ascetica e, meglio, compendia tutta una vita spirituale giunta ad « elevata perfezione »: l´insomma che immedesima tutta una vita con la preghiera, e la disegna come una preghiera vivente. Cosi: « Insomma, se noi esaminiamo lo spirito di preghiera di questo giovanetto, possiamo dire avere egli letteralmente eseguito il precetto del Salvatore, che comandò di pregare senza interruzione : imperciocchè i giorni e le notti da lui erano passati in continua preghiera ».
A tredici anni!
B) È chiaro ormai che in questo libro Don Bosco, movendo dal fatto biografico, assurge ad una dottrina. Egli svolge il suo programma di educazione spirituale, e cioè, per indiretto, di spiritualità pratica, quale egli ha voluto inculcare ai suoi, ed ha lasciato per tradizione. L´economia del libro, disposta con una logica serrata, quale forse non si riscontra in nessun altro dei libri congeneri interamente scritti da lui, seguendo l´ordine dei tre punti del Programma proposto aI Besucco, e svolgendo poi spiritualmente il tema della Pietà, lo conduce di necessità al tema che in ogni giusto sistema spirituale è non solo indispensabile, ma, come tutti sanno, è ad un tempo la condizione e iI mezzo della vita dello spirito, e, com´è la prima nozione dell´ascesi, così è l´immancabile lineamento della perfezione: dico della mor¬tificazione.
È ben vero che qui, come prima, l´Autore muove dal fatto bio¬grafico, ed anzi vi insiste di preferenza, senza digredire in didascalie; ma sia per il luogo che ad esso destina, come per il sottolineare, che fa, dei particolari, viene ovviamente ad affermare una pedagogia del¬l´ascetica, per la quale si svolge la storia interiore di quell´anima. Un aspetto anch´esso fondamentale di questo tema della mortifica¬zione è già stato offerto più sopra, illustrando la prima parte della Vita,
(1) FABER, Tutto per Gesù, cit., cap. IX, sez. VI: Eminenza e prerogative di questa divozione, pag. 423, n. 4.

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dove il buon Arciprete ha rivelato « il continuo spirito di mortifica¬zione » nato e cresciuto quasi col fanciullo. E Don Bosco non intende neppure qui trascurare e svalutare quanto già prima il giovane alpi¬giano aveva raggiunto di virtù e santità. Egli intende proseguire il lavoro già iniziato e compirlo o, se piace meglio, completarlo. Così ha fatto per gli altri principi di bene già acquisiti nella vita precedente; dico della confessione, comunione, deligenza, preghiera, che, illu¬minate dalla sua chiarità e coordinate dalla sua pedagogia, innalzano visibilmente il grado della perfezione, fino a dare, come s´è visto poco innanzi, prove di acquisita santità. E così adopera qui nel fatto della mortificazione.
In questo la continuità dello spirito, già così attivo nella prima età, non s´interrompe, ma, entrando nella pedagogia di Don Bosco, trova una disciplina che prima non aveva, e riceve un´orientazione nuova, non opposta alla precedente, ma più consona e aderente alla vita, e certamente non meno efficace e meritoria. La differenza è in ciò, che prima la mortificazione del fanciullo era, per quanto virtuosa, un fatto d´iniziativa personale, lasciata in mano della buona volontà e, come suole avvenire, rivolta a procacciarsi dei patimenti esteriori: adesso veniva regolata da, una direzione sapiente, che la trasportava ad esercitarsi nel campo della vita quotidiana. Mi spiegherò più oltre, venendo ad una definizione d´un valore addirittura capitale, e forse definitivo.
Intanto l´analogia colla vicenda ascetica di S. Luigi, già altrove accennata (1), trova qui appunto la sua attuazione. Ma non solo in questo: ed è un´altra visione del fatto che ci si offre, e che discopre la storia intima dell´anima del Besucco, preparandosi alla rivelazione finale. E ne deriva un duplice assunto: quello di vedere in qual modo e secondo quali criteri Don Bosco abbia educato codesta nuova forma di mortificazione; e quello, ben più profondo, d´indagare in qual modo questo esercizio abbia coltivato o svolto nel fanciullo quello spirito dell´amore, che infine lo innalza a così meraviglioso grado di carità divina.
Poichè ho ricordato S. Luigi, mi sia concesso di tornare al Cri¬spolti (2). Egli insiste, e giustamente, sul principio primo e vitale dello spirito d´amore da cui si genera quella volontà di mortificazione tanto propria, diremo noi, del Santo Gonzaga, da suggerire il tema dell´orazione liturgica: ut innocentem non secuti, poenitentem imitemur.
(i) Cfr. sopra, fol. 32-34.
(2) Conosco, per S. Luigi, il Cepari e lo Schróder e il Merchler, e i Bollan-disti: ma nel Crispolti trovo l´idea, e mi vi attengo.

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E sceverando i motivi, reali ma non perenni, della sua vita peniten¬ziale, viene a provare che il movente più vero e maggiore è l´amore di Dio, così com´è dell´umiltà, povertà, obbedienza (1).
Ebbene, fatte le debite proporzioni, questo è il nuovo atteggia¬mento ed orientamento dell´anima del Besucco, e si rivela gradata¬mente. Possiamo adattare a lui quel che il Segne i pensava nel pane¬girico di S. Luigi: « Certe anime singolarmente elette da Dio sogliono aver una non so quale occulta virtù, che interiormente trasportale a ricercarlo prima ancor che lo possano nominare ». Nel cuore del nostro giovanetto la parola che traduce la consapevolezza dell´amor di Dio e l´intento espresso di volerlo soprattutto, viene soltanto in questi nuovi tempi della sua vita, e viene perchè tutto il restante rinnovamento cospira a dargli una più matura coscienza di sè. La sua limitata istruzione e la pochezza del suo vocabolario non gli per¬mettevano prima un´espressione adatta dei suoi sentimenti, e neppure al presente c´è da aspettarsi da lui alcuna di quelle parole geniali o tipiche, che stampano in una immagine tutta l´anima: ma le parole elementari che ora gli vengono bastano a dire quanto occorre a rive¬lare finalmente quel che stava latente in fondo all´anima.
Ed è appunto Ia mortificazione che Io rivela. Essa diviene ora un segno di amor di Dio. Dico ora, perchè prima le sue mortificazioni avevano altri motivi (2). Erano allora penitenze dei peccati, o difese preventive dal male, e talvolta mezzi d´impetrazione: ora, senza ne¬gare quegli altri motivi, mirano ad unire a Dio (3), e dimostrargli il suo amore (4). Non ricorro per questo a citazioni di maestri di spirito: mi basta l´affinità con S. Luigi e l´esempio dell´Angelo sale¬siano, Savio Domenico (5).
Questa successione di tempi, e l´ascesa dei sentimenti che l´ac¬compagna, non compare nel dettato del Santo scrittore enunciata così come noi abbiamo fatto: ma è presente e chiara nel suo pensiero, e mette capo appunto all´esito finale che inderogabilmente doveva con¬seguire. Invero lo svolgimento del tema (chè così bisogna chiamarlo, sapendo come conduce il libro), come quello dello spirito di preghiera, si annuncia con stabilire una massima spirituale, che definisce e rischiara l´atteggiamento interiore del Besucco, e si conclude, più
(1) CRISPOLTI, op. cit., pagg. 113-115 : pel resto i capi VI-IX del medesimo lavoro.
(2) Cap. XIII; e, sopra, fol. 32.
(3) Cfr. TANQUEREY, op. cit., pagg. 754 e 759.
(4) Cfr. FABER, Progressi, ecc., cit., pag. 132.
(5) CRISPOLTI, OP. cit., pagg. 113-114. Vita di Savio Domenico, cap. XV, e in ediz. cap. XVI.

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lontano, come eco della massima ond´è partito, con un altro insomma non meno scultorio del primo.
Un´intenzione, adunque, e una linea vi è, e non è malagevole scoprirla. Don Bosco riconosce il valore della virtù esercitata dal suo figliuolo nella vita precedente, ed anzi la massima prima stabilita la illumina di una luce finora non apparsa (1). Ma vuol subito far sen¬tire che ormai il cammino dev´essere un altro: quello ch´egli verrà indicando: cammino non meno ascetico e sicuro, e che s´informa anzitutto alla discrezione, mentre va più a fondo a trovare i mo¬tivi interiori.
Nessuno vorrà sottilizzare sulla parola penitenza usata qui dallo scrittore, come se egli non l´intendesse che nel suo senso stretto di espiazione e di castigo volontario. Il seguito del discorso, dalla prima massima alla conclusione, ci fa vedere ch´è da intendere meno esclu¬sivamente, ed in senso più largo e fino al più elevato. Dice infatti quella massima: « Quando l´amor di Dio prende possesso di un cuore, ninna cosa del mondo, niun patimento lo affligge, anzi ogni pena della vita gli riesce di consolazione. Dai teneri cuori (dei giovanetti) nasce già il nobile pensiero che si soffre per un grande oggetto, e che ai patimenti della vita è riserbata una gloriosa ricompensa nella beata eternità » (capo XXIII, pag. 119).
Lasciamo i commenti ammirativi che noi potremmo (e vorremmo) fare ad una sentenza così alta, così spiritualmente vera e concreta, così asceticamente superiore, e, purtroppo, così come tante altre del nostro Santo, non abbastanza conosciuta. Spero, dopo questo mio lavoro e gli altri che lo accompagnano, che si comincerà a studiare e capire meglio Don Bosco anche in questo campo, nel quale si rispecchia, e quasi si formala, la sua stessa santità, e, di conseguenza, la spiritualità lasciata in tradizione ai suoi figli. Lasciamo questo.
Ecco già definito lo spirito del Besucco penitente. Egli esercita la sua mortificazione con un « nobile pensiero », perché il suo cuore è già « posseduto dall´amar di Dio ». Possiamo noi non pensare qui a S. Luigi ? (2). E, per non stare alla sola autorità d´un letterato, non dice, per esempio, il Faber che « la vera idea della mortificazione è che essa è amor di Gesù, (amore) che prese tal forma ad imitazione di Lui, sia per esprimere la di Lui veemenza d´amore, sia per assi¬curarsene la continuazione e perseveraranza, per un istinto di con¬servazione »? (3). E altrove, coincidendo col pensiero di Doli Bosco:
(1) Cfr. sopra, fol. 33.
(2) Cfr. CRISPOLTI, op. cit., capo VI: L´amato e amante di Dio.
(3) Progressi, ecc., cit., cap. XI, pag. 132,

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« La mortificazione, ch´è un monte faticoso pei freddi e i tepidi, è pel fervore una delizia e una necessità » (1). Il che ci richiama ad un pensiero di S. Agostino, che si potrebbe prendere a testo di tutta l´esposizione delle massime di Don Bosco in questa materia, ed è prova più che autorevole della sodezza di dottrina del nostro Santo pedagogo. È come la preparazione d´una celebre sentenza che citerò a suo tempo, e dice: Ieiunia quoque et vigiliae, in quantum valetudinenz
non perturbane, si arando, psallendo, legendo, et in lege Dei meditando insumantur, in delicias spirituales etiam ipso quae videntur laboriosa
vertuntur (2).
Il regime in cui Don Bosco tiene, o meglio, contiene il fervore del suo alunno, pure ammettendo le mortificazioni esterne (indispensabili alla vita spirituale e allo stesso esercizio delle interne, alle quali neces¬sariamente debbono precedere) (3), ne escludeva senz´altro le afflit¬tive, ed insisteva sullo spirito di obbedienza, precisione, pazienza o sopportazione degli « incomodi della vita ». Il suo pensiero e indirizzo è qui, nella Vita del Besucco, il medesimo che appare nel capo XV del Savio Domenico : tantochè verrebbe da dire che il capitolo del Besucco non sia che una nuova forma di quello: giacche le parole del nostro giovane, che ha sempre il Savio innanzi gli occhi, e le parole del comune Maestro (e addirittura certe battute del dialogo) si ripetono o si corrispondono in entrambe le Vite.
Cosi è della risposta che il Santo dà all´ansietà del fervoroso disce¬polo, che, applicando a sè il Vangelo, e stimandosi non più tale da poter entrare in Paradiso per innocenza, sente che deve entrarvi per la via della penitenza (4). E il Superiore (si noti che qui Don Bosco evita l´io) gli dice di « considerare come penitenza » appunto quel che già viene di necessità. E il giovane lo nota. E allora l´Educatore gli dà la chiave della dottrina: « quello che si soffre per necessità, se tu aggiungi di soffrire per amor di Dio, diventerà vera penitenza ». E ci fa pensare alla risposta che diede ad una persona molto pia che gli domandava il perme3so di praticare certe penitenze: « Oh vedi! mezzi non ne mancano: il caldo, il freddo, le malattie, le cose, le persone, gli avvenimenti: ce ne sono dei mezzi per vivere mortificati! a. E questo è riferito in quel capo XIX del volume IV delle Memorie
(1) Ibid., pag. 419.
(2) De bono viduitatis, cap. XXI (MIGNE, P. L., XL, 4-48).
(3) FARER, Progressi ecc., cit., pag. 132.
(4) Cfr. Vita di Savio Domenico, cap. XV, pag. 74 (ediz. 1859).

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Biografiche, ch´è tutto dedicato a descrivere la vita eroicamente morti¬ficata di lui stesso e le sue proprie penitenze (1).
Spiegarci, qui, è definire. II concetto salesiano (dovrei dire boschiano) della mortificazione è che essa non deve essere un´aggiunta alla vita, ma deve provenire dalla vita stessa, ed è la vita che si vive quella che deve mortificarci: e cioè il mezzo della mortificazione e, come diremmo, lo strumento della disciplina, dev´essere la vita stessa,
ch´egli, Don Bosco, naturalmente concepisce austera e povera e limi¬tata, fatta di lavoro e di temperanza, ossia « mortificata ». Può dirsi
che qui consiste tutta la sua ascetica: perchè vi domina essenzialmente il distacco, l´abneget semetipsum e il tollat crucem suam quotidie (2), che sono l´essenza dell´ascesi: e per altro aspetto è un genere di abnegazione che non può avverarsi se non per motivo d´amore.
L´attrattiva del santo giovane per la penitenza, ch´era pure un dono di Dio, veniva così a trovarsi in una condizione non dissimile da quella di S. Luigi dopo il suo ingresso nella Compagnia di Gesù (3). Dall´una parte stava l´impulso dello spirito di penitenza, che chiamava alle afflizioni corporali; dall´altra comandava l´obbedienza, che in questo genere è la prima condizione dell´efficacia spirituale della mortificazione (4). Invero il buon Besucco sta a quanto gli si dice: ma, senza voler opporsi, insiste per voler digiunare in tutto o in parte, per affliggersi fisicamente con qualche mezzo tormentoso. Don Bosco nega tutto, salvo a permettere l´astinenza dalla colazione
la vigilia dei Santi (5).
La sua direzione (e discrezione) persuadeva la custodia dei sensi,
la sopportazione dei mali, le opere faticose e di abnegazione ed umi¬lianti, l´accettazione di tutto ciò che vi è di penoso nei doveri comuni e vicissitudini quotidiane della vita, il lavoro, la povertà, lo stato atmosferico: « le quali cose tutte possono divenire meritorie venendo sopporta´e con interiore spirito di penitenza, in unione coi patimenti
(1) Mem. Biogr., IV, pagg. 215-216.
(2) Seguendo Luc. IX, 23, come Don Bosco insisteva a notare. Cfr. Mem. Biogr., II, pag. 510.
(3) CRISPOLTI, op. cit., pagg. 109 e 145.
(4) « Chi fa penitenza contro l´obbedienza, progredisce più nei vizi che nella virtù », dice S. Giovanni della Croce; e lo cita anche S. Alfonso nella Praxis, n. 145.
(5) Anima incipiens vellet onerari mortificationibus. Director aegre illas permittat... Ab initio exigat oboedientiam. E la Praxis- di S. Alfonso ai num. 145, 146. Dove è pur detto che non si devono concedere mortificazioni esterne se non richieste, e sempre meno del richiesto, e che meliores mortificationes sunt negativae. Appunto come insegnava il nostro Santo pedagogo. E se vi fu per Don Bosco un punto capitale, fu quello della temperanza e della mortificazione della gola. E la .Praxis (n. 146) dice: Praecipue curet suadere mortificationem externam circa gulam.

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sopportati dal Signore a. Son parole del Faber (1), là dove conclude un elenco di cinque classi di mortificazioni esterne, quali io ho esposto abbreviando: parole che, come possiamo vedere, coincidono con quelle prima ricordate del nostro Pedagogo santo. Il che dimostra quanto sia asceticamente sano e sicuro (e per questo c´è l´autorità di S. Al¬fonso) l´indirizzo di Don Bosco, e come consono ai suoi tempi. Non è pur questo lo spirito eroico della Santa di Lisieux, che praticò « una mortificazione spinta all´infinito nelle minime occasioni » ? (2).
Il nostro libro ci parla adunque della custodia dei sensi, quale fu nel Besucco, appellandosi alla testimonianza di « chi l´ha osservato per molto tempo » ch´è lo scrittore stesso e non meno il suo maestro Don Ruffino, che ha riferito a Don Bosco tanti particolari (3); e questi « non esita ad asserire che egli si possa proporre qual compiuto modello di mortificazione esterna alla gioventù ».
Così ci si parla di ciò che lo spirito di mortificazione gl´insegna a surrogare alle penitenze corporali a lui vietate. Egli vuole esercitare
i lavori più umili della casa: « cose che egli faceva con gioia e colla massima sua soddisfazione » (4). La breve digressione didascalica, destinata ai giovani lettori, non abbassa nè impicciolisce il sostanzioso contenuto del contesto: essa non è che una prova di più dell´intento di proporre a modello quei giovani che si son fatti santi nella vita che vivono tutti. Infatti le umili prestazioni, di cui qui si parla, erano pure prescritte per gli studenti dal Regolamento del 1854: « Ogni stu¬dente è tenuto a prestarsi a qualsiasi servizio che possa occorrere per la Casa: come sarebbe far commissioni, scopare, portar acqua e legna, aiutare a tavola, fare il catechismo, e simili » (5).
Senonchè l´anima fervente del santo alunno, come già quella del Savio, crescendo, per il mezzo stesso della mortificazione, nell´amore e nell´unione con Dio, sentiva sempre più il bisogno di assomigliarsi
(1) Progressi, ecc., cit., pagg. 147-148.
(2) PETITOT, op. cit., pagg. 22-27. La massima è questa: « Che la mortificazione praticata nelle minime cose, fino in quelle infinitamente piccole, è più umiliante e non meno crocifiggente di quella esercitata colle grandi pene volontarie » (pag. 25).
(3) Cfr. cap. XVI, pag. 85.
(4) Invito a leggere quel che dice ìI Faber delle glorie soprannaturali che ci acquistiamo nelle cose piccole ed umili, triviali addirittura, di cui non si fa alcuna stima. Sono tre pagine succosissime (Progressi ecc., pagg. 251-253).
(5) Mem. Biogr., IV, pagg. 735 segg. Appendice per gli studenti: Accettazione, art. 4. Si noti che erano tutti poveri. L´art. 1 dice appunto: « La Casa si adopera per aiutare costoro negli studi, sia che possano pagare in tutto o in parte la pen¬sione, oppure siano assolutamente poveri ». Di Don Bosco educatore e del suo sistema han voluto parlare anche troppi: ma nessuno ha pensato alla pedagogia del povero, ch´è per Don Bosco la creazione primordiale. C´è molto da fare e da rifare.

