Parliamone di nuovo. - 1. La prima e radicale Beatitudine. - 2. Valore dell'obbedienza religiosa. - 2.1. «In capite libri scriptum...» - 2.2. Al seguito di Cristo. - 2.3. Insieme a Maria. - 2.4. Come Don Bosco. - 3. Un valore in trasformazione. - 3.1. Elementi culturali. - 3.2. Elementi ecclesiali. - 3.3. Direttrici di marcia. - 3.3.1. Dall’ascetica alla mistica dell’obbedienza. - 3.3.2. Membri responsabili di una comunità obbedienziale. - 4. Un’obbedienza per l’ora presente. - 4.1. La nostra vocazione è un’obbedienza “in formazione”. - 4.2. Una pedagogia dell’obbedienza. - 4.3. La nostra vocazione è un’obbedienza di vita e di missione. - 4.4. La nostra esistenza è un’obbedienza profetica. - 5. Un’obbedienza per il terzo millennio. - 6. L’Annunciazione: appello e risposta.
Roma, 25 marzo 2001
Solennità dell’Annunciazione del Signore
Parliamone di nuovo.
Parlare di obbedienza, oggi non è cosa facile. È in atto una “trasmutazione” del concetto stesso, che sarebbe ingenuità ignorare. È questo il tributo da pagare all’avanzata del criterio democratico e, per molti versi, della visione individualistica della vita, al superamento di deleghe in chi ha il servizio di autorità, all’assunzione di modalità più mature di collaborazione al bene comune, alla demitizzazione dell’autorità, per fondarla più umilmente sulla corresponsabilità dentro un orizzonte di fede.
“L’obbedienza non è più una virtù”, dice il titolo di un libro famoso. C’è chi si riconosce senza difficoltà (con una punta di orgoglio anticonformista…) “disobbediente”. E non manca chi vede nell’obbedienza “il segno di una maggiore età mai maturata”. Il detto contiene un suo germe di verità, se lo si riferisce alla delega di responsabilità che alcuni scaricano totalmente su chi comanda. La Gaudium et Spes assicura che la responsabilità della persona si definisce di fronte alla storia [2] . Anche la nostra responsabilità si definisce davanti alla nostra storia locale e mondiale. Perciò, l’obbedienza è una virtù quando, secondo la propria situazione, si assume e si condivide seriamente la responsabilità sulla vita e sul carisma. Nell’imminenza del CG25, mentre già sono in atto i Capitoli ispettoriali che lo preparano, vale la spesa ricordare che tutti siamo chiamati a scorgere la volontà di Dio sul nostro prossimo futuro, liberando i nostri occhi da visioni troppo individuali o interessate.
Succede, purtroppo, di vedere manipoli di “liberi battitori”, che rischiano di battere… moneta falsa. Veleggiano “navigatori solitari”, che fanno la loro battaglia e sembrano incapaci di raggiungere un qualsiasi approdo comunitario. Ci sono “cani sciolti” – si è scritto con qualche amarezza – che non puntano la preda, non difendono la casa, e non sono nemmeno capaci di fare compagnia… Indici di un disagio, che attende una risposta.
È dunque necessario ammettere che, nella cultura corrente, l’obbedienza non gode buona stampa. Non è una di quelle virtù che, di primo acchito, destino simpatia né, forse, uno di quei doni che il giovane e l’uomo contemporaneo desiderino possedere fino al punto, per esempio, di inserirne la richiesta nella propria preghiera abituale. Ma il problema più profondo non sta tanto nella sua pratica, quanto nel fatto di non cogliere il fondamento teologale che abbiamo espresso nel titolo. Infatti l’obbedienza religiosa intende inserirsi in quella di Gesù per la redenzione del mondo.
“L’obbedienza rimossa come virtù teologale nella vita consacrata, riemerge come malattia”, ha scritto un autore. E ci scontriamo allora con fondamentalismi, che assomigliano troppo ad una ideologia cieca. Troviamo sulla nostra strada leadership forti, che non sembra aiutino molto a maturare. Dobbiamo ammettere forme di manipolazione, che, dalle due parti, testimoniano il persistere di forti immaturità. Allo stesso tempo, incontriamo individualismi ingiustificati e non confrontati con il progetto di vita salesianamente assunto.
Niente di nuovo sotto il sole… Salvo il bisogno di riflettere daccapo anche sulla obbedienza del salesiano, nel contesto ecclesiale e sociale contemporaneo, per riconoscerne il senso, la preziosità, il nuovo stile di esercizio. Ciò dà l’opportunità di completare la nostra riflessione sui segni che la nostra vita comunitaria è chiamata a dare a giovani ed adulti, attraverso i consigli evangelici [3] , non come un sacrificio della nostra umanità, ma come un’apertura ad una sua trasfigurazione secondo l’umanità di Cristo, come commenta abbondantemente l’Esortazione apostolica Vita Consecrata [4] .
L’obbedienza è una virtù adulta. Anzi, può essere soltanto una virtù adulta. La proponiamo ai nostri ragazzi, non per mantenerli bambini, ma per aiutarli a diventare maturi. Ne parliamo nel contesto della vita consacrata, non solo perché si tratta dell’a,b,c della vita comune, ma perché essa rappresenta la porta di ingresso al Mistero di Cristo, ed anche il suo “sancta sanctorum”, il suo luogo più segreto, più rivelatore, e più fecondo. Newman ha scritto: «Non sapranno che cosa significa vedere Dio, finché non avranno obbedito», ed ancora: «la perfetta obbedienza è il metro della santità evangelica» [5] .
Il religioso, che si mette al seguito di Cristo, ne assume gli atteggiamenti fondamentali. Vive un amore totalmente donato, che rinuncia a cercare qualche cosa per sé, e si esprime nella castità. Annuncia, attraverso la povertà, la radicale condivisione dei beni, rimessi vigorosamente al servizio della comunione e della solidarietà. Consegna, col voto di obbedienza, la propria esistenza al progetto di Dio, accolto con totale abbandono, attraverso il misterioso intreccio delle umili (a volte fin troppo) mediazioni umane.
I voti rappresentano le tre radici dell’albero della nostra vita. Non è, certo, nostra intenzione consegnare delle radici rinsecchite e morte: vogliamo piuttosto trapiantare un albero vivo, per farlo crescere ancora di più, trasferendolo dalla nostra terra alla terra Sua. L’obbedienza è il segno della “terra nuova” in cui ormai la nostra vita ha piantato la sua tenda. È l’atteggiamento che fonda il Totus tuus, che vediamo scritto sulle bandiere di Giovanni Paolo II: con lui, ci volgiamo al Padre, sull’esempio di Cristo, per fare del Suo Regno la nostra casa.
C’è, nel Vangelo, una espressione che esplicita la beatitudine per i “puri di cuore”. Ce n’è un’altra per i “poveri di spirito”. Altre cantano i miti, i cercatori di giustizia, i seminatori di pace, i perseguitati… Per l’obbedienza non c’è una formulazione esplicita. Essa è proclamata, si può dire, ad ogni pagina di Vangelo. Ad essa fanno capo tutte le altre. È la totalità del Vangelo che, dall’Annunciazione di Gesù alla sua morte in croce, proclama la beatitudine della comunione con il Padre.
Obbedisce il Figlio alla Madre e la Madre al Figlio. Obbediscono, nelle parabole, i servi buoni e gli amministratori fedeli, in attesa del loro Signore. Manifestano spirito di obbedienza quelli che si cavano da sotto i ponti e da dietro le siepi, ed imboccano strade e sentieri per affollare la sala del banchetto, portandosi sottobraccio la veste candida.
È la beatitudine legata all’intimità del Figlio col Padre. Chiunque voglia muovere qualche passo sulla via di Cristo è chiamato ad entrare nel Mistero della Sua obbedienza.
Rileggendo quanto Don Bosco diceva ai suoi sull’obbedienza – un tema che gli stava molto a cuore – si evidenzia la centralità che le viene attribuita dal Santo Educatore, sia nella vita della Congregazione, che nell’organismo spirituale di ogni salesiano, e in vista dell’efficacia dell’azione educativa.
L’idea di Don Bosco è tradotta plasticamente nel cosiddetto “sogno dei diamanti” [6] : «uno più grosso e più folgoreggiante stava in mezzo come il centro di un quadrilatero, e portava scritto “Obbedienza”: base e coronamento dell’edificio della santità». È l’immagine di una centralità carica di energia, che viene trasmessa ai cardini della vita. E non si riferiva certamente soltanto a quell’obbedienza che finisce nella mediazione, ma a quella che raggiunge e assume la dolce volontà del Padre.
L’obbedienza – nota Don Bosco – è il mezzo più facile per farsi santi ed è energia capace di santificare ogni azione. È anima della Congregazione, perno della vita religiosa, compendio di perfezione. Essa custodisce le virtù, moltiplica le energie ed il bene. Va esercitata in modo evangelico, non con i musi lunghi, ma con i cuori aperti, che vivono lo spirito di famiglia, testimoniando la gioia e la pace di chi sente vicino il suo Signore.
Chi oggi sfoglia le Costituzioni salesiane, arrivato alla sezione dei voti, trova al primo posto il voto di obbedienza. Non è sempre stato cos�. In fedeltà alla impostazione originaria data da Don Bosco – e diversamente dall’ordine seguito sia dal Concilio che dall’antica tradizione monastica – il CG22 (1984), che ha curato l’edizione definitiva delle Costituzioni rinnovate, ha voluto che il voto di obbedienza tornasse ad occupare il primo posto, fra i tre [7] . Don Bosco, infatti, aveva corretto l’ordine dei voti trovato nelle sue fonti, collocando l’obbedienza in posizione eminente, per evidenziarne l’energia di missione, di santificazione, di comunione. Una scelta, che vuol comunicarci un messaggio.
Vuol suggerirci che “l’essere mandati” ai giovani è il cuore della vocazione salesiana: la riceviamo come una consegna a collocarci su una frontiera rischiosa ed urgente, costi quel che costi, decisi a restarvi fino alla fine. Sapersi e sentirsi responsabili dei giovani è la caratteristica di chi ha ricevuto una tale missione. «Riviviamo...l’obbedienza di Cristo, compiendo la missione che ci è affidata» [8] . Questo primo e sostanziale riferimento al Padre che ci invia ed a Cristo nella cui obbedienza ci inseriamo non va mai smarrito, per non fare dell’obbedienza soltanto uno sforzo di volontà o un esercizio di disciplina.
L’obbedienza è anche il fondamento della vita fraterna, nella quale «tutti obbediamo, pur con compiti diversi» [9] , riconoscendo che la disponibilità alla volontà di Dio è il cemento spirituale, che salva il gruppo dalla frammentazione, che potrebbe derivare dalle molte soggettività, prive di un principio di unità.
