UNA NOVITÀ DIROMPENTE
1. Il tassello che mancava. - 2. I coadiutori di Don Bosco. - 3. Profilo biografico vocazionale di Artemide Zatti - 3.1. In Patagonia l’incontro con Don Bosco - 3.2. La vocazione salesiana - 3.3. La prova della malattia e la sua accettazione - 3.4. Sempre con Don Bosco come salesiano coadiutore - 3.5. Buon samaritano a tempo pieno - 3.6. Verso l’incontro lungamente preparato: riconoscimento popolare al “parente di tutti i poveri”. - 4. Il messaggio di Artemide Zatti: prospettive per l’oggi - 4.1. Testimone originale di santità salesiana - La calamita di Don Bosco - La dedizione assoluta - Infermiere educatore – Il “lavoro santificato”: sintesi tra spiritualità e professionalità - Riflesso di Dio con radicalità evangelica. - 4.2. Da salesiano coadiutore - La figura del salesiano coadiutore - Alcuni rilievi particolari: - la forma istituzionale degli Istituti; - il salesiano coadiutore e i laici collaboratori; - la formazione del salesiano coadiutore - 5. Pastorale vocazionale: invito ad un impegno straordinario. - Conclusione: la nostra vocazione alla santità.
Roma, 31 maggio 2001
Il mosaico dei nostri santi e beati, pur essendo abbastanza ricco quanto a rappresentatività – Fondatore, Confondatrice, Rettori Maggiori, missionari, martiri, sacerdoti, giovani – era ancora privo del tassello prezioso della figura di un coadiutore. Ora anche questo si sta realizzando.
L’11 marzo di quest’anno abbiamo avuto la gioia di onorare come beati i primi sette coadiutori martiri, tra i 32 membri della Famiglia Salesiana martiri beatificati dal Papa Giovanni Paolo II. La loro vita e la loro morte hanno proclamato in forma chiara la radicalità dell’adesione a Cristo e la fedeltà alla vocazione.
Il 24 aprile scorso è stato letto il decreto sul miracolo ottenuto per intercessione del coadiutore Artemide Zatti. Nell’iter di una Causa, questa tappa prelude alla Beatificazione. Egli sarà dunque il primo coadiutore non martire ad essere proclamato beato. Anche altri tre membri della nostra Famiglia Salesiana sono prossimi agli onori degli altari: Suor Maria Romero, don Luigi Variara, Suor Eusebia Palomino. Noi prevediamo che la beatificazione del Signor Artemide Zatti possa aver luogo durante il CG25: sarà certamente un momento forte dell'assise capitolare!
Vi invito a ringraziare il Signore sia per la recente beatificazione dei nostri martiri spagnoli, sia per quella prossima di Artemide Zatti. Questa mia lettera circolare intende preparare le nostre comunità a tale evento, raccogliendo la peculiarità del messaggio che deriva dalla santità di questo nostro confratello. Allo stesso tempo, desidero mettere in luce l’attualità della figura del salesiano coadiutore, il suo valore nella nostra vita comunitaria e nella nostra missione e, soprattutto, la necessità di una più decisa proposta vocazionale.
Il titolo dato a questa lettera può provocare giustificati interrogativi. E conviene raccoglierli senza paura! Che tra i nostri confratelli coadiutori ci fossero dei salesiani esemplari, provvidenziali e addirittura santi, non c’era dubbio. Li abbiamo visti, abbiamo convissuto con loro nelle ordinarie comunità di lavoro e in terra di missione. Ne abbiamo sperimentato il contributo prezioso alla missione salesiana, prestato con competenza e fedeltà. Magari alcuni svolgevano incarichi che sembravano in apparenza secondari (portineria, sacrestia, infermeria, cucina, manutenzione della casa...); dovunque però sono stati elementi educativi di prim’ordine, confermando le parole di Don Bosco, riportate nelle Memorie Biografiche: «Un buon portinaio è un tesoro per una casa di educazione» [1] . E questo senza per nulla sminuire i ruoli di alta qualificazione (capi laboratorio, professori e presidi, catechisti e animatori pastorali, ecc.) svolti da moltissimi coadiutori, da tutti conosciuti.
Di molti abbiamo letto e sentito ripetere la storia. Sono stati offerti dei medaglioni, dai quali si coglie con chiarezza che cosa ha significato per questi uomini vivere la loro responsabilità storica, inseriti nell’amore di Cristo e lavorando nell’orbita di Don Bosco: realizzare cioè il loro desiderio di santità nella carità pastorale, vivendo la consacrazione totale a servizio dei giovani. Gli aspetti fondamentali che hanno caratterizzato la loro esperienza vocazionale sono ancora oggi determinanti nella nostra storia. La vita consacrata si è mossa sempre e si è espressa attraverso la santità, che non conosce surrogati.
Ho conosciuto personalmente non pochi di questi coadiutori: di molti fra loro è stata scritta una biografia, che ci consente di penetrarne il cammino vocazionale. Si presentano come “uomini di Don Bosco”, affascinati da lui, identificati con il suo spirito e la sua missione. Avrebbero detto come don Cagliero: «O frate o non frate, intanto è lo stesso. Son deciso, come lo fui sempre, di non staccarmi mai da Don Bosco!» [2] . Sostanza dunque! Che vuol dire rapporto sentito con il Padre, entusiasmo per Gesù Cristo, desiderio di santità e carità perfetta, convincimento della chiamata di Dio a vivere tutto ciò nella missione e nella fraternità salesiana.
La novità di oggi, a cui fa riferimento il titolo della lettera, consiste proprio nell’includere un coadiutore fra coloro che la Chiesa ha considerato degni di essere proposti, con atto pubblico, come modelli di vita spirituale e di carità ai suoi fratelli religiosi e, più largamente, a tutti i cristiani. E ciò in base alla testimonianza di molti, confermata da Dio mediante un fatto ‘miracoloso’, attribuito alla sua intercessione.
Artemide Zatti è il primo coadiutore salesiano non martire che viene beatificato e il fatto conferisce, come ho detto, un tocco di completezza alla serie di modelli di spiritualità salesiana, che la Chiesa dichiara ufficialmente tali.
Ho chiamato questa novità “dirompente”, nel senso che ci scuote, ci interpella nella nostra fedeltà carismatica e nella capacità di proporre oggi modelli di vocazione salesiana laicale davvero significativi e attraenti.
Nel riferirmi in questa lettera al salesiano coadiutore, non intendo affrontare questioni già approfondite in interventi precedenti, come il carattere indispensabile di tale figura [3] o il rapporto tra servizio dell’autorità salesiana e ministero sacerdotale [4] . Tanto meno intendo mettere sul tavolo la questione della natura della nostra Congregazione, sulla quale tuttavia dirò una parola più avanti. Ci sono altre sedi indicate per riflettere su queste e su altre questioni, e ci sono anche i tempi giusti ed i soggetti autorevoli per trattarle.
Intendo, invece, rivolgere un pressante invito a meditare sulla figura di Zatti, allo scopo di suscitare un orientamento e un impegno pratico, a livello ispettoriale e regionale, a favore della vocazione del salesiano coadiutore. Dove non si riesce a comunicare e a “contagiare” a quel livello, diventa poco incisivo il nostro lavoro e sterili i sogni di riforme globali. Per poter essere veramente efficaci è indispensabile pensare a livello globale e agire con decisione a livello locale.
Partiamo da Don Bosco e dalla prima esperienza del nostro peculiare stile di santità. Sin dai primi anni ci si imbatte in figure di coadiutori che, formati direttamente dal Fondatore, hanno influito fortemente sulla fisionomia della Congregazione. Basta pensare – ad esempio – ad un Pietro Enria, per capire quanto sarebbe stato più povero Valdocco senza la sua presenza. Essi hanno contribuito in modo determinante a fare grande la Congregazione, soprattutto nell’area delle scuole professionali e nel servizio ai più poveri.
Ogni Ispettoria, ogni nazione, ogni continente ha la sua galleria di ritratti. Non sono mancate pubblicazioni indovinate che hanno fatto luce sui volti più significativi, consegnando alla storia il contributo che essi hanno dato alla santità della nostra Famiglia.
È il caso, ad esempio, dei coadiutori vissuti in Terrasanta, che hanno fatto onore alla santità, nella patria di Gesù. Essi hanno il loro rappresentante più qualificato nel venerabile Simone Srugi, accomunato a Zatti dallo stesso ruolo, infermiere a servizio dei fratelli ammalati, che speriamo di vedere presto, insieme con lui, sugli altari.
Tra i primi coadiutori di Don Bosco alcuni erano ragazzi cresciuti all’Oratorio, altri erano venuti già adulti, con una laicità maturata nel mondo e nella Chiesa. A contatto con Don Bosco, comprendevano che potevano impiegare le loro qualità e la professionalità acquisita, impegnandosi nella sua opera educativa e pastorale. Sorgeva dunque in loro quell'entusiasmo che don Cagliero espresse con il proposito: «Io rimango con Don Bosco...!». È la scintilla della vera vocazione, come ce la indica l’articolo 21 delle nostre Costituzioni: il fascino della missione e del Fondatore, il desiderio di continuare il suo carisma e di far vivere il suo spirito.
La professionalità incipiente, alimentata da una buona intelligenza, da un temperamento maturo e da una umanità coltivata, li portava a prestare alle comunità e all'ambiente educativo un servizio prezioso. Così ci sono stati, non solo a Torino, ma anche nell’estremo sud della Patagonia, portinai cordiali e fidati, missionari di frontiera, amministratori di cantieri edili, capi di laboratori.
La vocazione salesiana ha offerto sin dall’inizio molteplici possibilità di realizzazione, determinate più dalla spinta della carità e dal richiamo della missione che dall’importanza del servizio o del ruolo svolto nella comunità. Per l’identità e la collocazione del confratello coadiutore, non c’erano norme rigide, ma un discernimento che valutava la generosità, la disponibilità, lo spirito comunitario, la gioia vocazionale.
Don Bosco guardava alla qualità. Non sembra si sia posto il problema della proporzione, per esempio, tra chierici e laici. Accoglieva coloro che Dio gli mandava, preti o laici, e li univa nella consacrazione religiosa, nella missione e nella carità.
Possiamo presentare alcuni profili, tra i molti, per confermare quanto detto.
Giuseppe Buzzetti fu uno dei primi “ragazzi di Don Bosco”. Fece la professione come coadiutore molto tardi perch� “non si sentiva degno”, ma in pratica visse e collaborò con Don Bosco per tutta la vita. Venuto all’Oratorio con suo fratello Carlo, che diventerà impresario edile e costruttore di varie case salesiane, inizialmente voleva essere sacerdote, ma poi, colpito da un proiettile sparato da qualcuno che voleva uccidere Don Bosco, dovette posare la talare e passò momenti difficili, così che stava per lasciare l’Oratorio. In seguito a un colloquio con Don Bosco, decise di non abbandonarlo più. Fu assistente, insegnante di catechismo, responsabile della libreria, maestro di canto, organizzatore di lotterie: vero braccio destro di Don Bosco, testimone fedele di tutta l’epopea del nostro Fondatore.
Anche Pietro Enria, ufficialmente, diventò coadiutore molto tardi. Era un piccolo prodigio, sapeva fare di tutto: maestro di musica, regista teatrale, pittore, cuoco, infermiere. Soprattutto in quest’ultima attività manifestò le sue doti di sensibilità e delicatezza. Le prodigò in varie circostanze per Don Bosco stesso, in particolare nell’ultima malattia che portò il nostro Padre alla morte.
Giuseppe Rossi fu il primo tra i coadiutori non venuti direttamente dalle file dell’Oratorio. A 24 anni aveva avuto in mano il Giovane Provveduto, scritto da Don Bosco. Subito si era entusiasmato e, lasciato il paesello in provincia di Pavia, era venuto a Valdocco. Fece la professione nel 1864. Fu guardarobiere, assistente dei lavoratori, commissioniere in città, amministratore: insomma uomo di fiducia, con la responsabilità di tutti i beni materiali della Congregazione. Questo compito lo portò a intraprendere non pochi viaggi in Italia e all’estero. Don Bosco gli voleva molto bene e scherzava volentieri con lui.
Marcello Rossi dovette attendere la maggiore età per poter disporre liberamente di se stesso e recarsi a vivere con Don Bosco. Questi gli affidò l’incarico “provvisorio” di portinaio, incarico che svolse “provvisoriamente” per ben 48 anni con puntualità, fedeltà e fiducia. Fu chiamato la sentinella dell’Oratorio e il Cardinal Cagliero, additandolo un giorno, lo indicò come «il vero monumento di Don Bosco».
Potremmo continuare con tante altre figure di coadiutori della prima ora. Per la somiglianza con Zatti nell’esperienza dell’emigrazione e del suo “cadere” nell’orbita fascinosa di Don Bosco, faccio ancora un breve riferimento al coadiutore Silvestro Chiappini. Era figlio di immigrati italiani in Argentina. Non compì imprese memorabili, ma fu il primo figlio di Don Bosco nel nuovo mondo [5] . Faceva il cuoco in un albergo di Buenos Aires. A diciott’anni incontrò i Salesiani nella chiesa loro affidata, dove lui stesso spesso si recava a pregare. Entrò a far parte della comunità e ivi svolse l’attività di cuoco. In seguito, chiese di essere salesiano. Fu accettato, divenne coadiutore e per quarant'anni svolse l’attività di cuoco, infermiere e addetto a tante altre piccole incombenze di cui la comunità necessitava.
La comunità salesiana, visibile e operosa, incominciando da quella di Don Bosco, attirava con la testimonianza delle sue figure eccellenti. Un tale fascino non si limitava ai giovanissimi, ma seduceva anche i “buoni cristiani” adulti. L’istituzione diventava una casa ed una famiglia, anche per la presenza e la sensibilità dei coadiutori, e con il loro contributo creativo la missione si arricchiva di nuove espressioni.