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a Gesù, e cioè di intensificare e moltiplicare le sue penitenze. E si lagnava, nell´aprire il suo cuore, che non gli permettessero le penitenze che pure faceva a casa sua senza danno della salute. Qui siamo tra
sportati in piena ascetica. Il Superiore rispondeva trasportandolo nella sfera della mortificazione della volontà: « La vera penitenza non con¬siste nel fare quello che piace a noi, ma nel far quello che piace al
Signore e che serve a promuovere la sua gloria » (1). Essere ubbi
diente e diligente nei propri doveri, usar bontà e carità coi compagni, sopportare i loro difetti, dar buoni esempi e consigli, sono cose che
piacciono al Signore più d´ogni altro sacrificio (2).
Dicendogli questo, Don Bosco non ignorava che già il suo disce
polo l´andava praticando; ma voleva inculcare e confermare in lui, e più ancora negli altri che leggerebbero, il suo principio spirituale
del dovere santificante. Un´anima, come quella del Besucco, presa dal vero fervore, ch´è insomma amor di Dio, « slanciasi sui suoi doveri, come il rapido e tacito falco piomba sulla preda, e di nuovo è in
alto, librato sui suoi vanni,... e così lavora prontamente e senza posa al suo dovere attuale » (3).
Ma, come già dicemmo, per queste anime la mortificazione è una delizia e una necessità (dico di quella esterna e sensibile, a cui diffi¬cilmente rinunziano i Santi, e neppure Don Bosco rinunziò) (4), e
il Besucco si trovò appunto preso fra due, tra l´obbedienza e il fervore. Accade allora qualche cosa di somigliante al caso di S. Luigi, obbe¬diente fino alla lettera. Anche il nostro prende letteralmente ciò che gli vien detto, ed obbedisce, nonché al precetto, ma al semplice consiglio. A dicembre inoltrato, già nella Novena di Natale, è tro¬vato da Don Bosco in giubbetta da estate, smorto pel freddo, mentre
ha pure in camera gli abiti d´inverno. Perchè ? « Eh... pel motivo ch´Ella sa: sopportare il freddo nell´inverno per amor del Signore » (5). E bisogna comandargli di vestirsi a dovere e tenersi ben riparato
dalle intemperie della stagione. Ingenuità, diciamo noi, o poca testa, direbbero altri. Ma quante di tali ingenuità non ebbe S. Luigi nel
(1) Capo XXIII, pag. 123. Cfr. Vita di Savio Domenico, XV, 75.
(2) Capo XXIII, pag. 123. TANQUEREY, op. cit.: Le opere di penitenza, nn. 747-748, coincide perfino nell´allegazione dei testi. Così il FABER, loc. cit., a pagg. 147-148.
(3) FABER, Progressi, ecc., cit., pag. 420.
(4) Mem. Biogr., vol. IV, cap. XIX. Ma ai suoi giovani, e del resto ai suoi Salesiani, fatti pel lavoro, doveva necessariamente proibirla o limitarla. E non la permise.
(5) Così il Savio, cap. XV, pagg. 73-74.

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l´obbedire ? (1). E sarà la medesima letteralità dell´obbedienza quella che aprirà al fervore il passo per l´eroica imprudenza che lo condurrà
alla tomba.
Il tema intrapreso si continua dopo i tre capitoli episodici che
intramezzano il filo del discorso, e dobbiamo correre alla fine del capo XXVI, dove ha trasportato il tratto conclusivo, certamente per potersi rannodare col racconto della malattia fatale appunto occasio¬nata dall´e eccessivo amore alle penitenze ».
Ma il pensiero è uno. Tutto il detto fin qui mette capo alla vita interiore di quello spirito che, accelerando i tempi, si affina ed innalza. Tempi accelerati, diciamo: giacche in cinque mesi è giunto al segno che « il cuore di Besucco non sembrava più di questo mondo, ma di chi cammina coi piedi sulla terra, e che abbia già l´anima sua con Dio, di cui voleva continuamente parlare e scrivere » (capo XXVI, pag. 147).
Così era avvenuto, per non dir del Savio, a Michele Magone, che in pochi mesi Don Bosco trovò tutto rinnovato ed avviato « ad un meraviglioso grado di perfezione » (2).
Questa è pietà, questo è il fervore; ed è necessariamente congiunto col distacco dalle cose terrene, che altro non è se non la mortificazione « per cui il fervore lascia sfogo al suo ardore » (3). E lo dice appunto Don Bosco: « Col fervore della pietà cresceva eziandio l´ardore di allontanarsi dal mondo ». E non è, si noti bene, soltanto un distacco ideale di spirito e di affetti: è volontà, bisogno di sacrificio e di soffe¬renza, per strapparsi dalla terra e dall´umano, e sentirsi con Dio. Giustamente, e qui lo comprendiamo, i maestri dell´ascetica senten¬ziano che « lo scopo della mortificazione è l´unione con Dio » (4). E Don Bosco riferisce: « Se potessi, diceva talvolta, vorrei separare l´anima dal corpo, per meglio gustare che cosa voglia dire amar Dio ». E ancora: « Se non ne fossi proibito, diceva eziandio, io vorrei cessare da ogni alimento per godere a lungo il grande piacere che si prova a patire pel Signore. Che grande consolazione hanno mai provato i martiri a morire per la fede! ».
« Desiderio e amore di soffrire per Dio » è il terzo e più alto grado dell´esercizio della pazienza: quello proprio dei perfetti (5).
(1) cRispoure op. cit., pag. 148.
(2) Vita di Magone, cap. IX.
(3) FABER, Progressi ecc., cit., pag. 419. Si noti la coincidenza delle parole, nonché del concetto, tra il teologo inglese e il nostro Pedagogo spirituale: prova dell´affi¬nità di spirito tra i due scrittori, che certo non si conobbero.
(4) TANQUEREY, op. cit., n. 754.
(5) TANQuERE-y, op. cit., nn. 1091 e 765.

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Ed è questo che strappa a Don Bosco il suo nuovo insomma, che colloca quell´anima nelle sfere del più limpido e ardente amore di Dio: «Insomma egli e colle parole e coi fatti manifestava quanto già diceva S. Paolo: "desidero di essere disfatto per essere col mio Signore glo¬rificato" (1). Dio vedeva il grande amore che regnava in quel piccolo cuore, e affinché la malizia del mondo non cangiasse il suo intelletto,
volle chiamarlo a sé ».
E per salire a Dio ecco l´eroica imprudenza dettata da « un ecces
sivo affetto alle penitenze »: eccesso così incolpevole, che Dio lo
premia con una fine miracolosa.
Don Bosco, noi lo sentiamo, non ha scritto questa pagina senza
commozione. Ma potremmo dire anche non senza un senso di stupore, al contemplare quelle meraviglie nello spirito di un fanciullo. Già nella Prefazione chiedeva « benevolo compatimento » per la « troppa compiacenza nello esporre le relazioni che passarono tra me e lui ». Ebbene, e ce lo perdoni il Santo, noi vorremmo che, qui almeno, ci avesse detto di più: che cioè spiegasse per quali vie potè egli condurre il giovanetto tredicenne dell´Argentera a tali altezze di sentimento.
Il lavoro di Don Bosco non abbisogna di troppe definizioni: si vede e si comprende. Egli ha spiritualizzato in lui la mortificazione, lo spirito indefinito di penitenza, con innalzarlo fuori e sopra l´istinto della ricerca del soffrire, al superiore e più delicato lavoro della for¬mazione interna, all´esercizio della penitenza spirituale. Lo ha portato, come s´è visto, su d´un piano più alto e meno comune, e per avventura, più adatto a sentire la vicinanza di Dio. Il giovanetto, educato dalla sua pedagogia da Santi, non è un uccellino che gli sfugge di mano: egli lo ha addestrato al volo, e se un bel momento vola più alto che non avesse provato, quella è la meraviglia della grazia di Dio (2). E qual è quel Santo che non abbia dovuto stupire e commuoversi alle improvvisate della grazia ?
Noi vorremmo bene veder senz´altro quel volo dove termini e riposi. Sarebbe la continuazione d´un tema che, quanto più si svolge, e più ci conquista e persuade. Ma lo scrittore non si dimentica, e, per volersi affrettare allo scioglimento, non tralascia i tocchi della realtà comune e quotidiana, che meglio avvicinano il soggetto a chi
(1) Phil. I, 23: Desiderium habens dissolvi et esse cum Christo, multo magis — Sap., IV, 11: Raptus est ne malitia mutaret intellectum eius.
(2) E infatti nell´ultimo capitolo (Conclusione) Don Bosco accenna alle mera¬viglie del Signore ne´ suoi servi » (pag. 179).

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lo contempla. E si hanno così tre capitoli, ch´egli stesso dice bene non aver relazione con l´ordine dei temi finora seguito per logica connessione, ma che non sono meno utili alla conoscenza intima e alla concretezza della rappresentazione biografica.
Intanto l´averlo figurato come tutto preso dallo spirito di preghiera e di mortificazione, non deve farlo credere nè un musone insocievole nè un raffinato prezioso. Egli è « gioviale e faceto » anche nel racco¬glimento abituale, ed è, col suo scarso vocabolario, il poeta dei nostal¬gici ricordi della bella imponente natura e della vita arcadica vissuta tra i suoi monti. Chissà, se col tempo si fosse potuto impadronire d´una letteratura, se non avrebbe scritto con arte quello che allora diceva con ingenua oggettività ? E quel suo ragionare coi proverbi del buon popolano, come già pregava con le informi rime popola-resche, ce lo mostra capace di moraleggiare con un precoce buon senso, che sta a prova della sodezza del suo spirito.
Gli episodi sono comuni anche ad altri, e gli accenni alla sua condotta sono l´eco dei precetti che Don Bosco veniva impartendo nelle sue parlate. Contento delle disposizioni dei superiori, dell´orario della casa e della scuola, e, si noti, contento « degli apprestamenti di tavola » che fu una delle cose più raccomandate, sempre e a tutti, dal buon Padre. Condotta esemplare adunque, e rispondente ai mi¬gliori desideri degli educatori: ma in lui elevata a spiritualità, giacché, diceva, « io desidero far tutto a gloria di Dio, e quello che non piace a me, tornerà certamente gradito a Dio: quindi ho sempre motivo d´esser contento » (capo XXIV, pag. 126).
Ho accennato alle parlate di Don Bosco: quelle « buone notti » che, quando si son potute conservare, sono rimaste documenti esem¬plari della sua pedagogia. Tutti sanno la parte ch´esse avevano nel suo lavoro educativo, e come il Fondatore dell´Opera Salesiana ne abbia fatto un precetto capitale della vita pratica delle sue Case. È una delle più care e tipiche tradizioni della salesianità. Le pagine che veniamo esaminando, ci dànno una prova della penetrazione che quelle parole trovavano nei suoi figliuoli; e un´anima, come quella del Besucco, non poteva non collocarle nel patrimonio delle sue idee e convinzioni. E fa piacere potere una volta tanto accostare con docu¬mentaria sicurezza la realtà di codesta corrispondenza. Invero, il dialogo, qui riferito, tra il santo discepolo e i suoi compagni, che altrimenti potrebbe all´occhio d´un critico sottile apparire come una didascalia esemplata, il dialogo corrisponde nel senso (e qua e là anche verbalmente) con una buona notte detta da Don Bosco nei mesi in cui il nostro giovane era all´Oratorio. La riferisce, con altre quattro dette in agosto-settembre 1863, la Cronaca di Don Bonetti,

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passata nelle Memorie Biografiche (1). È una parlata severa (è la terza) sullo scrivere a casa menzogne e lagnanze, e sul brontolare e fare il sornione. Un´altra, dello stesso senso e tono, è del 9 maggio 1864, detta quando Don Bosco stava appunto scrivendo queste pagine, uscite per il luglio successivo (2).
Il dialogo è tra il Besucco e « alcuni compagni da poco venuti nella Casa, (che)... non potevano abituarsi al nuovo genere di vita a. Egli
risponde a battuta alle loro difficoltà e malinconie, colle ragioni reali¬stiche del buon senso e con riflessi religiosi, alternati o congiunti.
Tra l´altro: « Del rimanente, non hai udito ciò che ha detto il nostro Superiore ?... Ieri, fra le altre cose, ci ha detto che egli tiene volentieri i giovani, ma vuole che nessuno stia per forza. Chiunque non sia contento, egli conchiudeva, lo dica, e procurerò d´appagarlo. Chi non vuoi restare in questa casa, egli è pienamente libero, ma se rimane, non dissemini il malcontento, ci stia volentieri, tanto più che gli altri nostri compagni si mostrano contenti a. Ho sottolineato le espressioni che coincidono con la parlata di Don Bosco. Ma nella tela del dialogo ricompaiono un po´ per tutto spunti e ragioni che ad un lettore delle Memorie tornano familiari.
C) Così Don Bosco rivive nei suoi discepoli. Nè meno si avverte il riflettersi della sua educazione civile e cristiana nel breve carteggio del Besucco riferito in apposito capitolo (capo XXV), dove l´esempio di lui dà occasione ad un breve ammonimento ai giovani, affinchè le loro lettere siano sempre « senza umano rispetto e condite di reli¬giosi e morali pensieri a. Piace anche qui segnalare un´altra concor¬danza. È del 1861, sul principiare dell´anno scolastico, un foglio autografo di Don Bosco, dove spiega ai suoi maestri, in nove brevi e sommari articoli, in qual modo debbano far scrivere agli alunni le lettere alla famiglia, e ne traccia il tenore (3). Quella tradizione si mantenne lungo tempo, e la cura dello stile epistolare formava uno dei punti del programma scolastico, ancora ai tempi in cui chi scrive era allievo di quelle scuole. Del resto vi insistevano anche i pro-grammi ministeriali. Per verità le lettere così condotte, e i temi che
(1) Mem. Biogr., vol. VII, pag. 505.
(2) Mem. Biogr., vol. VII, pag. 665. Vien da pensare che, scrivendo del Besucco, sia venuta a Don Bosco l´idea di toccare nella parlata della sera quell´argomento. Tanto più che in quel tempo era poco contento della frequenza ai Sacramenti, come abbiamo altrove notato. Cfr. ivi, vol. VII, pag. 675: dice. 13 giugno.
(3) Mem. Biogr., vol. VI, pag. 1047.

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si assegnavano da trattare in tal forma, non permettevano molta libertà letteraria, ed erano tutte d´un medesimo stile collegiale; come,
bisogna dirlo, non facevan di meglio gli analoghi componimenti epistolari, ch´erano allora di prammatica in tutte le scuole (1). Ma
qualche vantaggio se n´aveva, non foss´altro che per la disciplina dello scrivere posato e corretto. E tanto maggior bisogno n´avevano gli allievi dell´Oratorio, quasi tutti provenienti dalla campagna, dove le lettere (non intendo la letteratura) non correvano come adesso.
Queste del Besucco non sono certo capolavori di stile, ed hanno la naturale quadratura (qua e là anche il frasario) insegnata nelle scuole: ma per uno scolaro principiante di seconda ginnasiale, che ha fatto la prima in due mesi, e proviene dal paese che sappiamo, sono un buon documento del suo profitto. A quel tempo, la maggior parte dei suoi condiscepoli più scolasticamente preparati non avreb¬bero fatto di meglio.
Ma il contenuto, i pensieri, i sentimenti sono suoi, e vi troviamo un´oggettività, una delicatezza e uno spirito, che le mette fuori del volgare tipo scolastico; tanto che Don Bosco ne loda « la semplicità, e la tenerezza d´affetto », e più oltre (pag. 142) ne darà un giudizio anche più prezioso. Per esempio, quella del 27 settembre al Padrino, ricorda uno per uno i motivi di gratitudine che ha verso di lui, mas¬simo dei quali l´averlo mandato all´Oratorio, dov´egli è «pienamente felice » e ne vuole persuasi anche i parenti. E vi sono spunti gentili, come quello della comunione della sorella fatta per lui, e così gio¬vevole per l´esito dei suoi studi, e quell´insistere che fa sul suo tro¬varsi bene e provvisto di tutto, con lo scopo di tranquillare quei di casa.
Non meno pregevole e affettuosa è la lettera del 26 ottobre al padre, già partito per la sua odissea d´arrotino: il buon figliuolo lo accompagna con le sue preghiere. E bonariamente gli spiega che il pane non gli manca, e come sono trattati (lo spunto faceto della panata è un tocco veristico assai vivo): e lo consola con Ie proprie buone notizie di condotta, riflesse nella soddisfazione dei superiori. C´è in tutto il dettato un tono che non abbisogna di punti esclamativi per dire finalmente un affetto.
Altra lettera al Padrino è del 23 novembre. È una risposta. L´af¬fetto si espande nella gioia dell´aver ricevuto da lui una lettera, e di qui trapassa ai sensi di gratitudine; e poichè questa egli la porta
(1) Chi, della vecchia generazione, non ricorda le lettere di consiglio, di rag¬guaglio, di scusa, d´annunzio, ecc., che avevano il loro bravo paragrafo precettistico nei manualetti scolastici ? E il manualetto delle Lettere, di Costantino Coda, stam¬pato dal Paravia ?

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davanti a Dio, è bello vedere che per pregare scappa in chiesa dalla ricreazione, ma vi si trattiene poco, perché anche la ricreazione è un dovere « comandato dai superiori » (1). E poiché il buon Padrino l´ha consigliato a cercarsi un buon compagno, gli dà la notizia d´averlo subito trovato: « migliore di me nelle cose di studio, ed anche assai più virtuoso ». Ed hanno fatto « grande amicizia » e non parlano « che di studio e di pietà ». È una prova che nell´Oratorio i giovani buoni e santi non erano pochi, e quelli che Don Bosco ricordò nei suoi scritti sono le figure più vistose di tutta una florida classe. Pensiamo a quell´anima bella di Giulio Barberis, allora studente di ginnasio, che l´anno appresso fu vestito chierico, e la cui vocazione non è infondato credere sia stata potentemente determinata dall´impressione riportata alla vista della meravigliosa morte del Besucco (2). E, come l´Autore osservava altrove, quell´interesse che il suo alunno qui rivela nello studio, con destinarvi parte delle sue conversazioni in cortile, portava i frutti già accennati: a fine novembre il buon montanarino era già, nella sua classe, il 160 di 90, cioè più presso ai primi che ai mediocri. Eh! quanti di tali rudi ingegni di figli della campagna, impacciati sul principio, abbiamo visto col tempo sgropparsi e schia¬virsi, e finalmente primeggiare!
Ed ecco, acclusa con questa, una letterina ad un Antonio Beltrandi, della compagnia del Valorso al paese, che forse farà la stessa strada del Besucco, giacche vuol venire a Torino, e l´Arciprete fa scuola anche a lui come già al Nostro. Piace all´Autore riferirla, perchè « l´ordine, la dicitura, i pensieri » meritano d´esser proposti « a modello delle lettere che si possono scrivere vicendevolmente due buoni gio¬vanetti ». Un per uno, i periodetti, brevi e naturali (Don Bosco fu sempre nemico, per sè e per i suoi, dello stile prezioso), parrebbero altrettanti tocchi di autoritratto. Ciò di cui si rallegra, quello che raccomanda all´amico, sono già un fatto per lui stesso. Come il venire a studiare all´Oratorio, e l´aver scuola dall´Arciprete, cosi il « com¬pensarlo con la diligenza », così, accanto allo studio, « metter subito la preghiera e la divozione », unico mezzo per ben riuscire in tale
(1) Non è questo il sentimento di S. Luigi, quando si dichiara pronto a morire anche facendo ricreazione, perchè sta facendo un´obbedienza ?
(2) D. ALESSIO BARBERIS, Don Giulio Barberis, cenni biografici e memorie (S. Be¬nigno, 1932), pag. 18. Fu prediletto da Don Bosco, che lo volle, appena prete, Maestro dei novizi e dei chierici, e per 40 anni durò in tale ufficio, formando da santo le nuove generazioni dei Salesiani nello spirito antico del Santo Fondatore. Morì a 81 anni, direttore spirituale della Congregazione, nel 1931. Sono prezio¬sissime le Memorie da lui lasciate in una sua Cronachetta, inedita, che si conserva nell´Arch. Capitol. Salesiano.