Un’obbedienza, assunta ad imitazione di Cristo, invoca un’autorità che si ispira alla paternità di Dio, in quello «spirito di famiglia e carità» [10] , che accompagna un’obbedienza schietta, pronta, e lieta [11] , che rifugge ugualmente dai vittimismi come dai sotterfugi.
«Nella comunità e in vista della missione tutti obbediamo» [12] . L’obbedienza appare come la condizione comune ad ogni salesiano, pur nella diversità dei compiti. Essa guarda lucidamente a Cristo, si nutre della sua parola, vive del dono quotidiano dell’Eucaristia. È garanzia di unità e continuità della Congregazione, principio che unifica l’esistenza e la offre con totalità di dono, per la salvezza dei giovani e per la vita della comunità.
2.1. «In capite libri scriptum...»
Per l’apostolo Paolo, come il peccato si concentra nella disobbedienza di Adamo, cos� la forza della redenzione si esprime nell’obbedienza di Cristo [13] .
Il Salmo 40 – interpretato dall’autore della lettera agli Ebrei – evoca l’«Eccomi» del Figlio nell’atto della incarnazione: «Non hai chiesto olocausto e vittima per la colpa. Allora io ho detto: “Ecco io vengo: sul rotolo del libro di me è scritto, che io faccia il tuo volere”».
L’obbedienza, con, in e per Cristo, è espressione dell’intimo e continuo “sentirsi generato dal Padre”, che costituisce la profondità del Suo Mistero, la fonte della sua esultanza e della spinta, che lo porta a fare sempre la volontà del Padre. Essa si traduce nel dire non parole proprie, ma quelle del Padre; nel fare non opere proprie, ma quelle del Padre; nel nutrirsi ogni giorno non della volontà propria, ma del cibo quotidiano, che è la volontà del Padre [14] .
L’obbedienza è, in Cristo, coscienza del “sapersi generato, per essere mandato” – missionario del Padre, in mezzo a una razza di vipere e dure cervici [15] , sotto l’energia dello Spirito – non ad operare in proprio, ma solo a servire la causa del Regno, nei modi e nei tempi e cogli esiti noti soltanto al Padre, liberando i prigionieri, annunciando ai poveri la buona novella ed ai peccatori l’anno di grazia del Signore.
Cristo è l’Amen [16] . Egli è il S� [17] e l’Eccomi [18] . È il Servo obbediente, che dal proprio patire apprende l’obbedire [19] .
L’obbedienza, in Gesù, non è una semplice virtù, ma la stessa definizione della sua identità e l’espressione della sua Figliolanza, del suo essere chiamato dal Padre, attraverso la generazione, e del suo continuo rispondere «Eccomi»!
Né Gesù si limita ad obbedire stando “cuore a cuore” col Padre. Egli obbedisce anche stando “cuore a cuore” col mondo. Ne accetta, con umiltà e realismo, le mediazioni: Giuseppe e Maria, che lo trattavano da ragazzo normale, che cresce obbedendo; le leggi ed i costumi religiosi, che lo vogliono fedele orante alla sinagoga e devoto pellegrino a Gerusalemme; la severa legge del lavoro e le circostanze che lo accompagnano, che – specie ai poveri – impongono sempre dure obbedienze.
L’obbedienza riassume l’intera pre-istoria e storia di Cristo, ma specialmente gli eventi della passione. Per Cristo fu obbedienza il nascere, perdendosi, per cos� dire, nella carne dell’uomo. Fu obbedienza il vivere, vestendo l’anonimato e il silenzio di Nazareth. Fu obbedienza il ministero della vita pubblica: «Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera» [20] . Ed obbedienza, infine, condotta alle sue ultime conseguenze, fu l’autoconsegna alla volontà del Padre fino alla passione ed alla croce.
Sulla Croce coincidono il Mistero della volontà salvifica del Padre, il Mistero dell’obbedienza redentrice del Figlio, il Mistero doloroso ed oscuro della disobbedienza dell’uomo – che arma la mano pavida di Pilato e quella omicida dei carnefici – destinata ad essere vinta per sempre dall’obbedienza del Figlio di Dio.
«Tutto l’atteggiamento esistenziale di Cristo si concentra nell’obbedienza a Dio, un’obbedienza che non nasce spontanea, ma che si educa attraverso la sofferenza (cf. Eb 5,8) e che sfocia nella croce» (cf. Fil 2, 8)» [21] . È superfluo ripetere che nella vicenda di Gesù e nei suoi atteggiamenti noi scopriamo il segreto della trasformazione del mondo secondo la volontà del Padre.
2.2. Al seguito di Cristo.
È nell’obbedienza di Cristo che si incontra congiuntamente l’amore del Padre e del Figlio ed il luogo nel quale si manifesta lo Spirito. Lo Spirito di obbedienza viene effuso perché quelli che sono di Cristo sono chiamati a diventare come Lui, accogliendolo nella fede e quindi in un rapporto impensabile con Dio.
La Sacra Scrittura presenta l’obbedienza come il cuore stesso della fede. Fede, infatti, è autoconsegna ed abbandono totale alle mani ed alla parola di Dio che è sapienza, luce, verità e gioia, come ripetono i Salmi. Obbedienza è ricevere con fiducia da Lui l’orizzonte della vita, i criteri di giudizio, la verità delle cose, la natura della relazione fra tempo ed eternità.
Fede è prontezza a ricevere per grazia e per battesimo una nuova identità, che ci trasfigura progressivamente in figli nel Figlio: dunque non è certamente fuori luogo chiamare tutto questo “obbedienza”. Una tale dimensione si manifesta più chiara nei momenti più dolorosi: quando Abramo deve immolare Isacco, Giovanni Battista agonizza nella fortezza di Macheronte, Gesù accoglie l’amaro calice nel Getsemani, Maria offre il Figlio crocifisso sul Calvario, ed i martiri di ogni tempo dicono il loro s� congiuntamente a Dio ed alla morte nelle circostanze più incredibili e dolorose.
Non diversamente capita a noi, trasfigurati in Cristo attraverso il sacrificio dell’obbedienza, che ci mette totalmente a disposizione di Dio.
È la nostra partecipazione al mistero dello svuotamento totale del Figlio, della sua triplice kenosi: quella dell’incarnazione, che lo ha immerso nella condizione umana; quella della passione, che lo ha spogliato anche dell’umana dignità; quella della Eucaristia, che lo consegna, nel mistero della quotidianità, all’amore ed al dolore dell’uomo.
2.3. Insieme a Maria.
Si obbedisce con più grande gioia, quando ci si riconosce destinatari di una Grazia, sull’esempio di Maria, che, sorpresa dal dono, risponde con il più generoso dei S�.
L’obbedienza ci muove a sollevare lo sguardo contemplativo alla Madre di Dio e della Chiesa, che, col suo Eccomi, si è definita serva obbediente ed è diventata modello – icona, come si ama dire oggi – di ogni obbedienza di fede. Se possiamo vedere nell’obbedienza di Abramo l’inizio dell’Antica Alleanza, nell’obbedienza di Maria salutiamo l’inizio del Testamento Nuovo.
Essendo vera esperienza di fede, essa si presenta come obbedienza dialogica. Maria non ascolta passivamente, non delega alla prima mossa, non resta inerte, non subisce… Ella interroga, vuol capire, cerca, per cos� dire, di accorciare la distanza, che intercorre fra l’insondabile Mistero di Dio e la serietà dell’esperienza dell’uomo.
Mai obbedienza di una pura creatura è stata più grande o più feconda, né un fiat detto nel cielo ha trovato eco più fedele sopra la terra. Il fiat di Maria – nota Paul Evdokimov – «è la storia del mondo in compendio, la sua teologia in una sola parola». La liturgia armena chiama il Mistero dell’Incarnazione – che ne è stato frutto – «l’economia della Vergine». In essa siamo chiamati ad entrare, in compagnia di Maria.
L’obbedienza di Maria ci mostra la via di quella che Agostino chiamava la “libertà maggiore”, perché innervata direttamente dalla Grazia che libera. Lo avevano ben compreso gli abitanti della città di Lucca, che – nel secolo XVII, affidandosi alla Madonna dello Stellario – pregavano: «Vera libera, serva nos liberos» («O tu, che sei davvero libera, conserva liberi anche noi»).
Come Maria, obbediamo perché crediamo che c’è Dio dentro la trama della nostra storia. Riconosciamo di “avere a che fare con Lui”, attraverso le mediazioni, che sono state sancite dalla Sua Chiesa. Lo crediamo interessato profondamente al nostro progetto di vita, che è Suo.
Obbedire, nella vita religiosa, significa fare memoria oggi e riattualizzare l’obbedienza di Cristo, accelerando il processo di trasfigurazione in Lui. C’è, nell’obbedienza, anche un’intima tensione escatologica, che esprime il desiderio di abbracciare il Cristo che viene, diventando sempre di più – lungo lo spazio ed il tempo intermedio – “sacramento di filiazione”, in Lui. In questo modo si sperimenta e, per cos� dire, si anticipa quell’aria di libertà, che respireremo in cielo: poiché «in cielo, di fronte a Dio, non si è soltanto “liberi”, per scegliere ancora, ma “superliberi” perché si è già scelto, si è pienamente aderenti a Lui, con tutti i dinamismi della volontà» [22] .
2.4. Come Don Bosco.
Non era difficile cogliere – durante i Capitoli più recenti – un accentuarsi dello sforzo della Congregazione di meglio comprendere il Fondatore e la sua collocazione nel disegno di Dio [23] . E non per fare dell’accademia teologica, ma per chiarire la grazia ed il mistero della nostra identità.
Meditando, sempre di nuovo, la storia di Don Bosco nella luce dello Spirito, noi scopriamo che essa è un evento di salvezza, che ci coinvolge, e che «la sua storia è anche la nostra storia» [24] . «La relazione di figli e discepoli che i salesiani vivono nei confronti di Don Bosco» [25] è grazia vera e duratura.
Riconosciamo in Don Bosco la guida plasmata da Cristo Risorto, per indicare a noi – educatori e giovani insieme – un cammino evangelico di santificazione missionaria e giovanile.
Per questo, è bello che si continui ad amare e a cantare, nel mondo salesiano, l’antico inno della beatificazione: «Don Bosco ritorna», che traduce bene il nostro impegno continuo di far «rivivere in noi Don Bosco» (Beato M. Rua).
C’è una forte analogia fra i grandi padri biblici ed i Fondatori di famiglie religiose, fra i discendenti dei primi ed i discepoli dei secondi. I discendenti dei padri biblici tornavano di continuo alla storia delle loro origini, per meglio ricomprendere e definire la propria identità: da tale sforzo di rilettura sono nate molte pagine del testo della Sacra Scrittura, a conferma di quanto esso sia sacrosanto e pieno di Spirito Santo! Non diversamente, i figli dei grandi Fondatori sono chiamati ad esplorare la “grazia originante” della loro vocazione – che si concretizza nella storia del Fondatore – a verifica della propria fedeltà e per meglio discernere la volontà di Dio.