Concentriamo ora l’attenzione più specificamente su Artemide Zatti e sulla sua esperienza di santità salesiana. In chi lo incontra per la prima volta, almeno con una certa profondità, sorgono spontanee delle domande. Chi è stato Artemide Zatti? Che cosa rappresenta per la nostra Famiglia? Quali parole e quali messaggi ci ha trasmesso mediante la sua esistenza? Quali sfide lancia oggi? È ciò che cercheremo di scoprire, rileggendo il suo tessuto biografico e chiamando per nome i messaggi ad esso sottostanti.
3.1. In Patagonia l’incontro con Don Bosco.
La chiamata di Artemide Zatti ad unirsi alla schiera missionaria di Don Bosco riproduce vari tratti della vocazione dei primi coadiutori. Ogni persona poi è, evidentemente, portatrice di una sua propria originalità.
Emigrante alla ricerca di migliori condizioni di vita, Artemide Zatti giunse a Bah�a Blanca a 17 anni. Proveniva dall’Italia, insieme alla sua famiglia. I genitori di Artemide, Luigi Zatti e Albina Vecchi, ebbero otto figli, quattro donne e quattro uomini. Gli Zatti, che abitavano a Boretto nella provincia di Reggio Emilia a poca distanza dal Po, non possedevano terreni propri, ma lavoravano come fittavoli presso altre famiglie.
Artemide, terzogenito, nacque il 12 ottobre 1880. Fu battez�zato nello stesso giorno coi nomi di Artemide Gioachino Desiderio. Se la famiglia non aveva risorse materiali, conduceva però una intensa vita cristiana che si rese evidente quando essa emigrò in Argentina. Nell’ambiente della famiglia, Artemide imparò presto ad affrontare le fatiche e le responsabilità del lavoro.
«Nel gennaio del 1897 – leggiamo nella Positio –, non sappiamo se per una decisione im�provvisa o dopo una sofferta maturazione o per qualche particolare fatto familiare, Luigi Zatti, capo‑famiglia, risolse di lasciare l’Italia ed emigrare in Argentina insieme alla moglie e ai figli. Alla fine del secolo scorso l’emigrazione degli Italiani verso l’America era un fenomeno di grandi proporzioni e molte ragioni giustificavano questa corrente… Pot� influire sulla decisione l'invito di uno zio, Giovanni Zatti, che era già in Argentina nella nascente città di Bah�a Blanca e vi aveva trovato un discreto posto di lavoro» [7] .
«Il distacco dalla patria aperse al Servo di Dio la possibi�lità di sfruttare in un mondo nuovo non solo il lavoro delle sue brac�cia, ma più ancora le energie spirituali di una solida educazione cristiana. Sembrava che andasse incontro all'ignoto e seguiva invece il cammino segnatogli da Dio» [8] , che lo avrebbe portato ad incontrare Don Bosco.
La famiglia Zatti giunse a Buenos Aires il 9 febbraio 1897 e il 13 dello stesso mese, in treno, arrivò a Bah�a Blanca, e si inserì nell’ambiente dove già era presente un numeroso gruppo di emigrati italiani.
Bisogna dire che l’ambiente dell’emigrazione, insieme a valori molto apprezzati come il forte impegno di lavoro, l’amore alla famiglia e altri, offriva anche elementi di disomogeneità culturale di rilevante portata. Tra gli emigrati italiani era presente un gruppo consistente che aveva esportato quell’orientamento anticlericale e quella forma di avversità al Papato e alla Chiesa, che si erano fatti strada in Italia nella seconda metà del secolo XIX. Questo atteggiamento trovava modo di manifestarsi rumorosamente ogni anno, in alcune date speciali, prendendo come bersaglio la parrocchia e la comunità salesiana [9] .
A Bah�a Blanca i Salesiani erano responsabili della parrocchia di Nostra Signora della Mercede, nel cui territorio era andata ad abitare la famiglia Zatti. Avevano due scuole: un liceo e un centro professionale. Nell’opera salesiana i cristiani e le persone di buona volontà, che non mancavano nemmeno tra i fanatici manifestanti, vedevano dei segni e trovavano un centro di aggregazione. Non pochi iniziarono a raggrupparsi attorno alla parrocchia. Tra quanti fecero questa scelta ed entrarono nell’orbita di Don Bosco ci fu Artemide Zatti. La sua famiglia strinse un’amicizia solida e feconda con il parroco, don Carlo Cavalli, missionario buono e zelante, premuroso soprattutto verso i poveri e gli infermi.
Artemide trovò in don Carlo un amico sincero, un confessore saggio e un direttore spirituale esperto, che lo formò al ritmo quotidiano di preghiera e alla vita sacramentale settimanale. Stabilì con il sacerdote un rapporto spirituale e di collaborazione [10] .
Sotto l’esempio e l’incitamento di don Cavalli, Artemide univa progressivamente alla preoccupazione per la sua formazione l’ansia di far del bene. Leggiamo infatti che egli trascorreva il tempo libero nella parrocchia, dove si sentiva come a casa sua, e seguiva il parroco nelle visite agli infermi, nei funerali, nel servire la messa, nel compiere le funzioni di sacrestano [11] .
L’ampio ambiente sociale degli operai cattolici fu uno dei campi dove i missionari si impegnarono. Artemide Zatti era assiduo assistente dei circoli di operai che si radunavano la domenica; trascorreva con loro il pomeriggio, facendo amicizia, interessandosi delle diverse situazioni, incoraggiando e convogliando le volontà verso il bene.
Faceva tutto questo sponta�neamente, senza retribuzione, come affettuoso e generoso servizio al Signore e al prossimo. «Da un giovane emigrato, nel mondo materialista e affa�ristico di Bah�a Blanca, non si poteva attendere di più. Questa vita e questo atteggiamento interiore si protrasse per circa tre anni, dal�l'arrivo a Bah�a Blanca nel 1897 al 1900, finch� maturò la realtà della vocazione» [12] .
3.2. La vocazione salesiana.
«La vocazione salesiana – leggiamo nella Positio – dovette sorgere spontaneamente, come fatto quasi naturale, nella vita del Servo di Dio. La serietà del suo impegno spirituale e la volontà di servire il Signore e il prossimo portavano a questo. D’altra parte, vivendo a contatto quotidiano con P. Cavalli e con altri confratelli della laboriosa comunità salesiana, aveva davanti a s� una testimonianza che doveva dare il miglior incoraggiamento a consacrare la vita in forma più radicale» [13] . La generosità apostolica del P. Cavalli, l’ambiente salesiano e l’affermarsi dell’opera di Don Bosco in Patagonia esercitavano un’attrattiva quotidiana e costituivano un ideale molto più invitante di qualsiasi altra prospettiva per uno sperduto, ma buon emigrante venuto dall’Italia [14] .
Nella biblioteca del parroco ebbe la possibilità di leggere la biografia di Don Bosco. Ne rimase affascinato. Fu il vero inizio della sua vocazione salesiana. All’origine della nostra vocazione c’è sempre un incontro ispirante col Fondatore e coi suoi seguaci [15] .
Quando don Carlo Cavalli gli propose di intraprendere il cammino verso il sacerdozio nella Congregazione di Don Bosco, Zatti aveva già dimostrato una maturità senza fronzoli, con senso soprannaturale, convincimento irremovibile di fede, zelo e abilità nell’orientare piccoli e grandi al Signore.
Così, con il consenso della sua famiglia, il 19 aprile 1900, a vent’anni Zatti, mosso dal desiderio sincero di seguire la sua vocazione, entrò con piena disponibilità nel ritmo della vita dell’aspirantato di Bernal, dove c’erano anche i novizi e i postnovizi. Accettò senza complessi di sedere sui banchi tra ragazzi di 11‑14 anni; si prestò a tutte le occupazioni, che i Superiori, vedendo la sua maturità e generosità, gli affidarono; si immerse nello studio per supplire al tempo perduto, senza lamentarsi dei lavori materiali che disturbavano la sua applicazione. Seguire la vocazione stava al di sopra di tutti i suoi pensieri, e, senza lasciarsi turbare dalle difficoltà, egli cercava di sfruttare le risorse che il Signore gli metteva a disposizione [16] .
«Le lettere scritte ai familiari in quel periodo rendono una testimonianza efficacissima del�l'atteggiamento interiore del Servo di Dio. Ottimismo, aderenza gioiosa alla vita della comunità, sottomissione cordiale e fedele ai Supe�riori, senso profondamente religioso e contemporaneamente pratico in tutte le cose, abbandono umile alla volontà di Dio, serenità di fronte ad ogni prova: queste le caratteristiche che emergono dall’epistolario» [17] .
Nell’aspirantato di Bernal, Artemide Zatti trascorse quasi due anni di intensa formazione e di studio.
3.3. La prova della malattia e la sua accettazione.
Una circostanza imprevista cambiò la sua vita. Sicuri della sua responsabilità, i superiori gli affidarono l'assistenza di un giovane sacerdote malato di tubercolosi. Zatti svolse con generosità l’incarico, ma poco dopo denunziò la stessa malattia [18] .
Questa malattia, che metteva in pericolo la sua stessa vita, e il conseguente abbandono di Bernal, che poneva un forte interrogativo sul suo cammino verso il sacerdozio, costituirono un fatto determinante nella vita di Zatti.
«Si può facilmente immaginare il suo stato d’animo. Dobbiamo però constatare che dalla sua bocca non uscì mai un lamento per l'accaduto: n� per la malattia in s�, n� verso i Su�periori, n� per le circostanze in cui venne a trovarsi» [19] . Al contrario, questa esperienza, che si prolungò per anni, e l’incertezza che essa comportava misero in evidenza la sua robustezza spirituale, manifestata nell’accettazione cosciente e generosa del male, non facile in un giovane di quella età [20] .
Il 4 settembre 1902 da Viedma così scrive ai genitori per confortarli: «Parmi v’abbia, oh genitori carissimi, impressionato la lettera che vi scrissi rispetto alla mia salute, perch� quantunque dica che vado sempre migliorando, conobbi che vi reca dispiacere quello che segue, quando vi dico la tosse non volermi abbandonare. Cari genitori, credo non dimenticherete quel detto “che non si muove foglia che Dio non voglia” e che perciò se io sono qui in Viedma e con la tosse, fu perch� piacque a Dio, già per sua maggior gloria, conforman�domi al suo divino volere, g�à anche per il bene dell’anima mia, dandomi così occasione di fare un poco di penitenza per i miei peccati ... Potendo fate un’opera buona, affinch� ottenga dal Signore la grazia della perseveranza e la conformità al suo volere, poich� sono molto accette al Signore le opere che si fanno per ciò che si ama. State tranquilli e facciasi la volontà di Dio in tutto» [21] .
Dopo un consulto medico i Superiori avevano indirizzato Zatti a Viedma, che diventerà la patria definitiva della sua missione. La fiorente presenza salesiana, centro di irradiazione del movimento missionario della Patagonia e residenza del Vicario Apostolico, il clima soave e la presenza di don Evasio Garrone, salesiano medico, avevano determinato questa scelta.
L’arrivo di Artemide Zatti a Viedma coincise con quello di Zeffirino Namuncur�, che veniva da Buenos Aires ed era affetto dallo stesso male. I due vissero in cordiale amichevole rapporto, finch� Zeffirino nel 1904 partì per l’Italia con Mons. Cagliero.
Quando nel 1902 vi giunse Artemide Zatti, Viedma contava poco più di 5000 abitanti, di diverse provenienze e nazionalità. La gente era in gran maggioranza povera.
La presenza salesiana era significativa. Due collegi, delle Figlie di Maria Ausiliatrice e dei Salesiani, esercitavano una grande influenza per l’elevazione delle condizioni morali e materiali della vita cittadina. I Salesiani avevano un grande complesso, che comprendeva un internato ed un esternato di scuola primaria, una scuola professionale, che diede i primi operai qualificati alla Patagonia, una scuola agraria in periferia. Al centro dell’opera sale�siana la Chiesa Cattedrale, officiata come parrocchia. Ac�canto alla Chiesa, l’Ospedale e la Farmacia.
L’Ospedale San Jos� era stato fondato con l’audacia dei pionieri nel 1889 da Mons. Cagliero e dal direttore dell’opera salesiana don Bernardo Vacchina, per rispondere ai bisogni dei poveri. Don Evasio Garrone, che aveva studiato e praticato la medicina in Italia e poi si era fatto salesiano e missionario, ricevette l’incarico di organizzare e dirigere l’ospedale il 15 giugno 1889, a poche ore dalla sua ordinazione sacerdotale [22] .
Ospedale e Farmacia diverranno il campo di lavoro di Zatti.
3.4. Sempre con Don Bosco, come salesiano coadiutore.
Quando Artemide Zatti lasciò Bernal, non era ancora salesiano. Nonostante la malattia i Superiori lo avevano inviato a Viedma come aspi�rante, sia per le buone qualità che dovettero intuire in lui, sia per la volontà di farsi salesiano che senza nessun tentennamento manifestava. Fu un atto di reciproca fiducia tra la Congregazione e il Servo di Dio.
Artemide non aveva abbandonato l’orientamento iniziale. Continuò a pensare alla vocazione sacerdotale nella Congregazione Sale�siana, anche perch�, a un certo punto, la salute incominciò a miglio�rare ed egli pot� intraprendere un lavoro continuo ed impegnativo nella farmacia di P. Garrone.
È commovente constatare l'at�taccamento incrollabile alla propria vocazione, manifestato anche quando la malattia sembrava precludere assolutamente questo cammino. Leggiamo, ad esempio, quello che scrive ai suoi il 7 agosto 1902: «Vi fo’ sapere che non solo era mio desiderio, ma anche dei miei Supe�riori di mettermi il sacro abito; ma c’è un articolo della Santa Regola che dice non poter ricevere l’abito uno che abbia la più piccola cosa rispetto alla sa�lute. Così è che se Dio non mi trovò degno dell’abito finora, confido nelle vostre orazioni di sanare presto e così appagare i miei desideri» [23] .