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impresa « ed esserne poi contento », sono cose già vedute nel Besucco che scrive. Non altrimenti ci stanno i consigli, anzi il consiglio, « uno solo »: della « ubbidienza e sottomissione ai parenti e al signor Arci¬prete » e la raccomandazione del buon esempio tra compagni.
Ed è tanto vero che la lettera ritrae lo scrivente, ch´egli lo prega di sostituirlo durante l´inverno nella sua pia funzione di guida della Via Crucis dopo le funzioni. E raccomanda di apprezzare e occupar bene il tempo, e impiegar le ore libere a radunar fanciulli e far ripetere la dottrina. E si fa un rammarico, pensando « al tempo che ha speso invano, e che avrebbe potuto spendere nello studio e in altre opere buone ».
È un pensiero da anima progredita. Don Bosco deve averlo sentito, giacché subito dopo è indotto a far riflettere chi legge sul valore che hanno queste lettere. A suo giudizio vi « apparisce la gran pietà che nel cuore nutriva Francesco », e tutt´insieme vede che « ogni suo detto, ogni suo scritto, è un complesso di teneri affetti e di santi pensieri ». È una sentenza da mettere accanto alle altre definizioni precedenti, che portano la figura spirituale dell´umile alpigiano ad altezze impen¬sate e non comunemente raggiunte.
L´ascesa dello spirito si fa più visibile coll´approssimarsi della fine. « Sembra tuttavia — dice Don Bosco — che di mano in mano che s´avvicinava al fine della sua vita, egli divenisse più infiammato d´amor di Dio » (capo XXVI). Il tuttavia è eloquente, e vuol dire cioè che se già prima poteva darsi di lui quella definizione che s´è detta, in quel complesso di fatti operava un amore di Dio che ormai, dive¬nendo più ardente, si rivelava per l´indefinito presentimento della fine. E noi diciamo, così di passaggio, che solo l´intuizione di un Santo discernitore degli spiriti, poteva darci una psicologia così sottile, quale si dimostra in queste pagine.
Quel presentimento, unito alle tenere espansioni del cuore, non rimane celato all´occhio amoroso e penetrativo del Padrino. Al 28 di¬cembre il giovanetto manda a lui e alla madre gli auguri di Capodanno. Sono le due ultime lettere, e in paragone delle altre segnano anche un progresso letterario. Fors´anche si avvera qui il detto di Quinti¬liano: Inzperitis quoque, si modo sunt aliquo affectu concitati, verba non desunt (1). Ma siamo in ben altro campo da quello della letteratura. Al Padrino, nonostante la forma un po´ scolastica dell´inizio, subito
(1) Institut. Orat., lib. X, 6, 2.

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esprime i suoi sentimenti caldissimi di riconoscenza, quasi racco¬gliendo insieme, in un ultimo ricordo, tutto quel che di bene ha ricevuto da lui. È una storia di carità umana e spirituale, rievocata da un cuore che tutto comprende e non dimentica. « Fin dal giorno ch´io nacqui ella cominciò a beneficiarmi, a prendersi cura dell´anima mia. Le prime cognizioni della scienza, della pietà, del timor di Dio, le debbo a Lei. Se ho fatto qualche corso di scuola, se ho potuto fug¬gire tanti pericoli dell´anima mia, è tutta opera dei suoi consigli, delle sue cure e sollecitudini » (pag. 143). Non si poteva dir meglio da nessuno. E quel che segue contiene una rivelazione velata del suo presentimento: il giovanetto ricorderà sempre i benefizi ricevuti: e « in questi pochi giorni mi adoprerò con tutte le forze ad augurarle copiose benedizioni del Cielo ». Le parole da noi sottolineate stavano così già nella prima edizione (pag. 144), volendosi appunto vedervi come il presagio della fine.
Il resto intende a dar buone notizie degli studi e della condotta, che « nello studio, nel dormitorio, nella pietà, fu sempre optime ». E c´è come il senso del congedo in quel far chiedere r erdono al maestro Valorso dei dispiaceri datigli, e nel chiederlo al Padrino per tutti i disturbi che gli ha cagionato. L´anno nuovo egli vuol « cominciarlo » colla volontà del Signore, e « continuarlo secondo la santa sua volontà », dice nel corpo della lettera, e la chiude dicendo: « Sia per sempre fatta la volontà di Dio e non la mia ». Una giaculatoria, che nel fatto prende un valore tutto proprio. « Mio figlioccio mi vuole abbandonare : Iddio lo vuole con sè », esclamava il buon Arciprete interpretando quella lettera: ed invero così si scrive quando nel lasciare una persona amata si sente il cuore pieno ed affiorano in un sol punto i ricordi.
E viene « come iI testamento » lasciato ai suoi genitori, la lettera alla madre, « le ultime parole scritte ai suoi genitori ». È la fine d´un anno passato bene coll´aiuto di Dio, che per lui fu « una continua serie di celesti favori ». Augura di finir bene i pochi giorni restanti e di cominciare e continuare Fanno nuovo « ricolmo di ogni sorta di beni spirituali e temporali ». Nulla di particolare, come si vede, salvo l´intonazione religiosa e il ricordo dei favori avuti da Dio. Ad una notizia privata, segue il pensiero riconoscente pei « fastidi » dati prima e presentemente, che compenserà con la condotta e le preghiere. E il pensiero amorevole e pio alla sorella, dove prega che la mandino a scuola « perché colla scienza può assai meglio istruirsi nella religione ». Notevole invece è la chiusa della lettera, ch´è senz´altro un´esorta¬zione da intendersi come ottativa, cioè come espressione di un proprio proposito: « Offriamo al Signore le nostre azioni e i nostri cuori, e

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a lui raccomandiamo in particolar modo 1a salvezza delle anime nostre.
Sia sempre fatta la volontà del Signore a.
Ancora una volta la giaculatoria. Che fosse un segno di presenti
mento ? Certo era in lui ormai il pensiero che dominava tutta la visione amorosa dell´anima sua, fattasi tutta di Dio, e conformata totalmente alla divina volontà. Il che, a detta dei maestri di spirito, è il termine del cammino di perfezione, anche se vogliamo contenerci
nelle misure possibili all´anima d´un adolescente (1).
Don Bosco ha perciò buon mezzo e ragione per collegarvi, come
a compendio, quella conclusione del tema della mortificazione, ch´egli ora può far vedere non essere che un distacco dal mondo e un cam¬mino verso Dio, fino al desiderio di essere con lui glorificato. Vi sta bene quell´insomma che noi abbiamo trovato come la definizione di una condizione spirituale che non conosce più che l´amore.
E allora, pensando con Dio, vediamo giusta la fine, che altrimenti sarebbe prematura (2).
(1) TANQutREs-, op. cit., pagg. 492, 1232-1235.
(2) A me pare che, letto così, il libro riveli in Don Bosco ad un tempo lo scrittore sapiente che ha approfondito la scienza dei Santi, e il Santo che sa le cose di Dio. Dico bene ?

PARTE TERZA
LA FINE TRIONFALE

CAPITOLO I
Le rivelazioni dell´amore
La conclusione precedente ci vale di ottimo trapasso alla presen¬tazione dell´ultima parte della vita che veniamo studiando: un´ora breve, che vale tutta la vita, perchè la compendia, la compie, la per¬feziona, ed anzi la spiega ed illumina tutta. Chi ci ha seguiti, attende di vedere dove si appunti tutta la preparazione e l´ascesa, che la pedagogia spirituale, collaborando con la grazia di Dio, ha predisposte e guidate fino alla rivelazione finale. Ci si può dispensare dal rievocare i momenti, le tappe di questo mirabile cammino, che ci siamo studiati di descrivere: ma non si può, a questo punto, far a meno del ricorso al soprannaturale. Non solo perchè tale è evidentemente la mèta a cui fu volta l´anima del nostro giovanetto nella sua storia di lavoro interno e nel suo graduale perfezionarsi e ascendere: una storia, come quella di molti Santi (e, più che mai, di quelli fatti sul tipo di Don Bosco) (1), fatta di atti e aspetti umani e di valori divini; ma perché qui l´intervento del soprannaturale è innegabile e palese, non potendosi, con la sola psicologia umana, spiegare gli atteggiamenti di quello spirito; mentre bisogna confessare che, nei suoi ultimi giorni, quel¬l´anima ebbe dall´alto una nuova e più intima e profonda comuni¬cazione di amore e di luce, alla quale la vita precedente certo aveva aspirato, ma che solo un gesto della grazia gli poteva concedere. Vi è in questo qualche somiglianza con S. Luigi, fatto, fin dal principio, preda di Dio, e riuscito a fondere nell´amor di Dio tutta la vita (2). Nel
(1) Tale è classicamente (e l´ho scritto) la santità di S. Mazzarello, e tale apparirà, quando la Chiesa si sarà pronunziata, la figura spirituale di Don Michele Rua.
(2) CRISPOLTI, op. cit., pag. 105 e segg. L´idea è presa dal Segneri, che vede in ciò l´origine divina di quel « trasporto d´un interno istinto di congiungersi stret¬tamente con Lui ». E il Segneri, a saperlo leggere, dice di gran belle cose!

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Besucco l´azione dell´amor di Dio, senza la quale non esiste santità, si è venuta manifestando a lui stesso a piccoli passi, finchè nella sua fine si è dichiarata per le sue stesse parole; e come è, fino a un certo punto e in più tratti, un tipo aloisiano nel resto, così nell´esito della vita si assomma e palesa il recondito movente del suo divenire, ch´è L´amor di Dio per lui (« prediletto dal Signore » lo disse il Santo biografo) e di lui per Iddio. Si vedrà in seguito che questo ravvici¬narlo al Gonzaga non è senza ragione.
Gli ultimi capitoli della Vita si staccano pertanto da tutta la storia precedente per questo dominio del soprannaturale, o, se si voglia, per il tono dominante, ch´è l´amore. Gli ultimi pochi giorni e gli estremi momenti del santo giovane non offrono nè angustie, nè terrori, né lotte: sono passi sempre più accelerati verso il congiun¬gimento con Dio, fino al momento in cui vi s´immerge per sempre. Non è rettorica di parole, è storia di fatti, ed è saputa da lui stesso che si è il soggetto.
Quella di Magone era stata non una morte, ma « un sonno di gioia che porta l´anima dalle pene della vita alla beata eternità » (1). Quella del Besucco è un abbandono all´amore.
Quella del Savio ? Ecco. La serie dei capitoli che nel Magone e nel Besucco descrivono gli ultimi loro giorni e le ultime ore, nel Savio manca del tutto. Noi sappiamo perchè. Il santo di Don Bosco andò a morire a casa sua, e della sua fine si sa queI tanto appena che il padre e pochi altri han potuto riferire (2). Perfino Don Bosco man¬cava. Che questa sia stata una felice disposizione della Provvidenza, assecondata, non ne dubito, per un impulso interiore, da Don Bosco, è quanto appare poi dalle vicende della sua gloria postuma. Noi non pretendiamo di leggere nei voleri di Dio, ma possiamo interpretarli. A conoscere la santità del Savio non occorreva più il santo dramma che involge la fine degli altri due: per questi gli ultimi giorni e il modo del morire vengono a rivelare quel che la vita da se sola non bastava a definir pienamente. Il Savio, foss´anche mancato repenti¬namente, restava il santo che fu, e ognuno l´avrebbe tenuto per tale. Quel che si sa dei suoi ultimi giorni e della morte è la continuazione dello stato precedente ed ormai abituale della sua santità.
(1) Vita di Magone, cap. XV, pag. 86.
(2) Vita di Savio Domenico, cap. XXV (la ediz.: XXIV).

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Che anzi nel Besucco interviene il fatto di una nuova e perficiente operazione della grazia di Dio: la quale allora, come non prima, compie e perfeziona la sua santità. La fine del nostro giovane non termina solo e conclude la vita, bensì vi aggiunge nuovi valori, e segna un passo più inoltrato, l´ultimo che a lui restava da fare, per rag¬giungere quella misura di santità che la grazia di Dio gli aveva
predestinata.
Sta in questo il senso proprio della fine dei nostro giovanetto,
e l´Autore che la descrive ce ne dà piena contezza. Nei capitoli che il libro vi destina, la storia esterna della malattia e morte del giovane, e della presenza di. Don Bosco, s´intreccia con la storia interna di un distacco sovraterreno, di un desiderio di Dio, ch´è una quasi bramosia d´amore, espressa dalla magnifica parola, ch´è ad un tempo il volo
di quell´anima.
In queste cose la storia naturale dello spirito e delle sue operazioni
non si adegua alla realtà, e bisogna leggere col dizionario del sopran¬naturale (1). Così noi seguiamo il racconto passo passo, lasciandoci condurre dal narratore santo, che getta fasci di luce rivelatrice sul recondito lavoro della grazia divina.
Un « eccessivo affetto alle penitenze » conduce il Besucco a rico¬piare in sè la santa imprudenza di Savio Domenico (2): e con quella ingenuità d´interpretazione che gli aveva fatto affrontar l´inverno di Natale con gli abiti estivi (e allora credette che l´ordine di coprirsi fosse solo per gli abiti di giorno e non per la notte), si priva dormendo delle coperte di lana, e si procaccia una classica polmonite, che Io rapisce in capo ai consueti sette giorni, dal 2 al 9 gennaio (capo XXVII). « Quando Gesù pendeva in croce, non era meglio coperto di me », dice per tutta spiegazione. E comincia il decorso della sua malattia.
Ed è un poema di sette giornate. 2 davvero straordinaria e mera¬vigliosa, e non spiegabile con i concetti comuni, la calma serena e nobile di questo giovanetto che sente avvicinarsi la morte, e le va incontro con un sorriso sovrumano che esprime un desiderio celato sempre in fondo al cuore: di soffrire per amor di Dio fino a morirne.
(1) Questo sia detto perchè, prima di volgermi a questo aspetto, ho voluto esplorare l´altro dizionario, quello della scienza psicologica (che modestamente non mi è sconosciuto), e me lo sono sentito mancare. Lo stesso ha detto l´Orestano per Don Bosco, nel suo discorso sul Santo Don Bosco, più volte citato.
(2) Vita di Savio Domenico, cap. XV, pag. 74.

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Ce lo fa ben intendere il suo biografo nella pagina che precede, ed è la conclusione del tema della mortificazione (capo XXVI).
Perchè tutto il meraviglioso di questo poema (dico meraviglioso nel senso letterario), voglio dire l´inattesa rivelazione morale e l´in¬tervento diretto di Dio, soprannasce, è vero, sulla vita precorsa, ma non è senz´avere fondamento in questa, ed è cioè predisposta dal lavoro interiore con cui quell´anima si era venuta preparando, come se in un terreno adatto e predisposto si getti il nuovo seme. Ciò è conforme ad ogni teologia e, praticamente, alla storia dei Santi (1). E noi abbiam veduto nel Besucco il decorso della vita interiore, spesse volte, e nei suoi momenti capitali, avvertito da Don Bosco, il quale seguiva con l´occhio dello spirito la vita spirituale del suo alunno. Sotto quell´apparente ruvidezza del buon montanarino palpitava quel¬l´operare coll´interno che Maria Maddalena de´ Pazzi assegnava come ragione dell´altezza gloriosa di S. Luigi (2). Nella settimana mera¬vigliosa quella preparazione, quella seminagione, diede i suoi frutti, abbelliti dal sole di Dio, che si riflette anche sul passato e ne -palesa
i segreti. In questo senso, ed anche con l´innegabile dispiegarsi dello straordinario e del meraviglioso, può dirsi che la morte del Besucco è l´esito, l´eco rispondente alla vita.
Tuttavia è sempre vero che la psicologia di questo giovanetto nei suoi giorni estremi ci appare in una forma nuova ed ispirata ad una
visione più alta e perciò ad un sentire sopraterreno. Quei frutti, visti ora ad un tratto, ci meravigliano, e la morte non è solo significativa
della vita, ma va più in alto della vita manifestata. Sono virtù, sono sentimenti, sono pensieri che non ci aspetteremmo, se non pensando ad una maggior vicinanza di Dio.
È intanto il fatto d´un fanciullo che soffre a morte, e non piange e non si lamenta mai (capo XXVIII, pag. 151-152). E prende tutto
in bene, e si fa amabile e grato ad ogni piccolo servizio (3): quel che affligge, quel che spiace alla natura, l´accoglie e l´accetta come un nulla « in confronto di quello che dovrei patire per i miei peccati ».
(1) Non c´è in questo genere il Deus ex machina, neppure per le improvvisazioni della grazia di Dio. O vorremo che si largisca una visione della Madonna ad uno che non ha mai pensato a Lei ? S. Paolo fu colto sulla via di Damasco dal Gesù che egli combatteva: ma. il fondamento c´era in quello zelo che sbagliava nell´og¬getto, abundantius aemulator existens paternarum mearum traditionum (Gal. I, 14).
E volse il suo zelo a predicar. Gesù Cristo. —
(2) IVIEsuFtLER, S. Luigi Gonzaga, ediz. ital. S.E.I., pag. 271.
(3) FABER, Conf. Spir., alt., pag. 49: « La grazia- opera una fusione del patire e della bontà così armoniosa, che forma uno dei lineamenti più attraenti della santità ».

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Ed è già molto per l´edificazione. Ed anche per l´aspetto spirituale, quando si pensa che il sentimento che in lui sta al fondo di tutto è il desiderio di Dio, e tuttavia è sempre vivo in lui iI dolore dei peccati. Anche quando erompe nella gioiosa certezza del vicino Paradiso, sempre v´intreccia l´umile ricordo dei suoi peccati, che affida alla misericordia di Dio (1). Ora è questo un contrassegno della santità più simpatica e attraente; e per i Santi è appunto il desiderio d´andare a Dio direttamente che dà in morte un nuovo valore alla contrizione (2).
Ma si va più oltre. Il desiderio di soffrire, la sete dei patimenti, che già per l´innanzi lo urgeva, e che appunto l´ha condotto alla sua santa imprudenza, trova nelle sofferenze sempre più penose della malattia il suo appagamento. E l´anima sua vi si riposa e ne gode, con quella gioia del soffrire ch´è propria delle anime viventi d´amore. Il sorriso si diffonde nel suo aspetto, e la dolcezza lo inonda, e si esprime in un detto, che ha, per la nostra natura, del sublime: « Non mi sarei mai immaginato che si provasse tanto piacere nel patire per
amor del Signore ».
Accostiamo codesto stato d´animo a quello della Teresa del Bambino Gesù, che tra il parossismo di dolori (e non soltanto fisici) ch´ella stessa chiama capaci di far perdere la ragione, conserva il suo voluto sorriso, e dice: « Non affliggetevi più per me, che son giunta a non poter più soffrire, perchè ogni sofferenza mi è dolce »: così come aveva scritto: «Oh s´,1 soffrire amando: ecco la gioia più pura » (3). È l´attuarsi in lei, come nel nostro giovanetto, del celebre pensiero di S. Agostino: « Dove si ama, più non si soffre; o, se si soffre, ancor la sofferenza stessa è amata » (4). Ed è pure lo spirito di S. Luigi. Tutti sanno della giocondità del Gonzaga nell´appressarsi alla morte, ed è rimasto celebre il suo Laetantes imus: me ne vado con gioia;
si, con gioia! Ed oltre al patire con serenità e gioia, diportandosi come non soffrisse nulla, avrebbe voluto ancora il permesso di disci
plinarsi. E quel che leggiamo del Nostro, che sorbiva senza dispiacere le bibite ripugnanti, così già in S. Luigi troviamo il fatto medesimo, col di più che sc,rseggiava lentamente. E l´uno e l´altro non vogliono pregare per la propria guarigione. Il Gonzaga dice: « È meglio esser
(1) Cap. XVIII, pagg. 153; 154; 155; 158.
(2) FABER, Conf. Spir., II, cap. IV, pag. 141. ID., Progressi ecc., cit., cap. XIX: Dolore incessante dei peccati. Cfr. pag. 309 e 317. Anche S. Luigi dimostra iI mede¬simo sentimento, quando risponde con gioia: R Vado al cielo, se i miei peccati non me lo impediscono ». Cfr. MESCHLER, Cit., pag. 245.
(3) PETITOT, op. cit., pagg. 208-209. E tutto il capitolo, da pagg. 207-213.
(4) Nam in eo quod amatur, aut non laboratur, aut et labor amatur (De bono vici., cap. XXI). Cfr. sopra, fol. 99.