C’è dunque un mistero di obbedienza a Dio che, essendo filiale, rappresenta pure il massimo della condizione umana. Esso rinvia il salesiano a Don Bosco e lo lega con un nodo di obbedienza alle più autorevoli testimonianze del suo spirito, come le Costituzioni, nelle quali – notava il Beato Filippo Rinaldi – «abbiamo tutto Don Bosco» [26] .
Forse, sta qui la radice di taluni problemi in cui ci sentiamo coinvolti. Non abbiamo ancora approfondito abbastanza – vitalmente e spiritualmente – la nostra relazione con Don Bosco, profeta di Dio per noi. E, forse, a volte, si è troppo allentato il vincolo di obbedienza professato «secondo la via evangelica tracciata nelle Costituzioni salesiane» [27] incentrato principalmente su una missione da compiere corresponsabilmente.
Minati dal soggettivismo, logorati dall’individualismo, lasciati al margine di vite più agitate che attive, gli impegni della missione risultano, talora, più disattesi che contestati, perché assimilati più all’ambito fragile e mutevole del diritto, che a quello solido e "roccioso" del "dono di Dio" – che è il carisma di Don Bosco – sul quale è possibile fabbricare la casa della nostra vita. Il CG25 con il suo sostanziale richiamo al carattere comunitario del nostro vivere, manifestarci ed operare ripropone l’attenzione e la ricerca comune della volontà di Dio che non eliminano le mediazioni, ma vi danno tutta la loro forza profetica.
3.1. Elementi culturali.
Se la sostanza profonda dell’obbedienza evangelica è quella di ieri e di sempre, è tuttavia necessario ammettere che è cambiato il protagonista, è diverso il contesto culturale, è profondamente mutata la relazione che regge il rapporto fra chi è chiamato al servizio dell’autorità e chi ha dato la sua disponibilità all’obbedienza.
Il protagonista è cambiato per l’affermazione sempre più diffusa e condivisa della possibilità della persona di contribuire alle decisioni e per l’interiorizzazione di nuovi atteggiamenti ad essa collegati. La persona gode maggiori spazi di libertà e di espressione personale, si sente incoraggiata ad esprimere la propria creatività, come forma di autentica docilità ed obbedienza, ed è chiamata ad assumere in modo sempre più deciso le proprie responsabilità, sia nel cammino di discernimento, che conduce alle decisioni vitali più importanti, sia nel portare le conseguenze delle scelte realizzate.
La tutela della propria felicità, il ritiro di deleghe circa decisioni che coinvolgono la propria esistenza, il desiderio di vedere riconosciuta l’originalità del proprio contributo, l’esigenza di comprendere le ragioni di quel che succede alla propria esistenza al di là del puro principio di autorità, l’intuizione della dignità irrinunciabile che è propria anche dell’uomo che si fa religioso obbediente: tutto questo lascia intravedere che il protagonista dell’obbedienza di oggi non è lo stesso di ieri.
È chiaro che tutto ciò è vissuto e sentito con diversi gradi di intensità ed illuminato da diversi orizzonti. Ed è qui che agisce quanto abbiamo esposto prima. Affidata ad un calcolo umano, l’obbedienza religiosa perde il suo valore e la sua consistenza.
Il passaggio da una società statica ad una dinamica, da un’epoca organica ad un’epoca critica, dal villaggio locale al villaggio globale ha cambiato notevolmente l’orizzonte entro il quale l’obbedienza si inscrive.
Le norme scritte e non scritte, che ieri ricavavano vigore dalla loro stessa antichità e durata, sono contestate o, quanto meno, sottomesse a frequente verifica.
Lo stile partecipativo indotto dalla vita civile sta ormai prendendo piede anche nella casa religiosa, specie per le decisioni che toccano la vita del gruppo, il futuro della comunità, il progetto apostolico che le è affidato.
La percezione della complessità del reale (anche di quello pastorale) rende più sensibili alla fragilità, unilateralità, problematicità di decisioni in sé legittime – a volte addirittura necessarie – spogliando l’autorità di ogni facile infallibilità, ma allo stesso tempo anche postulandone il ruolo.
La secolarizzazione dell’autorità ha portato, in qualche misura, ad una secolarizzazione dell’obbedienza, che va continuamente illuminata col suo senso cristiano e carismatico profondo.
La collocazione operativa di numerosi confratelli in contesti e ruoli civili, spesso con contratti tutelati dalla legge, tende a trasferire da tali contesti modalità, od anche riserve, nell’esercizio della propria disponibilità all’obbedienza. Va ricordato allora con energia che la nostra professione è il voto di obbedienza con radice teologale. Tutto il resto è compreso e sostenuto da esso.
La crescita dei cammini formativi anche dentro gli Istituti religiosi, l’acquisizione di robuste professionalità da parte di molti confratelli, il sorgere di numerose e nuove specializzazioni (e la conseguente difficoltà a padroneggiarle adeguatamente) possono creare, a volte, una vera asimmetria e disparità di competenze, fra superiore e religioso, che segna profondamente il rapporto di autorità e di obbedienza.
Ciò, se da una parte rende il dialogo metodico e leale sempre più indispensabile, dall’altra può generare dei superiori troppo timidi, o rinunciatari, o frenati da un senso acuto della propria incompetenza, che possono essere tentati di lasciare andare le cose per il loro verso, anziché accollarsi la fatica di guidarle.
3.2. Elementi ecclesiali.
È proprio in questo contesto che l'obbedienza del consacrato può assumere un accresciuto significato teologale e umanistico, che raggiunge il gesto di serena maturità. Nell’ambito più propriamente ecclesiale, c’è stata una maturazione di elementi che tendono a riconfigurare le modalità e il senso dell’esercizio dell’autorità e dell’obbedienza
L’obbedienza nella Chiesa fa parte dell’atteggiamento post-pasquale, per il quale Cristo si fa presente mediante il suo Spirito. Egli interviene attraverso i carismi riconosciuti dalla Chiesa, di cui fa parte anche il rapporto autorità-obbedienza, secondo le modalità proprie che vengono vissute nelle diverse forme della vita consacrata. La comunità religiosa è una porzione di Chiesa, dalla quale deriva l’autorità propria della vita consacrata. E il religioso si consegna a Cristo, attraverso il suo corpo, che è la Chiesa-Comunità.
La Chiesa – come la Vergine in ascolto – resta in atteggiamento obbedienziale. Essa è convocata, per costruire il Regno secondo il progetto di Dio. È mandata, ricevendo una missione di evangelizzazione e di salvezza. È accompagnata dall’infaticabile e fecondo soffio dello Spirito.
Se è vero che la Chiesa condivide la passione di Cristo, fino alla fine dei tempi – come notava Pascal – non è meno vero, che essa è ugualmente chiamata, fino alla fine dei tempi, a farsi espressione della Sua obbedienza al Progetto del Padre: è Cristo, che obbedisce in noi; per questo, noi siamo chiamati ad obbedire in Cristo. Ma per nostra gioia e consolazione: quello che seguiamo è la dolce volontà del Padre!
Ciò vale per ogni cristiano, e, con particolare intensità, per ogni religioso, che fa dell’obbedienza un canale privilegiato del suo cammino di fedeltà e di santificazione. Tommaso d’Aquino era convinto che l’uomo non potesse fare a Dio offerta migliore («nihil maius potest homo Deo dare», l’uomo non può consegnare a Dio niente di più grande) [28] , perché in questo modo consegna tutto se stesso. Questo spiega perché, il voto di obbedienza sia - e non solo nella tradizione domenicana - il più importante dei tre.
D’altra parte, l’accento posto sulla Chiesa-comunione carismatica, più che sulla Chiesa-istituzione gerarchica ha comportato il passaggio correlativo dall’accento sul dovere di obbedienza imposto al fedele, all’accento sul discernimento dei doni dello Spirito richiesto al superiore ed ai responsabili della vita delle comunità.
La ricchezza della comunità viene dai doni di cui ciascuno è depositario ed il superiore migliore non è quello che sa meglio imporsi, ma colui che meglio sa scoprire e valorizzare l’apporto di ciascuno. I contemporanei di Don Bosco testimoniano unanimemente la sua sagacia non solo nel saper discernere, per mettere l’uomo giusto al posto giusto, nello scoprire risorse nascoste valorizzandole al meglio, ma anche nel saper far tesoro di chi, forse troppo sommariamente, era stato messo da parte come un uomo difficile o, addirittura, sbagliato.
Parlare di discernimento significa sottolineare la duplice componente del processo, che, da una parte, avviene sotto il cielo di Dio, ma, dall’altra parte, si muove sul fragile terreno delle mediazioni umane. L’orizzonte entro il quale ci si colloca è quello della ricerca della volontà di Dio. La quale, normalmente, corre su linee verticali e su linee comunionali. È meno legata ad elementi di efficienza, che non ad atteggiamenti di confidenza. Per cui il dialogo, l’ascolto, l’attesa, la gioiosa scoperta del fratello diventano le tappe che scandiscono i successivi passaggi, destinati a far maturare un’obbedienza, che – nel suo stadio più maturo e riuscito – somiglia di più ad una promozione della persona, che non ad una imposizione dell’autorità.
3.3. Direttrici di marcia.
Elementi culturali ed ecclesiali provocano una evoluzione nella concezione e nella pratica dell’obbedienza.
Da un’insistenza prevalente sull’aspetto ascetico della virtù, si è passati ad un più profondo e convinto apprezzamento dell’aspetto mistico e cristologico; da un’accentuazione individuale del dovere da adempiere si è passati ad una contestualizzazione assai più attenta alla valenza comunitaria.
3.3.1. Dall’ascetica alla mistica dell’obbedienza.
Va dedicata speciale attenzione alla ridefinizione della nostra libertà, ad opera del carisma dell’obbedienza religiosa.
L’obbedienza resta “uno spazio in forma di morte”, segnato dalla Croce, perché anche la nostra libertà deve fare la sua Pasqua, se vuole essere libera davvero, e “perdersi” – per usare le parole evangeliche – se vuole davvero “trovarsi” [29] .
Dall’insistenza sulla libertà “rinunciata”, si passa – su invito del Concilio – all’apprezzamento di una libertà “corroborata” [30] , “più matura” [31] , “ampliata” [32] : è il frutto dell’irruzione dello Spirito di libertà, che prende possesso del cuore credente, espandendovi uno “spazio in forma di vita e di resurrezione”.