A un certo punto, però, per non trascinare troppo una situazione sospesa, si imponeva una soluzione chiara. I Superiori, pur constatando i miglioramenti della salute, non dovettero essere pienamente persuasi sulle sue fu�ture possibilità. La tubercolosi, a quei tempi, non dava mai sicurezza di guarigione definitiva; il curricolo di studi che il Servo di Dio avrebbe dovuto affrontare, alla sua età (23‑24 anni), era ancora lungo e non certo adatto ad un tubercolotico. Egli d’al�tra parte aveva già cominciato a lavorare, e, tutto fa credere, con suc�cesso e con reciproca soddisfazione, nella Farmacia in una occupa�zione adatta ad un laico; forse lo stesso P. Garrone faceva qualche pressione per tenerlo con s� nel suo lavoro.
I Superiori, date tutte queste circostanze, dovettero proporre a Zatti, che perseverava nel proposito di consacrarsi a Dio, di professare come salesiano coadiutore: al di là dei problemi della incerta salute – per cui la soluzione sembrava prudente – era la donazione totale a Dio nella vita salesiana cui Artemide aspirava in primo luogo. La proposta dei Superiori e l’accettazione da parte del Servo di Dio do�vette avvenire tra il 1904‑1906, ma non si è in grado di precisare di più.
Non risulta che la decisione sia stata presa per un giudizio negativo sulle sue capacità intellettuali: anzi, fu sempre unanime il riconoscimento delle doti di intelligenza del confratello, della sua preparazione culturale come del suo equilibrio [24] .
Non risulta nemmeno che i Superiori fin da allora sapessero della promessa da lui fatta alla Madonna per suggerimento di don Garrone di consacrarsi al bene del prossimo in caso di guarigione: pare che la cosa sia diventata pubblica solo quando Zatti ne diede testimonianza nel 1915 [25] .
In quell’anno, infatti, quando, nell’occasione della inaugurazione di un monumento funerario sulla tomba di P. Garrone, venne pubblicato un numero unico delle rivista Flores de campo, su di essa comparve la seguente testimonianza del Servo di Dio: «Se io sto bene e sono sano e in stato di poter fare qualche bene agli infermi miei prossimi, lo debbo a P. Garrone Dottore (P. Garrone Doctor, come comunemente Zatti lo chiamava – NR), il quale vedendo che la mia salute peggiorava ogni giorno più, poich� ero affetto da tubercolosi con frequenti emottisi, mi disse in forma decisiva che, se non volevo finire come tanti altri, facessi una promessa a Maria Ausiliatrice di rimanere sempre al suo lato, aiutandolo nella cura dei malati ed egli, confidando in Maria, mi avrebbe sanato. Credetti, perch� sapevo per fama che Maria Ausiliatrice lo aiutava in maniera visibile. Promisi, poich� fu sempre mio desiderio di essere di aiuto in qualcosa al mio prossimo. E avendo Dio ascoltato il suo servo, risanai». Segue la firma: Artemide Zatti [26] .
Si tratta di una dichiarazione dal tono solenne, firmata e resa pubblica, che è chiara espressione della fede del Servo di Dio e della sua volontà ormai decisa di dedicarsi tutto e sempre all’assistenza degli infermi.
In tal modo, Artemide Zatti, consapevole della sua situazione e – come leggiamo nella Positio – «pro�penso come era a vedere la volontà di Dio in quanto disponevano i Superiori, accettò di farsi salesiano laico e di vivere in questo modo il suo fermo impegno di consacrarsi al Signore. La promessa fatta alla Madonna per guarire sembrava essere conforme a questa soluzione, in quanto come laico avrebbe potuto più direttamente e più completamente realizzare “la cura degli ammalati”, come probabilmente non avrebbe potuto fare come sacerdote» [27] . «Il suo atteggiamento fondamentale fu sempre di fare quello che piace a Dio» [28] .
Si può osservare come Artemide Zatti cerca in primo luogo il cammino del Signore e ha una volontà decisa di rimanere con Don Bosco e di essergli di aiuto, secondo quello che gli è possibile. Egli è già di Don Bosco perch� Dio ha preparato per lui l’incontro con questo Santo che è affascinante e, nella terra patagonica, è addirittura profeta determinante dell’evangelizzazione e della formazione di un variopinto ed universale popolo di Dio. È dunque più che maturo per un cammino di santità nella vita salesiana.
Sacerdote? Coadiutore? Diceva egli stesso ad un confratello: «Si può servire Dio sia come sacerdote sia come coadiutore: davanti a Dio una cosa vale tanto come l’altra, purch� la si viva come una vocazione e con amore» [29] .
Nessuna tristezza o reazione, dunque, per un cambio nella prospettiva vocazionale iniziale. Al contrario, profonda gratitudine per il fatto di essere salesiano e per avere avuto chiari segni della volontà di Dio. E così scrive a genitori e fratelli nel gennaio del 1908, dopo la professione religiosa, fatta a ventisette anni: «Con il cuore pieno di una santa ed invidiabile gioia per la grazia straordinaria che il buon Dio, fuori di tutte le mie speranze, si è degnato di concedermi (ma che io attribuisco alle vostre preghiere e a quelle degli altri che pregate per le mie intenzioni), mi dirigo a voi pregandovi caldamente di ringraziare con me il buon Dio e la SS. Vergine con il fare la comunione ed ascoltare una Messa…» [30] .
A ciascuno il suo dono espresso nella carità, nella missione salesiana, nella santità: queste erano le parole chiave e orientatrici della sua vita. E Zatti si dispose a vivere il proprio dono. E il Signore non gli venne meno.
3.5. Buon samaritano a tempo pieno.
A Viedma, Zatti Artemide ritrovò la salute e trovò la sua missione nella cura degli ammalati; da ammalato divenne infermiere, e la malattia degli altri divenne il suo apostolato, la sua missione. Vi si dedicò a tempo pieno e con la radicalità del da mihi animas, allargando costantemente la sua azione.
Da questa prospettiva impostò decisamente il suo futuro. Di lì in avanti, i diversi aspetti della sua originale personalità, sprizzante serenità e buon umore, e le acquisizioni della sua professionalità cresceranno sempre più, sotto la spinta interiore del proposito di essere fedele alla grazia di Dio e rendersi il più utile possibile alla missione che, assunta in pieno, giorno dopo giorno, prenderà nuove dimensioni e mostrerà nuove esigenze, alle quali Zatti si adegua con spirito di servizio e di sacrificio.
L’ospedale e le case dei poveri, visitati notte e giorno viaggiando su una bicicletta, considerata ormai elemento storico della città di Viedma, furono la frontiera della sua missione. Visse la donazione totale di s� a Dio e la consacrazione di tutte le sue forze al bene del prossimo, dapprima come valido e generoso collaboratore del P. Garrone, poi, alla morte del Padre (1911) e soprattutto dal 1915, quando fu inaugurata la nuova sede, come principale responsabile, vero direttore e amministratore dell’opera. Egli di fatto metteva mano a tutto: accettava, formava, dirigeva, pagava il personale; faceva le compere di ogni genere; vigilava per la manutenzione; assisteva i medici nelle visite e negli interventi chirurgici; trattava con le famiglie; soprattutto si dava da fare per coprire le spese della gestione sempre superiori alle entrate [31] . È rimasta famosa una sua espressione: «Yo no pido a Dios que me d� dinero, sino que indique donde est�» («Non chiedo a Dio che mi dia denaro, ma che indichi dove sta») [32] .
L’orario di lavoro e il suo spendersi nel quotidiano testimoniano concretamente la totale dedizione alla missione, il senso comunitario, la cura della vita spirituale e della competenza professionale. Seguiamolo lungo una sua giornata [33] .
Il Servo di Dio si alzava alle 4,30 o alle 5, dedicava tempo alla preghiera personale in chiesa, quindi faceva meditazione con la comunità e partecipava all’Eucaristia.
In seguito si dirigeva alle sale dei malati. Si presentava sorridente e diceva: «Buon giorno, Viva Gesù, Giuseppe, Maria». E domandava: «Tutti respirano?». I vecchi si rivoltavano nei loro letti e rispondevano: «Tutti, Don Zatti». «Deo gratias», diceva egli allegramente, e cominciava a passare letto per letto per vedere quello di cui ciascuno aveva bisogno. E anche per verificare se qualcuno «non respirava», perch� allora se lo caricava sulle spalle e lo portava all’obitorio.
Dopo questa visita, andava a colazione, poi passava dai singoli malati per soddisfare le loro richieste. Terminati questi impegni, montava in bicicletta e usciva, a capo scoperto e in camice bianco, per fare iniezioni ai molti malati sparsi nel paese. Quando comparvero gli antibiotici si moltiplicò il lavoro, perch� spesso bisognava andare per le iniezioni ogni due ore e anche di notte. «Rare volte – dice l’aiutante – dormiva tutta la notte». E viaggiava sempre in bicicletta o in camion, se si offriva l'occasione, mai in automobile.
Alle 12 – non si sa come facesse ad essere sempre puntuale – egli era pronto a recitare le preghiere prima del pranzo con la comunità. Pregava con fede, con gli occhi chiusi, stringendo labbra e mani per concentrare l’attenzione. Quasi sempre dava i tocchi della campana per invitare i confratelli; e suonava – dicono – con devozione: era la voce di Dio!
Dopo il pranzo, spesso giocava alle bocce con i convalescenti e lo faceva con entusiasmo. Dalle 14 alle 16, più o meno, di nuovo in bicicletta. Non lasciava mai la merenda, dopo la quale usciva ancora in città, oppure visitava le sale, faceva conti, aggiustava guasti.
Alle 18 lettura spirituale e servizio alla benedizione eucaristica, quando c’era. Dopo la cena dei malati, passava nuovamente sala per sala per far pregare e dava la «Buona notte» salesiana, cioè lasciava un buon pensiero sulla vita di un Santo, di Don Bosco, sulla liturgia. Poche parole, ma sostanziose. Poi, ancora lavoro, e buona notte alle infermiere, cui lasciava ricordi e dava insegnamenti speciali e orientamenti pratici per il loro lavoro.
Alle 20, cena con la comunità, ancora una visita alle sale e finalmente in camera per letture o lavori personali. Durante la notte, ed era il caso abituale, si alzava prontamente, una o più volte, per ogni chiamata dei malati.
La sua vita si svolgeva in un ambiente dove le difficoltà erano quotidiane e sempre risorgenti, ma dove trovava anche comprensione e simpatia. La maturità ormai raggiunta e l’aiuto di una fervente vita comuni�taria dovevano favorire il suo anelito e la sua decisa volontà di san�tificazione. Il Servo di Dio non disperse nulla di quanto Dio of�friva alla sua anima e si servì di tutto e in tutto proprio per esercitare l’eroismo delle virtù [34] .
Furono quaranta lunghi e laboriosi anni nei quali la figura del Servo di Dio crebbe continuamente nella generosità del servizio e nella ricerca di professionalità. Artemide Zatti non fu un operatore approssimativo: fu un autentico direttore di ospedale, dotato di una scienza pratica fondata, che i medici non poterono lasciare di riconoscere. La “Segreteria della Salute pubblica” gli aveva dato la matricola ufficiale di infermiere (numero 7253), mentre egli stesso, impegnandosi nello studio, ottenne dall’Università di La Plata il titolo di idoneità e abilitazione per la farmacia, titolo indispensabile per aprire e gestire la farmacia dell’Ospedale [35] . L’insieme delle testimonianze dei medici, rese da ciascuno di essi, è ammirevole prova della dedizione, della competenza, della fede e della considerazione rispettosa di Zatti verso di loro.
Non mancarono, durante i quarant’anni trascorsi a Viedma, momenti straordinari che testimoniarono in diversa forma la solida virtù e lo spirito salesiano di Zatti. Potremmo ricordare la serenità con cui affrontò i pochi giorni trascorsi in carcere a causa della fuga dall’ospedale di un carcerato che era stato ricoverato per ordine del direttore del penitenziario (1915); la prudenza e la pazienza manifestata in occasione della demolizione non concertata dell’ospedale e del trasferimento ad una nuova sede non preparata (1941); l’intima gioia salesiana vissuta nel 1934 durante i tre mesi trascorsi in Italia per la canonizzazione di Don Bosco.
3.6. Verso l’incontro con Dio lungamente preparato: riconoscimento popolare al “parente di tutti i poveri”.
Dopo essere guarito dalla tubercolosi nei primi anni del secolo, Artemide Zatti godette sempre una salute ottima, che gli permise di affrontare continui e pesanti lavori e gravi sacrifici. Effettivamente, solo lo zelo ardente per il bene del prossimo spiega le fatiche che egli affrontò con disin�voltura e serenità fino al termine della vita, quasi senza prendersi mai alcun riposo.
Ma il Signore lo chiamava ad associarsi nuovamente alla sua passione ed a condividere la sofferenza con coloro che egli stesso serviva. Era il luglio del 1950 quando, curandosi per le conseguenze della caduta da una scala, mentre faceva delle riparazioni, gli venne diagnosticata una insufficienza epatica e successivamente un tumore al fegato.
Accolse e visse con consapevolezza l’evoluzione del male (egli stesso preparò per il medico il certificato della propria morte!), mantenne la sua gioiosa serenità, pur tra gravi sofferenze, spese tutte le forze che gli rimanevano nel lavoro e nella comunità, trascorse gli ultimi mesi nell’attesa dell’incontro con il Signore. Ripeteva: «Cinquant’anni fa sono venuto qui per morire e sono arrivato fino a questo momento, che cosa posso desiderare di più? D’altra parte, ho trascorso tutta la vita preparandomi per questo momento….» [36] .