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liberati ». E il Besucco: « Per la salute del corpo, non se ne parli più » (capo XXIX, pag. 162).
Il pensiero, o meglio, il sentimento che tutto e solo occupa queste anime, è il desiderio di Dio attraverso la morte: non accettazione rassegnata, né liberazione dal peso della vita, ma desiderio della morte per trovarsi con Dio, quale fu nei Santi. E la parola del Bellarmino, che sanziona colla sua autorità la gioia di S. Luigi, e questi si abban¬dona completamente al soffio della grazia, che porta l´anima sua verso il cielo (1). E il Nostro risponde all´infermiere: « Se il Signore mi volesse prendere con lui in Paradiso, io sarei contentissimo di obbe¬dire alla sua chiamata » (pag. 153). E quando è certo della sua pros¬sima fine, anch´egli si abbandona alla gioia, e grida: «Il Paradiso, e non altro: al Paradiso, e non altrove: non mi si parli più che del Paradiso! ». E a Don Savio, ridendo : « Oh! Don Savio, questa volta ci vado in Paradiso! a. Dice bene il Faber: « Nelle anime veramente sante il desiderio della morte può essere una grande grazia, ed è molto fecondo di altre grazie. Ed è quando l´anima è realmente asse¬tata di Dio, e guarda in viso alla morte come ad una porta per cui deve passare per giungere a lui » (2).
E qui entra Don Bosco. Egli conosce a fondo l´anima del suo alunno, e discerne chiaramente l´indole e la fonte di quel sentimento. Non meravigliamoci che, come sempre con i suoi giovanetti (e con gli altri), parli di Paradiso, senz´altra idea più teologica. Verrà il momento in cui la parola sarà tradotta nell´equivalente concetto, del vivere in Dio e amarlo per sempre secondo il nostro desiderio (3). Ma anche prima, egli sa benissimo in qual senso il suo figliuolo intenda la parola che gli dice. Tradotto o no, il pensiero del cielo, del Paradiso, della felicità eterna, fu la grande parola che Don Bosco ripeteva a tutti e a se stesso, come idea centrale della religiosità, come motivo animatore supremo di ogni attività nel bene, e come ricom¬pensa di ogni sforzo e di ogni pena. Una fede ben ancorata e incrol
(1) MESCHLER, Cit., pag. 234.
(2) FABER, Conf. Spir., cit., pag. 127. Nella mia ristretta letteratura non saprei indicare uno studio più completo e più profondo della psicologia e della spiritualità della Morte, che queste quattro conferenze Sulla Morte, del carissimo (per me, salesianissirno) Faber. Cfr. op. cit., pagg. 53-144.
(3) Cfr. cap. XXIX, pag. 162. È precisamente questa idea che fa andare in deliquio Savio Domenico, sentendone parlare da Don Bosco (cfr. Vita di Savio Domenico, cap. XX, alias XIX: agg. in 2a ediz.).

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labile, che faceva considerare le cose del mondo come secondarie, e poneva innanzi alla vita l´alto ideale del premio eterno, della vita con Dio. E per la santità giovanile, dove la letizia è indispensabile fondamento della costruzione spirituale, codesto pensiero è uno dei più solidi, e del resto essenziali, punti d´appoggio per le ascensioni dell´anima, come quello che addita il termine alle aspirazioni di essa santità. Vivere del pensiero del cielo, sentendolo come un´idea con¬naturata ed un presentimento, è ciò che forma l´inesprimibile felicità delle anime giovani « predilette da Dio » e (perché no ? Don Bosco lo pensava) di tutti i giovanetti in cui vive la grazia di Dio, che istin¬tivamente, e per una inconscia intuizione, si trovano orientati verso quello. E fu questo il clima nel quale crebbe la prima età della Teresa di Lisieux, e che la sostenne per quasi tutta la vita, animando serafi-camente il suo sorriso (1).
Ai suoi giovanetti adunque, nell´anima dei quali il discernimento degli spiriti gli faceva vedere la grazia vivente di Dio, Don Bosco non offerse mai le prospettive terrificanti degli altri Novissimi, sib¬bene sempre la contemplazione del Paradiso. Per quelli poi dei quali dettò le Vite, o credette che ne sarebbero degni (e non furono pochi) (2), il Santo non parlò, per annunziar la prossima fine della vita, se non di Paradiso, e con asseveranza lo presentava come vicino e sicuro. Era davvero togliere alla morte, che esso non nomina in tali casi, l´orrore e la paura naturale, e tutte le ansie e le angoscie dello spirito.
Al Magone, al Besucco, al Saccardi nel 1866, con questa visione trasforma la morte in una giornata di festa. Del Savio avvenne lo stesso, mentr´egli, lontano di persona, era presente in ciò che aveva
scritto nella mente e nei cuore del fanciullo santo (3). Tutti i giovani che Don Bosco stimò santi, tutti finirono festosamente col Paradiso in vista, appunto come finì il santo modello della gioventù, S. Luigi
Gonzaga.
Ecco il buon Padre al capezzale del Besucco, ormai in pericolo
della vita (capo XXVIII). Il dialogo, tutto intessuto di domande e risposte piene di alti valori, vuol essere tenuto come un documento della sapienza spirituale dell´Educatore e dell´altezza a cui l´anima del giovanetto è pervenuta. Le semplici e schiette interlocuzioni scambiate in quell´ora solenne ci dànno insieme la conoscenza d´una psicologia di Santi, che poggia sulla più sicura dottrina e sulla spiri
ti) PETITOT, op. cit., III, § 3, pagg. 194-195.
(2) Per esempio, interruppe la stesura di una consimile biografia, per scrivere
subito quella del Besucco. Cfr. Prefazione.
(3) Ricordiamo infatti l´episodio del deliquio, già accennato (cap. XX, alias XIX).

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tualità più squisita e più illuminata, per elevarsi ad altezze possibili soltanto a chi non vive se non di grazia e d´amor di Dio.
La delicatezza amorosa del Padre gli fa avviare il discorso annun¬ziatore della prossima fine con la domanda già fatta al Magone: « Ti piacerebbe andare in Paradiso ? a. La risposta, senza esitazioni, senza quella che si dice un´impressione, è naturale per un´anima come quella, e il Ma che vi soggiunge è prova della giusta sua spiritualità, che non scompagna il desiderio di Dio dal timore di Dio (1). « S´im¬magini se non mi piacerebbe... Ma bisogna guadagnarmelo ». E su questo, Don Bosco, si noti, non insiste. E muove la medesima domanda, colle parole medesime, che al Magone: ma qui con altro intento, di condurre il suo giovanetto a tradurre in parole l´amore che ha dentro: « Supponi che si tratti di scegliere tra guarire e andare in Paradiso: che sceglieresti ? ».
La risposta riuscì forse inaspettata perfino a Don Bosco. Il Magone aveva risposto secondo il suo carattere (2), senza pervenire al senti¬mento più maturo, e possiamo dire, nel caso nostro, più ispirato del suo imitatore. « Son due cose distinte, vivere per il Signore, o morire per andare al Signore: la prima mi piace, ma assai più la seconda ». Don Bosco avrebbe potuto qui commentarlo (come ha fatto altrove) colle parole di S. Paolo: Mihi vivere Christus est, et mori lucrum (Phil. I, 21).
Ed è meraviglioso, in un ragazzo venuto dalla montagna, e prin¬cipiante d´una seconda ginnasiale, che dunque dei maestri di spirito
non ne ha conosciuti, e le sue letture furono sempre molto umili,
è meraviglioso il pronunciarsi con tale chiarezza e, quel ch´è più, con tale squisitezza di spirito, come non ci aspetteremmo che da un
santo addottrinato. Donde gli è venuta un´idea così alta, così estranea ad ogni umano riflesso, così, diremo, tutta di Dio ? Per qual via si è compenetrato in lui il sovrano dominatore sentimento di S. Paolo ? O qual mano di maestro lo ha raffinato fino ad una tale squisitezza,, degna d´una Teresa di Lisieux ?
Io credo di non esagerare, pensando ad un tocco dello Spirito Santo, che dà la sapienza ai piccoli (3), e fa loro sentire e pensare cose che i sapienti e dotti non vedono (4). Ma l´anima vi era preparata
(1) FABER, Conf. Spir., cit., pag. 123.
(2) Risponde: « Chi sarebbe tanto matto da non scegliere il Paradiso ? » (cap. XIV, pag. 75).
(3) Sapientiam praestaus parvulis (Ps. XVIII). — Intellectum dat parvulis (Ps. CXV III, 130).
(4) Absrondísti haec a sapientibus et prudentibus, et revelasti ea parvulis (Matth. XI, 25; Luc. X, 21).

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e come in attesa: il suo operare coll´interno, per cui l´abbiamo avvi¬cinato a S. Luigi, poteva aver maturato un sentimento che ora trovava la sua parola. Don Bosco sapeva di questo « modo speciale con cui Iddio lo favorì dei suoi lumi » (Prefazione), e lavorava quello spirito, facendolo capace di accogliere le grazie di Dio. Quel distinguere tra le due cose, quel misurare tra i due valori, sa molto bene del positivo equilibrio consueto al grande educatore di anime (1): lo Spirito Santo con un raggio improvviso ne fa balzare il magnifico sovrumano sentimento.
E Don Bosco, esperto per parte sua e per contatto d´anime sante, non si stupisce (e, scrivendo, non ne fa il commento), ma al santo ragazzo, che non sa d´aver detto una cosa grande, e si ritrae umil¬mente nel timore dei suoi falli (dice: « Ma chi mi assicura il Paradiso, dopo tanti peccati che ho fatti ? »), ragiona come fu solito parlare all´ultima ora ai suoi figliuoli « prediletti dal Signore ». Ridesta cioè la fiducia fondata dell´essere in grazia di Dio, epperò sicuri di andare in Paradiso: poi dirà senz´altro la parola sua, che al Paradiso ci an-dranno, e in questa precorrente visione li tiene fino all´ultimo respiro_
Una risposta: « Facendoti tale proposta, io suppongo che tu sia sicuro di andare in Paradiso: del resto, se trattasi di andare altrove, io non voglio che per ora tu ci abbandoni ». E il giovanetto a quel¬l´andar altrove non risponde, benchè, come appare di poi, non gli sfugga: ma l´anima sua si sente del tutto tranquilla. Ma, incalzando, domanda: « Come mai potrò meritarmi il Paradiso ? ». E poi: « Ci andrò dunque in Paradiso ? ». La risposta: « Ma sicuro, e certamente: ben inteso, quando al Signore piacerà ».
Eccoci al punto. Don Bosco assicura al suo giovanetto nella forma più esplicita che andrà in Paradiso. E, come vien dal discorso che precede, senza andar altrove. È intuizione di Santo, o certezza uma¬namente (moralmente) fondata e dottrinalmente sicura ?
È tutt´insieme queste cose. Egli è stato il confidente di quell´anima, ed è certo che in essa non vi è null´altro che la grazia di Dio: e questa, Santo illuminato dall´alto, vede viva e radiosa di amore nell´anima del suo piccolo santo. Il confessore di S. Luigi, il Bellarmino, santo e dotto, ora proclamato Dottore di Santa Chiesa, non si è diportato altrimenti col suo penitente. E non solo gli conferma per dottrina
(1) Chi, essendo vissuto con Lui, non ricorda la maniera sua, nel rispondere uguale e misurato: « Ecco, vedi: si può pensare così... e si può vedere in quest´altro modo: il primo modo...; l´altro... ecc. ». A me che scrivo pare di sentire nella risposta del Besucco l´accento, la cadenza di Don Bosco, e l´eco della sua voce mi ritorna a più di mezzo secolo di distanza.

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esservi anime che prendono subito il volo per il Paradiso senza pas¬sare pel Purgatorio (l´altrove di Don Bosco!); ma, ed ecco il fatto nostro, che di tali anime deve essere anche quella di Luigi (1). Ed allora erompe la gioia di S. Luigi, e si fa quasi pungente la nostalgia del Paradiso.
È il nostro Besucco: « Il contratto è fatto: il Paradiso e non altro: al Paradiso e non altrove. Non mi si parli più che del Paradiso a. Don Bosco approva quella gioia purissima e santa, suggerendo tut¬tavia quello che, mancando, la offuscherebbe: la sommessione alla volontà di Dio. E il giovanetto, che ha per uso di chiudere le sue lettere col « Sia fatta sempre la volontà di Dio », esclama anche qui: « Si, sì: la volontà di Dio sia fatta in ogni cosa in cielo ed in terra! ».
È una pagina preziosa per la sostanzialità e altezza dei concetti: e lasciamo stare la letteratura, che non so se in più breve spazio, e con altrettanta immediatezza e semplicità saprebbe mettere il lettore in comunicazione con più alte concezioni. Anche nel Magone vi è una pagina somigliante, e quanto al fatto, ci troviamo nella medesima situazione: ma, come la storia spirituale del birichino fatto santo è differente da quella del Besucco, tutto rivolto alla sua interiorità, così il fatto si riveste d´altra luce e d´una più visibile spiritualità.
A questa pagina ne segue un´altra (capo XXVIII, pag. 155-156) di gran valore per la luce che ne viene sulle relazioni che passavano tra Don Bosco e i suoi figliuoli migliori: indirettamente vi si rispecchia il tono d´intimità familiare che spirava nella vita d´allora all´Oratorio.
Il quinto giorno della malattia (7 gennaio) il giovanetto chiede egli stesso di ricevere i Sacramenti e, non consentendoglisi la confes¬sione generale « non avendone, è detto, alcun bisogno » dopo quella che aveva pochi mesi prima fatta per mettersi nelle mani di Don Bosco (capo XIX), fa una confessione fervorosa e commossa, che lo lascia « molto allegro ». E in tutta umiltà di spirito, che congiunge timore ed amore, può dire: « Pd passato ho promesso mille volte di non più offendere il Signore, ma non ho mantenuto la promessa. Oggi ho rinnovato questa promessa, e spero di essere fedele fino alla morte ». In queste anime il dolore dei peccati è un largo sentimento di esser peccatore, senza richiamare alla mente alcun peccato definito: esse sono soltanto occupate di Dio, e il dolore, che ha durato quanto la vita, è quieto, soprannaturale e fonte d´amore. Esso è molto fiducioso
(1) MESCHLER, Cit., pag. 240.

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e la sua fiducia poggia unicamente in Dio: è un dolore pio che inclina alla preghiera, e benché sia dolore, pure è per se stesso una dolcezza. E ne deriva non ansietà o timore, ma amore di riconoscenza (1). Così fu tutta la vita di S. Luigi, e così ci si manifesta l´anima del Besucco, formato alla fiducia e all´amore nelle segrete comunicazioni con Don Bosco. E si sarà osservato, ancora nella pagina precedente, che il parlare dei propri peccati non toglie al santo giovane la gioia di sentirsi vicino al Paradiso.
Quell´intima conoscenza e corrispondenza di spirito tra il discepolo e il direttore dell´anima sua, metteva il Santo in presenza d´una san¬tità, che si veniva maturando nelle sue mani, e il concetto ch´egli se n´era formato sorpassava di gran lunga la consueta estimazione che nella vita ordinaria ci si fa dei discepoli buoni. E qui appunto appare la sapienza dell´Educatore e del Direttore di spirito insieme con la squisita delicatezza colla quale si diporta nell´ora più sacra della vita verso il suo figliuolo spirituale_ Questi giovani, che, come dice egli stesso, avevano dello straordinario, egli li aveva guidati e trattati, sì, come buoni, ma senza dirglielo, e senza dimostrare mai di conoscerli per straordinari. Nell´intimo li conduceva per le vie che gli apparivano tracciate per loro dalla grazia di Dio: ma all´esterno, nella vita quotidiana, li osservava e faceva capitale di quanto vedeva, in apparenza però non più di quanto facesse con l´universa moltitu¬dine degli altri; unicamente segnalandoli come buoni compagni a quelli ch´egli intendeva di migliorare, e principalmente incaricandoli di far un po´ la parte sua per ravviare qualche sviato.
Ma nell´ora di Dio la stima di santità ch´egli ne aveva, stima fondata e sicura, ch´era quasi una sensazione della presenza del soprannaturale, lo induceva a conferire al giovane alunno una perso¬nalità superiore, quasi tramutandolo di discepolo in maestro, e met¬tendolo in grado di svelare la fonte della sua santità, e di lasciare come in testamento massime salutari di vita. Così era avvenuto pel Magone (capo XV), così avviene ora, più ampiamente e fiduciosa¬mente, col Besucco. Pel primo, la fonte di tutto il bene che s´è operato in lui è in ciò che in quell´ora lo consola di più: l´essere stato divoto di Maria. Pel nostro la rivelazione è data in altra forma, ch´è di per se stessa un volo dell´anima.
In quell´ora adunque Don Bosco domanda al suo discepolo « se aveva qualche cosa da raccomandare a qualcheduno ». La forma è vaga e comune, ma vi è l´intenzione d´andar più oltre, come vediamo
(1) Leggasi in FABER, Progressi ecc., cit., la già mentovata trattazione Del dolore incessante dei peccati: cap. XIX, pagg. 309 e 313, e generalmente.

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che fa, salendo per gradi fino all´ultima domanda, che riguarda lui stesso, Padre e Maestro. La pietà umile del moribondo non pensa che piamente a raccomandar « a tutti che preghino per lui, affinchè sia breve il suo purgatorio ». Sicuro del Paradiso, ma sempre consa¬pevole della sua indegnità agli occhi di Dio. Pensò così anche Don Bosco nelle ultime ore! E viene una domanda più confidente: « Che vuoi che dica ai tuoi compagni da parte tua ? ». « Dica loro che fug¬gano lo scandalo, che procurino di far sempre delle buone confessioni a.
Era stata pel Magone l´unica domanda di tal genere, e la risposta del giovanetto fu allora come questa: « far sempre delle buone con¬fessioni ». E forse vi tornava il ricordo di ciò che per lui era stato il dramma della sua conversione. Ma pel Nostro non poteva esser altro se non l´espressione d´una convinzione maturata nella sua silen¬ziosa esperienza della vita quotidiana tra i giovani dell´Oratorio. Che questo coincida con le idee di Don Bosco, non può far pensare nè ad un imprestito che lo scrittore Maestro fa al suo discepolo, nè ad una deferente ripetizione di precetti continuamente inculcati dal Santo. L´Autore qui non fa una didascalia personificata. Egli potrà sempre dire che anche i suoi piccoli santi han confermato con la propria esperienza ciò ch´egli è venuto insegnando.
Neppure interroga per avere una risposta di scuola. Tant´è vero che muove un´altra domanda, che va oltre l´ambito dei precetti incul¬cati ai giovani, e mette il suo discepolo in una posizione d´assai supe¬riore: « E ai chierici ? ». È ben vero che in quel tempo la vita dei chierici non era molto distinta da quella degli altri allievi dell´Oratorio, e la loro superiorità era piuttosto quella di compagni anziani o dí fratelli maggiori, che non di superiori gerarchici (idea che Don Bosco tenne ancor per lunghi anni, fintantochè i chierici non furono separati [1875], e poi passarono altrove per la loro foimazione [1879]. Ma già a questo tempo la loro condizione di assistenti o di maestri li distin¬gueva dai comuni allievi, e dava una superiorità, come aderenti a Don Bosco per l´attuazione del suo lavoro educativo) (1). Quell´anno 1864, la Congregazione Salesiaaa ebbe il Decretum laudis dalla S. Sede, che riconosceva l´esistenza d´una comunità religiosa regolarmente costituita. E domandare ad un ragazzo di seconda ginnasiale che cosa
(1) Infatti proprio nella novena dell´Immacolata dei 1863 — un mese prima della morte del Besucco — Don Bosco ordinò, parlando alla sera, che i giovani non dessero più del tu ai chierici, eccettuato il caso di ex condiscepoli o quasi (Mem. Biogr., VII, pag. 566). Ricordiamo alcuni dei chierici d´allora: Berto Gioachino, Tamietti Giovanni, Paglia Francesco, Fagnano Giuseppe, Belmonte Domenico, Cerruti Francesco (allora a Mirabello). Don Giulio Barberis vestì l´abito solo nel¬l´autunno del 1864.