La flessibilità della “forma” concreta del nostro esistere è il modo proprio della nostra obbedienza, per cui restiamo pronti a “conformarci” alle chiamate del Signore – che, talora, potranno anche prenderci in contropiede – attraverso una disponibilità disarmata e audace, che deriva dall’abbandono alle braccia del Padre.
Il salmo 118 canta la legge di Dio con una strofa corrispondente ad ogni lettera dell’alfabeto, quasi a dire che è l’obbedienza a generare il suono, e la sillaba, e la parola, con cui scriviamo la storia della nostra vita credente.
Per questo, l’obbedienza è segno ed epifania della fede. «Per fede Abramo, chiamato da Dio, obbed�» [33] . Di “obbedienza della fede” parla Paolo, in apertura e chiusura della lettera ai Romani [34] , che espone la sintesi più matura della sua esperienza di veggente e di credente.
Nell’obbedienza, la polarizzazione di fondo non è nel confronto fra superiore e suddito o fra progetto personale e ordine ricevuto, ma nella dialettica fra disegno di Dio e progetto dell’uomo, fra la Parola di Dio, che costruisce la storia, e l’ascolto obbediente degli uomini che la abitano: «Il nostro divenire sempre più noi stessi non sarà altro che un continuare a dire “s�” alla parola con la quale Dio ci chiama ad una sempre maggiore pienezza di esistenza. Vera libertà è vivere in ascolto, cioè con volto proteso verso colui che parla, costruendo la realtà cui si rivolge» [35] .
Il cammino di obbedienza a Dio coincide con quello di una fede non solo pensata, ma anche approfondita e vissuta: rappresenta lo spazio della nostra appropriazione della filiazione di Cristo, donataci nel Battesimo. In questo senso la nostra obbedienza si fa profezia della fede, che non consiste solo in verità da credere, ma soprattutto in volontà da compiere: «Non chi dice Signore, Signore…ma chi fa…» [36] Per questa ragione, il voto di obbedienza è stato definito come “il più biblico di tutti”, proprio per la sua capacità di farci entrare nel sentire di Cristo.
L’obbedienza è uno spirito pervasivo, prima che un gesto singolare ed esecutivo. Più che un atteggiamento puntuale, è uno stato d’animo permanente, che ci innesta nell’anima di Cristo. È un “fiat voluntas Tua”, che, suonato come un basso continuo nella sinfonia della vita, fa di ciascuno di noi il “figlio del Padre”, sull’esempio del Signore Gesù.
Cuore della nostra vita consacrata è una “carità obbediente”, che accoglie il progetto di Dio su di noi, vivendolo ogni giorno negli avvenimenti personali e nelle prospettive comunitarie.
3.3.2. Membri responsabili di una comunità obbedienziale.
La seconda sottolineatura, dopo l'indispensabile riferimento teologale, evidenzia l’energia comunitaria, che l’obbedienza esprime.
L’ecclesiologia di comunione – che è stata tanto ravvivata dall’esperienza conciliare – ci ha resi sensibili alla comunità come primo soggetto della missione ecclesiale, come Corpo di Cristo, che abita, anima, salva la storia. Abbracciato nella fede, questo ci fa passare dalla ricerca esasperata dell’autorealizzazione individuale al dono gioioso che innesca l’autotrascendenza, dall’obbedienza di pura esecuzione all’obbedienza come assunzione di un progetto condiviso, dallo stile del “navigatore solitario” all’umile impegno di colui che ha viva coscienza che la comunione resta la sua prima missione. Ne viene una conversione di mentalità nei confronti del nostro rapporto con la comunità e con l’obbedienza.
Oggi, obbedire significa avere chiara coscienza della interdipendenza e della reciprocità, che caratterizzano la nostra presenza in comunità. Vuol dire anche recuperare in pienezza un senso di appartenenza, che non può essere solo sociologico, ma diventa anche affettivo e spirituale [37] . In tempi di affiliazioni deboli o in declino, di appartenenze plurime e frammentate, di fedeltà incerte – che non risparmiano le comunità religiose – l’obbedienza ricompresa e vissuta con gioia diventa fondamento per una speranza rinnovata. E bisogna dire che da quando stiamo agendo in comunione, anche con nuovi sforzi, le nostre presenze esprimono più forza salvifica.
Se in alcune epoche è stato prevalente l’aspetto dell’Io obbedisco, oggi siamo chiamati a vivere quello più ecclesiale del Noi obbediamo. Per questo, la presente riflessione ha per destinatari tutti i salesiani senza eccezione, confratelli e superiori: prima di ogni distinzione in base al ruolo di autorità che viene ricoperto, infatti, va affermata l’unità in base all’obbedienza di fede, che tutti insieme professiamo. La prima ad entrare in crisi non è stata l’autorità, ma la comunità, alla cui luce va ripensato l’intero stile dell’obbedienza. Essa va vissuta, infatti, anche come capacità di assumere un ruolo serio, da persona matura e responsabile, dentro la comunità in cui la chiamata del Signore ci inserisce.
Se ieri era centrale nell’obbedienza il rapporto diretto col superiore, oggi viene acquistando maggiore rilevanza l’inserimento dell’obbedienza nel tessuto comunitario. Ci sono da realizzare molte obbedienze intracomunitarie, sull’esempio di Gesù, che obbediva al Padre, ma anche accogliendo la mediazione di Maria e di Giuseppe. Succede che, dalla disattenzione alle “piccole mediazioni”, si passi, quasi senza accorgersi, alla trascuratezza delle mediazioni più grandi ed autorevoli. Eppure, nelle piccole mediazioni, si ripete l’invito di Es 20, 19: «Parla Tu a noi, e noi ascolteremo». Non va sottovalutato, in tal senso, per esempio, il colloquio col superiore [38] , che – pure coi necessari aggiustamenti [39] – mantiene un ruolo centrale nella vita della comunità salesiana.
Se, in passato, poteva a volte prevalere l’aspetto esecutivo, oggi viene meglio sottolineato e vissuto l’aspetto partecipativo, che muove dalla coscienza della propria corresponsabilità nell’elaborare orientamenti, scelte e decisioni sulla propria persona, sulla vita della comunità e della Congregazione. Il discernimento comunitario diventa allora, per i problemi più gravi, lo stadio previo all’intervento dell’autorità e un momento di grazia, comune sia al superiore che al semplice confratello. L� ognuno obbedisce alla volontà del Signore, che si cerca di scoprire e di realizzare secondo il dono fatto a ciascuno, collocandoci, tutti insieme, all’interno del carisma del Fondatore. Spesso la “convergenza delle vedute” [40] – da cui il superiore non dovrà scostarsi senza serie ragioni – aiuterà a prendere decisioni largamente condivise. Altre volte, invece, sarà necessario che il salesiano accolga proprio l’autorità del superiore come elemento decisivo del discernimento, «un aiuto e un segno che Dio gli offre per manifestare la sua volontà» [41] .
La comunità, dunque, è chiamata ad essere non solo il luogo dell’obbedienza, ma anche del discernimento e della creatività. Non solo della “minorità”, ma anche della maturità. Non solo della leadership autorevole, ma anche della corresponsabilità e del dialogo.
4.1. La nostra vocazione è un’obbedienza “in formazione”.
È stato scritto che “ogni vocazione è mattutina”, perché siamo chiamati ad aprire ogni giornata – e cos� la vita intera – gridando al nostro Signore: Eccomi [42] .
Si tratta di una vocazione, che, al suo stadio di piena maturità, è possibile riconoscere assai più come un’obbedienza alla chiamata del Signore, che come la realizzazione di un nostro desiderio, in sé legittimo, forse, ma incapace, da solo, di sostenere il nostro cammino nella lunga distanza.
La chiamata del Signore si manifesta assai di frequente attraverso l’intima e gaudiosa attrattiva interiore verso il carisma di un grande Fondatore, che vive nella Chiesa attraverso i suoi figlie e le sue figlie. È una mozione dello Spirito, che apre un orizzonte ed incoraggia dolcemente il nostro io spaurito a dire, con serena fiducia, il suo s�. Qualche cosa del genere è successo alla nostra vita, nei giorni della nostra scelta vocazionale [43] , ma continua ad accadere ogni giorno, attraverso la grazia della perseveranza.
Il compito della nostra vita resta, dunque, quello di crescere nella qualità della nostra obbedienza vocazionale, puntando alla meta di un’obbedienza matura, libera, gioiosa. Il discorso non è scontato: vediamo infatti obbedienze vocazionali fiorire fino alla santità, ed altre, ahimè, afflosciarsi fino all’insignificanza.
La nostra storia ha, talora, conosciuto il pericolo che certi modi di vivere l’obbedienza portassero a forme infantili di dipendenza, di delega della propria responsabilità, di incapacità ad assumere ruoli di rischio e di governo. Ora, il panorama appare alquanto trasformato. Le insidie alla pienezza dell’obbedienza evangelica e vocazionale vengono soprattutto da altre fonti.
Possono derivare da una enfatizzazione dell’autonomia della coscienza, scollegata dalla propria comunità o da quella dimensione che fonda la sua stessa dignità, che è la ricerca assidua del Progetto e della presenza di Dio nella nostra vita.
Nuoce, talora, anche un atteggiamento antiistituzionale – che ha molte radici nella cultura corrente – per cui l’autorità è percepita più come un pericolo che come un aiuto, più come concorrenza che come collaborazione, più come avversario – tanto più insidioso quanto più corretto – che come interlocutore, più come un potere nemico da cui difendersi, che come una grazia, da cui trarre frutto.
In taluni ambienti può essersi diffusa una mentalità che attribuisce scarsa stima alla Regola, alla tradizione ed alla disciplina religiosa, non più accolte come sforzi ecclesiali di attualizzare il Vangelo, ma giudicate piuttosto come obsoleti ed ingombranti retaggi di un passato, che non esiste più.
Al seguito di particolari dinamiche sociali, può essersi fatta strada una lettura funzionalista e secolare dell’autorità nella Chiesa e nella vita religiosa, che impedisce di riconoscere, nella fede, le “mediazioni” che, anche se imperfettamente, ci mettono in contatto col Mistero di Dio.
Anche l’assenza e la latitanza dell’esercizio dell’autorità religiosa – che può risultare un tacito messaggio sulla sua insignificanza, lanciato da chi è proprio chiamato a darle spessore umano ed evangelico – può aver diminuito la gioia e l’efficacia dell’obbedienza religiosa, cui Don Bosco attribuiva grande peso nel dare serenità alla vita salesiana [44] .
Compito di tutti i responsabili della formazione (iniziale e permanente) è di costruire una “pedagogia dell’obbedienza”, che sia solidamente centrata su Cristo («fate tutto quello che egli vi dirà» [45] ), ma anche capace di fare i conti con l’epoca nuova, nella quale siamo chiamati a vivere, cambiando quanto va cambiato, ma senza correre il rischio di buttare, insieme all’acqua sporca, anche il bambino.