E il momento dell’incontro con il Signore giunse il 15 marzo 1951.
Nel giorno del suo funerale si può dire che nessun abitante di Viedma rimase in casa: gli adulti presero parte al suo funerale per ammirazione e riconoscenza, i bambini per imparare un pezzo di “storia” importante della loro città.
Tutta Viedma salutò il “parente di tutti i poveri”, come lo chiamavano da tempo; colui che era sempre disponibile per accogliere i malati speciali e la gente che veniva dalla lontana campagna; colui che poteva entrare nella più ambigua delle case a qualsiasi ora del giorno o della notte, senza che alcuno potesse insinuare il minimo sospetto su di lui; colui che, pur essendo sempre “in rosso”, aveva mantenuto un rapporto singolare con le istituzioni finanziarie della città, sempre aperte all’amicizia ed alla collaborazione generosa con coloro che componevano il corpo medico della cittadina.
Si potrebbe continuare. La biografia che accompagna le testimonianze della Positio è quanto mai ricca, abbondante di episodi, sfaccettature e valutazioni. Noi che l’abbiamo conosciuto, e ne ricordiamo ancora gesti e parole, diamo testimonianza della verità dei fatti. Gli aneddoti avvenuti e tramandati dalla popolazione non si contano e non hanno più confini reali. Niente di strano che prima del processo fosse comune nella gente l’opinione che ci si trovava di fronte ad un gigante della carità, ingrandito ancora di più per l’accusa generica e malevola di esercizio illegale della medicina, dalla quale fu giustificato dal popolo stesso.
Quasi per prolungarne la presenza nella vita della città, fu dato il suo nome ad una delle strade principali e al moderno Ospedale statale e in suo onore è stato eretto un monumento commemorativo.
Il salesiano coadiutore Artemide Zatti è stato davvero un “buon samaritano” con lo stile di Don Bosco, «segno e portatore dell’amore di Dio», della sua compassione, della sua presenza che sana, consola e apre orizzonti di fede e di speranza ai malati, ai giovani: tutti egli ha amato, e da tutti ha saputo farsi amare, come voleva Don Bosco.
4.1. Testimonianza originale di santità salesiana.
I rapidi cenni sulla biografia di Zatti ci hanno introdotto nel cuore della sua vicenda spirituale. Contemplando la fisionomia che ha assunto in lui la vocazione salesiana, segnata dall’azione dello Spirito e ora proposta dalla Chiesa, scopriamo alcuni tratti di quella tipica santità alla quale siamo chiamati. Di essa abbiamo già percepito alcune espressioni caratteristiche: il senso profondo di Dio e la disponibilità piena e serena alla sua volontà, l’attrazione per Don Bosco e la cordiale appartenenza alla comunità salesiana, la presenza animatrice ed incoraggiante, lo spirito di famiglia, la vita spirituale e di preghiera coltivate personalmente e condivise con la comunità. Non può sfuggire all’osservatore attento la totale consacrazione alla missione salesiana vissuta nell’accoglienza dei poveri di ogni specie, nella dedizione ai bisognosi e nell’attenzione medica ai malati contagiosi o repellenti, nel fare spazio agli esclusi della società, nella cura pastorale per portare i malati, anche moribondi, a Dio. Si è trattato di un’attiva presenza nel sociale, tutta animata dalla carità di Cristo che lo spingeva interiormente!
Non mancarono gesti che hanno dell’eroico e dell’insolito, come quello di cedere il proprio letto all’ultimo arrivato.
Anche se sono trascorsi cinquant’anni dalla sua morte e profonda è stata l’evoluzione della Vita Consacrata, dell’esperienza salesiana, della vocazione e della formazione del Salesiano Coadiutore, la via salesiana alla santità tracciata da Artemide Zatti è un segno e un messaggio che apre prospettive per l’oggi a tutti noi, chiamati a vivere nella consacrazione apostolica il carisma di Don Bosco. Si compie in questo modo l’affermazione delle nostre Costituzioni: «I confratelli che hanno vissuto o vivono in pienezza il progetto evangelico delle Costituzioni sono per noi stimolo e aiuto nel cammino di santificazione» [37] . La beatificazione di questo nostro confratello ci indica concretamente quella «misura alta della vita cristiana ordinaria» alla quale ci stimola Giovanni Paolo II nella Novo Millennio Ineunte [38] .
La sua testimonianza si rivolge ad ogni salesiano, ad ogni comunità locale ed ispettoriale. Essa parla della vocazione come di un’esperienza di vita in Dio secondo le caratteristiche del carisma, del quale lo Spirito ci ha fatto dono. È questo il cammino da percorrere: se si smarrisce questo solco, tutto il resto risulta scompaginato!
4.1.1. La calamita di Don Bosco.
È sempre interessante cercare di individuare nel piano misterioso, che il Signore tesse su ciascuno di noi, il filo conduttore di tutta l’esistenza. Se io dovessi esprimere con una formula sintetica il segreto che ha ispirato e guidato tutti i passi della vita di Artemide Zatti, riterrei esaustive queste parole: al seguito di Gesù, con Don Bosco e come Don Bosco, dovunque e sempre.
In questa formulazione c’è la calamita che lo ha attratto in forma permanente e lo ha guidato al seguito di Gesù: Don Bosco! C’è la dedizione assoluta – dovunque e sempre – senza badare a luoghi, ruoli e mansioni. C’è il taglio educativo di tutta l’azione, come Don Bosco.
Ci fermiamo a considerare questi elementi.
4.1.2. La dedizione assoluta alla missione.
«La missione dà a tutta la nostra esistenza il suo tono concreto…», dicono le Costituzioni [39] . Artemide Zatti visse la missione salesiana nel campo che gli era stato affidato, incarnando la carità pastorale educativa come buon samaritano, con lo stile di Don Bosco.
La sua fede lo portò a vedere Gesù nel malato, anche in quello pericoloso, deforme e repellente. C’è una serie di aneddoti che lo mostrano mentre carica e porta vicino a s� malati, dai quali altri si allontanano perch� contagiosi, deformi, ripugnanti, difficili da trattare. Già questo lascia intravvedere con quale visione procedeva. Ma ancor più ci edificano espressioni come queste, ripetute alle Figlie di Maria Ausiliatrice, che furono in ogni momento collaboratrici delicate, sempre disposte e caritatevoli dell’Ospedale, nel quale una sezione era riservata alle donne: «Sorella, per piacere un vestito e un letto per un Gesù di 14 (o di 75) anni».
In lunghi anni di vicinanza a malati gravi, prossimi alla morte, non riuscì mai ad abituarvisi: la sofferenza e la morte, specialmente dei giovani, lo commossero sempre, suscitando in lui profonda compassione, senza fargli però mai perdere la serenità d’animo. Aveva una speciale capacità di trattare i giovani malati e persino di aiutarli a chiudere gli occhi nel Signore con senso di fiducia, gioia e serenità. Mi piace, tra i tanti, ricordare questo aneddoto commovente ascoltato da un testimone. Ad un ragazzino arrivato al momento supremo, Zatti, messosi accanto come padre e fratello, dice: «Andiamo verso il nostro Padre: chiudi gli occhi, metti le manine giunte. Adesso diciamo: Padre nostro». Durante la preghiera l’anima del giovane vola al cielo. In questo modo accompagnava verso l’incontro con il Signore.
Questo è certamente dono di Dio, ma anche frutto di una permanente unione con Lui e di una carità divenuta abitudine di vita, capace di riversarsi su coloro che serviamo, e nei quali scorgiamo l’amore del Padre e il volto del suo Figlio. È la dedizione propria di una vita totalmente consacrata al Signore e al servizio dei fratelli, che è come il motore della nostra missione: Don Bosco la condensava nel da mihi animas, cetera tolle.
Artemide Zatti ci ricorda, con concretezza, il senso profondo della nostra missione, totalmente centrata nell’amore di Dio: amore che ci muove interiormente e che noi vogliamo riversare su coloro cui siamo mandati.
4.1.3. Infermiere educatore.
Artemide Zatti non fu semplicemente un infermiere, ma fu educatore alla fede di ogni persona, nel momento della prova e della malattia. Nell’Ospedale creò un ambiente di famiglia che – come già ricordavo – aveva il suo momento mattutino allo svegliarsi, rispondendo in coro a una domanda ormai di rito: «Respirano tutti?», a cui seguiva l’assistenza personale ai bisognosi ed il ringraziamento al Signore. Momento di famiglia era anche, dopo il pranzo, la partita a bocce e il suo salesianissimo attimo vespertino nella “Buona notte” di tutti i giorni. A tutto ciò si aggiungevano gli incontri personali di Zatti, con le suore Figlie di Maria Ausiliatrice e con gli altri collaboratori.
Si è detto che la sua principale medicina era lui stesso: il suo atteggiamento, le sue battute, la sua gioia, il suo affetto. Numerose persone lo hanno testimoniato. Si trattava non soltanto di somministrare sostanze chimiche per fermare la malattia, ma di aiutare i vicini e i presenti a prestare aiuto, a vedere nella propria situazione un segno della volontà di Dio, soprattutto quando la morte era vicina.
Davvero Zatti aveva fatto della missione per i malati il proprio spazio educativo, dove viveva quotidianamente i criteri del Sistema preventivo di Don Bosco – ragione, religione, amorevolezza – nella vicinanza e assistenza amorosa ai bisognosi, nell’aiuto prestato a comprendere e accettare le situazioni di sofferenza, nella testimonianza viva della presenza del Signore e del suo amore indefettibile. Per questo possiamo parlare di taglio educativo della santità di questo nostro confratello infermiere.
Mi sia permessa una parola sulla cura della salute come area della nostra missione. È significativo il fatto che i due coadiutori avviati agli altari, Artemide Zatti e Simone Srugi, abbiano agito proprio in quest’area; ad essi si aggiunge pure don Luigi Variara. Considerando il posto che l’attenzione agli infermi ha nella predicazione di Gesù, come pure al ruolo che il problema della salute ha nelle nostre missioni e, in generale, nella vita delle persone e delle nostre comunità, possiamo trarre ispirazione da Artemide Zatti per individuare spazi di carità fraterna ancora inesplorati, dove la nostra disponibilità può diventare segno dell’amore di Dio, rispondendo all’urgenza delle persone, in particolare dei giovani.
Voglio attirare l’attenzione su questa possibilità di congiunzione tra salute ed educazione, oltre qualsiasi professionalismo formale. A volte, troviamo i due bisogni congiunti nei nostri allievi. Personalmente, ho avuto l’opportunità e la fortuna di accompagnare due Capitoli generali di una Congregazione femminile, che aveva espresso in un primo tempo un carisma educativo attraverso istituzioni specifiche, e successivamente, proprio a contatto con la malattia anche giovanile, ne ha assunto coraggiosamente la responsabilità. La discussione è stata chiarificatrice: si è affermato che ruolo della religiosa era di educare nella e alla malattia. Le mediazioni mediche si potevano delegare.
Di fatto, nelle nostre ampie comunità educative abbiamo dovuto prenderci sempre cura degli svariati aspetti che riguardano l’integralità dei giovani: istruzione e cultura, movimento, gioco e socialità, catechesi, salute fisica e psichica, in forma diretta e indiretta, protezione dell’ambiente, ecc. Da qui deriva l’apertura ad una molteplicità di interventi realizzati con qualità educativa e costanza.
4.1.4. Il “lavoro santificato”: sintesi tra spiritualità e professionalità.
Un’attenta considerazione della vita del venerabile Artemide Zatti porta a riconoscere, nei contenuti e nelle modalità del suo servizio, l’intuizione della dignità propria dei valori creaturali e delle azioni quotidiane, che sono il normale orizzonte della vita e del mondo laicale.
È la riprova, vissuta per tutta una vita, che c’è un’apertura di tutto l’umano all’accoglienza di tutto ciò che è cristiano, e che si esprime sia nelle virtù teologali, sia nelle grandi dimensioni battesimali, che il Concilio ha riproposto con forza.
Anche la vita del Servo di Dio era – come la nostra vita – tutta intessuta delle minuzie quotidiane, che sono proprie di un servizio, come quello infermieristico, che potrebbe facilmente scadere nella routine. Ma tutto veniva investito da un permanente flusso di carità, che permeava ogni cosa, trasfigurandola, fino a farsi energia di unificazione vitale e di tacita evangelizzazione. Anche il suo sforzo continuo di rendersi meno inadeguato ai suoi compiti – attraverso processi di informazione e di formazione permanente – va compreso come uno sbocciare del fiore della carità, per cui il salesiano cura di fare bene ogni cosa, con semplicità e misura [40] .
Ciò, se da una parte deriva dal riconoscimento della legittima autonomia delle leggi e realtà terrestri, dall’altra esprime la convinzione che “il bene va fatto bene” e che le membra di Cristo – si tratti di malati, o di poveri, o di giovani in difficoltà – vanno abbracciate con una carità illuminata da un’intelligenza industriosa e creativa.
Risulta, con singolare evidenza, dalla storia del venerabile Artemide Zatti, la ricerca appassionata di una sintesi, sempre più matura, fra ricerca di autentica professionalità e crescita in spirituale autenticità.
La ricerca di professionalità – che oggi appare una esigenza ineludibile delle nostre società, specie delle più evolute – rappresenta una sfida per la vita religiosa. Essa, infatti, potrebbe rischiare di appiattirsi sul versante secolare, facendo di esso la fonte della propria identità, e nascondendo – o lasciando, comunque, scivolare in secondo piano – l’identità della vita religiosa, che è legata a motivazioni soprannaturali.
Ad una tale sfida è necessario rispondere con una particolare “grazia di unità”, che trasformi la professionalità in risorsa della vita consacrata, ed anzi, se così si può dire, in una sua ulteriore qualificazione. Alla radice di una tale unità non è difficile scorgere una carità industriosa, la fiducia serena nei progressi della scienza e della tecnica, il bisogno di dialogare alla pari coi nostri interlocutori, per dare vigore alla nostra stessa vocazione ed al suo messaggio, perch� diventi energia evangelizzatrice e presenza qualificata di Chiesa.