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pensa che si debba raccomandare ai chierici, è dunque un atto di fiducia, che trascende tutte le differenze, e riconosce in quell´anima la presenza dei doni di Dio che l´ispirano. È la convinzione del sapien¬tiam praestans parvulis che induce a domandare ad un fanciullo cose più alte della sua età.
La risposta è infatti sapiente, e fa pensare a qual sorta di sale¬siano (chè così bisogna immaginarlo) sarebbe riuscito, vivendo, il Besucco, mentre si allontana sempre più il ricordo della materiale figura del montanaro incolto e tardivo. « Dica ai chierici che diano buon esempio ai giovani, e che si adoprino sempre per dar loro dei buoni avvisi e dei buoni consigli ogniqualvolta sarà occasione ». La parte, come si vede, di fratelli maggiori e di compagni scelti. Anche questo combina naturalmente con l´idea di Don Bosco, il quale nella sua azione educativa chiamava a collaborare i giovani, chierici o alunni che fossero, specialmente per quel lavoro dell´un per uno, ch´è la parte precipua del suo sistema.
« E ai tuoi superiori ? » soggiunge poi. Aspetta forse una risposta ammonitrice ? Questo no, chè il saggio discepolo, tutto presente a se stesso, non oserebbe: ma con l´espressione della gratitudine verso tutti per la carità usatagli, egli s´innalza a contemplare il bene del¬l´opera loro, e, sia esortazione o sia desiderio, lascia detto « che con¬tinuino a lavorare per guadagnare molte anime ». E nella sua condi¬zione non è piccola cosa. Un puntiglioso della superiorità potrebbe dire che non tocca a lui di dare tali incoraggiamenti. Ma Don Bosco non ha di tali ombre, e l´ha interrogato appunto perchè le sue parole hanno un valore che non è della persona, ma della grazia di Dio. E con tenerezza, in cui si nasconde quasi la venerazione (bisogna pensare queste parole dette a bassa voce di confidenza, e sorridendo, come quelle di mamma che ti guarda negli occhi e dice: e a me, mi vuoi bene ?), gli dice per ultimo: « E a me, che cosa dici ? ». C´era da confondersi, e il fanciullo si commove; ma il pensiero vien fuori chiaro e preciso, com´era in fondo all´anima: «A Lei chiedo che mi aiuti a salvarmi l´anima. Da molto tempo chiedo al Signore che mi faccia morire nelle sue mani. Mi raccomando che compia l´opera di carità, e mi assista fino agli ultimi momenti della mia vita ».
Anche Magone, nella sua maniera più familiare, diceva a Don Bosco di non abbandonarlo, e sul punto estremo con un: « Ci siamo, mi aiuti » dice tutto. All´uno e all´altro il buon Padre assicura di non abbando¬narli: a quello, con una parola, senz´altro gli fa vedere il Paradiso (1);
(1) Vita di Magone, cap. XV, pag. 81: a ... non ti abbandonerò finchè tu non sarai col Signore in Paradiso ». Anche il Saccardi aveva desiderato e pregato di

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al Nostro, con più ampio discorso, per fargli sentire che gli vuoi bene, e non lo abbandonerà neppur se guarisse o continuasse nella sua malattia; tanto più nel caso estremo. E l´episodio si chiude, la¬sciando l´anima del santo giovane in piena consolazione: e dopo prese un´aria molto allegra », dice lo scrittore.
Una delle grazie speciali, che la bontà di Dio riserba ai moribondi, è quella di elevare le disposizioni dell´animo ad un grado e ad un´am¬piezza superiore al nostro concetto: e in tale stato l´efficacia santifi¬cante dei Sacramenti trova aperto il campo alla permeazione delle grazie loro proprie, fino ad una profondità inconsueta nella vita ordi¬naria (1). Così io credo che dobbiam pensare, col mio solito Maestro, delle intime disposizioni del nostro Besucco. Egli domanda di fare la comunione, che non ha più potuto ricevere da otto giorni innanzi, ch´era il Capodanno (capo XXIX). Per lui è senz´altro il Viatico. E vuol che gli si spieghi il significato della parola: non forse perché ignori che cosa sia, mentre fin da fanciulletto al suo paese era il più sollecito ad accompagnarlo (capo XXI), e la comunione in morte era una delle quattro domande che faceva nell´ultima preghiera della sera (capo II). La spiegazione piamente etimologica lo rallegra ed esalta: « Oh! che bella provvigione ho io avendo con me il pane degli Angioli nel cammino che son per fare! ». E gliela spiegano anche più preci¬samente e fuor di metafora, secondo la fede: che in quel Pane Celeste avrà « il medesimo Gesù per aiuto e compagno nel grande viaggio ». È una ripetizione di catechismo, e non inopportuna a ridestare nel¬l´animo l´immagine viva di Cristo accompagnatore dell´anima. E così la sente il pio infermo: « Se Gesù è mio amico e compagno, non ho più nulla a temere, anzi ho tutto a sperar nella sua misericordia ».
In questa disposizione avviene la sua ultima comunione; e Don Bosco, com´è solito di fare, non s´indugia in commenti mistici, ma scolpisce lo stato d´animo, dicendo che « riceve l´Ostia Santa con quei segni di pietà che piuttosto si possono immaginare che descri
morire assistito da Don Bosco, e le circostanze vollero che venisse condotto da Mirabello all´Oratorio per esser meglio curato; effettivamente per morirvi. Il suo timore era di essere rinviato a casa, e quando Don Bosco l´ebbe rassicurato che l´avrebbe sempre in ogni modo tenuto con sè, esclamò pieno di gioia: «Dunque io sarò sempre con Don Bosco e figlio di Don Bosco! Sia Dio benedetto! » (Vita di G. Saccardi, cit., pagg. 122-123).
(1) FABER, Conf. Spir., cit.: La Morte, sez. II, pag. 75.

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vere ». E quella elevazione si continua di poi, mentr´egli non risponde più altro che: « Preghiamo! » e volendo « dopo un considerevole rin¬graziamento », che non gli si parli più che del Paradiso. La prima parola che gli esce nell´esuberanza della sua consolazione, è il lieto aloisiano saluto a Don Savio: « O Don Savio, questa volta ci vado in Paradiso! ». E non lo rimuove da quella gioia la risposta del buon prete, che forse vuole confortarlo allontanando l´idea dell´immi¬nenza: «... mettiamo nelle mani di Dio la vita e la morte: speriamo di andare in Paradiso, ma quando a Dio piacerà ». Egli rimane nella sua lucida sicurezza: «Al Paradiso!... quando sarò al Paradiso, io pre¬gherò anche il Signore per lei ».
È la luce di Dio che si dischiude all´anima: una luce particolare ai moribondi, dove la fede sembra quasi prender l´aspetto di visione, e col veder Dio più da vicino cresce l´ardenza dell´amore. Il Paradiso non è che una cosa sola: essere eternamente con Gesù (1). Poteva avere altra gioia chi si sentiva così vicino ?
Anche umanamente questa grazia dell´illuminazione dello spirito si riflette sulla sensibilità, in quel patetico ond´è avvolta quell´ora, e che commove il morente e gli astanti. Si direbbe che la tenerezza, l´affettuosità, diventi allora tanto più profonda, quanto più si appro¬fondisce l´assorbimento in Dio e più si sente la vicinanza con Lui. Ecco Don Bosco accanto al suo giovane, domandando se abbia qualche commissione da lasciare pel suo Arciprete. Tutti gli affetti che quel-l´anima aveva nutrito per lui, tutti i ricordi cari della bontà onde gli era stato per l´anima e per la vita più che padre, ritornano affol¬landosi in un solo sentimento, ed egli « si mostra turbato ». Le sue parole vanno intese nel tono del cuore, più che nella lettera dell´espres¬sione. « Il mio Arciprete mi ha fatto molto bene: egli ha fatto quanto ha potuto per salvarmi... Gli dica che non ho dimenticato i suoi avvisi. Io non avrò più la consolazione di vederlo... ma spero di andare in Paradiso e di pregare la SS. Vergine affinché lo aiuti a conservare buoni i miei compagni, e così un giorno io lo possa vedere con tutti i suoi parrocchiani in Paradiso... ». E « la commozione gl´interruppe il discorso ». Così s´era interrotto piangendo di tenerezza la prima volta che ne parlò con Don Bosco (capo XVI).
Sono delicatezze filiali. Di questa delicata tenerezza è il pensiero che volge ai suoi. La distanza e la povertà non consentono ch´essi possano venire a vederlo, ma lascia una commissione. Per tutti, che si faccia sapere « che io muoio rassegnato, allegro e contento. Preghino
(1) FABER, Conf. Spir., cit., II, pag. 101.

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essi per me... io spero di andarmene in Paradiso, di Ià li attendo tutti... A mia madre... E sospese il discorso » (pag. 160).
Per un fanciullo, per un giovane che muore, il pensiero di mamma, il nome, è tutto il cuore, e il discorso non viene, perché accanto a quella, altra parola non ci sta. E Don Bosco, il figlio amorosissimo di mamma Margherita, lo sente e lo comprende.
Lo comprende, e rispetta quel momento. Più tardi, quando la commozione è più riposata, ritorna, come ripigliando il discorso: « Avresti forse qualche commissione per tua madre ? ». E la dolce immagine materna appare al fanciullo nella luce più santa, com´era rievocata sempre, ogni giorno, nella vita: la luce di quelle parole sacrosante, alle quali egli deve se ora può serenamente guardare al Paradiso: « Dica a mia madre che la sua preghiera fu ascoltata. Ella mi disse più volte: Caro Franceschino, io desidero che tu viva lungo tempo in questo mondo; ma desidero che tu muoia mille volte, piut¬tosto di vederti divenuto nemico di Dio col peccato. Io spero che i miei peccati saranno stati perdonati, e spero di essere amico di Dio, e di poter presto andarlo a godere in eterno... ». Nella franchezza della sua coscienza, raccogliendo in una vista tutta la sua vita, può ben asserire che a quella parola egli è stato fedele, e che la preghiera materna fu ascoltata. È un testamento di gratitudine, ed è la consola¬zione suprema ch´egli vuol data all´eroica donna che fu capace di pensarlo morto piuttosto che peccatore. Se peccati vi furono, sono stati perdonati, ed egli è, come Ia madre voleva, amico di Dio, con fiducia di andarlo a godere in eterno. Ma noi sappiamo, e ce l´ha detto Don Bosco, al capo XIX, che « come ognuno può giudicare, consta dalla sua vita non aver mai commessa azione che si possa appellare peccato mortale ». L´espressione di lui può mettersi accanto a quella di S. Luigi, che, pochissime ore prima di morire, rispondeva al suo Provinciale: « Me ne vado, Padre... me ne vado. — E dove ? — Al Cielo, se i miei peccati non me lo impediscono » (1). Eppure era lieto e sereno. Nessun Santo dirà mai: Io non ho mai peccato.
È lo sguardo d´ogni anima cosciente della grazia di Dio, che si volge all´abisso periglioso da cui fu salvata, e da questo sguardo si solleva al cielo della fiducia e dell´amore di gratitudine, che nelle anime progredite diventa senz´altro il puro amore di carità (2). Sotto
(1) MESCEILER, cit., pag. 245.
(2) TANQuEREy, op. eit., n. 1226-b, e 1235-b.

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la carezza di Dio, che accompagna queste morti preziose, l´anima involta nella luce superiore, e portata al fervore dell´affetto dall´inten¬sificarsi della grazia santificante dei Sacramenti, prorompe commossa nell´amoroso rincrescimento: Ed io non l´ho amato abbastanza! È questo il momento in cui la parola esprime e compendia tutto il lavoro d´una vita assiduamente intesa ad avvicinarsi a Dio, e ormai in procinto di stargli vicino per sempre.
È psicologia da Santi, lo so, ed è la logica del soprannaturale, che conclude chiaramente in una mistica elevazione. Eppure non pos¬siamo farne a meno, anche se il soggetto è un povero fanciullo di tredici anni. Nelle mani di Don Bosco egli è passato, senz´accor¬gersene, dalla elementare pratica della virtù e della pietà degli inci¬pienti e dei progrediti fervorosi, in cui fu trovato, alle alte sfere della via perfetta, dove tutto ciò che avviene dimostra la presenza dell´anima davanti a Dio nella luce che s´irradia dall´amore. Non altrimenti possiamo spiegarci la suprema parola rivelatrice della sua santità: la sua parola.
Che Don Bosco abbia, nello stendere il suo scritto, pensato a di¬sporre con sapiente graduazione tutto il dissimulato contesto spiri¬tuale fino a toccare l´apice dell´ascesa, non crederei: sono i fatti che parlano da sè, e che colla loro misteriosa, o diciamo mistica, succes¬sione conducono all´esito santamente logico, che si adempie: ma non è men vero che il Santo formatore della santità giovanile vi ha avuto la parte che ha il vero educatore che guida le menti secondo l´indole loro, comunicando ad esse non solo le cognizioni, ma soprattutto la capacità di pensare e di fare da sè. Il valore d´una scuola, fu detto, si misura da questo: tanto più, adunque, nella scuola dello spirito, nella quale deve educarsi l´anima a sapersi valere della grazia di Dio.
Così dobbiamo intendere il fatto. Don Bosco, vedendo aggravarsi il suo caro infermo, gli domanda se desidera di ricevere l´Olio Santo. Egli lo desidera. È una delle quattro domande della sua antica pre¬ghiera. E allora: « Non hai forse alcuna cosa che ti faccia pena sulla coscienza ? ». È una domanda precauzionale di rito. E di qui muove il dialogo meraviglioso. « Ah! sì — risponde il giovanetto —: ho una cosa che mi fa molto pena e mi rimorde assai la coscienza! ». C´è da pensare a qualche ingrata sorpresa, di quelle che a Don Bosco non son nuove: e lasciamo ogni commento, che ognuno può immaginare, per quanto paia strano e inconcepibile, dopo quanto sappiamo di quell´anima. Certo il buon Padre ha un momento di pena; ma con l´usata posatezza (noi, che ci confessammo da lui, sappiamo com´era fatta, e come scandiva le parole): « Qual è mai questa cosa ? Desideri di dirla in confessione, o altrimenti ? ». E la nube sembra addensarsi:

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le parole misteriose non lasciano pensare a quel che celano: eppure esse ci rivelano tutto un mistico travaglio dell´anima, tutta un´ansia di santo divenire, ch´è rimasta celata nei recessi del cuore: « Ho una cosa cui ho sempre pensato in mia vita, ma che non mi sarei mai imma¬ginato che dovesse cagionare tanto rincrescimento in punto di morte! ». « Qual è mai dunque la cosa che ti cagiona tanta pena e tanto rincre
scimento ? ». E la nube si squarcia, e compare lo splendore abbagliante della rivelazione:
«Io provo il più grande rincrescimento perchè in vita mia non ho amato abbastanza il Signore come si merita! ».
E tutta la vita dell´anima s´illumina di questa luce: tutto il perché del suo lavoro di santificazione, la ragione del suo penoso mortifi¬carsi, del suo pregare incessante, del suo correre verso Dio, che lo stesso Don Bosco aveva pur veduto come un indice di progresso e di santità, tutto era dunque in codesto cercare di amar Dio quanto si merita ! Non è una nostra deduzione: egli stesso l´ha detto: « una cosa a cui ho sempre pensato in mia vita ».
No: amar Dio quanto si merita non è dato ad alcuno degli esseri finiti; ma voler amarlo quanto più è possibile, ogni giorno più, non ponendo limiti al nostro amore, inquieti sempre di non poter giun¬gere a quel termine, e studiandoci di andarne men lontani, questo è il più vero fattore della santità.
La santità di S. Luigi fu fatta così. La visione del 4 aprile 1600, in cui S. Maria Maddalena de´ Pazzi contemplava la gloria del Gonzaga
in cielo, diceva: « ha tanta gloria perchè operò coll´interno... Luigi
fu martire incognito. Perché chi ama Te, Dio mio,. Ti conosce tanto grande ed infinitamente amabile, che gran martirio gli è di non amarti quanto aspira e desidera di amarti... Si fece anco martire di se stesso.
O quanto amò in terra! Epperò ora in cielo gode Iddio in una pienezza di amore! » (1).
Non intendo mettere il giovanetto di Don Bosco all´altezza di S. Luigi: ma certo è nel medesimo cielo. Dio solo sa a qual punto è dato ad ognuno di pervenire: il merito, la santità, è nel volerlo; così come l´appagamento riposante del nostro desiderio avverrà, nel grado predestinato, in Paradiso, dove ameremo Dio come dobbiamo (2).
(1) Bollandisti, Jun. IV, 21 Jun., col. 1037. E il lettore vede che non ebbi torto ad accogliere la tesi del Crispolti nella Vita di San Luigi, nè ad applicarla al nostro Besucco.
(2) S. Agostino: « Non possum metiri ut sciam quantum desit mihi amoris ad id quod sat est, ut currat vita mea in amplexus tuos, nec avertatur donec abscondatur in abscondito vultus tui » (Confess., lib. XIII, 8: Micsi´re, P. L., I, 848). Traduce

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E Don Bosco, mentre scrive nel cuore la stupenda rivelazione di quell´anima, risponde così appunto alla santa inquietudine del suo discepolo: « Datti pace a questo riguardo, poichè in questo mondo non potremo giammai amare il Signore come si merita. Qui bisogna che facciamo quanto possiamo : ma il luogo dove lo ameremo quanto dobbiamo, è l´altra vita, è il Paradiso. Là lo vedremo com´Egli è in se stesso, là conosceremo e gusteremo la sua bontà, la sua gloria, il suo amore. Tu fortunato, che fra breve avrai questa ineffabile ven-tura! ». La spiegazione dissipa l´inquietudine e, senza darlo a dive¬dere, ne segna il valore col dischiudere la certezza della prossima ineffabile ventura !
Quella magnifica parola, appunto per quel che significa e com¬prende, merita ancora un altro commento. Essa diviene una parola storica, di quelle in cui si riflette tutta la fisionomia d´un´anima.
la parola tipica, il contrassegno spirituale, è come il titolo del quadro della vita. Don Bosco ebbe cura di segnare e di sottolineare, talvolta quasi la domandò, questa suprema parola dell´anima. Ed è di grande interesse ravvicinarle fra loro, mentre s´ha tra mano l´ultima delle Vite scritte dal Santo, e cioè l´ultimo quadro da lui disegnato d´una storia spirituale.
Il Comollo morendo aveva risposto alla domanda (certamente dell´amico Giovanni Bosco): Che cosa ti consola più in questo mo¬mento ? e Aver fatto qualche cosa per amore di Maria, e l´aver fre¬quentato la S. Comunione » (1).
Del Savio morente non c´è Ia parola: ma egli s´è scolpito per sempre, non tanto nel proposito: La morte ma non peccati, ch´è bello e santo, ma non creato da lui, e del resto non bastevole all´anima sua che mirava più alto: non tanto adunque, quanto nel dire a Don Bosco: « Io mi sento un bisogno di farmi Santo, e se non mi fo santo, non fo niente. Iddio mi vuole santo, e io debbo farmi tale. Domando che mi faccia santo » (2).
Il Magone, anima mariana, risponde morendo: « La cosa che più d´ogni altra mi consola in questo momento, si è quel poco che ho fatto ad onore di Maria. Sì, questa è la più grande consolazione. Oh! Maria, Maria, quanto mai i vostri divoti sono felici in punto di morte! » (3).
il Bindi: « Non ho la misura, per vedere che mi manchi d´amore al segno neces¬sario perché la mia vita si abbandoni ne´ tuoi abbracciamenti, nè sian staccata finchè non venga tutta assorbita nella tua arcana presenza ».
(1) Vita di Luigi C´emano, cap. XII, pag. 55.
(2) Vita di Savio Domenico, cap. X, pag. 51.
(3) Vita di M. Magone, cap. XV, pag. 85.