Vi sono aspetti umani della personalità, che vanno educati per rendere possibile la pratica serena dell’obbedienza. La carica emotiva ed aggressiva, che caratterizza la nostra cultura, potrebbe incoraggiare degli atteggiamenti “fusionali” (di rientro nell’habitat ovattato del grembo materno), che sarebbero un serio handicap per il maturare di un’obbedienza adulta. È necessario aiutare a vivere in maniera equilibrata la tensione tra dipendenza (che si esprime nel bisogno di approvazione, di affiliazione, di sicurezza) e indipendenza (che comporta fiducia nelle proprie risorse, apertura al rischio ed alla responsabilità, capacità di portare la croce ed il fallimento…).
Occorre incoraggiare una sufficiente autonomia, per gestire i rapporti fraterni e sociali, integrarsi in forma positiva in gruppi di lavoro e di comunicazione, respirando quella “spiritualità relazionale”, di cui ci parla il CG24 [46] .
Ognuno deve imboccare la via dell’autenticità, sapendosi definire e collocare con ragioni non improvvisate, né abbracciate per semplice pigrizia o spirito di compromesso, né taciute per paura di dover affrontare la contraddizione o la solitudine, ma maturate in un vigilante cammino di fede.
La nuova edizione della Ratio Formationis, recentemente promulgata dal Rettor Maggiore con il suo Consiglio, potrà, tra l’altro, tracciare itinerari ed indicare processi, finalizzati all’acquisizione di questi obiettivi.
Al tempo stesso vanno irrobustiti alcuni atteggiamenti spirituali.
È fondamentale la lettura di fede degli eventi della propria vita, che aiuta a riconoscere che anche “nella valle oscura” non c’è da temere alcun male [47] e che, attraverso mille eventi apparentemente casuali, è Lui che tesse per ciascuno una trama di salvezza.
Lo scorgere nel carisma salesiano una grazia personale [48] , che il Signore ci offre e che ha preparato per noi, sarà fonte di gioia e di serenità, ci permetterà di attivare quel “registro della confessio fidei” [49] , che – partendo dal riconoscimento di un dono ricevuto – sostiene l’entusiasmo, che ne fa conoscere il pregio. Ne verrà quella evangelizzazione vocazionale per contagio, che è la più efficace, nell’epoca e nel mondo in cui viviamo
Una assimilazione corretta della “spiritualità dell’incarnazione” sarà di aiuto ad assumere serenamente la presenza delle mediazioni, «come quotidiani interpreti della volontà di Dio» [50] . Radicate nella Chiesa, universale sacramento di salvezza [51] , esse ci portano, dentro l’umiltà del segno, la possibilità di un reale contatto con Dio. Mentre ci invitano a vivere come se vedessimo l’invisibile [52] – ci rendono più familiare il Mistero di Dio, che sa farsi vicino ad ogni uomo, e ci aiutano ad inserire tutta la realtà creaturale in una rete di grazia, che avvolge la nostra vita, per salvarla.
Chiesa e sacramenti, Fondatori e carismi, Regole e comunità, Vescovi e superiori, il mondo della natura e quello della storia sono veicoli di grazia, che ci comunicano qualcosa di Dio, del Suo Mistero di prossimità e di nascondimento. Ma, fra tutte le mediazioni, quella più nobile ed eloquente resta l’uomo, costruito ad immagine di Dio, e, fra gli uomini, coloro che hanno ricevuto mandato e vocazione di essere, in modo peculiare, segni di Lui, in qualità di pastori. Accogliere la mediazione significa comprendere e realizzare una delle forme della ricapitolazione di tutte le cose in Cristo [53] , trasfigurando il mondo con la luce della nostra fede, mentre corriamo verso di Lui, con gioia di figli, gridandogli "Maranatha".
Talora, Don Bosco distingueva fra obbedienza “personale” ed obbedienza “religiosa”, sottolineando la superiore qualità della seconda, non dettata dalla sola simpatia o dalle qualità umane della persona del superiore di turno, ma, soprattutto, dall’accoglienza di una mediazione, riconosciuta nella fede. Di qui verrà la libertà e la pace, nell’atto di affidarci a Dio ed alle persone, che Egli ci ha dato come guide nel cammino. Giovanni XXIII lo esprimeva nel motto: Oboedientia et pax.
4.2. Una pedagogia dell’obbedienza.
La “pedagogia dell’obbedienza”, cui ho accennato, è chiamata a lievitare la vita pratica e ad illuminarla, radicando gli atteggiamenti suggeriti nell’umile e sofferta concretezza della vita quotidiana. Errore fondamentale sarebbe presentare l’obbedienza come un giogo pesante, trattandosi della amorevole volontà del Padre.
In particolare, appare necessario – già negli ambienti formativi, ma anche in tutte le case, specie davanti a scelte impegnative – avviare l’apprendimento e l’esercizio del discernimento comunitario, nello spirito degli articoli 44 e 66 delle Costituzioni: in clima di preghiera e di ascolto reciproco, sotto una guida attenta a valorizzare ogni risorsa ed a creare spazio per ogni persona. Si tratta di raccogliere tutti i dati che illuminano la valutazione di un problema, di individuare i più decisivi criteri di lettura, di trarre le conclusioni operative più urgenti. È un contesto, nel quale l’obbedienza si sforza di avere uno sguardo di fede capace di leggere “i segni dei tempi”, porge l’orecchio alla parola ed al cuore del fratello, sa dare il proprio contributo, con umiltà e con gioia, per realizzare la decisione, che conclude il momento della ricerca comune. E in questo impiega anche tutte le risorse della ragione. Il discernimento richiede ciò e non va saltato.
Va dato un aiuto personalizzato per educare a gestire eventuali conflitti, legati alla sfera dell’obbedienza. Il caso più serio è quello di un conflitto fra obbedienza e coscienza personale. Si possono riscontrare, a volte, delle situazioni complesse – o addirittura drammatiche – che richiedono cammini di calma e di chiarimento; non possono essere sempre soggette all’esclusivo giudizio del superiore, ma hanno, piuttosto, bisogno del suo rispetto e della sua preghiera. Anche in questi casi, tuttavia, il dialogo col superiore dovrà accompagnare il confratello, nella carità e nella chiarezza, per aiutarlo a discernere i valori in questione, la molteplicità dei giusti criteri di giudizio, le possibili vie di soluzione.
Ma vorrei qui, soprattutto, riferirmi a casi non infrequenti in cui la coscienza viene semplicemente opposta alla obbedienza, che chiede il sacrificio di un trasferimento di casa, o di un cambiamento di ufficio, o di una più fedele osservanza delle Costituzioni, o di accogliere, su un fatto o su un problema, la valutazione complessiva del superiore, che appare in contrasto con la propria.
Indico alcuni semplici criteri di valutazione.
In primo luogo, non bisogna dare per scontata la frequenza di un tale conflitto, che, nella vita religiosa, va considerato raro ed eccezionale, poiché «un religioso non dovrebbe ammettere facilmente che ci sia contraddizione fra il giudizio della sua coscienza e quello del suo superiore» [54] .
Spesso, sarà invece necessario dedicare tempo, preghiera e dialogo per portare al superiore l’indispensabile contributo della nostra esperienza e del nostro amore ai giovani ed alla Congregazione e per accogliere da lui serenamente le motivazioni e le decisioni, che segnano la conclusione della ricerca comune [55] . «In questa ricerca, i religiosi sapranno evitare tanto l’eccessiva agitazione degli spiriti, quanto la preoccupazione di far prevalere, sul senso profondo della vita religiosa, l’attrattiva delle opinioni correnti» [56] .
Dobbiamo, poi, cercare di essere certi, davanti al Signore, che la nostra coscienza sia una coscienza religiosa salesiana, che ha accolto ed interiorizzato gli elementi essenziali della nostra vocazione di consacrati, secondo lo spirito di Don Bosco ed i voti fatti al Signore.
A volte, si ha l’impressione che – su scelte o problematiche squisitamente “cristiane religiose e salesiane” – ci si trovi a dialogare con coscienze che hanno perso l’interiore ricchezza vocazionale e si lasciano guidare da criteri puramente mondani, o rigidamente soggettivi. Per queste coscienze le Costituzioni salesiane rischiano di diventare mute, la comunità religiosa insignificante, l’autorità del superiore illegittima, la missione salesiana una esclusiva scelta personale. In questi casi, l’esperienza del conflitto può diventare occasione di un autentico recupero vocazionale, o, a volte, magari dolorosamente, di un definitivo chiarimento.
Il più delle volte, però, la consistenza vocazionale non è in questione, ma il conflitto si apre sull’applicazione, implicita od esplicita, di criteri, che vanno meglio precisati.
Può nascere tensione fra obbedienza ed efficienza: sembra, alle volte, che l’obbedienza, che ci è richiesta, non rispetti abbastanza le professionalità acquisite, né gli ambiti di lavoro in cui ci sembra di saper fare qualche cosa, né i ritmi vitali e le diverse capacità produttive ed apostoliche.
C’è un’efficacia dell’obbedienza, che è fuori discussione, ma che si coglie solo con lo sguardo della fede, come ci insegna un grande testimone del nostro tempo, assai vicino alla Famiglia Salesiana: Giovanni Battista Montini. Egli, in una fase delicata e sofferta della sua vita, si pose seri interrogativi sul significato della sua obbedienza. In una lettera al padre del 1942, il futuro Paolo VI scriveva: «Sono diventato difficile con gli amici, e li vedo poco; non esco quasi mai, ed anche i libri…mi voltano le spalle dagli scaffali silenziosi; non scrivo più e mi resta poco tempo per pensare e per pregare (facessi almeno qualcosa di buono!). Ma pazienza! Dio provvederà» [57] . E Dio provvide.
Ci può essere frizione fra obbedienza e senso di autorealizzazione. Ciascuno di noi ha un progetto su di sé: degli obiettivi, delle modalità per raggiungerli, dei tempi di realizzazione. Mettere da parte tutto questo per accettare il Progetto di Dio, attraverso le mediazioni dell’uomo, non è un passo scontato: «Mi pare d’essere qui (alla Segreteria di Stato) per indebita combinazione – scriveva ancora Montini [58] – in attesa di essere restituito a qualche cosa di più semplice e più mio. Penso allo studio lasciato, al contatto col ministero ridotto, alla preghiera abbreviata…». “Perdersi per trovarsi” è un paradosso evangelico, difficile da digerire per chi giudicasse con la vista corta del piccolo tornaconto personale.