Il Servo di Dio aveva ben appreso e ben vissuto ciò che il Beato Filippo Rinaldi chiamò “lavoro santificato”, chiedendo un’apposita indulgenza al Santo Padre [41] , e ravvisando in esso un tratto essenziale della spiritualità salesiana [42] . Nel concetto di “lavoro” è inclusa tutta la serietà professionale di cui siamo capaci. Ed in quello di “santificato” il fermento vivo costituito dalla carità, dall’offerta, dallo spirito di sacrificio.
Una tale qualità del nostro lavoro è frutto di una vita salesiana sempre attenta a schivare il rischio di una professionalità autocentrica (tutta tesa a promuovere la nostra propria immagine), puramente competitiva o esclusivamente tecnica, per raggiungere la meta di una professionalità oblativa, “caritativa”, integralmente educativa.
Il salesiano, in forza della sua esperienza, sarà allora abilitato ad educare i suoi destinatari – prima implicitamente e poi anche esplicitamente – ad una nuova professionalità, evangelicamente ispirata, capace di rinnovare la qualità della vita. Essa è l’armoniosa risultante di specifica competenza tecnica e culturale, di articolata capacità relazionale e solidale, di profonde motivazioni etiche e spirituali. Ed appare in grado di redimere e di risignificare il lavoro dell’uomo – che è parte sostanziale della sua vita – e, al tempo stesso, di sostenere ed incoraggiare la civiltà dell’amore.
4.1.5. Riflesso di Dio con radicalità evangelica.
Ciò che dava spessore a tutto questo – la dedizione alla missione e la capacità professionale ed educativa – e che colpiva immediatamente coloro che incontrava era la figura interiore di Artemide Zatti, quella di discepolo del Signore, che viveva in ogni momento la sua consacrazione, nella costante unione con Dio e nella fraternità evangelica.
Dal giudizio di medici che sono stati accanto a lui per molto tempo, in momenti professionalmente delicati come le lunghe operazioni, dalle valutazioni di collaboratori e cooperatori, dalle parole di pubblici amministratori, come dalla testimonianza dei confratelli, emerge una figura completa, anche per quell’equilibrio salesiano per cui le diverse dimensioni si congiungono in una personalità armonica, unificata e serena, aperta al mistero di Dio vissuto nel quotidiano.
È ammirevole che, con gli impegnativi compiti che svolgeva, Artemide Zatti non abbia mai smarrito il senso comunitario, ma abbia sempre partecipato e goduto della preghiera quotidiana, dei momenti di fraternità a tavola e delle occasioni di condivisione della gioia di famiglia, che in lui si manifestava in maniera tutta speciale. La comunità salesiana fu per lui luogo di esperienza di Dio e di fratellanza evangelica.
Possiamo raccogliere alcune testimonianze ricavate dal Sommario per la dichiarazione dell’eroicità delle virtù.
Riguardo alla intensità con cui il Servo di Dio viveva la sua fede, con una continua unione con Dio, così si esprime Mons. M. P�rez: «La impressione che io ricevetti fu di un uomo unito al Signore. L’orazione era come il respiro della sua anima, tutto il suo comportamento dimostrava che viveva pienamente il primo comandamento di Dio: lo amava con tutto il cuore, con tutta la sua mente e con tutta la sua anima» [43] .
Lo stesso conferma P. F. L�pez: «Era evidente che il Servo di Dio praticava una orazione continua: sopra la bicicletta pedalava e pregava, quando attendeva ai malati con naturalezza proferiva espressioni di fede e pronunciava parole che elevavano lo spirito, anche con i religiosi» [44] .
Per quanto riguarda, poi, in generale, la sua vita religiosa e comunitaria, nella Positio si afferma che il santo infermiere era anzitutto un religioso, membro di una comunità. Il servizio che egli rendeva agli ammalati non divenne mai un alibi per sottrarsi ai suoi doveri di vita comunitaria o motivo di distrazione dalla sua grande familiarità con Dio.
P. F. Prieto ha così testimoniato: «Nel compimento degli atti di comunità era esemplare. Intendo dire che mai fece uso delle libertà che aveva nel suo incarico per esimersi da nessun atto comunitario» [45] . E il teste continua: «Il Servo di Dio fu un religioso osservante, esemplare. Puntuale, immancabile, mai lo udii dire: – Non ci fui perch�… La sua presenza era di molta fraternità…» [46] .
Ascoltiamo ancora P. F. L�pez, che fu suo direttore, riguardo alla pratica della povertà evangelica: «Esercitò esemplarmente e molto al di là dell’obbligo la povertà di un coadiutore salesiano. Dimostrò in grado perfetto di essere distaccato dagli onori terreni e da desideri di cupidigia. Mentre durò la sua autonomia amministrativa, nessuno mai vide o conobbe, n� a me giunse notizia, che avesse acquistato qualcosa per proprio profitto e in vista di lusso o soddisfazione personale… Il Servo di Dio amava la povertà. Diremmo che aveva celebrato uno sposalizio con la povertà. Egli personalmente risplendeva come povero» [47] .
Riguardo allo spirito di obbedienza, P. L. Savioli attesta: «Con i Superiori praticava, come mi consta, una riverenza e obbedienza filiale. Ricordo che si consigliava con P. Pedemonte e ho l’impressione generale che così facesse con gli altri Superiori. Mi consta che era adornato di un’obbedienza semplice, pronta e allegra» [48] .
Tutto questo ci fa vedere la esemplarità della testimonianza evangelica di questo nostro confratello, che possiamo ben definire un “riflesso di Dio”.
4.2. Da Salesiano coadiutore.
Voglio ora soffermarmi, in particolare, sul carattere specifico della vocazione di Artemide Zatti, quella di salesiano coadiutore, che ha improntato tutta la sua azione e la strada della sua santità.
Se è vero – com'è stato autorevolmente affermato – che il carisma salesiano non sarebbe quello che deve essere senza la figura del coadiutore, è facile capire quale importanza rivesta il fatto che la Chiesa innalzi agli onori degli altari un rappresentante di una componente così originale e indispensabile della nostra identità.
Per questo è giusto che tutta la Famiglia Salesiana festeggi tale evento con particolare entusiasmo e ne prenda motivo per rilanciare la figura del coadiutore, come è maturata accanto a Don Bosco nella condivisione del Da mihi animas, al calore della sua carità pastorale ed educativa, nella continua ricerca della santità: dunque non come forza complementare di lavoro, ma in quanto esperienza di Dio, vissuta nella comunità e nel servizio dei giovani.
4.2.1. La figura del coadiutore nella comunità salesiana.
Nell’esperienza di Artemide Zatti, salesiano coadiutore, emergono caratteristiche eminenti di questa specifica vocazione e ci è offerta una grazia particolare per accoglierla, viverla e proporla nelle nostre comunità e nell’azione formativa.
Il percorso vissuto da Artemide Zatti nella vocazione salesiana va attentamente rimeditato, perch� è tipico del momento sorgivo al quale bisogna sempre ritornare.
Già abbiamo accennato a come si è formato il primo nucleo di coadiutori, attorno a Don Bosco e al servizio della sua missione educativa ed apostolica: alcuni provenienti dalle stesse file dei ragazzi dell’Oratorio, altri venuti con una laicità già matura, orientata alla carità, che nelle comunità di Don Bosco trovavano lo spazio dove impiegarla e farla crescere per il bene dei giovani con molteplici contributi conforme ad una professionalità già inizialmente acquisita. Nel cerchio di Don Bosco crescevano a livello umano, professionale e religioso e costituivano dei veri tesori, non tanto per il ruolo che assumevano, quanto per la qualità educativa che esprimevano.
In questo modo, nell’ambiente dell’Oratorio di Don Bosco, e nelle prime comunità salesiane, si è forgiata la figura del salesiano coadiutore, con quei tratti caratteristici, che permangono nella Congregazione, come espressione genuina del carisma, pur con i cambiamenti e gli adattamenti avvenuti.
Le Costituzioni, all’articolo 45, presentando in modo essenziale alcuni di tali tratti, collocano il salesiano coadiutore all’interno dell’unica vocazione e missione salesiana, nella quale egli porta il proprio contributo specifico di consacrato laico, «testimone del Regno di Dio nel mondo, vicino ai giovani e alle realtà del lavoro» [49] , mentre il salesiano presbitero «apporta al comune lavoro di promozione e di educazione alla fede la specificità del suo ministero» [50] .
La figura del salesiano coadiutore deve essere vista nel contesto della comunità consacrata salesiana, ricca di doni molteplici. A questo proposito non mi sembra fuori luogo richiamare quanto scrivevo tre anni fa nella lettera sulla nostra consacrazione apostolica: Il Padre ci consacra e ci invia [51] , che considero di fondamentale importanza, sotto il titolo: I doni molteplici della nostra comunità salesiana.
«La comunità salesiana – vi dicevo – si arricchisce con la presenza significativa e complementare del salesiano presbitero e del salesiano coadiutore [52] . Insieme configurano una completezza insolita di energie per la testimonianza e la missione educativa.
Possiamo domandarci che cosa evidenzino le figure del salesiano coadiutore e del salesiano presbitero nell’esperienza e nella testimonianza della consacrazione apostolica; che cosa la laicità accentui nella “consacrazione” e che cosa la “consacrazione” doni alla “laicità”, entrambe plasmate e come fuse dallo spirito salesiano. Similmente possiamo domandarci che cosa il ministero presbiterale accentui nella consacrazione salesiana e che cosa questa doni al ministero.
Il valore originale non risiede nella addizione estrinseca di qualità o di categorie di soci, ma nella fisionomia che prende la comunità salesiana.
Il salesiano coadiutore «congiunge in s� i doni della consacrazione e quelli della laicità» [53] . Vive la laicità non nelle condizioni secolari, ma in quelle della vita consacrata; vive da religioso salesiano la sua vocazione di laico e vive da laico la sua vocazione comunitaria di religioso salesiano [54] .
«Ai fratelli consacrati – afferma il CG24 – richiama i valori della creazione e delle realtà secolari; ai fratelli laici richiama i valori della totale dedizione a Dio per la causa del Regno. A tutti offre una particolare sensibilità per il mondo del lavoro, l’attenzione al territorio, le esigenze della professionalità attraverso cui passa la sua azione educativa e pastorale» [55] .
In lui professionalità tecniche, campi di lavoro secolari, forme pratiche di intervento mostrano il loro orientamento sostanziale verso il bene ultimo dell’uomo, specialmente dei giovani, e verso il Regno. “Tutto è aperto a lui, anche quelle cose che i preti non possono fare”; ma tutto è collocato sotto la luce dell'amore radicale a Cristo, polarizzato verso l’evangelizzazione e la salvezza eterna dei ragazzi. […]
Soprattutto in certi contesti e di fronte a un certo modo di percepire e concepire il sacerdote, come figura sacrale o cultuale, lo stile di consacrazione del salesiano coadiutore proclama concretamente la presenza e comunicazione di Dio nel quotidiano, l’importanza di farsi discepoli prima di essere maestri, il dovere di testimoniare un’esperienza personale di fede, più in là degli impegni funzionali o di ministero. […]
Nella comunità salesiana chierici e laici costruiscono e testimoniano una fraternità esemplare per l’eliminazione delle distanze basate su ruoli e ministeri, per la capacità di mettere insieme doni diversi in un unico progetto. Il mutuo rapporto è fonte di vicendevole arricchimento e stimolo per un’esperienza armonica, dove il sacerdozio non eclissa l’identità religiosa e la caratteristica laicale non vela la radicalità della consacrazione» [56] .
C’è da dire che la presenza del religioso laico negli Ordini e nelle Congregazioni è un fatto comune, ma la sua figura appare diversificata in relazione all’origine, alla evoluzione, alle finalità e alla collocazione nella comunità. Una cosa è essere nati come frati ed essere spiritualmente “frati tra frati”; un’altra è aver sentito la chiamata a collaborare in una comunità “pastorale”, che mette al vertice della formazione di giovani e fedeli il rapporto sacramentale con la Trinità. Certamente, non è solo la nostra Congregazione che considera i confratelli laici componente essenziale per la propria identità e missione. Studi recenti – anche all’interno della Commissione istituita dalla Congregazione per gli Istituti di vita consacrata, con l’incarico di approfondire il tema della “forma degli Istituti” – hanno indicato che in ciascun Istituto la figura e la collocazione del fratello consacrato va definita conformemente al proprio carisma, dando alle considerazioni sociologiche e teologiche generali il giusto peso, senza però isolarle dal carisma e dalla missione propria.
Per noi c’è stata, a questo riguardo, una riflessione proposta autorevolmente dal CG21 [57] , ripresa da don Egidio Viganò [58] , e sancita dalle Costituzioni [59] . In essa si evidenzia come la dimensione laicale attraversa la nostra vita e la nostra famiglia, fino a marcarne profondamente la fisionomia: noi siamo educatori, collocati in tanti campi di attività secolare, dove gestione, amministrazione ed orientamento pastorale si fondono. Ci sono nella nostra missione impegni sul versante laicale, che assumono l’umanesimo e percorrono le vie dello sviluppo umano, come il lavoro, l’istruzione, lo sport. Nell’ambito della Famiglia Salesiana e nelle nostre opere lavoriamo con componenti laicali di notevole spessore (cooperatori, exallievi, collaboratori). Per questo la comunità religiosa, e ancor più la comunità educativa, mostra il volto della Chiesa, popolo di Dio inserito nella storia dell'umanità.