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Anche il Saccardi, venuto a morire tra le mani di Don Bosco (morì il 4 luglio 1866) dirà: « Dica ai miei compagni che domani sarò colla Madonna in Paradiso. Me Io assicura Colei che ho scelto per mia Madre: Ella non cangerà quanto mi disse. Dica a mia madre che io muoio contento, senza la minima pena della morte » (1).
Il Besucco dice: « Io provo il più grande rincrescimento perchè in vita mia non ho amato abbastanza il Signore come si merita ».
Sono altrettante posizioni spirituali in cui è vissuta la storia di ciascun´anima santa. Non c´è da fare il parallelo, nè da stabilire una graduatoria dei valori: sarebbe pretesa temeraria e fallace, in cosa di cui solo giudice è Dio in cielo e la Chiesa in terra. L´orientamento verso Maria SS. è tanto teologicamente che asceticamente capace di far dei santi, quanto ogni altro atteggiamento spirituale che abbia per oggetto Gesù: giacché come « è impossibile conoscerlo e più impossibile amarlo, senza una viva divozione alla sua SS. Madre, così questa confondesi talmente colla gloria di Dio, che ogni atto di omaggio fatto a Lei è un atto schietto d´amore a Dio » (2). La spi¬ritualità sana ed efficace dev´essere dogmaticamente fondata: e se l´amor di Maria non è amore di Gesù, e la divozione a Maria non è una delle divozioni proprie di Lui e da Lui stabilite verso Se stesso, la teologia della pietà non ha più dove poggiare, e la religione non è più interamente cristiana (3).
Tutto dipende dal grado dell´amore che vi si mette, e questo non può essere che l´essenziale amor di Dio, in cui finalmente si risolve ed assomma ogni vera spiritualità ed ogni santità. Pietas cultus Dei est, nec colitur ille nisi amando, dice S. Agostino (4).
Ma poiché il nostro giovanetto si volle modellare sul Savio, una qualche analogia sembra che possa intercedere fra loro. Savio esprime fin da principio una volontà chiaramente definita e totalmente domi¬natrice, ispirata dall´amore, ed essa è che lo muove e guida nell´in¬cessante rapidissima ascesa dello spirito e nell´eroismo della vita.
Il Besucco in fin di vita si volge indietro a rimirare il conato del¬l´anima sua, e santamente lo trova inadempiuto, perché inadeguato: ed è amore anche ed appunto questo rincrescimento. Egli non ha espresso, cominciando, l´intento del Savio, a cui inconsciamente mirava, e che rimase latente in lui fino all´ultima rivelazione.
(1) Mens. Biogr., vol. VIII, pag. 422. Dalla lettera di Dori Bosco alla madre.
(2) FABER, Tutto per Gesù, cit., cap. V, sez. IV, pag. 195.
(3) FABER, Tutto per Gesù, cit., pag. 177. ID., Progressi, ecc., cit., cap. V, pag. 148. ID., Conf. Spir., cit., pag. 106.
(4) S. Augustini Opera: MIGNE, P. L., II: epist. CXL, cap. XVIII, pag. 557.

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Gl´imperscrutabili disegni di Dio, onde son compartite le grazie e i doni soprannaturali, hanno fin dai primi passi dotato di grazie speciali il Savio, fino alla manifestazione d´una santità che la Chiesa ha sanzionato. Per il Besucco fu disposto un altro ordine e un´altra misura di grazie, e disegnata per lui un´altra figura e un´altra via. Ma è innegabile (e spererei d´averne dato le prove) che i due santi giovani, vissuti dell´alimento spirituale di Don Bosco, sono molto prossimi fra loro, e, senza nulla togliere agli altri, i più prossimi nella santità. Il resto, non occorre ripeterlo, è cosa tutta di Dio.
E si torna al pratico: « Ora preparati a ricevere l´Olio Santo, che è quel sacramento che cancella le reliquie dei peccati, e ci dà anche la sanità corporale, se è bene per la salute dell´anima ». E il giovane, coll´anima tutta protesa verso il cielo, riprende il discorso risalendo: « Per la salute del corpo, non se ne parli più: in quanto ai peccati io ne domando perdono e spero che mi saranno interamente per¬donati: anzi confido che potrò ottenere anche la, remissione della pena che dovrei sopportare pei medesimi nel Purgatorio ». Ch´è la fede più illuminata nell´efficacia del sacramento che sta per ricevere.
Lo accoglie con piena lucidità di mente, e, senz´addirsi del male, trova la forza di accompagnarne il rito, e recita le preghiere (anche S. Luigi l´aveva fatto con un´energia mirabile) (1), e, come già il Magone (2), commenta piamente la formola di ciascuna unzione, riferendola a sè con « una speciale giaculatoria a. In queste si rispec¬chia la sua buona istruzione religiosa e l´eco delle sue pie letture: ma l´accento di umile compunzione e la divozione le fa diventar sue, sicché il pio Don Alasonatti è indotto ad esclamare: « che bei pensieri, che meraviglie, in un ragazzo di sì giovanile età! ». E bisogna esor¬tarlo a non sforzarsi di pregare ad alta voce, tanto da restarne sfi¬nito. Don Bosco è presente con molti, pensando che quella sia la fine. No: l´anima è desta internamente, e, ripresa forza, il fan¬ciullo esce in un´altra sua pia manifestazione: « Io ho pregato molto la Beata Vergine che mi facesse morire in un giorno a Lei dedi¬cato, e spero che sarò esaudito. Che cosa potrei ancora domandare al Signore ? ».
(1) MESCHLER, cit., pag. 234.
(2) Vita di Magone, cap. XV, pagg. 78-79.

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Anche S. Luigi aveva desiderato di morire in un dato giorno, nell´Ottava del Corpus Domini, e il Signore lo compiacque (1). Per quanto si voglia essere astrattamente e dommaticamente ascetici (che poi non vuol dire esser santi), non è contro la sottomissione alla divina volontà nutrire qualche desiderio circa la nostra morte: nè l´as¬senza di ogni desiderio è cosa più perfetta, quando vediamo che molti Santi ne ebbero di tali. Il desiderio della creatura spesso (e più nel fatto del morire) muove l´amor di Dio, la cui misericordia sembra attendere che noi prendiamo l´iniziativa per acconciarsi al nostro cenno, men¬tre i nostri desideri daranno maggior garbo e maggiore sincerità al nostro uniformarci alla volontà di Dio. Così almeno pensa il mio buon Maestro (2), e così l´ha intesa sempre il Santo che scrive del Besucco.
E infatti egli risponde all´ulteriore domanda del buon figliuolo, suggerendo un altro desiderio, squisitissimo questo: « Dimanda al Signore che ti faccia fare il purgatorio in questo mondo, a segno che, morendo, l´anima tua voli subito al Paradiso ». È un suggeri¬mento da predestinati, e chi lo propone sa bene a quale anima lo affida, e in qual temperie di amor di Dio, tutta necessitosa e anelante di congiungersi con Lui. E così suona la risposta: « Oh sì! lo domando di cuore: mi doni la sua benedizione: spero che il Signore mi farà patire in questo mondo finché abbia fatto tutto il mio purgatorio, e così l´anima mia, separandosi dal corpo, voli tosto al Paradiso ». Anche il Magone (capo XV, pag. 80) aveva pregato per questo, e « questo pensiero era quello che gli faceva soffrire tutto con gioia ». Era dunque un´ispirazione che Don Bosco riserbava ai suoi figliuoli santi, ai quali assicurava il Paradiso (3).
E i due desideri del Nostro sono esauditi, lo dice anche l´Autore: giacche « la vita venne ancora prolungata di circa ventiquattr´ore », portandolo a morire nel giorno di sabato. Come si sente qui la vici¬nanza di Dio, e come sono visibili le carezze dell´amore nell´ora suprema della vita!
(1) MESCHLER, cit., pagg. 240, 242, 244, 247. S. Luigi morì nella notte (sera) dal giovedì al venerdì, tra il 20-21 giugno, ch´era la fine dell´Ottava del Corpus Domini.
(2) FABER, Conf. Spir., pag. 139. La dottrina dell´indifferenza non deve far dimenticare il Petite et accipietiz del Vangelo. Si rischia di cadere nel fatalismo o nel quietismo. E allora è inutile parlare del SS. Cuore di Gesù, ch´è il culto al buon cuore di Gesù.
(3) In Don Bosco il pensiero del Purgatorio era tanto vivo, che, nelle sue ultime disposizioni, ordina di far pregare i giovani R affinchè Dio mi abbrevii le pene del Purgatoric.». E così nella Raccomandazione per me stesso, in fine delle medesime Memorie autografe, usa la medesima espressione Mem. Biogr., vol. XVII, pagg. 257-272).

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La morte che viene così, non è più un morire: è passare dalla grazia alla gloria. Invero la fine del nostro santo giovanetto è di quelle che solo immaginiamo, anche fuor della realtà, come proprie dei Santi. Vi sono tante forme di morti preziose all´occhio di Dio, e per ciascuno che in tal modo ascende al cielo, ve n´è una, e mirabile: tutte sono un´opera d´arte divina, eseguita con maestria soprannatu-rale, e fregiata dello splendore di eterna bellezza, e, per quanto dif¬ferenti l´una dall´altra, tutte sono stupendamente belle (1).
La morte del Besucco è una di queste, e l´amor di Dio (poiché vi è reciprocanza tra l´amor di Dio per noi e l´amore di noi verso Dio) l´ha disegnata apposta per lui. Essa viene non ad un tratto, per malat¬tia violenta, e neppure dopo lunga, sfibrante infermità, dove talvolta si esaurisce anche la riserva spirituale. Viene con una giusta malattia di otto giorni, che dà occasione e modo di esplicare le virtù interne ed esterne, e in piena lucidità di mente non mancata mai, come non mancò mai la presenza a se stesso. Spiritualmente, essa è intanto una morte quieta e dolce, senza tentazioni (pensiamo a quelle della fede nella Teresa di Lisieux!) senz´angoscie (ricordiamo il Comollo tre¬mante del giudizio di Dio), senza paure naturali, senza dubbi e ram¬marichi del passato: quieta e dolce, come S. Andrea Avellino diceva dover essere quella dei divoti della Passione: e il Nostro fu devotissimo della Via Crucis e del Crocifisso. Ed è una morte in cui si continua, senza disgiunzione, il tenore spirituale della vita, e non forma un mistero distinto e staccato da essa, ma n´è la propria spiegazione: perchè essa è pure la morte di chi è vissuto nell´amor di Dio, e allora s´affretta in adempierlo per trovarsi con Lui, e il sentirsegli vicino infonde la gioia del morire, tanto maggiore quanto fu in vita il timore amoroso di Dio. È una morte con Maria, come quella di tutti coloro che Don Bosco ebbe intimi o indirizzò per le vie della santità: quasi intercedesse un patto con Lei, ed Ella puntualmente l´osservasse (2).
Ed è soprattutto, nella figura esterna, una morte trionfante. Non l´ebbero tutti i Santi (3), nè alcuno può giustamente desiderarla. È
(1) FABER, Conf. Spir., pag. 135 segg.
(2) Comollo, Burzio, Fascio, Magone, Gavio, Massaglia, Savio Domenico, Saccardi, Provera, Gamerro, S. Mazzarello, tutti mostrano morendo di sentire la presenza di Maria. E come questi, molti dei primi Salesiani, di cui Don Bosco lasciò memoria. Voglia la bontà di Dio concedere altrettanto all´autore di queste pagine, anch´esso formato dalla mano medesima del Santo!
(3) Don Bosco, per esempio, ebbe una morte umilissima. E non fu trionfante nep¬pure la morte di S. Luigi, e quella d´altri Santi innumerevoli. Per converso, non è detto che basti, da sola, una morte di tal genere, perchè un cristiano sia canonizzabile.

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una grazia speciale che Dio largisce per i suoi fini reconditi. Nel fatto nostro essa è accompagnata da una manifestazione indiscuti¬bilmente soprannaturale, e non meno indiscutibilmente vera. E se all´umile Pastorello delle Alpi questa apportò la suprema consolazione
e letizia, anticipandogli il Paradiso, non è infondato il vedervi un´at¬testazione palese che Dio ha voluto dare della sua santità.
L´anima del giovanetto morente vive ormai nella serena e lim¬pida consapevolezza, datagli dalla fede, della grazia di Dio, e non si ritrova che nella preghiera. L´ultima giornata come tutta la vita: una continua orazione. E non potendo esso colla parola, vuol che si preghi accanto a lui, ripetendo col cuore quel che sente pronunziare. Anche S. Luigi aveva fatto così. E si ordina un avvicendarsi di compagni che vengono a pregare accanto a lui. Tra questi., un compagno dissi¬pato, per amor del quale sospende la preghiera per esortarlo a tornare al bene: e il suo dire breve e ragionato tocca il cuore dello sviato, e da quel pianto incomincia il mutamento di sua vita, e persevera.
A tarda sera viene il suo benefattore, l´Eysautier colla signora. Manca poco più d´un´ora alla fine, ma lo spirito è vasto, la serenità
e la letizia traspaiono dal volto, e commuovono il buon ufficiale, fino a dire: « Il morire in questo modo è un vero piacere, e vorrei anch´io trovarmi in tale stato ». E la tenerezza gli consente appena di racco¬mandarsi alle sue preghiere: a quando sarai in Paradiso a.
L´amabile visita non interrompe il corso della preghiera interiore,
e l´anima permane unita con Dio, e assorta, chi può dirlo ? in una contemplazione di cose celesti, che ad un tratto diventa estasi: un rapimento di ammirazione e di gioia, d´affetto e di desiderio (1). O, piuttosto che estasi contemplativa, è visione immaginativa e, sensi¬bile anche agli altri, che appare a lui, ed egli la vede, e tutto si protende ed è rapito verso di quella in una gioia che prorompe nel canto, mentre gli astanti ne hanno segno dalla luce che da lui si irradia all´intorno (2).
Il racconto è di Don Bosco presente, e la descrizione, comple¬tata ancora e chiarita con più precisi particolari nella seconda edi¬zione, non può essere che quella d´un fatto reale avvenuto in pre
senza di molti.
Mentre tutto fa presentire la fine imminente, il moribondo trae
fuori le mani, tentando levarle in alto. Don Bosco gliele congiunge
(1) Cfr, TANQUEREY, Cit., n. 1454: dove ricorre a S. FRANCESCO DI SALES, Teotimo, lib. VII, cap. IV-VI.
(2) T ANQUEREY, cit., n. 1491-92. Sensibile o immaginativa che fosse la visione, qui i due caratteri si fondono per l´esterna manifestazione, come lo stesso Tan¬querey avverte.

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per farle posare; ed egli « le sciolse e levò di nuovo in alto, con aria ridente, tenendo gli occhi fissi come chi rimira qualche oggetto di somma consolazione ». Non è fuori dei sensi: è rapito in una vista che lo attrae con crescente vivezza: tantochè, quando il buon Padre «pen¬sando che volesse il Crocifisso, glielo pone nelle mani, egli lo prende, lo bacia, lo ripone sul letto, rialzando tosto con impeto di gioia in alto le mani ». Gli astanti, dieci persone, si trovano nel caso molto comune di chi vede altri a parlare, a far festa, a persona che qualche
cosa impedisce di vedere. Chi vede il Besucco ? È un´allucinazione, un pio delirio ?
Fin qui, sottilizzando molto, si potrebbe pensarlo. Ma non è. Il fenomeno psicofisiologico dell´irradiazione luminosa che accompagna quell´estasi e quella visione, è d´una tale evidenza e si manifesta con circostanze così sicuramente reali, da non lasciar dubbio sul suo ca¬rattere soprannaturale, e tanto meno sulla verità del fatto (1). Si osservi: « In quell´istante la faccia di lui appariva vegeta e rubiconda più che non era nello stato regolare di sua sanità. Sembrava che gli balenasse sul volto una bellezza, un tale splendore, che fece scomparire tutti gli altri lumi dell´infermeria. La sua faccia dava una luce sì viva che il sole di mezzodì sarebbe stato come oscure tenebre (2). Tutti gli astanti, che erano in numero di dieci, rimasero non solo spaventati, ma sbalorditi; e attoniti e in profondo silenzio, tenevano tutti rivolti gli sguardi alla faccia di Besucco, che mandava un chiarore che, avvi-cinandosi alla luce elettrica, dovevano tutti abbassare lo sguardo ».
La controprova verrà più oltre, alla fine della visione, quando « cessò la luce meravigliosa, il suo volto ritornò come prima, e riap¬parvero gli altri lumi» (3).
Ma non fu cosa d´un momento, e limitata a questo, ch´è pur molto.
(1) Non è possibile pensare ad un´allucinazione collettiva o allucinazione ascetica (il termine è degli scienziati) d´una folla che crede di vedere o di udire persone o voci soprannaturali, ecc. I caratteri non coincidono.
(2) Probabilmente vuol dire che lo splendore superava la luminosità del mezzo¬giorno al sole, e allora i consueti lumi artificiali (candele, lucerne, gaz) scompaiono. Ma non c´era là dentro un attinometro per misurare l´intensità delle radiazioni solari.
(3) Il TANQUEREY, n. 1519, pag. 930 (e prendo a prova un Trattato, che dà la teoria nella forma più rigorosa) riassumendo Ia dottrina di PP. Benedetto XIV, enumera così le prove che si esigono perchè tali irradiazioni possano accettarsi per soprannaturali: 1) se il fenomeno accade di notte, e la luce è più brillante d´ogni altra; 2) se si tratta non di semplice scintilla, come la scintilla elettrica, ma il feno¬meno dura un tempo notevole o si rinnova più volte; 3) se avviene durante un atto di religione, un´estasi, una preghiera, ecc.; 4) se produce frutti di grazia, conver¬sioni costanti, ecc. (qui non c´era occasione); 5) se virtuosa e santa è la persona da cui parte cotale irradiazione. E mi pare che tutto s´accordi col caso nostro.

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In quel rapimento e in quella luce, il giovanetto si diporta come real¬mente in presenza di qualcuno: « elevando alquanto il capo e prolun¬gando le mani quanto poteva, come chi stringe la mano a persona amata » e canta « con voce giuliva e sonora » il Lodate Maria, o lingue fedeli, e poi si protende per sollevare più in alto la persona, e questa « di fatto si andava sollevando » e « stendendo le mani unite in forma divota » riprende a cantare « O Gesù d´amore acceso » e l´altra canzone: « Perdon, caro Gesù ».
Il silenzio tremebondo e attonito che circonda l´imparadisato fanciullo (1) è interrotto dal Direttore (che è Don Bosco), dicendo: « Io credo che in questo momento il nostro Besucco riceva qualche grazia straordinaria dal Signore o dalla sua celeste Madre, di cui fu tanto divoto in vita. Forse Ella venne ad invitare l´anima di lui per condursela seco al Cielo ». E Don Alasonatti soggiunge: « Niuno si spaventi. Questo giovane è in comunicazione con Dio ».
Egli non sente: continua il suo cantare, in altra forma, quasi di spunti melodici e, come dice il testo, « le sue parole erano tronche e mutilate, quasi di chi risponde ad amorevoli interrogazioni ». Ne sono riferite alcune, potute raccogliere. E poi si lascia cadere rego¬larmente sul letto, e riappaiono i lumi, e il volto ritorna, come prima, quello d´un moribondo. Anche da sano, un fenomeno di quella sorta esaurirebbe le forze, ed egli « non dava più segno di vita »; ma lo spi¬rito era desto, tanto che « accorgendosi che non si pregava più, e non gli suggerivano più giaculatorie » si volge a Don Bosco: « Mi aiuti, preghiamo ». E dice egli stesso due delle consuete giaculatorie della buona morte, variando: « Assistetemi in questa agonia ». E non può tacere, ma seguita a dire invocazioni pie, quelle che sapeva fin da bambino: « Gesù nella mia mente, Gesù nella mia bocca, Gesù nel mio cuore, Gesù e Maria a voi do l´anima mia ».
E d´una serenità e d´una consapevolezza meravigliosa. Alle undici (le nostre ventitrè), non potendo parlare, dice soltanto: « ... il Croci¬fisso a. E cioè vuole la Benedizione Papale coll´indulgenza plenaria in articulo mortis : a cosa — dice Io Scrittore — da lui molte volte richiesta e da me promessa ». E noi ricordiamo, ch´è il momento proprio, la cara e popolana preghiera che diceva ogni sera fin da fan-ciulletto : « A coricarmi io vo : non so se mi leverò: quattro cose doman¬derò: Confessione, Comunione, Olio Santo, Benedizione Papale. Nel nome del Padre, ecc. » (capo II).
(1) Noi eravamo tutti attoniti in silenzio, e i nostri sguardi stavano rivolti all´infermo, che sembrava divenuto un Angiolo cogli Angeli del Paradiso ». Così dice Don Bosco, cap. XXXI, pag. 170.