A volte c’è contraddizione, almeno apparente, fra obbedienza e fecondità apostolica, che a noi sembra poter monitorare a vista. Chi di noi, sentendosi fiorire in un posto, non si è trovato in difficoltà a collocarsi in un altro, dove non si prevedevano né fiori né frutti, ma ci si sentiva inviati a raccogliere… manciate di foglie secche? Eppure – ci ripeteva accoratamente don Egidio Viganò nell’ultima Strenna – se ci sono stagioni della vita, la cui fecondità è legata all’agire, ce ne sono altre la cui fecondità è figlia del patire. Ma qui i metri mondani e secolari non funzionano più: resta, unico metro, la Croce.
«Non voglio interrogare i miei sentimenti – nota ancora Montini – forse la vincerebbe la tristezza di non aver concluso nulla di buono; mi viene spesso alla mente lo strano pensiero di non aver ancora cominciato a fare qualcosa di serio e di reale, di conforme a ciò che intendevo, quando cominciavo. Ma voglio solo rifugiarmi nella grazia di Dio – concludeva – quella che mi ha dato la beatitudine, mai abbastanza esplorata, di essere mancipiato al servizio della Chiesa e del Vangelo» [59] .
Non sono rari i casi in cui lo scarto si rivela fra obbedienza e profezia. Ci sembra di fare cos� bene, di avere collocato un segno in frontiere avanzate, raccogliamo persino degli applausi, si scrive di noi, ci pare che Chiesa e Congregazione ne siano onorati… Eppure, ci viene data un’obbedienza che somiglia ad una brinata sugli alberi in fiore… In tali circostanze, occorre avere chiara coscienza che, forse, l’ora della profezia vera non coincide necessariamente con quella del successo o della semplice soddisfazione personale.
In mezzo alle molte difficoltà, non bisogna perdere di vista il Signore Gesù sofferente ed obbediente. In tempi in cui, a buon diritto, è stata riconosciuta la dignità dell’obiezione di coscienza, a maggior ragione ci dev’essere chi, con spirito evangelico e pentecostale, sa illustrare – più vivendo che parlando – la dignità dell’obbedienza di coscienza, sull’esempio del Signore Gesù.
«Più voi esercitate la vostra responsabilità, tanto più diventa necessario rinnovare, nel suo pieno significato, il dono di voi stessi» [60] .
4.3. La nostra vocazione è un’obbedienza di vita e di missione.
Se rileggiamo la storia delle vocazioni, restiamo stupiti della energica richiesta di obbedienza di cui è carica la chiamata del Signore.
Ad Abramo: «Lascia la tua terra…e va’ nella terra che io ti indicherò» [61] .
A Mosè: «Il grido degli Israeliti è giunto fino a me…Ora va’. Io ti mando dal Faraone» [62] .
A Geremia: «Non preoccuparti se sei troppo giovane. Va’ dove ti manderò e riferisci quel che ti ordinerò» [63] .
A Paolo: «Alzati e va’ in città: là c’è qualcuno che ti dirà quello che devi fare!» [64] .
Risulta chiaro da queste storie di vita che l’obbedire precede l’andare e l’annunciare.
In realtà, occorre che colui che viene mandato si sottometta per primo alla parola che annuncia, per moltiplicarne l’efficacia.
Il tempo di Nazareth non passa inutilmente, poiché nell’obbedienza si plasma il cuore di Cristo Evangelizzatore. I tre anni trascorsi da San Benedetto nella grotta di Subiaco, come eremita solitario, non sono una parentesi della sua vita, ma il tempo dell’obbedienza e dell’ascolto e la sorgente della futura fecondità. Don Bosco al Convitto, in biblioteca, ai piedi di don Cafasso precede – non solo cronologicamente – il Don Bosco che ama mescolarsi coi ragazzi di Valdocco e setacciare i mercati di Porta Palazzo, alla ricerca di giovani da salvare.
Poiché l’educazione è cosa di cuore, di cui Dio solo è padrone, «noi non potremo riuscire a cosa alcuna, se Dio non ce ne insegna l’arte, e non ce ne dà in mano le chiavi» [65] . Il primo passo della missione è l’obbedienza del missionario. È necessario che egli si ponga prima in stato di uditore, che di predicatore. La prima terra di missione è il cuore del missionario: poiché la missione è anzitutto una realtà interiore, prima di diventare un impegno anche esteriore. L’impegno missionario è impegno di santità personale: «Bisogna cominciare col purificare se stessi prima di purificare gli altri; bisogna essere istruiti per poter istruire; bisogna divenire luce per illuminare, avvicinarsi a Dio per avvicinare a Lui gli altri, essere santificati per santificare» (S. Gregorio di Nazianzo) [66] . Ciò permette di «fare della propria vita un motivo convincente di credibilità e un’accettabile apologia della fede» [67] .
L’obbedienza che ci mette nelle mani di Dio è la medesima che ci inserisce fruttuosamente nella comunità salesiana e che determina il nostro campo di apostolato.
Educati interiormente dal Signore, cui ci siamo affidati, accompagnati dalla comunità, che ci vede serenamente inseriti, noi andiamo ai giovani, non a nome nostro, ma a nome Suo: con un progetto di uomo e di donna, un amore educativo, una speranza ed una energia di grazia, che vengono da Lui.
La coscienza di essere “mandati” ai giovani dà al nostro ministero un’intima stabilità e la forza della «resilienza»: cioè quella pazienza evangelizzatrice, che ci permette di affrontare difficoltà, di assumere positivamente i fallimenti, di attendere la maturazione dei tempi, senza che il passaggio attraverso la crisi si trasformi in stasi e frustrazione vocazionale od in scoraggiamenti amari ed infruttuosi.
«Signore, fa di me uno strumento del Tuo amore»: è la preghiera attribuita a S. Francesco di Assisi. Il voto di obbedienza esprime la disponibilità a mettersi nelle Sue mani, per lasciarsi impiegare da Lui e diventare strumenti per la costruzione del Regno. «Rendersi strumento – rifletteva ancora Montini – è l’olocausto per chi conosce l’eccellenza dell’azione gerarchica e dell’azione divina» [68] . Questa duttilità, questa flessibilità totale – ogni volta che sia in causa la salvezza dei giovani ed il servizio del Vangelo – voleva esprimere Don Bosco, con un gesto che i primi salesiani ci hanno tramandato: «Se potessi avere con me dodici giovani dei quali io fossi padrone di disporre come dispongo di questo fazzoletto, vorrei spargere il nome di N. S. Gesù Cristo non solo in tutta l’Europa, ma al di là, fuori de’ suoi confini, nelle terre lontane lontane» [69] . Quasi in risposta ad un tale invito, è nata in Congregazione la tradizione, che incoraggia i confratelli, che si sentono chiamati, a fare al Rettor Maggiore una speciale offerta di disponibilità per le missioni ad gentes. Essa, superando tutte le frontiere geografiche, «li fa pronti nel loro animo a predicare dovunque il Vangelo» [70] e dà alla obbedienza salesiana una speciale dimensione di totalità e di mondialità. Questa disponibilità all’obbedienza, che è propria della nostra tradizione, abbiamo voluto celebrare, con particolare solennità, nella spedizione missionaria dell’anno 2000, come già vi ho indicato in una mia lettera [71] .
4.4. La nostra esistenza è un’obbedienza profetica.
Riflettendo sul futuro della vita consacrata, si osserva che essa avrà una speranza di vita tanto più fondata, quanto più sarà capace di proporsi come autentica profezia [72] . Ne è modello Elia – che Oriente ed Occidente collocano fra gli ispiratori della vita consacrata – “profeta audace e amico di Dio”, che «viveva alla sua presenza e contemplava nel silenzio il suo passaggio, intercedeva per il popolo e proclamava con coraggio la sua volontà, difendeva i diritti di Dio e si ergeva a difesa dei poveri contro i potenti del mondo» [73] .
La grande “profezia” annunciata dall’obbedienza religiosa è Cristo. Basta sfogliare la Regola di Basilio, Agostino, Benedetto, ecc. per cogliere che, fin dall’inizio della vita consacrata, l’anima dell’obbedienza religiosa è il desiderio di far memoria di Cristo e della sua totale donazione al Padre ed alla missione ricevuta. «In effetti l’atteggiamento del Figlio svela il mistero della libertà umana, come cammino di obbedienza alla volontà del Padre e il mistero dell’obbedienza come cammino di progressiva conquista della vera libertà» [74] .
Vera profezia – oggi particolarmente richiesta ai religiosi, anche in forza del voto [75] – è il loro stile ed impegno di obbedienza ecclesiale.
Nella Lettera Apostolica Tertio Millennio adveniente, in preparazione al Giubileo, Giovanni Paolo II evidenziava una «crisi di obbedienza nei confronti del Magistero della Chiesa» [76] su cui invitava a riflettere, per far fronte efficacemente ai rischi della nostra epoca.
Nello stesso documento, il Papa sottolineava l’opportunità di un approfondimento della fede, specie in direzione dell’unità della Chiesa e del servizio ad essa reso dal ministero apostolico. E ciò per «portare i membri del Popolo di Dio ad una più matura coscienza delle proprie responsabilità, come pure ad un più vivo senso del valore dell’obbedienza ecclesiale» [77] . È un invito che i figli di Don Bosco e la Famiglia Salesiana si sentono impegnati ad accogliere, anche in forza di una tradizione di famiglia, oggi più attuale di ieri, che vede nella leale fedeltà a Pietro e ai Pastori uno degli elementi qualificanti del carisma salesiano [78] .
La complessità dell’ora presente e delle trasformazioni in corso, l’impegno di inculturazione della fede e di confronto con le altre religioni e confessioni, l’apporto sempre nuovo e massiccio delle moderne scienze dell’uomo, la forte spinta del relativismo e del soggettivismo della nostra cultura, l’apertura di nuovi ambiti di ricerca, che pongono inediti interrogativi, richiedono maturità di giudizio e saggezza di scelta capace di mantenere un equilibrio dinamico e vigilante fra libertà di ricerca ed accoglienza convinta del Magistero dei legittimi Pastori, annuncio della verità tutta intera, con cui lo Spirito conduce il popolo di Dio.
Tale obbedienza appare particolarmente feconda, urgente e significativa in tutto ciò che concerne il Mistero di Cristo e della Chiesa, la celebrazione e la catechesi dei sacramenti, la vita morale dei giovani, della famiglia e del popolo cristiano. Si tratta della verità con cui la fede illumina la nostra vita e ci orienta verso la sua pienezza.
L’obbedienza consacrata, inoltre, evidenzia con forza il rigore della donazione a Dio, corregge l’autonomia non motivata e non regolata, che rappresenta una tentazione diffusa nel mondo d’oggi, e propone la dignità di un rapporto filiale e non servile, ricco di senso di responsabilità e animato dalla reciproca fiducia [79] .