Eppure il punto di attrazione o vertice della nostra azione è chiaro: mettere i giovani in rapporto sacramentale con Dio, rivelare e far loro vivere la condizione di figli di Dio. Nelle nostre comunità la dimensione laicale si fonde in forma originale con la dimensione pastorale e con il ministero sacerdotale, al quale si riconosce il compito singolare di rappresentare e ravvivare il fondamento della comunità, che è Gesù Cristo. Don Bosco ha voluto che i superiori impegnassero i doni o ministeri sacerdotali per il bene della comunità, con l’esercizio della Parola, il ministero della santificazione, l’orientamento di tutti verso il vertice della comunione sacramentale con Dio. Per questo, secondo le Costituzioni [60] , Direttori, Ispettori, Rettor Maggiore devono essere “sacerdoti” delle rispettive comunità e non soltanto orientatori e coordinatori dell’azione.
Le conseguenze non sono piccole, sia per il modo di esercitare l’autorità, come per la vita spirituale delle comunità. Queste non sono semplicemente gruppi da coordinare tecnicamente o da gestire, ma comunità da santificare alla stregua di quello che fece Gesù con i suoi discepoli, unendoli al Padre, vitalmente, con tutti i mezzi.
In questo contesto, però, il confratello coadiutore non ha meno possibilità di contribuire alla santificazione dei suoi confratelli e dei giovani, di assumere responsabilità importanti nelle mediazioni educative, o di percorrere con maturità le vie della spiritualità salesiana.
Non mancano, per i coadiutori, spazi di responsabilità piena e matura, capaci di incidere sulla vita comunitaria e sulla missione apostolica. Sono le vaste mediazioni educative e laicali, estremamente ampie e necessarie per la completezza pastorale. La vocazione del coadiutore è aperta alla carità in diversissime forme. E queste sono le espressioni della sua vocazione consacrata.
Lo dimostra la pluralità di realizzazioni della vocazione del salesiano coadiutore nell’ambito della comunità salesiana. «Le possibilità concrete di vivere in Congregazione la laicità consacrata sono molteplici e varie» [61] , come attesta la vita di Artemide Zatti e di tanti altri confratelli. La caratteristica laicale della missione salesiana, l’attenzione ai giovani poveri e alle situazioni urgenti, la sensibilità e la competenza nel mondo del lavoro, l’inserimento nel contesto sociale e popolare, i fronti di impegno che si aprono nella dimensione missionaria, nella realtà popolare e nella comunicazione sociale hanno trovato e trovano una speciale sintonia con la vocazione del salesiano coadiutore, si esprimono nei profili tradizionalmente conosciuti e si aprono a forme e figure nuove, come l’esperienza attuale sta evidenziando.
La storia salesiana ci insegna che spesso il confratello coadiutore ha dato forza ed efficacia alla missione giovanile e popolare della comunità con un contributo singolare, anche come punta avanzata sulle frontiere della missione. Basti pensare al rapporto originale che intercorre tra dedizione ai giovani poveri, scuole di arti e mestieri, evangelizzazione dei popoli e salesiano coadiutore.
Si tratta di un contributo molteplice, ma non indefinito. L’indefinizione porta al genericismo, la pluralità nella complementarità arricchisce la comunità e la missione. Non bisogna però pensare che compiti umili, ritenuti a volte umanamente poco rilevanti, siano senza importanza. Già ricordavo l’espressione di Don Bosco: «Un buon portinaio è un tesoro per una casa di educazione». È l’espressione di uno che sa bene che si educa con l’insieme, e io stesso potrei raccontare la storia di qualche portinaio-tesoro, dislocato nelle più lontane “pampas” della Patagonia.
4.2.2. Alcuni rilievi particolari.
Come accennavo, parlando del salesiano coadiutore non mi sono proposto di fare una trattazione esaustiva degli svariati aspetti riguardanti la sua vocazione e missione. Prendendo ispirazione dalla figura e dalla esperienza di santità di Artemide Zatti, ho considerato alcuni elementi, che toccano la identità del salesiano coadiutore, il suo peculiare contributo alla missione e la sua collocazione nella comunità [62] . Altri potranno essere ulteriormente approfonditi. Faccio ora un cenno ad alcuni aspetti particolari.
4.2.2.1. La forma istituzionale degli Istituti.
Quanto dicevo nel precedente paragrafo sulla presenza dei fratelli laici in numerosi Ordini e Congregazioni, ha diretto riferimento alla forma istituzionale degli Istituti. Sappiamo che questa è oggi oggetto di discernimento a livello ecclesiale. In occasione del Sinodo sulla vita consacrata, infatti, è stata riproposta la riflessione sul rapporto tra i vari carismi, le figure dei soci e le diverse forme istituzionali degli Istituti (Istituti clericali e Istituti laicali). Nella esortazione Vita Consecrata il Papa ha fatto riferimento ad una apposita Commissione, istituita presso la Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, allo scopo di approfondire in questo contesto il tema degli Istituti chiamati “misti” [63] .
Proprio riferendosi a questa indicazione e in relazione con il lavoro di detta Commissione, il CG24 ha stabilito il seguente orientamento, in vista di una riflessione aggiornata sulla “forma” della nostra Società: «Alla luce dell'Esortazione Apostolica Vita Consecrata e degli sviluppi giuridici in corso sulla “forma” degli Istituti religiosi, il CG24 ritiene importante uno studio sulla possibile forma “mista” della nostra Società e un ulteriore approfondimento, se le novità inerenti a tale forma rispondano al nostro carisma e al progetto originario del Fondatore» [64] .
Sappiamo che la suddetta Commissione non ha ancora portato a termine il proprio studio e quindi non abbiamo ancora orientamenti autorevoli e definiti. Tuttavia, si sa, in ogni caso, che prevale il criterio della fedeltà carismatica in ciascun Istituto.
Rimane valida la sollecitazione del CG24, che dovrà essere ripresa quando siano noti i risultati degli studi condotti dalla Commissione, che potranno illuminare la nostra riflessione, in collegamento con quanto già è stato acquisito sugli aspetti del nostro carisma in precedenti Capitoli.
4.2.2.2. Il salesiano coadiutore e i laici collaboratori [65] .
Un tema sul quale, nel contesto del CG24, sono stato interrogato si rifà a domande di questo tipo: Come si colloca il salesiano coadiutore nel nuovo modello operativo composto di salesiani e laici? Se il soggetto della missione, il nucleo operativo è composto da salesiani e laici, qual è il contributo specifico o la significatività del salesiano coadiutore? La presenza di tanti laici, che condividono lo spirito e la missione di Don Bosco, rende forse meno significativa la presenza del salesiano coadiutore come espressione della dimensione laicale della vocazione e missione salesiana?
Diciamo subito che se si mette tra parentesi la consacrazione religiosa per ragionare in termini di azioni e di ruoli funzionali, questo non solo confonde i piani, ma altera le dimensioni. A ragione, negli ultimi tempi la stessa Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica sottolineava la triplice condizione secondo cui il cristiano vive il suo inserirsi in Cristo: ministro o sacerdote, laico, consacrato secondo un carisma.
Ecco, dunque, che la prima sostanziale differenza del religioso laico – quindi del salesiano coadiutore – rispetto ai laici collaboratori è data dalla sua identità di “consacrato”, pur con connotazione laicale: quindi dal come vive il rapporto di alleanza, che Dio ha stabilito con lui, e il suo stesso rapporto con Dio. Non c’è speranza di futuro per una figura religiosa che non esprima immediatamente, e quasi emozionalmente, un significato trascendente; che non sia una freccia puntata verso il divino e verso l’amore al prossimo, che dal divino nasce. Inutile e deviante sarebbe cercare la differenza in base a ruoli, rilevanza, gerarchia. Dovremmo rileggere i passi del Vangelo sul servizio dei discepoli agli altri.
L’indebolimento dell’identità della comunità religiosa salesiana come nucleo animatore specifico, o una sua collocazione nella CEP soltanto funzionale, non testimoniale, potrebbe portare ad un livellamento delle diverse figure del salesiano consacrato e del laico collaboratore, ad un genericismo operativo soprattutto nell’essere e nel manifestarsi. Sono preoccupazioni che leggiamo nelle seguenti espressioni del documento capitolare: «La maturazione postconciliare della vocazione laicale interroga l’identità del salesiano SDB nella sua specificità di consacrato. In alcuni SDB si notano sensibilità che destano preoccupazione: (…) ad alcuni sembra che il laico possa fare tutto o quasi quello che faceva o fa il consacrato, rimanendo laico; altri pensano che il bene che fanno come consacrati in una comunità che “limita”, lo potrebbero fare con più efficacia fuori, in qualità di laici impegnati» [66] .
A queste preoccupazioni il CG24 ha dato risposta, riferendosi alla comunità salesiana e al salesiano visto come membro della comunità di consacrati, specialmente parlando della “comunità di consacrati anima della CEP” [67] . Io stesso ho sottolineato questo punto alla conclusione del Capitolo, affermando che molti partecipano al carisma di Don Bosco, «ma questo ha nella comunità SDB un particolare grado di concentrazione: per la forza della consacrazione, per l’esperienza comunitaria, per il progetto di vita (professione), per la dedizione completa alla missione» [68] E nella recente mia lettera sulla pastorale vocazionale, invitandovi a proporre con chiarezza la vocazione alla vita consacrata, scrivevo: «È vero che essi (i laici) possono dare molto, ma è altrettanto vero che Don Bosco volle al centro della sua famiglia una comunità di consacrati» [69] .
D’altra parte, è evidente che nessuno può pretendere che un uomo nelle mediazioni educative esprima soltanto la dimensione religiosa. Sono attività con valenza secolare, richiedono competenze varie e si distribuiscono tra coloro che emergono per tali competenze. Ma c’è un’altra dimensione, più profonda, per il consacrato, il cui ideale di vita è quel rapporto con Dio, che Gesù volle per i suoi discepoli: si tratta della consacrazione come riferimento e paradigma di santità.
4.2.2.3 La formazione del salesiano coadiutore.
Un’altra domanda che viene sovente sollevata, e con ragione se proposta “con discernimento”, riguarda l’itinerario ed il livello formativo del salesiano coadiutore. Effettivamente, la formazione e la qualificazione dei confratelli coadiutori rimane la strada maestra per un’esperienza significativa, una formazione che renda eloquente la sua presenza e il suo contributo.
L’argomento va trattato “con discernimento” nel senso che occorre aver chiaro che la formazione spirituale, educativa e pastorale sono alla base della nostra vocazione apostolica, mentre quella tecnica o professionale specifica sono commisurate alle forme concrete e personali della mediazione educativa. La Ratio, ristudiata in questi anni, anche con il contributo dei confratelli coadiutori, ha assunto il suddetto orientamento nella misura giusta. E in diverse regioni si vedono già realizzazioni concrete.
Si può affermare che una formazione di qualità, che rende significativa la vocazione del salesiano coadiutore, la sua presenza e il suo contributo specifico alla missione, è il segreto del futuro dei coadiutori. Nella “galleria” di coadiutori presentati precedentemente, si vede l’intreccio tra qualifica quotidiana ed esercizio della carità educativo-pastorale.
A questo riguardo si è fatto un cammino considerevole, nel campo della formazione permanente e iniziale, cammino che la Ratio ci spinge a proseguire.
L’orientamento fondamentale della Congregazione è chiaro in ciò che si riferisce ad ogni salesiano, coadiutore, candidato al presbiterato e presbitero, e deve essere assunto con responsabilità dalle Ispettorie.
Quanto alla formazione, dicono le Costituzioni, essa «ha ordinariamente un curricolo di livello paritario, con le stesse fasi e con obiettivi e contenuti simili. Le distinzioni sono determinate dalla vocazione specifica di ognuno, dalle doti e attitudini personali e dai compiti del nostro apostolato» [70] .
Nella Ratio sono indicate le esigenze formative per ogni salesiano educatore pastore, i criteri, i contenuti e le condizioni da assicurare per una formazione paritaria ma non omologante, specifica e differenziata; per una qualificazione e una professionalità adeguate alla missione, alle molteplici forme di partecipazione in essa e alle possibilità concrete dei confratelli.
Attenzione particolare da parte dei responsabili va data alla qualità dell’itinerario formativo, alla formazione consacrata specifica e alla qualificazione professionale, alle iniziative per sostenere il cammino di formazione permanente. In alcuni casi sarà indispensabile a tale scopo mettere in atto la collaborazione interispettoriale. L’essenziale non va mai smarrito, n� messo in secondo piano nella vita dei giovani candidati o dei salesiani maturi: «Noi salesiani – ci ricordano le Costituzioni – formiamo una comunità di battezzati che, docili alla voce dello Spirito, intendono realizzare in una specifica forma di vita religiosa il progetto apostolico del Fondatore: essere nella Chiesa segni e portatori dell'amore di Dio ai giovani, specialmente ai più poveri» [71] . Se cade questo, cade la nostra identità ed il nostro progetto.
5. La pastorale vocazionale: invito ad un impegno straordinario
Dalla riflessione sulla vocazione del salesiano coadiutore, alla luce anche della esperienza di santità di Artemide Zatti, e dalla convinzione della significatività della sua presenza nella missione salesiana e quindi nella Congregazione, si ricava la necessità e l’importanza di uno speciale impegno per promuovere oggi questa vocazione.
Se è vero che attorno al nostro Padre e ad altri salesiani, uomini di Dio, si è visto un movimento di attrazione che non ha avuto bisogno di manuali n� di grandi organizzazioni, è vero anche che la storia, attraverso sforzi operativi e collegamenti di esperienze, ci ha manifestato le diverse vie e le condizioni per la nascita e la crescita di questa forma vocazionale, in vista della missione salesiana, e la sua piena realizzazione fino alla santità. L’approfondimento che se ne è fatto ne ha rivelato l’originalità, la bellezza e l’efficacia.
Va dunque ricercato questo dono dov’è e va coltivato. Dobbiamo impegnarci decisamente nella pastorale vocazionale, che è vicinanza, comunicazione ed invito. Riconoscere e accogliere il dono di Dio è il primo atteggiamento di ogni pastorale vocazionale. Siamo convinti che lo Spirito ha suscitato questa figura di religioso nella nostra comunità e continua a suscitarla.