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Ed ebbe veramente tutto. Poteva morire. Dopo quella benedizione gli si recitano le preci rituali dei morenti, ed egli, fissando lo sguardo in Don Bosco e tentando un sorriso, alza gli occhi al cielo, come a dire che se ne parte, e spira. Come il sonno d´un fanciullo che si addormenta cogli occhi fissi nel padre, e sorride.
Com´è bello il sorriso di contentezza che vi rimane!
L´immagine poetica è qui una realtà. Sul volto del povero mon¬tanaro si disegna, dopo lo spirare, una bellezza inattesa. Dice Don Bosco: « In quel giorno apparve altra cosa singolare. Nella fisionomia divenne così avvenente e il suo volto così rubicondo, che in nessun modo pareva morto. Anzi quand´era in sanità non apparve mai in lui sintomo di quella straordinaria bellezza. Gli stessi compagni, ben lungi dall´avere il panico timore che generalmente si ha dei morti, andavano con ansietà a vederlo, e tutti dicevano che egli sembrava veramente un Angiolo del cielo. Questo è il motivo che nel ritratto preso dopo morto, presenta fattezze molto più gentili e leggiadre che non aveva nel corso della vita» (capo XXXII).
S´è già discorso altrove di questa trasfigurazione, ed anche ci è valsa di buon paragone col rivelarsi che avviene della sua interiorità profonda e della santità da lui raggiunta, quando Io si studia a fondo sulle parole che di lui ha scritto Don Bosco. Il ritratto che ne viene è più bello della prima apparenza, perché illuminato dalla luce e soffuso dalla fiamma di Dio.

CAPITOLO TI
La santità
La morte del Besucco, quale ce la presenta il Santo biografo, è urta morte da santo, e il nostro commento ci fa vedere ch´è la morte di un santo. Come dissi fin da principio, non intendo preoccupare le riserve canoniche, e la parola non deve essere intesa oltre il prescritto dei decreti di Urbano VIII. Anche Don Bosco, scrivendo dei suoi giovani santi, come di Don Cafasso, ha premesso le medesime riserve: il che non lo ha impedito dal dire quanto era la verità, e sottolineare quanto era più che umano ed ordinario, purchè fosse storicamente provato: e due delle sue biografie, quella del Cafasso e quella di Savio Domenico, han servito di fondamento ai processi canonici.
Per il nostro Besucco non si poteva, o la storia non era verace, omettere quel che contrassegnava le sue virtù e le sue ascensioni spirituali, come non si poteva nascondere il fatto meraviglioso della sua visione e degli splendori che l´accompagnarono: mentre quella e questi erano avvenuti in presenza di tanti testimoni, e le virtù e pro¬gressi erano attestati da spontanei riferimenti di moltissimi, da os¬servazioni prudenti, dai colloqui personali con lo stesso Scrittore.
Se da questo esce formata la figura del Santo, e se ne forma la opinio sanctitatis, deve darsene causa e merito all´oggettivo intrinseco valore dei fatti, e « intendere, come diceva il Bellarrnino per S. Luigi (1), che non vi è alcuna età immatura a Dio, e che possono anco i giovani salire ad ogni grado di perfezione ».
Del Besucco non s´è istituito un Processo canonico, e probabilmente non lo si farà mai. La cagione è principalmente estrinseca, ma uma¬namente insormontabile. Sembra che tutte le circostanze men favore
(1) Rif. dai BOLLANDISTI, cit.: Panegirico del 1608 al Coll. Romano, col. 1153.

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voli si siano dato convegno per ostacolare una qualsiasi continuità di culto della sua memoria. La sua salma, sepolta 1´11 gennaio 1864 nel Camposanto comune di Torino, « segnata col NO 147 nella fila quadrata a ponente », è perduta nell´universa miscela dei corpi accomunati dopo il tempo prescritto. Al paese, dopo qualche manifestazione di fede e di ammirazione, se n´è perduta, col disparire della sua genera¬zione, ogni memoria, appunto perchè non vi era la sua tomba, e nes¬suno poteva recarvisi a pregare: la lontananza poi e l´isolamento del suo piccolissimo villaggio, all´ultimo confine della valle alpina, tolse il mezzo d´ogni attiva comunicazione con l´Oratorio, dove la sua memoria rimase viva per lungo tempo, e dove si leggeva la Vita scrittane quasi subito dal Santo.
È ben vero che l´abbagliante luce solare del Savio occupa tal¬mente il cielo delle memorie da non lasciar molto apparire quella di altre stelle, per quanto vivaci: tanto più se si pensa che il Savio ebbe per compagni in una comunità ancor limitata quei che adesso erano i superiori e i primi salesiani dell´Oratorio, laddove il Besucco c´era entrato come uno dei tanti in una Casa grande e ben stabilita, e le persone dell´altra ora non badavano a lui se non come ad un allievo dei migliori, e null´altro. Tantochè il Cerruti deponeva al Processo del Savio (1) che « la lettura delle altre Vite in quelli che conobbero il Savio e conobbero gli altri seguenti (Magone, Besucco) non produceva quell´attraimento e quella particolarissima stima che si manifestava invece verso il Savio: e ciò perchè in questo riconoscevano esservi dello straordinario, negli altri invece semplicemente dei giovani buoni e virtuosi » (2). Don Bosco sembra ne avesse ben altra opinione; e le parole che egli dice del Besucco, se non vogliamo prenderle come amplificazioni letterarie, superano in profondità e in valore molte consimili idee espresse per il Savio.
Ma tant´è: l´opinio sanctitatis per il Besucco non si mantenne viva, non già perchè negata o contrastata, ma perchè le circostanze ne attutirono la memoria.
Ci appare in questo il disegno della Provvidenza nel confronto con Savio Domenico, andato a morire lontano da Don Bosco, ma sepolto in modo che se ne poterono conservare le reliquie. Che poi il culto della memoria si sia concentrato e svolto di preferenza per il
(1) Somm. Processi Ord. e Apost., pag. 396.
(2) Si osservi tuttavia che il Cerruti non potè conoscere il Besucco, giacchè nel tempo che il santo giovane fu all´Oratorio, egli era nella Casa allora aperta di Mirabello, con Don Rua, Don Bonetti, Don Albera (cfr. Mem. Biogr., vol. VII, pag. 519 segg. e passim).

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Savio e non per quest´altro, è cosa tutta di Dio, che dispone le contin¬genze umane, e non tocca a noi indagare più oltre. La santità del Savio è fuori d´ogni discussione, giacché è riconosciuta e dichiarata uffi¬cialmente dalla Chiesa. Ma Ia santità non ha una forma sola, e il riconoscimento ufficiale, che autorizza il culto, poiché dipende, per la sua attuazione, da contingenze umane e da esigenze giuridiche, non è indispensabile a che venga riconosciuta in se stessa (1).
Nè creda il buon lettore che noi si dimentichi la distinzione doverosa tra i due gradi di più alta perfezione: quello cioè che è la
piena caritatis consummatio, seu caritas heroica, quale si vuole dalla Chiesa per la beatificazione dei Santi; e quello della consummatio
caritatis minus piena et splendens ma vera e sufficiente a collocare l´anima oltre iI limite dei proficienti: per il che mi rimetto agli autori
più autorevoli e recenti (2). Il Besucco potrebb´essere posto in codesta classe dei perfetti di secondo grado. Ma, con buona venia di chi vuol troppo dedurre dai fatti compiuti, non so se Don Bosco, quando avesse voluto definire quella piena consummatio caritatis che è l´eroismo dell´amor Dio, avrebbe trovato (e quando scrive il Besucco mostra di ben conoscere) parole differenti da quelle che usò per descrivere gli stati d´amore dell´anima del suo alunno. La grande parola — pa¬rola epigrafica, possiamo dire — del movente mi sembra che stia a
suo posto nella piena consummatio più che in quella minus piena et splendens delle definizioni.
Gli elementi della santità, anche secondo le più strette definizioni, nel nostro giovanetto non mancano, e via via li abbiamo riconosciuti seguendo il dettato di Don Bosco, anzi qualche volta rilevando il giudizio di lui stesso (capo XXII e XXVI). Il suo Arciprete, che descrive minuziosamente la sua vita nei primi tredici anni, ci dice che non gli si poteva apporre cosa che potesse dirsi peccato veniale deliberato. Don Bosco, più tardi, ripete che « dalla sua vita consta non aver mai commessa azione che si possa appellar peccato mor¬tale »: ciò che corrisponde alle parole della madre, che il giovanetto in morte può dire d´aver sempre osservate.
Non occorre ripetere i confronti che abbiam fatto tra la giovinezza, anzi la fanciullezza, di molti e molti Santi canonizzati e quella del nostro
(1) Così avviene dei Santi canonizzati a gran distanza dalla loro morte. Prima che si istituisca Ia causa canonica, la loro memoria è tenuta in concetto di santità, ed è appunto questo concetto che promuove Ia causa. Il grande Bellarmino ha aspet¬tato tre secoli prima che se ne facesse il Processo canonico, ed ora è Santo e Dottore di Santa Chiesa,
(2) Cfr. Jos. DE GUIBERT, S. J., Theologia Spiritualis, Ascetica et Mistica, Ouaest. sei.; Romae, apud Typ. Univ. Gregor., 1939: §§ 357-359.

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fanciullo. Se per quelli erano indivia, specimen, futurae sanctitatis, e cioè spunti e germogli di santità, dobbiamo similmente vederli nella prima età del Besucco. La sua pietà, fin dai primi anni, è oggetto di ammirazione a tutti, ed ha dei tratti eroici per la sua età; la preci¬sione nei suoi doveri, la difesa della sua purezza, la bontà del cuore, la presenza e l´attenzione a Dio in ogni cosa e il leggere Iddio negli stessi spettacoli della natura; l´esemplarità e il piccolo apostolato nella vita quotidiana: tutta la sua condotta paragonabile, come di¬cemmo, alla giovinezza dei Santi canonizzati, formano iI fondo della vita non comunemente virtuosa.
A ciò s´aggiunge il continuo spirito di mortificazione e di penitenza, che potè persino parere eccessivo: con questo, l´amor della preghiera che « sembrò nato con lui »; l´intensità della sua preghiera, che ancor fanciullo, lo tiene « in una continua unione con Dio » ed innalza ad alto grado il fervore delle sue comunioni, che culmina nel desiderio della divina volontà.
E una volta confermata supernamente la sua vocazione, e messo nelle mani di Don Bosco, in cinque mesi progredisce con una meravi¬gliosa rapidità nella via della perfezione: si che il Santo stesso deve ammirare in lui una padronanza di raccoglimento propria « di un´ele¬vata perfezione che raramente si osserva nelle persone di virtù consu¬mata » e uno straordinario spirito di preghiera, che trasforma la sua vita in una preghiera continua: così come stupisce santamente per l´aloisiano spirito di mortificazione, coltivata ed esercitata per soddi¬sfare all´amor di Dio e tenersi unito con Lui, e portata fino all´eroica imprudenza dalla sua ingenuità nell´obbedire. Ed è Don Bosco che gli attribuisce il desiderio di S. Paolo, e che nota tutti i segni di un´in¬tensa vita interiore, che non ha altra mira se non il Cielo e l´amar di Dio: li indica nel culto dell´Eucarestia e della Passione, e nella divozione mariana: divozioni praticate da lui come un´espressione del bisogno interiore d´unione con Dio e di parlar con Dio.
E sono da santo le parole stupende con le quali accoglie l´annuncio della prossima fine, com´è da santo la gioia del soffrire: « non mi sarei mai immaginato che si provasse tanto piacere nel patire per amor del Signore »; da santo il desiderio del Paradiso « per andare col Si¬gnore »: sentimenti e parole tutte attinte dal profondo spirito di de¬vozione a Dio e dalla consuetudine dell´amore soprannaturale. Fino alla parola che tutto compendia, l´ultima definizione del suo perenne stato d´animo nella vita con Dio: il rincrescimento di non averlo amato quanto si merita! E finalmente il segno esterno delle compia-cenze di Dio: la visione finale e l´irradiazione della luce soprannatu¬rale, e la bellezza straordinaria del suo aspetto dopo la morte.

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È tutta una storia di grazie divine crescenti e di -cooperazione non mai cessata per parte dell´anima che ne fu oggetto. Giustamente Don Bosco vide nel suo Besucco un « prediletto dal Signore » (capo VI), e vi scorse e sentì lo straordinario, e Io dice nella Prefazione, e altrove ricordava « le virtù che in questo meraviglioso giovane risplendettero » (capo )(XXIII), e, per dirla in una parola, riconobbe nella storia di quell´anima «le meraviglie del Signore nei suoi servi » (Conclusione),
che traduce ovviamente il biblico Mirabilis Deus in Sanctis suis (Ps. LXVII).
Possiamo dire che il concetto di santità non fu solo nel Santo scrit¬tore; ma ancor prima ch´egli scrivesse, e fuori della sua diretta in¬fluenza, nel paese nativo del giovanetto si manifestò in modo non dubbio e spontaneamente: così come di per sè e subito fu espresso nella stessa casa dell´Oratorio. Qui « la voce comune » è che il caro compagno sia volato al cielo, e non abbia più bisogno di preghiere, e che già goda la gloria deI Paradiso e la vista di Dio, e preghi per gli altri: così si dice in vario parlare. E si assiste al fatto dei molti che cer
cano di avere qualche oggetto appartenuto al defunto, per conservarlo « come cosa della più grata ricordanza ».
All´Argentera « le virtù che in questo maraviglioso giovane ri¬splendettero per Io spazio di circa quattordici anni, divennero più luminose ancora, quando egli mancò dai vivi, e quando si ebbero notizie della preziosa sua morte » (capo )(XXIII). L´Arciprete pa¬drino mandò a Don Bosco « una commovente relazione di cose che hanno del soprannaturale ». Lo scrittore si riserva di pubblicarle « per un tempo più opportuno ». Così ha fatto anche nelle altre bio¬grafie, a cominciare dal Comollo: benché, per circostanze che appar¬tengono alla storia men conosciuta della sua vita, non abbia potuto farlo per una tempo lunghissimo, e quando sarebbe stato libero di farlo, non era forse più in grado di attendervi (1). Tuttavia anche quel tanto che qui è riferito basta a dare un´idea dell´aura di vene
( 1 ) P da tener conto delle aspre difficoltà attraversate da Don Bosco nel periodo 1872-83 a causa delle note questioni coll´arcivescovo Gastaldi, che per¬fino se la prese colle grazie di Maria Ausiliatrice. Per il Comollo dovette aspettare al 1884 prima di pubblicare la straordinaria apparizione. Nel Savio aggiunse più notizie biografiche e qualcuna anche straordinaria, nella 2a e 3a edizione: ma di fatti d´intervento soprannaturale nessuno va oltre il 1861, e una relazione Pelle¬grini del 1871 fu inserita soltanto dopo il 1884. H Magone non ebbe di tali necessità e furono aggiunti solo particolari biografici. Del Besucco la 29, edizione, del 1878, cadeva appunto in piena crisi, e non fu aggiunto nulla di straordinario o soprannaturale.

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razione che avvolse nella sua lontana patria la sua memoria. Intanto non è da trascurare il fatto della telepatia (ora si pensa così) che annunziò alla sorella minore di lui la morte appena avvenuta, e in modo tale che la fanciulla comprese senz´altro che si trattava di ciò, e dissimulò la cosa « perché la madre non venisse a sospettare della morte di Francesco » (1). E la notizia non poteva giungere al paese che per la lettera, cioè non prima di tre giorni, chi pensi alla durata del viaggio del buon pastorello dall´Argentera a Torino. Infatti giunge la sera del giorno tredici.
Quella notizia « corse tosto di bocca in bocca, ed in meno di un´ora Francesco era ovunque proclamato modello della gioventù cri¬stiana » (2). E subito nasce il moto di venerazione e di fiducia, potremmo dire un principio di culto. « Parecchi altri — dice la re¬lazione — commossi alla santità di lui, non esitarono a raccoman¬darsegli per ottenere celesti favori con esito il più felice ». Cominciava cioè pel Besucco quella che i Bollandisti chiamavano la gloria postuma dei Santi.
Don Bosco riferisce « alcuni altri brani » di quella relazione, cioè alcuni fatti « che hanno del soprannaturale » e che egli non vuol discutere, volendo solo « fare la parte dello storico, rimettendosi a qualsiasi osservazione che sia per fare il benevolo lettore ». È il giusto scrupolo della storicità a cui alludemmo fin dal principio. Sono per¬tanto alcune grazie ottenute per intercessione del giovane santo. Un bambino di circa due anni in pericolo di vita, risanato in brevissimo tempo, e votato, in omaggio al Besucco, alla pratica della Via Crucis. Così avviene d´un padre di famiglia, cantore della Parrocchia, grave¬mente infermo, raccomandato dal Parroco stesso «alle preghiere del caro giovanetto » e al SS. Sacramento: anch´egli guarito in pochi giorni perfettamente. E la sorella maggiore del Besucco stesso, ma¬ritatasi nel marzo, lo invoca per esser liberata da un incomodo che le toglie ogni riposo, e l´ottiene senz´altro. Parimenti lo invoca in un momento di grave pericolo per la sua vita, « e ne fu oltre ogni sua aspettazione favorita ». Lo stesso Don Pepino confessa che, come si raccomandava alle preghiere del suo figlioccio vivente (capo IX), così ha ricorso « con maggior fiducia » dopo la sua morte, ottenendone « felici risultati ».
La riserva che Don Bosco si è imposta, non vieta, anzi induce a
(1) Nei paesi di campagna l´ora si calcola così ad estimo (e gli orologi erano pochi tra la povera gente!) senza troppa cronometria. Il Besucco morì alle 11 e un quarto: il rumore fu sentito dalla fanciulla circa la mezzanotte.
(2) Cfr. la nota 41 al testo, per la variante della la edizione.

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credere che altre ed altre grazie, e forse qualche cosa di più, si siano avverate, che egli avrebbe « in un tempo più opportuno » rivelate, così come aveva fatto per il Savio Domenico. Ma egli, pur avendo « parecchie cose a riferire intorno a questo virtuoso giovanetto », se ne astiene per ora, rimettendole, ripete, a tempo « più opportuno », per evitar la critica da parte di chi « rifugge di riconoscere le meraviglie del Signore ne´ suoi servi».
Con questa solennne affermazione che, con una reminiscenza scritturale, dice chiaramente che il Pastorello delle Alpi Besucco Francesco per lui è un Santo, egli mette termine alla Vita che ha dettata per (( appagare i suoi amati figli, ed anche istruirli nella pra¬tica della virtù, di cui il Besucco si rese modello » (Prefazione).
E noi diciamo che con essa egli ci ha rivelato un Santo di più.

Lasciamo il resto della Conclusione, ch´è, anche questa volta, una parenesi di carattere generico e non strettamente attinente aI con¬testo del libro (1). Noi, volgendoci a mirare il cammino percorso nel leggere questa Vita, vediamo (come ha veduto l´Autore aI termine del suo racconto) tutto lo svolgersi armonico di una vita spirituale, che si viene maturando nella soprannaturale atmosfera della grazia di Dio, e sotto la mano esperta di due coltivatori, l´uno dei quali ne comprende la natura e la conduce fino ad essere pronta e recettiva di quell´altra coltivazione, in cui veramente si schiude e fiorisce la sua propria e individua vitalità. In altre parole, l´opera del primo educatore, l´arciprete Don Pepino, è condotta nel medesimo spirito del secondo, ch´è Don Bosco, e si opera nel fatto come una inconscia divisione del lavoro, di cui la materia, se possiamo così chiamarla, è l´indole buona e religiosa e il buon cuore del fanciullo : la forma o disegno sono l´assenza del peccato, la presenza di Dio, la precisione nel do¬vere, Io spirito di mortificazione e lo spirito di preghiera, e l´eleva¬zione all´unione con Dio, che mette senz´altro nella sfera dell´amore illimitato, ossia della carità perfetta.
Il primo compito rimane adempiuto con lo svelarsi della voca¬zione e col trapasso dall´una all´altra mano : ed è tanto ben riuscito,
(1) Alludo alla conclusione del Cornollo, ch´è un riflesso apologetico sulla san¬tità della Religione Cattolica, quale potrebbe stare in qualsiasi altro libro di religione. La conclusione del Savio Domenico è attinente in quanto l´esortazione all´uso frequente e ponderato della Confessione, parte dal fatto che la santità del mera¬viglioso discepolo vi è guidata e sorretta, noi diciamo formata, per mezzo della Confessione. Il Magone si termina e conclude coll´elogio funebre del giovanetto. La conclusione del Besucco esorta a tenersi preparati alla morte con la pratica della virtù, colle opere buone, seguendo la Religione contro Ie derisioni degli stolti. Parrebbe anzi che questa parenesi fosse destinata ad altro libro, dove si sia parlato della pratica della virtù, del modo di praticarla, e della grande ricompensa che Dio alla medesima tiene preparata nell´altra vita ». Buone cose, ma che non deri¬vano espressamente dal libro.