Esso comporta – come nota S. Tommaso – «quaedam disciplina», che è lo stile del discepolato. Contesta perciò il pregiudizio dell’orgogliosa autosufficienza del “self made man”, per riscoprire nell’umiltà la fecondità spirituale, che riconosce la competenza e il contributo dei fratelli nelle vie di Dio. Confessa la presenza della grazia nell’intreccio relazionale ed evidenzia la fragilità di chi si pone “iudex in causa propria”, rischiando abbagli dolorosi, se non addirittura mortali.
L’obbedienza è una disciplina data alla nostra libertà per renderla idoneo strumento di liberazione. Beato chi impara a viverla secondo il già citato motto di Papa Giovanni: “oboedientia et pax”. Non è un caso che vi siano molti religiosi/e fra coloro che hanno esposto e dato la vita per il Regno, per la causa dei diritti umani, per la difesa della donna e del fanciullo, per l’educazione dei singoli e dei popoli. Essi sono i profeti-martiri, dei quali Giovanni Paolo II ci ha invitato a ravvivare la memoria, in occasione del giubileo dell’anno 2000.
Emerge nell’obbedienza salesiana il coraggio di accettare i limiti della nostra condizione storica, che ci chiede non soltanto l’obbedienza a Dio, ma anche all’uomo, specie in alcune stagioni e circostanze della nostra esistenza. L’obbedienza è apprezzata nel giovane, che accetta l’educatore e l’adulto come un interlocutore ed una guida per la crescita. Ma è ricercata anche nell’adulto, come capacità di inserimento, sereno e fruttuoso, in un contesto, in una équipe di lavoro, in un processo progettuale, che non si può sempre far ripartire da zero. Essa si esprime nell’anziano come forma qualificata del “mettersi nelle mani di Dio”, lasciandosi portare da Lui, e come piace a Lui, fin dentro la Sua casa.
La nostra obbedienza è chiamata ad annunciare lo stile di autorità-obbedienza, che è stato inaugurato dal Signore Gesù come servizio ed annunciato nel suo Vangelo. Tale stile si presenta come una autentica diaconia di Dio per i fratelli. Esso prende le distanze da tutti i modi autoritari o compiacenti di esercitare l’autorità, denuncia il rischio di slittare verso forme di potere; mette in guardia dalle deformazioni manipolatorie nella gestione dell’autorità. «Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la vita in riscatto per molti» [80] .
L’obbedienza del consacrato esprime solidarietà e intercessione per tutti coloro che sono chiamati dall’asprezza della vita ad obbedire per forza o per necessità; per coloro che, spogliati della loro libertà, soffrono ingiustamente il carcere; per chi, anche dentro la famiglia, è vittima di autoritarismi e prepotenze e non può gustare la forza liberatrice dell’amore.
L’obbedienza volontaria del salesiano evidenzia il carattere relativo delle scelte e delle opinioni umane, che rischiano di contrapporsi orgogliosamente le une alle altre, a volte a spese della carità…
Nella regola di S. Benedetto si trova l’invito ripetuto a fare a gara nell’obbedire gli uni agli altri. È una gara che accoglierà solo colui che, dentro la conchiglia dell’obbedienza, ha scoperto la perla della libertà.
È autentica profezia anche il collocarsi obbediente in zone “liminali” di servizio e di apostolato, testimoniando valori meno popolari o solo aurorali, finendo anche “emarginati con gli emarginati”, e incarnando la misteriosa logica della “pietra scartata dai costruttori”, di cui il Signore si serve volentieri per riedificare la sua Chiesa ed accrescerne la capacità d’accoglienza.
Vi ho parlato di obbedienza, perché – guardando agli impegni della Congregazione nel secolo appena iniziato, che apre il terzo millennio – essa è uno degli elementi che garantiscono la consistenza del suo servizio, la qualità della sua missione, l’interiore energia delle comunità. Per rispondere a queste attese, la nostra obbedienza ha certamente bisogno di essere rinnovata e vissuta in profondità, esprimendo una inedita ricchezza. E se la si riferisce alla comunità, che serenamente ricerca la significatività della sua presenza, testimonianza e servizio, è sostanzialmente collegata al CG25.
Fino a ieri, nel linguaggio corrente, si parlava di una “obbedienza di luogo”, riferita soprattutto ai trasferimenti da una casa all’altra, o di una “obbedienza di ruolo”, che invitava a passare da un ufficio all’altro. Guardando in avanti, è necessario parlare di una obbedienza polivalente, più complessa ed articolata, che permetta di rispondere – come singoli e come comunità – alle sfide dell’ora presente.
Si sente anzitutto il bisogno di una obbedienza creativa, che non si rassegna alla routine, ma diventa capace di dare risposte nuove ai nuovi bisogni. È l’obbedienza propria delle vergini prudenti, che non si sono accontentate di portare le lampade accese, ma si sono provviste anche della scorta per correre incontro allo sposo. È l’obbedienza del servo, che non nasconde sotto terra il suo talento, ma lo traffica, e lo fa fruttificare. È l’obbedienza del pastore, che, a notte fonda, si rimette sul sentiero, in cerca della pecorella smarrita.
Nella società di oggi appare difficile muoversi soltanto sul consolidato, ripetendo da una parte quanto si è già fatto da un’altra. Per nuovi bisogni, occorre inventare risposte nuove. Compito del buon superiore non è di scoraggiare la creatività, ma di valorizzarla e stimolarla all’interno del solco tracciato. Per questo qualcuno ha potuto dire che Don Bosco è stato capace di formare i suoi primi discepoli in modo da trasformarli in altrettanti “fondatori” (pensiamo specialmente ai missionari…)
Se la creatività non vuole battere l’aria né risolversi in un gioco pirotecnico di corto respiro, essa deve inserirsi nel solco di una obbedienza comunitaria e progettuale. Le case ed i loro progetti educativi pre-esistono ai confratelli, chiamati ad abitarle ed a servirli. Obbedire in modo progettuale significa anzitutto rendersi conto del disegno vigente nelle case, immettervisi con spirito di servizio, solo successivamente modificare quanto va modificato od innovare ciò che deve essere innovato.
Quante volte, visitando le case, s’incontrano gruppi di laici e di collaboratori frustrati perché stanchi di doversi adeguare perpetuamente, non dico ad un progetto che va sempre di nuovo rilanciato, ma a singole persone, chiamate a fare da parroco, o da direttore, o da incaricato dell’Oratorio, le quali sembrano dire – più a fatti che a parole, naturalmente – «Qui il progetto sono io»! E chi non si adegua… riceve il benservito.
Un PEPS – e l’obbedienza che lo fa vivere – fa necessario riferimento ad una comunità educativa pastorale. Perciò, il progetto salesiano è segnato da una forte obbedienza comunitaria. Essa invita a scoprire le risorse – che sono soprattutto persone – di cui la comunità dispone; a vedere il proprio ruolo intrecciato a rete con altri ruoli, che vanno riconosciuti e valorizzati; a credere con Don Bosco che “vivere e lavorare insieme” [81] è sorgente di sicura efficacia e di valida testimonianza, se è vero che la nostra comunione è la nostra prima missione. Obbedienza e comunità appaiono strettamente congiunte: non solo perché un calo della prima porta ad appassire anche la seconda, ma anche perché il superiore – che è il riferimento normale dell’obbedienza – è anche il principale responsabile della comunità religiosa.
Attraverso la dimensione comunitaria, è necessario cogliere che la nostra obbedienza è ancor sempre una obbedienza relazionale. Suo nucleo centrale non sono le “cose da fare”, ma le “persone da incontrare”, le “relazioni da costruire”, i “cuori da contattare”. Un educatore salesiano non può essere un navigatore solitario, né uno che opera, come un Prometeo scatenato, dentro un deserto relazionale. «Nella comunità e in vista della missione tutti obbediamo» [82] , e questa comune obbedienza genera un tessuto relazionale del quale dobbiamo tenere conto nel costruire il nostro progetto e nel proporre il nostro servizio. Ci sarà di grande aiuto in questo abbracciare e coltivare quella “spiritualità della relazione”, cui ci invita il CG24.
Il campo e contesto dell’obbedienza missionaria si allarga oggi nella relazione con i gruppi della Famiglia Salesiana e nella capacità di mettere a frutto la Carta della missione salesiana che, come dicevo all’atto della promulgazione, non è un regolamento fisso di lavoro, ma vuol formare una mentalità ed è una piattaforma per costruire collaborazioni possibili ed efficienti. Su questo fronte si colloca, ad esempio, lo sforzo a conoscere e studiare modi di rispondere alle piaghe giovanili che la globalizzazione non permette di risolvere, ma aggrava: i ragazzi lavoratori, i ragazzi-soldato portati prematuramente sotto le armi, i ragazzi senza un minimo supporto familiare e quelli sottomessi ad abusi sessuali da parte di organizzazioni criminali.
C’è lo spazio interpersonale, c’è quello professionale ed educativo, ma oggi non possiamo non aggiungere quello sociopolitico, nazionale ed internazionale.
Exallievi, cooperatori, collaboratori, educatori possono accompagnarci nel “fondare” un diritto in cui i giovani abbiano assicurata una normale educazione.
Tutto questo potrà meglio riuscire se sapremo coltivare una obbedienza formativa, che fa dell’apprendimento continuo un punto fermo, e del gruppo di lavoro, affidato alla nostra cura od alla nostra animazione, una comunità di apprendimento. Da questo nuovo stile – imperativo ineludibile di una società in cui la conoscenza e l’informazione avranno un ruolo sempre più decisivo – ci si attende la crescita delle persone, l’incremento di qualità del prodotto (anche di quello educativo), l’aggiornamento tecnologico, il rinnovamento dell’organizzazione del lavoro e della sua capacità di rispondere alla domanda ed alle esigenze del territorio.
L’insieme degli elementi accennati dovrebbe aiutarci a vivere una obbedienza propositiva, capace cioè di farsi messaggio e testimonianza, comunicando ai giovani con trasparente coerenza il senso della nostra vita. Tale propositività appare oggi legata soprattutto a due fattori, che sono fra i più ricercati dai giovani in discernimento vocazionale ed ai quali abbiamo già ripetutamene accennato: la dimensione spirituale e quella comunitaria. La leggibilità spirituale della nostra obbedienza – che diventa abbandono fiducioso alla Provvidenza di Dio – e la sua capacità di costruire famiglia sono altrettanti canali, che rendono accessibile la comprensione dell’obbedienza ai giovani d’oggi.
In una lettera del 1617, scritta alla Madre Favre, che era allora superiora della Visitazione di Lione, San Francesco di Sales esaminava il problema di una suora molto fervorosa e devota, ma poco obbediente e incapace, quindi, di rinunciare ai suoi punti di vista anche legittimi (circa la frequenza della comunione, per esempio, o la durata dell’orazione mentale), per abbracciare la prassi comunitaria.