Della pastorale vocazionale come uno degli impegni prioritari della nostra missione e delle sue caratteristiche nel momento attuale vi ho parlato qualche mese fa nella lettera “Ecco il tempo favorevole” [72] . Alla pastorale vocazionale specifica, poi, è dedicata la terza parte del libro “Il salesiano coadiutore” [73] .
Non è mia intenzione riprendere ora quanto potete trovare in quei due scritti. Vorrei piuttosto, nell’occasione straordinaria della Beatificazione del coadiutore Artemide Zatti, chiedere ad ogni Ispettoria, ad ogni comunità e a ciascun confratello nei prossimi anni – a cominciare da questo anno – un impegno rinnovato, straordinario e specifico per la vocazione del salesiano coadiutore, all’interno della pastorale vocazionale: nel pregare per essa, nell’annunciarla e proporla, nel chiamare, nell’accogliere e accompagnare, nel viverla personalmente e insieme nella comunità.
La prima riflessione e l’impegno concreto debbono aver luogo nel contesto locale: in ogni casa e in ogni Ispettoria; poi a livello interispettoriale e regionale. I contesti in cui vive una Congregazione mondiale come la nostra sono molto diversi, come diverse sono le sensibilità, le possibilità e le prospettive, anche per quel che si riferisce alla figura del salesiano coadiutore. Tra i Superiori Generali evidenziamo spesso questa pluralità nel vasto fenomeno della globalizzazione e siamo consapevoli dell’importanza della comunione carismatica espressa senza irrigidire i modelli e omologare gli itinerari formativi.
L’impegno per le vocazioni era stato proposto da alcune Ispettorie come tema per il prossimo Capitolo. Anche se non è stato scelto come punto specifico, esso trova il suo posto all'interno del discernimento capitolare che verificherà le condizioni che possono favorire un’esperienza gioiosa e incoraggiante della vocazione nella comunità, e non è difficile prevedere che si farà riferimento anche alle diverse forme della vocazione salesiana.
So che ogni volta che si condivide la riflessione su questo punto vitale, emergono immediatamente sfide da affrontare e difficoltà da superare.
Una prima sfida evidente è costituita dallo scarso numero di vocazioni di coadiutori e dalla loro lenta e progressiva diminuzione in Congregazione, un fenomeno che vivono tutti gli Istituti, spesso in forme ancora più gravi, e in particolare gli Istituti laicali. Quando morì Artemide Zatti, si viveva in Congregazione un’epoca di forte sviluppo della vocazione del salesiano coadiutore, sia per la crescita numerica che per l’impegno di qualificazione. Da questo punto di vista la situazione è profondamente cambiata. Alcuni dati statistici ci fanno percepire le dimensioni del cambiamento. Sono indicatori da collocare nel più ampio contesto della situazione vocazionale, della vita consacrata e delle diverse aree in cui è presente la Congregazione [74] .
L’aspetto statistico può essere conseguenza anche di altre sfide o difficoltà, che sono così presentate nel citato libro sul salesiano coadiutore: «Si trova una certa difficoltà nel presentare ai giovani la fisionomia religiosa, spirituale e apostolica, del salesiano coadiutore in tutta la sua ricchezza, in maniera comprensibile e vicina alle loro aspirazioni. I diversi convegni sulla vocazione del religioso laico hanno cercato di individuarne le cause: la mancanza di modelli di identificazione, la mentalità ‘clericale’ di alcune aree, l’assenza di segni distintivi nel religioso laico, l’impostazione della pastorale vocazionale, la naturale tendenza dei giovani a congiungere vocazione con servizio religioso del popolo» [75] .
Nella mia lettera sulle vocazioni ho sottolineato la difficoltà odierna di proporre la vocazione alla vita consacrata. «La nostra società, e spesso la stessa comunità cristiana, – scrivevo – non possiede una conoscenza adeguata della vita religiosa per capirne il senso e il valore. La nostra forma di vivere la vita consacrata ha perso visibilità ed in non pochi aspetti sembra indecifrabile. Ciò diventa ancora più preoccupante di fronte alla crescente presenza dei laici nella Chiesa e, per noi, nella missione salesiana» [76] .
Queste difficoltà, della cui incidenza siamo consapevoli, lungi dall’indebolire, devono stimolare e rendere più convinto il nostro impegno. In questo contesto, mi sembrano quanto mai opportune le parole di Giovanni Paolo II nell’esortazione apostolica Vita Consecrata, riferite alle difficoltà e alle prospettive vocazionali: «Le nuove situazioni di scarsità vanno perciò affrontate con la serenità di chi sa che a ciascuno è richiesto non tanto il successo, quanto l’impegno della fedeltà» [77] . Di impegno di fedeltà si tratta: fedeltà al dono di Dio e fedeltà al progetto di Don Bosco.
Il nostro primo atteggiamento deve essere di fiducia nel Signore e di ricorso a Lui. Riporto a questo proposito le parole scrittemi da un confratello coadiutore: «Anche oggi risuona il “Vieni e seguimi”. Ed è sempre uno stupore constatare che anche oggi ci sono giovani a cui nulla mancherebbe per orientarsi verso il sacerdozio e invece fanno la scelta del laico consacrato anche nella Congregazione salesiana. Perciò nella pastorale vocazionale bisogna credere in questa vocazione in s� completa, e trasmetterne per osmosi la stima, senza operare forzature e distorsioni in direzione della figura clericale. Bisogna essere convinti che ci sono giovani che non si identificano nel modello presbiterale, mentre si sentono attratti dal modello del laico consacrato. Quali i motivi di questa scelta? Tutte le motivazioni sono insufficienti: al fondo resta il mistero della Grazia e della libertà».
Molteplici sono le vie per proporre la vocazione del salesiano coadiutore: raccontare Don Bosco e la storia salesiana, presentare l’esperienza attuale in Congregazione, mettere a contatto in forma immediata o mediata con modelli, approfondire il carattere laicale della vocazione.
Conosciamo le condizioni da assicurare per risvegliare l’interesse, per animare, accogliere e accompagnare le vocazioni.
È indispensabile far conoscere la vocazione del salesiano coadiutore attraverso una presentazione specifica ed esplicita, che dia rilievo alla vita consacrata secondo l’originale carisma di Don Bosco e faccia comprendere la sua realizzazione nel coadiutore e nel salesiano presbitero. In questa prospettiva si potranno indicare i criteri di discernimento specifico, evitando decisioni fondate su stereotipi o sulla semplice assenza di requisiti per la vocazione presbiterale.
Una tale presentazione può essere opportuna e a volte indispensabile nell’ambito “ecclesiale”, dove la vocazione del laico cristiano e quindi del religioso laico – come il salesiano coadiutore – spesso è poco conosciuta o addirittura ignorata; e questo anche nel contesto della Famiglia Salesiana.
Ma non mi ricordo vocazioni salesiane fondate che non avessero queste quattro caratteristiche: spirito e desiderio di Dio, fino a dargli il primato nell’amore e nell'organizzazione della vita; fascino di Don Bosco; passione per la missione giovanile educativa e pastorale; senso di complementarità fraterna, senza complessi di subalternità, benigna, tollerante e generosa nella comunità.
Spesso si dice che la vocazione del salesiano coadiutore, pur essendo in s� completa e significativa, ha debole visibilità, e ci si riferisce soprattutto alla sua esperienza di consacrato, al suo essere educatore pastore, alla sua capacità di animazione e di comunicazione dei valori del carisma. È una considerazione che interpella ogni salesiano e ogni comunità nel contesto attuale e nel nuovo modello operativo.
Come fare in modo che i giovani ed i collaboratori afferrino le motivazioni di fondo che muovono la nostra vita e ne costituiscono l’originalità, e si sentano invogliati a seguire la nostra strada? [78] La risposta può venire dalla cura dell’esperienza personale di vita e dalla sua comunicazione, dalla qualità della formazione, dalla valorizzazione di quelle forme di “visibilità” che manifestano la “significatività” vissuta e testimoniata. Occorrerà anche essere attenti a certe forme di “visibilità”, cui ci richiamano Costituzioni e Regolamenti come la partecipazione “responsabile ed effettiva” alla vita della comunità locale, ispettoriale e mondiale, alla scelta dei responsabili di governo, la presenza nei Capitoli e nelle �quipes di formazione e di animazione [79] .
È evidente che sarà inutile una organizzazione e una esposizione poco autentica. L’intreccio di persone significative per la pratica del Sistema preventivo, la presenza accogliente e contagiosa, la sequela radicale e testimoniata di Gesù Cristo, il primato di Dio e dell’amore sono anche oggi e più che mai i moventi o le motivazioni di ogni vocazione religiosa. Diventa ingannevole fondare l’appello vocazionale su altre attrattive. Soltanto una robusta formazione cristiana può provocare la sequela di Gesù Cristo. E, come sempre, chi è depositario di questo dono è il “primo” responsabile di comunicarlo e di farlo conoscere. La vocazione si comunica nell’immediato, per contatto diretto o per contagio. Così è capitato con gli uomini carismatici di sempre e così sarà per la bellezza di questa vocazione. Quanto più convinti e sereni saranno i confratelli nel vivere la loro vita in Dio, tanto più saranno capaci di attrarre qualcuno alla loro esperienza.
È utile che i nostri centri di spiritualità e di formazione permanente promuovano incontri e corsi di studio sulle figure vocazionali – laicale e presbiterale �– che compongono la nostra comunità e sono i motori della nostra missione, secondo la propria specificità. Questi studi, mentre risultano utili per una conoscenza profonda e aggiornata della nostra vocazione, sono certamente di stimolo ad una efficace pastorale vocazionale. Ho chiesto in particolare all’Ispettoria del Medio Oriente e al centro di Cremisan di farsi promotore di iniziative di questo tipo: il taglio biblico che lo caratterizza – nella Terra che ha visto l’esperienza del Parola di Dio fatta carne – può aprire orizzonti significativi.
Intercessione di Artemide Zatti e fecondità vocazionale: una testimonianza singolare.
Non sarà inutile prestare ascolto ad uno che ha sperimentato l’efficace intercessione di Artemide Zatti proprio riguardo alla vocazione del consacrato laico ed ha avuto la delicata attenzione di raccontarci la sua esperienza. Si tratta di Sua Eminenza il Card. Giorgio Mario Bergoglio, oggi Arcivescovo Cardinale di Buenos Aires, e Provinciale dei Gesuiti ai tempi in cui offrì la seguente testimonianza.
Trascrivo il testo della lettera scritta a don Cayetano Bruno sdb e datata: Buenos Aires, 18 maggio 1986.
«Caro P. Bruno: Pax Christi! Nella sua lettera del 24 febbraio Lei mi chiedeva di provare a scrivere qualcosa sull’esperienza che ho avuto con il Sig. Zatti (del quale sono diventato grande amico), riguardo alle vocazioni di Confratelli Coadiutori. […]
Noi avevamo una assai grande penuria di Confratelli Coadiutori. Prendo come riferimento l’anno 1976, quello in cui ho conosciuto la vita del Sig. Zatti. In quell’anno, il Confratello Coadiutore più giovane aveva 35 anni, era infermiere, e sarebbe morto quattro anni più tardi vittima di un tumore cerebrale. Quello che lo seguiva in età aveva 46 anni, e quello che veniva dopo questo ne aveva 50. Gli altri, tutti anziani (molti di essi continuano a lavorare attualmente come vogatori con addosso i loro 80 anni). Questo “quadro demografico” dei Confratelli Coadiutori nella Provincia Argentina induceva molti a pensare che si potesse trattare di una situazione irreversibile, e che non ci sarebbero state altre vocazioni. Alcuni, addirittura, si interrogavano sulla “attualità” della vocazione del Confratello Coadiutore nella Compagnia, perch� — guardando i fatti — sembrava che si sarebbero estinti. Inoltre si facevano sforzi in vari luoghi per delineare una “nuova immagine” del Confratello Coadiutore, per vedere se — per questa strada — si otteneva un richiamo più forte di giovani che seguissero questo ideale.
D’altra parte, il Padre Generale, P. Pedro Arrupe S.I., insisteva con forza sulla necessità della vocazione del Confratello Coadiutore per l’intero corpo della Compagnia. Arrivava a dire che la Compagnia non era la Compagnia, senza Confratelli Coadiutori. Gli sforzi fatti dal P. Arrupe in quest’area furono ingenti. La crisi era non soltanto di qualche Provincia, ma di tutta la Compagnia (riguardo alle vocazioni di Coadiutori).
Nel 1976, credo che fu verso il mese di settembre approssimativamente, durante una visita canonica ai missionari gesuiti del nord argentino, mi fermai qualche giorno nell’Arcivescovato di Salta. Lì, tra una chiacchiera e l’altra alla fine dei pasti, Mons. P�rez mi raccontò la vita del Sig. Zatti. Mi diede anche da leggere il libro della vita. Mi richiamò l’attenzione la sua figura così completa di Coadiutore. In quel momento sentii che dovevo chiedere al Signore, per intercessione di quel grande Coadiutore, che ci mandasse vocazioni di coadiutori. Feci novene e chiesi ai novizi di farne. […]
A Salta in varie occasioni sentii l’ispirazione di raccomandare al Signore e alla Signora del Miracolo l’aumento di vocazioni della Provincia (questo in generale, e non specificatamente di Coadiutori, cosa che feci con il Sig. Zatti). Inoltre feci una promessa: che i novizi sarebbero andati in pellegrinaggio alla festa del Signore del Miracolo se raggiungevamo il numero di 35 novizi (questo si realizzò nel settembre 1979).
Ritorno alla richiesta di vocazioni di Coadiutori. Nel luglio del 1977 entrò il primo Coadiutore giovane (attualmente ha 32 anni). Il 29 ottobre di quell’anno entrò il secondo (attualmente con 33 anni)».