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che da solo basterebbe per una esemplarità e per una spiritualità non comune e soprattutto vera e soda, quale si vorrebbe nella vita cristiana vissuta con giusta precisione. Al secondo lavoro interviene a mettere un termine la mano di Dio, che recide il bellissimo fiore e se lo porta nel verdeggiante Cielo delle santità fatte di desiderio e adempiute dalla previdenza divina.
Usciva dalla vita terrena il santo giovanetto compiutamente at¬trezzato « per un dopo che gli mancò » (1), e che nel pensiero di Dio non era destinato a lui di operare: ma la preparazione sua era già tale da valere per se stessa come una forma di santità. Questo, come ho già detto altrove, è il significato che il Crispolti dà alla breve du¬rata della vita di S. Luigi; ed è bene qui ricordarlo, non perchè si voglia mettere il nostro alla pari col Gonzaga, ma per avvalorare con l´autorità d´un confronto le nostre affermazioni (2).
Che anzi il ravvicinamento ci vale di buon trapasso ad un´altra ed ultima serie di considerazioni. L´autore ora citato ci richiama ad un sapiente riflesso, opportuno assai pel caso nostro. Dice di S. Luigi: a La tendenza ad esagerare anche nel bene, mirabile per le forze che rivela e per la carità da cui nasce, è assai frequentemente un bel di¬fetto, se così può dirsi, dell´età giovanile; poiché la grazia, anche stra¬ordinaria, non distrugge la natura di essa. Cogli anni l´esagerazione sfuma... » (3).
Ed è, salve sempre le proporzioni, il caso del nostro Besucco, quale Don Bosco stesso ha notato a suo luogo. Colla differenza (ed è in questo il punto di passaggio per noi) che nel Gonzaga la nuova educazione spirituale, cominciata ai sedici anni e chiusasi ai ventitrè, fu, come sarebbe stata anche in seguito, un lavoro di perfezionamento nella massima parte autogeno (4): e qui, per tutti i motivi che cono¬sciamo, tra cui principalissimi l´età, le origini sociali e le condizioni culturali, quella non poteva operarsi se non per mano del Pedagogo. Chi ci ha seguiti con qualche attenzione nel nostro studio, dev´essersi persuaso che se il Besucco non fosse vissuto nel clima di Don Bosco,
(1) CRISPOLTI, e. Cit., pag. 32.
(2) CRISPOLTI, cit., cap. II, pagg. 29-49.
(3) CRISPOLTI, cit., pag. 49.
(4) Certamente, con un confessore e direttore di spirito come il Bellarmino, l´opera sarebbe stata molto più rapida e più agevole; ma, da quanto storicamente ne consta, la potentissima concentrazione (una quasi autoscopia) del Gonzaga su di se stesso, vi aveva una parte preponderante, e non era per lo più il Santo Bel¬larmino a proporre, quanto il giovane Luigi ad interrogare. Cosa che avviene a tutti i Santi, ma nel Gonzaga (come in S. Teresa la Grande e nella Teresa di
Lisieux) caratteristica.

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e sull´anima di lui non avesse lavorato il Santo pedagogo, egli non sa¬rebbe divenuto quale riuscì, o, quanto meno, non fino a tal grado.
La mano di Don Bosco nella formazione del giovanetto nostro fu indispensabilmente, ed è, nel fatto, evidente. La Vita del Besucco e il contenuto spirituale che vi si legge (e si deve leggere), non è sol¬tanto la storia o il quadro d´una fiorita spirituale, ma insieme è un documento della pedagogia delle anime attuata da Don Bosco. Non sono, lo spirito e la guida, due linee parallele (che si fiancheggiano, ma non s´incontrano), sibbene due moti, un sotto l´altro, d´una me¬desima corrente, che sfociano insieme, e quello che sostiene la cor¬rente visibile appare a tratti, quando il fluire o si volge per altra via, o si perita a sormontare un ostacolo.
Così è apparsa a noi nello svolgersi della vita del Besucco l´opera di Don Bosco, e l´abbiamo segnata a volta a volta. Ma poiché, come fin dalle prime pagine abbiamo detto, il libro non solo è per sè un do¬cumento, ma è intenzione dell´Autore che sia, ed è condotto in modo da essere un documento, nasce per noi iI dovere di raccoglierne insieme i dati e i risultati pratici, ch´è quanto dire il dovere di definire, fondandoci su di esso, quali siano le linee somme e sostanziali del suo insegnamento pedagogico. Non riassunto sonunativo né ripe¬tizione dei particolari: ma concetti e principi informatori che dànno la sintesi dell´induzione.
Don Bosco parte dal principio che la santificazione, il farsi santi, è possibile in ogni età e condizione; e nel suo ottimismo di Santo ne vede la possibilità e la capacità in molti più individui che non ne darebbero apparenza: in misure diverse, ma per la stessa via, cerca di condurvene quanti più gli è possibile.
La sua è per questo la pedagogia dell´un per uno: disciplinare la folla e coltivarla spiritualmente, in modo che essa permetta la fiori¬tura scelta dei migliori, non chiusi in serra, ma respiranti un´atmosfera di bene. Noi sappiamo il conto ch´egli faceva dell´ambiente, e che, mentre non pretendeva da tutti la medesima perfezione, poteva fare assegnamento sul tono dominante della vita e sul non sempre ristretto numero dei buoni. Ma sugli indirizzi comuni egli inseriva la cura dei singoli, uno per uno, e, secondo la varia disposizione e natura, li por¬tava al punto segnato dalla grazia di Dio, cioè li ammaestrava a col-laborare con sè, Maestro, e con la grazia divina che veniva rivelandosi. La cura dei singoli è per Don Bosco un equivalente della libertà di spirito, intesa come rispetto della personalità spirituale: chè altrimenti

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tanto varrebbe ridurre tutti ad un tipo unico secondo una formula imposta coll´autorità di Direttore Maestro, o educare a masse, senz´altro controllo che della prassi esterna.
Don Bosco vuole invece essenzialmente e innanzi tutto la forma¬zione dell´anima cristiana, e la salvezza della gioventù mediante l´edu¬cazione parte da questo principio e vive della sua forza. L´anima non si forma cristianamente col solo apparato esterno, intellettuale o fun¬zionale: essa deve vivere nella grazia di Dio, e vivere questa grazia per svolgere in sè le vere energie morali. In altre parole, la neces¬sità primordiale è l´astenzione o l´estinzione del peccato, del male, e la presenza attiva della grazia di Dio nell´anima. Per questo il prin¬cipio attivo del suo lavoro educativo (o, diciamo, del suo sistema pedagogico) s´impernia sull´efficacia dei Sacramenti della Confes¬sione e della Comunione, praticati con frequenza e con serietà, cioè con regolarità e attività del volere, si che, oltre al loro valore intrinseco di operatori della grazia, abbiamo anche l´efficacia pedagogica dell´edu¬cazione interiore della volontà.
La religione non entra nella sua concezione educativa come un fiancheggiarnento, ma come sostanza prima (l´ho detta quintessenza): ed è cioè un sistema ed una concezione religiosa della vita, da cui deriva e dove poggia ed a cui tende ogni attività della vita assegnata dal dovere. Ed è insieme la concezione religiosa del dovere: non la profana religione del dovere, ma la cristiana religiosità nell´adempi¬mento di esso; per il che il dovere è concepito e presentato come un fatto di coscienza verso Dio, ed è, qualunque sia, un servizio di Dio. Da ciò la nobile precisione a cui egli rivolge ed avvezza il suo discepolo, che nell´adempiere a ciò che la vita vuole da lui, si adopera in un esercizio di miglioramento morale e di elevazione spirituale.
E vi è di più. La religiosità della vita interna ed esterna, lo spirito di codesta vita quotidiana vissuta nel pensiero di Dio, è un pensiero ed uno spirito di amore. Nel suo sistema educativo l´amore è tutto. Ed ognun vede come il vivere amorosamente la vita del dovere, ossia il far le cose per amore e con amore, ch´è il principio animatore della vita pratica, riesca a dare al tutto un tono non solo più sereno e una energia che il solo intelletto non dà, e insomma un´alacrità e scioltezza di spirito che trascende le inevitabili gravedini del vivere quotidiano; ma insieme induca quella letizia ch´è propria del contentamento del¬l´anima e quell´impulso che porta a far sempre più e sempre meglio. Ed è adunque l´anima del suo sistema la santificazione per mezzo del¬l´amore nella pratica della vita quotidiana.
Quand´egli segna al Besucco i punti del suo programma:, allegria, studio, pietà, egli vuoi dire tutto questo, e mette il fondamento a quel

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di più, che svolgendosi da esso e per esso, conduce alle realtà supe¬riori della santità.
Perchè in quest´altro ulteriore cammino la sua pedagogia non aggiunge nuovi elementi, ma svolge più profondamente e con maggiore ampiezza quelli che già sono contenuti nei princpi capitali. La morti¬ficazione stessa, cosa vitale per ogni avanzamento nello spirito, non è nel concetto di lui se non un fatto della pietà, che mirando a Dio per amore, conduce l´anima a vincersi, a superarsi, nella lotta contro gli elementi terreni che attraggono a sè e staccano da Dio. Ed ha vo¬luto dimostrarlo appunto colla Vita del Besucco, la quale si direbbe, ed è effettivamente, la prova esemplata della sua tesi.
Sopra ho detto di materia e di forma del lavoro di educazione condotto successivamente da due mani intorno all´anima del Besucco. Non occorre lungo ragionamento a render chiaro ed evidente il nesso che hanno con i punti fondamentali del programma di Don Bosco. Tutto dipende dalla grazia di Dio e dai fondamento che natura pone » ch´è l´indole non cattiva e non ostile, e il buon cuore. Don Bosco ottenne miracoli di valore e di numero (la nuinerositas dei SS. Padri), fondandosi su questo, e lavorandovi col suo sistema, cioè, diciamolo ancora, dirigendo l´anima dei giovani secondo i tre principi pratici dell´allegria, dello studio o lavoro, della pietà, nei quali è inclusa, come o postulato o corollario, la purezza.
Il quale sistema, adunque, e cioè la pedagogia pensata da Don Bosco, è non solo principalmente, ma radicalmente e per essenza, una peda¬gogia spirituale di anime_ L´ho già affermato sopra a spiegazione del dettato, e lo ripeto qui, a conclusione di tutto, come tesi dimostrata. Non altra è per il Santo Pedagogo (cioè per un Pedagogo ch´è un Santo) la concezione e la via unica e inderogabile per ottenere la vera, la soda, la sola autentica educazione morale. L inutile, e può essere fallace, l´andare indagando, come si fa da certi studiosi, quali altre siano le basi e quali, se mai, le fonti dottrinali di un sistema educativo come questo: se non si parte di qui, non s´approda a nulla in teoria, e si fallisce nella pratica.
Io pure, molt´anni fa, scrissi una biografia di Un piccolo Santo, Giovanni Moraschi, mio scolaro tredicenne: e la conclusione del tutto era che la sua piccola santità s´era venuta formando con nulla più di quanto gli metteva innanzi la vita salesiana del Collegio ove studiava, e cioè il sistema educativo di Don Bosco, ch´è capace, nonchè di for¬mare della buona gioventù cristiana e morale, ma, assimilato in pieno, può dare anche dei frutti di santità. Il che non potrebb´essere se l´in¬tima sua vita non fosse quella che Don Bosco vi pose: la pedagogia spirituale delle anime.

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Questa è la sostanza e il contenuto del documento, e la sua pre¬ziosità è riposta nell´aver voluto Don Bosco consegnarvi il suo pen¬siero e le sue vedute: il suo programma. I particolari sono molti ed eloquenti e costruttivi; ed erano sconosciuti o non valutati nella giusta misura e nel proprio significato, come qui avviene per l´unità per¬sonale a cui appartengono, ch´è quella d´un santo di più, del quale ci si venne rivelando l´intima storia spirituale, giunta ad altezze im¬pensate; cosi com´era sconosciuta tutta la funzione ascetica e la stessa intima e vera spiritualità dell´azione educativa dì Don Bosco.
Ed è importante, è necessario conoscerlo, quando si rifletta che gl´indirizzi spirituali, segnati dal Santo per i suoi giovani, sono quei medesimi, e non altri, coi quali ha formato tutti i suoi, ed a cui è ispirata tutta la tradizione spirituale salesiana, ond´è permeata, dice bene l´Orestano, la società cristiana moderna.
Codesta spiritualità e, se si voglia dire, ascetica, io ho creduto di riconoscere, ed ho cercato di lumeggiare, interpretando le pagine di questa Vita. L´ho fatto qui, e non altrove, perché nessun´altra di tali Vite è condotta con così chiaro intento e con tale sistematica (potrebbe dirsi programmatica) disposizione, da poter esser presa quasi come a testo per costruire e documentare le concezioni e gl´in¬dirizzi spirituali del Santo Pedagogo.
Per questo il mio studio è riuscito più esteso che non ci si aspettava. Ma non me ne pento, e non domando venia al lettore: perché, se non pretendo troppo, ho la coscienza di aver fatto, se non una scoperta, certamente un´indagine e disamina rivelatrice. E di questa sono ri¬conoscente alla buona e santa immagine paterna del Santo Educatore, che fu pure Padre dell´anima mia; mentre del mio modesto lavoro son lieto di fare omaggio a Colui che ne continua l´opera e lo spirito, DON PIETRO RICALDONE, Quarto Successore di Don Bosco.
Torino, 29 dicembre 1938
DON ALBERTO CAVIGLIA
Finito di copiare di mia mano a ore 16 del 29 dicembre 1938.

INDICE E SOMMARIO
PARTE PRIMA
La figura del Besucco
CAPITOLO I — La natura e l´ambiente pag. 111
Il ritratto fisico. — Le fattezze spirituali. — L´idea esemplare in Don Bosco.
Il primo periodo della vita. — La famiglia. — La religiosità. buon cuore. — Don Bosco e il cuore del fanciullo. — L´ingegno. — Il sentimento della natura.
Il Padrino Arciprete e l´opera sua. — Tipo salesiano.
CAPITOLO II — La vita virtuosa » 120
La pietà nel Besucco fanciullo. — Lo spirito di preghiera con¬tinua. — Presenza e unione con Dio. — Pratiche di chiesa. — Il programma degli undici anni.
La Confessione. — Il gran tema di Don Bosco. — Confidenza
e funzione educativa. L´esemplarità del Besucco.
La Prima Comunione anticipata. — La prova eroica. — L´inno¬cenza e lo stato dell´anima del Besucco. — L´elevazione spirituale del Besucco fanciullo. — La pratica e la prassi alfonsima della frequenza.
La mortificazione e lo spirito d´amore. — Accostamento con S. Luigi. — La tesi del Crispolti. — La mortificazione del Besucco fanciullo.
La purezza. — Esemplarità del Besucco. — La vigilanza e pru¬denza. — La battaglia.
La vita dello scolaro. — Il dovere. — L´apostolato.
CAPITOLO III — Il nuovo stadio » 142
Nuovo stadio a undici anni. — Precoce maturità. — Le lettere. — La Vita di S. Luigi. — Le Vite di Magone e Savio Domenico. — Nuovo ideale.
La vocazione. — La scuola del Padrino. — La rivelazione miste¬riosa. — L´adempimento: il Paradiso.

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PARTE SECONDA
Alla scuola di Don Bosco
CAPITOLO I — La nuova scuola pag. 151
Il Besucco a 13 anni. — Reminiscenze aloisiane. La nostra tesi. — Besucco è opera di Don Bosco. Il metodo di Don Bosco. — La libertà spirituale. L´ambiente della Casa di Don Bosco.
L´allegria.
La religiosità. — « Quei giorni »,
CAPITOLO II — Il programma a 163
L´ordine sistematico della seconda parte del libro. — Il documento
Il cuore del giovane e la « morale educazione ».
Il programma: allegria, studio, pietà.
L´allegria. — La ricreazione salesiana.
Lo studio e il dovere. — Il tempo. — II valore ascetico dell´osser
vanza e del tempo. — Lo spirito di precisione.
La pietà. — Il capo XIX e la tesi pedagogica di Don Bosco. —
La quintessenza.
La Confessione.
Il confessore stabile.
L´esempio del Besucco.
La Comunione e la frequenza. — La questione dei rigoristi.
Il dialogo didascalico. — Le idee e la prassi di Don Bosco.
CAPITOLO III — La storia spirituale » 190
A) La divozione aucaristica e i suoi valori spirituali. — Come ci si presenta nel Besucco.
Lo spirito di preghiera. — Il cibo spirituale. — La preghiera orale. — IL raccoglimento.
Le divozioni. — La divozione mariana. — Le altre divozioni. La preghiera continua. — L´idea di S. Francesco di Sales. ¬Lo stato del Besucco. — Un insomma.
B) La mortificazione. — Lo spirito aloisiano dell´amore. — Sen¬tenze di Don Bosco.
Il regime di Don Bosco e il concetto salesiano. — L´ardore deI Besucco. — Un altro insomma.
Aneddoti ed episodi. — Le e buone notti » di Don Bosco e un dialogo del Besucco.
C) Le lettere. — Don Bosco e lo scriver lettere. — Lettera al Padrino. — Al Padre. — Seconda lettera al Padrino: il buon amico dell´Oratorio. — Una lettera di consiglio al Bertrandi.
Lettere presaghe. — Al Padrino. — La lettera-testamento ai geni¬tori. — La volontà di Dio.

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PARTE TERZA
La fine trionfale
CAPITOLO I — Le rivelazioni dell´amore pag. 221
Gli ultimi capitoli della Vita e il nuovo contenuto. — Parallelo
fra i tre giovani santi.
La malattia eroica. — Parole da santo. — Il poema e il meravi
glioso. — La gioia di soffrire. — II desiderio di Dio per la via
della morte.
Don Bosco e l´infermo. — II Paradiso. — Dialogo di santo: la
meravigliosa risposta. — L´assicurazione del Paradiso.
Il colloquio della fiducia. — La stima di Don Bosco. — Racco
mandazioni del morente. — Compagni. — Chierici. — Superiori.
— Don Bosco.
Il Viatico. — Le commissioni per il Padrino. — Per la madre.
— La grande consolazione: la preghiera materna ascoltata. La sua parola. — Il volo dell´anima. — L´« ineffabile ventura ». — Le parole storiche dei giovani santi di Don Bosco. — Lo spirito mariano. — Lo spirito d´amore. — Besucco e Savio. L´Olio Santo. — L´ultima domanda e il suggerimento di Don Bosco: tutto il purgatorio prima di morire.
Morti preziose. — Una morte trionfante. — La Visione. ¬L´irradiazione. — Il canto. — La bellezza radiosa dopo morte.
CAPITOLO II — La santità » 248
Caratteri di santità nel Besucco.
Il concetto di santità e la « gloria postuma n. — Fatti straordinari.
- « Le meraviglie del Signore nei suoi servi ». PARTE QUARTA
L´opera di Don Bosco » 255
Le due coltivazioni. — Valore del clima di Don Bosco.
I principi di Don Bosco: la santità giovanile. — L´un per uno.
— L´anima cristiana. — Religione della grazia: i Sacramenti. ¬Il dovere santificato. — Far per amore e con amore. — Serenità e letizia. — Il trinomio del programma e gli sviluppi spirituali.
— La mortificazione. — IL fondamento naturale e la grazia di Dio. Il sistema di Don Bosco è pedagogia spirituale di anime. Conclusione. — Il documento sconosciuto o non valutato. ¬Gl´indirizzi della tradizione salesiana.
N.B. — L´edizione critica del testo, con un´« Introduzione alla lettura » e con le note illustrative in numerazione progressiva, è pubblicata a parte.