«Vi dirò che si inganna enormemente – nota Francesco – se crede che l’orazione la possa condurre alla perfezione senza l’obbedienza, la virtù più cara allo Sposo, la virtù nella quale, con la quale e per la quale ha voluto morire. Sappiamo dalla storia e per esperienza che molti religiosi sono divenuti santi senza l’orazione mentale, ma nessuno senza l’obbedienza» [83] .
Nessun dubbio che – varcando le soglie del terzo millennio – noi siamo chiamati, come salesiani e comunità, ad impegnarci in una obbedienza rinnovata. Allora, saremo pronti, docili ai segni dei tempi, ad annunciare ai giovani il Signore Gesù ed il “progetto uomo” da lui incarnato, con la pienezza dello spirito di Don Bosco.
6. L’Annunciazione, appello e risposta: «Si compia in me la tua parola» [84] .
Non posso concludere senza fare ancora un riferimento all’Annunciazione a Maria, che già ho in parte commentato nella mia lettera sulle vocazioni [85] , ma che rappresenta anche un modello sublime per la nostra obbedienza nella fede.
Il racconto, tra i più belli del Vangelo di Luca [86] , non riguarda solo il passato, ma è una chiave per leggere il presente. Il Vangelo infatti non è solo storia, ma è sempre annuncio.
La narrazione è costruita con accenni della Bibbia che richiamano antiche speranze, esprimono attese attuali e anticipano i sogni di salvezza dell’uomo. Maria, che impersona l’umanità, risente in sé tutto ciò ed è chiamata a mettersi a disposizione di Dio per realizzarlo.
«Rallegrati»: è un saluto adoperato dai profeti quando si rivolgono alla Figlia di Sion. Assicura l’attenzione particolare, lo sguardo di amore, la volontà benevola di Dio per una persona e ne offre una prova che si potrà poi verificare. Annuncia un’elezione che costituisce una felicità senza pari: “Esulta! ti è toccata una stupenda fortuna”.
«Il Signore è con te» [87] : l’assicurazione appare sovente quando Dio chiama ad una missione; si ripete nelle narrazioni delle vocazioni che avranno un compito importante per la salvezza. Indica che l’attenzione e lo sguardo di Dio si traducono in presenza, assistenza, compagnia, alleanza.
«Nulla è impossibile a Dio» [88] : è l’espressione detta a Sara, la moglie di Abramo, nel momento disperato della sua sterilità, all’inizio della generazione dei credenti. Esprime la decisione di Dio di intervenire nella vicenda umana in favore dell’uomo, superando qualsiasi limite di natura o di umana libertà. E di farlo attraverso alcune persone che egli ha scelto.
Siamo di fronte all’annuncio di un avvenimento di particolare importanza per l’umanità. È la “vocazione”, la “chiamata” di Maria a collaborare nel piano della salvezza; ed è la risposta nella fede di Colei che di tale piano divino doveva essere strumento e mediazione umana.
Maria è invitata, in primo luogo, a credere che l’avvenimento sia possibile ed a credere pure in se stessa (ed è la cosa più difficile!); poi ad accettare di impegnarsi e poi ancora a mantenersi fedele nella collaborazione durante la sua vita. Tutto ciò come un affidamento incondizionato a Dio.
Dio ha la misteriosa potenza di rendere fecondo quello che, ad occhio umano, è sterile, limitato o perduto. Un invito, questo, a rivedere la nostra fede nell’azione e nella forza dello Spirito!
L’Annunciazione richiama a noi la nostra vocazione. Annunciazione è stata infatti l’ispirazione che ci ha mossi a seguire il Signore Gesù, sull’esempio di Don Bosco. E annunciazione sono le chiamate a impegni e responsabilità, nelle quali occorre affidarsi a Dio e attendere con fiducia il futuro.
L’Annunciazione ci ricorda soprattutto come deve essere la nostra risposta personale a Dio: docile, fiduciosa, continua, come quella di Maria: «Si compia in me la tua parola». Maria si è lasciata plasmare dalla Parola di Dio, dallo Spirito di Dio, per essere la Madre del Verbo. Nel santuario interiore del suo cuore hanno operato la grazia e lo Spirito per renderla Madre. Comprendiamo l’espressione cos� cara ai Padri, che Maria ha concepito nell’anima prima che nel grembo.
Anche la nostra obbedienza nella fede deve maturare nel dialogo con Dio e nella docilità allo Spirito. A volte nella nostra vita attiva, consacrata o laicale, si manifesta una tensione tra il rapporto personale con Dio, vale a dire, attenzione, dialogo, accoglienza affettuosa e grata del Signore, e – d’altra parte – la preoccupazione per i risultati della nostra attività. Quest’ultima ci sfida e sovente ci tenta. Vogliamo fare sempre di più, e un po’ alla volta mettiamo la nostra fiducia nei mezzi e nelle attività, al punto che queste finiscono per svuotarci. Occorre che li colleghiamo costantemente alla sorgente dalla quale prendono energia e significato: l’invito di Dio a collaborare con Lui. È questo il senso profondo della nostra obbedienza.
Chiediamo a Maria, che noi riconosciamo alle origini della nostra Congregazione e della Famiglia Salesiana, che il suo percorso nella fede, manifestato nell’Annunciazione, sia anche il nostro: sentire la chiamata interiore, lasciarci interiormente fecondare e plasmare dallo Spirito, e rispondere con nostro Eccomi per generare frutti apostolici.
Vi accompagno con il mio ricordo e la mia preghiera, affinché il lavoro di ciascun confratello e di ogni comunità, nel solco dell’obbedienza alla volontà del Signore, sia fecondo di bene per i giovani cui siamo mandati.
Con la protezione di Maria Ausiliatrice e di Don Bosco
Juan Vecchi
[1] Eb 10,7
[2] cf. GS 55
[3] Vedi le due precedenti lettere: Un amore senza limiti a Dio e ai giovani (ACG 366) e Mandati ad annunziare ai poveri un lieto messaggio (ACG 367)
[4] cf. VC 87-92
[5] cf. J.H.Newman, PPS VIII, S.5; VIII, S.14
[6] cf. MB XV, pag.183
[7] cf. Il Progetto di vita dei Salesiani di Don Bosco, pag.471-472
[8] Cost. 64
[9] Cost. 66
[10] Cost. 65
[11] cf. ibid.
[12] Cost. 66
[13] cf. Rm 5, 18-20
[14] cf. Gv 4, 34; 6, 38; 8, 28-29
[15] cf. Mt 12, 34; 23, 33; Es 32, 9; 33, 5
[16] Ap 3, 14
[17] 2 Cor. 1, 19-20
[18] Eb 10, 7
[19] Eb 5, 8-9
[20] Gv 4, 34
[21] ABS, Parola di Dio e spirito salesiano (LDC 1996), pag. 122
[22] Viganò E. Un progetto evangelico di vita attiva (LDC 1982), pag. 139-140
[23] cf. ABS, Parola di Dio e spirito salesiano (LDC 1996), pag.321-331
[24] CG24 69
[25] cf. ABS, Parola di Dio e spirito salesiano (LDC 1996), pag.323
[26] cf. Lettera circolare del 24 gennaio 1924, ACS n. 23
[27] Cost. 24
[28] cf. S.T. II,II, Q 186, art. 5 e 8
[29] cf. Mt 16, 25; Mc 8, 35; Lc 9, 24
[30] cf. LG 43
[31] cf. PO 15
[32] cf. PC 14
[33] Eb 11, 8
[34] cf. Rm 1, 5; 16, 26
[35] A. Pigna, Consigli evangelici (Roma 1993), pag. 425-426.
[36] cf. Mt 7, 21
[37] cf. Merkle J. Gathering the fragments, New times for obedience, in Review for religious, June 1996
[38] cf. Cost. 70
[39] cf. l’eccellente lavoro di don P. Brocardo, Maturare in dialogo fraterno (LAS, Roma 1999)
[40] cf. Cost. 66
[41] Cost. 67
[42] cf. Nuove vocazioni per la nuova Europa, a cura delle Congregazioni per l’Educazione Cattolica, per le Chiese Orientali, per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica, n.26a)
[43] cf. Vecchi J., Spiritualità salesiana, LDC Torino 2001, “”Il Signore ci consacra col dono del suo Spirito”, pag. 42-43
[44] cf. Obbedienza, nella Introduzione alle Costituzioni
[45] Gv 2, 5
[46] cf. CG24 91-93
[47] cf. Sal 23, 4
[48] cf. Vecchi J., Spiritualità salesiana, LDC Torino 2001, “La consacrazione dono di Dio ed esperienza personale”, pag. 42 ss
[49] cf. Nuove vocazioni per una nuova Europa, a cura delle Congregazioni per l’Educazione Cattolica, per le Chiese Orientali, per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica, n.34,c)
[50] Cost. 64
[51] cf. LG 48
[52] cf. Eb 11, 27; Cost. 21
[53] cf. Ef 1,10; cf. GS 45
[54] Paolo VI, Evangelica Testificatio (ET), 28
[55] cf. Cost. 66
[56] ET 25
[57] Fappani-Molinari, G. B. Montini giovane: 1897-1944. Documenti inediti e testimonianze (Marietti 1979), pag. 364
[58] Ibid, pag. 365
[59] Ibid, pag.363
[60] ET 27
[61] Gn 12, 1
[62] Es 3, 9-10
[63] Ger 1, 7
[64] At 9, 6
[65] MB XVI, pag. 447
[66] cf. Congregazione per il Clero, Il presbitero Maestro della Parola, Ministro dei sacramenti, e guida della comunità in vista del terzo millennio cristiano, conclusione
[67] cf. Congregazione per il Clero, Il presbitero Maestro della Parola, Ministro dei sacramenti, e guida della comunità in vista del terzo millennio cristiano, C. II, 2
[68] o. c., pag.381
[69] MB IV, pag. 424
[70] Giovanni Paolo II, Pastores Dabo Vobis, 18
[71] cf. Levate i vostri occhi…in ACG 362, pag. 35-37
[72] cf. VC 84-95
[73] VC 84
[74] VC 91
[75] cf. Cost. 125
[76] TMA 36
[77] TMA 47
[78] cf. Cost. 13
[79] cf. VC 21
[80] Mt 20, 28
[81] cf. Cost. 49
[82] Cost. 66
[83] S.Francesco di Sales, Tutte le lettere, vol. II, 1294 (EP, Roma 1967)
[84] cf. Lc 1, 38
[85] cf. Ecco il tempo favorevole, in ACG 373, pag. 43 ss
[86] Lc 1, 26-38
[87] Lc 1, 28
[88] Lc 1, 37