La lettera prosegue, presentando anno per anno l’elenco di altri 16 coadiutori entrati dal 1978 al 1986. Quindi continua:
«Da quando incominciammo le preghiere al Sig. Zatti, sono entrati 18 coadiutori giovani che perseverano e altri 5 che uscirono dal noviziato e dallo iuniorato. In totale, 23 vocazioni.
I novizi, gli studenti e i Coadiutori giovani hanno fatto varie volte la Novena in onore del Sig. Zatti, chiedendo vocazioni di Coadiutori. Io stesso la feci. Sono convinto della sua intercessione per questo problema, poich�, considerato il numero, è un caso raro nella Compagnia. In riconoscenza, nella 2� e 3� edizione del Devozionario del Sacro Cuore, abbiamo messo la Novena per chiedere la Canonizzazione del Sig. Zatti.
Un dato interessante è la qualità di coloro che sono entrati e che perseverano. Sono giovani che vogliono essere Coadiutori come Sant’Ignazio voleva che fossero, senza che loro “si indori la pillola”. Per noi la vocazione del Confratello Coadiutore è molto importante. Il P. Arrupe diceva che la Compagnia, senza di loro, non era la Compagnia. Hanno un carisma speciale che si alimenta nella preghiera e nel lavoro. E fanno bene a tutto il corpo della Compagnia. […] Sono di pietà, allegri, lavoratori, sani. Molto virili e sono coscienti della vocazione a cui furono chiamati. Sentono speciale responsabilità di pregare per i giovani Studenti gesuiti che si preparano al sacerdozio. In essi non si vedono “complessi di inferiorità” per il fatto di non essere sacerdoti, n� passa loro per la testa di aspirare al diaconato…ecc.; sanno qual è la loro vocazione e la vogliono così. Ciò è salutare. E fa bene.
Questa è stata, nelle linee generali, la storia della mia relazione con il Sig. Zatti sul problema delle vocazioni di Confratelli Coadiutori per la Compagnia. Ripeto che sono convinto della sua intercessione, perch� so quanto abbiamo pregato mettendo lui come avvocato.
Nient’altro per oggi. Sono suo aff.mo, in nostro Signore e nella Sua Madre Santissima,
Jorge Mario Bergoglio, S.I. »
Uno splendido stimolo anche per noi ad interporre l’intercessione di Artemide Zatti per l’incremento di buone e sante vocazioni di Salesiani Coadiutori.
Conclusione: la nostra vocazione alla santità.
Cari confratelli, disponiamoci ad accogliere la grazia e il messaggio che la Chiesa ci comunica attraverso la testimonianza di santità salesiana di questo confratello coadiutore.
La figura di Artemide Zatti costituisce stimolo e ispirazione per renderci sensibili a nuove aree di pastorale oggi urgenti e soprattutto per spingerci a ripensare con generosità e ampiezza la presenza del salesiano coadiutore contrassegnato da questi tratti tipici:
– il desiderio assoluto di rimanere e lavorare con Don Bosco, secondo il da mihi animas;
– il vissuto di una consacrazione totale, che ha la sua espressione più immediata e forte nella partecipazione alla missione comunitaria e nell'amore fraterno;
– lo sviluppo sereno e continuamente aggiornato della propria preparazione professionale come mezzo per fare del bene.
L’evento della sua Beatificazione, che lo propone come modello singolare alla nostra Famiglia e alla Chiesa, sottolinea un elemento fondamentale del nostro vissuto di consacrati all’inizio del terzo millennio: è la priorità data alla dimensione spirituale dell’esistenza, novità e profezia portata dall’Incarnazione, che si manifesta in una carità capace di compiere atti più grandi dell’uomo. Si tratta della principale forma profetica del cristianesimo: sorprendere con la scelta radicale dell'amore, contestando senza paura ogni ambiguità, operando decisamente contro il male, che umilia le persone. Forse l’urgenza oggi non è quella di fondare un gran numero di istituzioni (educative formali), ma di rivedere il messaggio trasmesso dalla nostra vita personale e comunitaria come vangelo dispiegato nel tempo [80] , e prolungamento della vita e dell’agire di Gesù. In una parola, la nostra santità!
Non posso concludere senza fare un cenno alla presenza e al ruolo che ebbe l’Ausiliatrice nella vocazione e nel cammino di santità di Artemide Zatti.
«Credo – afferma un teste – che il Servo di Dio sentiva come pochi la devozione a Maria Ausiliatrice» [81] . E nella Positio leggiamo: «Per cogliere l’afflato con cui egli era amante di Maria bisogna scorrere le sue lettere, dove consiglia ai familiari di ricorrere a Maria (S. p. 2, p. 3, ecc.), dove afferma che se è nella Congregazione lo deve a Lei (S. p. 17), dove riconosce che alla Madonna deve la vita (S. p. 33) e dove c’è ad ogni passo il richiamo al suo aiuto e alla sua intercessione (S. p. 15, p. 16, p. 20 ecc.)» [82] .
Effettivamente egli attribuì alla Madonna – come abbiamo visto – la sua guarigione dalla tisi e per questo consacrò a Dio, nei malati e nei poveri, tutta la sua vita. Tutti i giorni la onorava con la recita del Rosario, anche mentre andava in bicicletta per le strade di Viedma, e tutti i giorni faceva recitare il Rosario ai malati. Caratteristico il saluto mariano quando entrava nelle case: “Ave Maria purissima” [83] .
Sono tanti segni che testimoniano la presenza di Maria continuamente avvertita, che sosteneva il Servo di Dio nella sua missione e alla quale si ispirava nella fede che lo muoveva e nella carità di buon samaritano al servizio dei bisognosi. Si realizzava stupendamente in Artemide Zatti – come deve compiersi anche in noi – quanto dicono le nostre Costituzioni: «Maria Immacolata Ausiliatrice ci educa alla pienezza della donazione al Signore e ci infonde coraggio nel servizio dei fratelli» [84] .
Cari confratelli, la Vergine Maria, nostra Madre e Ausiliatrice, sostenga il cammino di ciascuno di noi e dell’intera Congregazione sulle strade della santità salesiana per il bene dei giovani cui siamo inviati.
È l’augurio più bello, anche in vista del CG25.
Vostro affezionatissimo in Don Bosco
Juan Vecchi
[1] Cf. MB IV, pag. 550
[2] MB VI, pag. 334-335
[3] Cf. CG21, 197-198
[4] Sulla autorità salesiana, anche in rapporto al ministero sacerdotale, si può vedere la riflessione del CG21 sul ruolo del Direttore (CG21, 49 ss); la lettera circolare di Viganò E. L’animazione del Direttore salesiano in ACS 306; e Vecchi J. Spiritualità salesiana, LDC Torino 2001, pag. 184-194
[5] Questa testimonianza su Silvestro Chiappini (o Chiappino, come risulta in alcuni documenti) è di don Giuseppe Vespignani che nella lettera mortuaria parla di “prima professione salesiana nel Nuovo Mondo”.
[6] Il contenuto di questo capitoletto è tratto, in buona parte, spesso con le parole testuali, dalla Positio della Causa di beatificazione, anche se non sempre si fa riferimento in nota e non vengono sempre messe tra virgolette affermazioni citate alla lettera.
[7] Positio, pag. 27
[8] Ibid.
[9] A Bah�a Blanca c’è una storia quasi comica di mazziniani, garibaldini e settembrini. Ogni anno questi gruppi si prendevano cura di celebrare con sempre maggiore fragore l’anniversario della breccia di Porta Pia, con relative marce e grida contro Pio IX e il Papato. Nella storia della nostra presenza salesiana a Bah�a Blanca, documentata dalla stampa locale, dalle cronache della casa, da rapporti inviati al Vescovo, si legge che il martirio maggiore per il direttore salesiano fu “il 20 settembre” garibaldino, ricordo di mille battaglie. Si vedeva questa data sopraggiungere come una grandinata sui seminati. Le cronache del collegio don Bosco cominciano ad annunciare la temuta data già dal 1889. Quell'anno, il 20 settembre, i settembrini cominciarono a passare di fronte alla chiesa mentre si celebrava la novena della Patrona, "Nostra Signora della Mercede”, facendo suonare dalla banda l'inno a Garibaldi ed altre musiche ostili alla Chiesa. Nell'anno 1893 si legge nella cronaca: «La notte del 20 settembre i garibaldini disturbarono molto. Passarono di fronte alla Chiesa gridando: muoia il Papa, morte al parroco Borghino, abbasso i preti!».
[10] Cf. Positio, pag. 35
[11] Cf. Positio, pag. 36
[12] Ibid.
[13] Ibid.
[14] Cf. Ibid.
[15] Cf. Cost. 21
[16] Cf. Positio, pag. 41
[17] Ibid.
[18] Cf. Positio, pag. 47
[19] Cf. Positio, pag. 49
[20] Cf. Positio, pag. 76
[21] Positio, pag. 76
[22] Informazioni sull’opera salesiana a Viedma: cf. Positio, pag. 61-65
[23] Positio, pag. 79
[24] Cf. Positio, pag. 79 ss
[25] Cf. Positio, pag. 74
[26] Riportiamo l’originale in lingua spagnola della testimonianza: «Si yo estoy bueno y sano y en estado de poder hacer alg�n bien a mis pr�jimos enfermos, se lo debo al Padre Garrone Doctor, quien viendo que mi salud empeoraba cada d�a, pues estaba afectado de tuberculosis con frecuentes emoptisis, me dijo terminantemente que, si no quer�a concluir como otros tantos, hiciera una promesa a Mar�a Auxiliadora, de permanecer siempre a su lado ayud�ndole en la cura de los enfermos y �l, confiando en Mar�a, me sanar�a. CRE�, porque sab�a por fama que Mar�a Auxiliadora lo ayudaba de manera visible. PROMET�, pues siempre fue mi deseo ser de provecho en algo a mis pr�jimos. Y habiendo Dios escuchado a su siervo y SAN�. (Firmado) ARTEMIDE ZATTI.» (Positio, pag. 75)
[27] Positio, pag. 80
[28] Positio, pag. 81
[29] Summarium, pag. 310, n. 1224
[30] Positio, pag. 84
[31] Cf. Positio, pag. 93
[32] Positio, pag. 149
[33] Cf. Positio, pag. 104-105
[34] Cf. Positio, pag. 103
[35] Cf. Positio, pag. 92
[36] Positio, pag. 198
[37] Cost. 25
[38] Novo Millennio Ineunte, 31
[39] cf. Cost. 3
[40] Cf. Cost. 18
[41] Rescritto del Papa Pio XI a don Filippo Rinaldi, 10 giugno 1922. Si fa presente che questa Indulgenza, dopo la Costituzione Apostolica Indulgentiarum doctrina di Paolo VI del 1 gennaio 1967 e il successivo decreto attuativo della Penitenzieria Apostolica, non è più in vigore. La Penitenzieria, in data 31 gennaio 1968, ha concesso speciali Indulgenze plenarie, lucrabili dai Salesiani e dalla Figlie di Maria Ausiliatrice, in particolari occasioni.
[42] Cf. Cost. 95
[43] Summarium, pag. 43, n. 160
[44] Summarium, pag. 179, n. 73
[45] Summarium, pag. 60, n. 231
[46] cf. Summarium, pag. 65, n. 248
[47] cf. Summarium, pag. 187, n. 768-771; pag. 51, n. 199
[48] cf. C.P. f. 730 t.
[49] Cost. 45
[50] Ibid.
[51] Cf. ACG 365
[52] cf. CG24 174; Cost. 45
[53] CG24, 154; cf. 236
[54] cf. Il Salesiano Coadiutore, Roma 1989, pag. 107-108
[55] CG24, 154
[56] ACG 365, pag. 37 ss
[57] Cf. CG21, Documento 2, Il salesiano coadiutore, n. 166-211
[58] Cf. La componente laicale della comunità salesiana, lettera circolare del 24 agosto 1980, ACS 298
[59] Cf. Cost. 45; Il progetto di vita dei Salesiani di Don Bosco, pag. 377-380
[60] cf. Cost. 121
[61] CG21 301; FSDB 324
[62] Su questi elementi della vocazione e missione del salesiano coadiutore, si può vedere: CG21, Documento 2 citato; Il progetto di vita dei Salesiani di Don Bosco, pag. 377-380; Il salesiano coadiutore. Storia, identità, pastorale vocazionale e formazione, Editrice SDB – Roma 1989; FSDB, passim
[63] Cf. VC 61
[64] CG24, 192
[65] Il CG24 ha trattato ampiamente il tema. Si può vedere l’Indice analitico alla voce: Rapporti tra salesiani e laici. Specificamente sui coadiutori, n. 154
[66] CG24, 45
[67] Cf. CG24, 149-155
[68] CG24, 236
[69] ACG 373, pag. 41
[70] �ost. 106
[71] Cost. 2
[72] Cf. ACG 373
[73] Cf. La vocazione del salesiano coadiutore nella pastorale vocazionale, in Il Salesiano coadiutore. Storia, identità, pastorale vocazionale e formazione, Editrice SDB – Roma 1989, pag. 133-161
[74] Comunque non si può dire che le vocazioni di salesiani coadiutori siano mancate. La media annuale di prime professioni e di professioni perpetue di salesiani coadiutori dal 1990 al 1999 (10 anni) è stata: prime professioni 57, 3; professioni perpetue 32,8.
[75] Il salesiano coadiutore, pag. 141
[76] ACG 373, pag. 41
[77] VC 63
[78] Cf. ACG 363, pag. 26
[79] Cf. Cost. 123; Reg. 169; FSDB 234. 284
[80] Cf. VC 62
[81] Summarium, pag. 270, n. 1080
[82] Positio, pag. 229
[83] Cf. ibid.
[84] Cost. 92